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Una guida agli algoritmi: come funziona Facebook

Gli algoritmi dei social media/network sono diventati sempre più centrali su consumo di notizie e informazioni da parte delle persone, e dunque hanno altrettanto assunto centralità per i brand, le aziende, glie enti, e le organizzazioni che utilizzano le piattaforme social per la loro comunicazione d’impresa.

I social network si sono evoluti da un luogo in cui le persone si connettono a una piattaforma di distribuzione delle informazioni. Si tratta di costruire una comunità, non un pubblico. Si tratta di rendere il contenuto colloquiale invece di catturare l’attenzione. In definitiva, si tratta di adottare un approccio più onesto quando si interagisce con le persone sui social. Ma in questo percorso, una mancanza di comprensione di come funzionano gli algoritmi dei social media è come guidare al buio senza luci accese.

Ecco perché abbiamo pensato di riprendere la decodifica degli algoritmi dei social prodotta da Ste Davies, social media strategist anglosassone. Naturalmente l’infinita combinazione di variabili degli algoritmi è conosciuta con precisione solamente da chi li ha creati, e ne è proprietario, ma una combinazione di informazioni divulgate pubblicamente dai social network, ricerche di terze parti, alcune ipotesi di base e un po’ di buon senso, che naturalmente non guasta mai, consentono comunque di utilizzarli come un processo e una lista di controllo che è possibile seguire per assicurarsi che i propri contenuti e messaggi abbiano la migliore opportunità di ricevere il massimo impatto.
Partiamo naturalmente dalla piattaforma social più popolosa del pianeta: Facebook che ha, forse, l’algoritmo dei social media più famoso [o famigerato] al mondo. Ma esattamente, cosa sappiamo dell’algoritmo di Facebook nel 2019? Questi i fattori principali:
– Nonostante quello che inizialmente pensavamo, Facebook ha confermato di recente che non condivide il tuo contenuto inizialmente solamente con 26 persone;
– Un post viene offerto a una piccola percentuale di utenti per misurare il coinvolgimento iniziale;
– L’algoritmo di Facebook darà la priorità ai contenuti che stimolano una conversazione tra amici e familiari;
– Darà la priorità ai collegamenti condivisi su Messenger;
– La credibilità di un utente [completezza della sua pagina, cronologia della condivisione ecc.] è un fattore di ranking;
– Il contenuto del brand o del publisher condiviso da un utente e genera ulteriori discussioni avrà la priorità;
– Darà la priorità al video live perché riceve più interazioni;
– I post dei video nativi ricevono un coinvolgimento molto maggiore rispetto a un post di collegamento;
– L’impegno è basato su un sistema di punteggi;
– I post con commenti di lunga durata nel tempo riceveranno una ponderazione più alta;
– I contenuti nativi hanno la precedenza sui collegamenti ad altri siti;
– Postare cinque volte al giorno sembra essere la quantità ottimale, secondo uno studio di Buffer;
– Clickbait e le richieste alle persone di “piacciare”, commentare o condividere i propri contenuti riceveranno un markdown;
– Il contenuto sensazionalistico sarà contrassegnato negativamente dall’algoritmo;
– L’algoritmo di Facebook ridurrà la portata degli articoli con titoli falsi, o comunque fuorvianti.
L’infografica sottostante riepiloga i principali fattori che premiano e penalizzano la diffusione dei contenuti su Facebook, senza dimenticare che vi sono altri aspetti, altri elementi, quali la lunghezza dei post e il giorno in cui si postano i contenuti che altrettanto hanno un impatto sul livello di engagement da parte delle persone nei confronti dei contenuti stessi.
Elementi che generano delle linee guida di massima con le quali lavorare con l’algoritmo di Facebook per migliorare la propria presenza e ottenere, a parità di condizione, risultati migliori.
In primis, è dunque opportuno, anzi necessario, creare contenuti con lo scopo di alimentare la discussione tra gli utenti di Facebook, tra le persone. Chiunque cerchi di lavorare con l’algoritmo dovrà tenerne conto quando sviluppa contenuti che vuole abbiano buone performance sulla piattaforma social.
Stando a Facebook, l’ideale sarebbe adottare un approccio 80/20 tra contenuti nativi e non. Naturalmente, se, come spesso avviene, il proprio obiettivo è quello di indirizzare il traffico verso il sito aziendale diviene necessario devi giocare bene all’interno di questo equilibrio.
Soprattutto, contrariamente a quello che avviene per molti newsbrand, è necessario mirare ad essere stimabile agli occhi dell’algoritmo, e perciò essere esigente con ciò che si condivide. Non usare Facebook come mezzo per condividere ogni contenuto che si possiede, e/o si produce. Se non genera engagement, il proprio punteggio di credibilità diminuirà. Condividiamo dunque contenuti che riteniamo adatti per la piattaforma e il pubblico che stiamo cercando di coinvolgere.

[fine prima parte]



Cara Trenitalia, abbiamo bisogno di parità non di caramelle

Una caramella al limone per le donne, ma solo quelle che viaggiano su Frecciarossa e in Executive, salvo esaurimento scorte. È così che si combatte il gender gap!

Che valore dà Trenitalia alle donne? A quanto pare, lo stesso di una caramella al limone. Il prossimo 8 marzo, in occasione della festa della donna, infatti, l’azienda dei trasporti ha deciso di omaggiare le donne che saliranno a bordo dei treni con una caramella al limone.
La promozione, per giunta, non solo è riservata alle passeggere dei Frecciarossa (a quanto pare le pendolari che tutti i giorni affrontano viaggi interminabili sui treni regionali non meritano di essere festeggiate), ma solo a quelle che viaggiano in Executive. Niente caramelle per chi viaggia in economy. L’iniziativa ha scatenato l’ironia e le critiche sui social.

Dopo l’attacco sui social, Trenitalia è corsa ai ripari ed ha cancellato dal proprio sito la pagina dedicata alla promozione. La speranza è che, se nelle prossime ore verrà lanciata una nuova campagna in occasione dell’8 marzo, sia non solo più rispettosa, ma anche più coerente con il significato che oggi ha assunto questa festaNon si cambia la società con le caramelle al limone, ma magari si riesce a fare qualche piccolo passo in avanti attraverso una campagna di informazione ben strutturata. Ecco, sarebbe bello che, in occasione della festa della donna, Trenitalia decidesse di informare tutti i proprio passeggeri di cosa è oggi il gender gap e di quali sono le difficoltà che una donna trova sul lavoro.
Stando ai dati dell’ultimo rapporto sul Global Gender Gap, reso noto in occasione del World Economic Forum, l’Italia è al 50° posto nella classifica che indica la parità di trattamento all’interno della società tra uomini e donne. Ma la nostra posizione peggiora ulteriormente se ci concentriamo sul salario femminile: le lavoratrici italiane percepiscono in media il trenta percento in meno degli uomini che svolgono la loro stessa mansione. Una situazione che non ci fa certo onore e che ci pone alla 127posizione della classifica.
Ecco, cari dirigenti di Trenitalia, pensate veramente che una caramella possa cambiare la vita di una delle tante donne che si vedono negare la possibilità di un lavoro solo perché appartenenti al sesso femminile o che devono firmare le cosiddette “dimissioni in bianco” in modo tale che l’azienda possa licenziarle se rimangono incinte?
 




Diversity@Work, un gioco per dare valore alla diversità

È stato presentato alcuni giorni fa Diversity@Work, un videogame che vuole far riflettere sull’importanza di considerare la diversità un valore e non un problema. Lo ha lanciato una startup italiana Work Wide Women, impegnata in progetti che favoriscono l’inclusione sociale in azienda.
Sul sito di Work Wide Women si legge che la missione della start up è creare un ambiente di lavoro inclusivo per la maggioranza delle persone. Ciò significa impegnarci quotidianamente per dar vita a un mondo in cui le differenze siano premiate, le diversità facciano da collante tra le persone e le opportunità siano poste sullo stesso piano, ugualmente raggiungibili da chiunque voglia coglierle.
Diversity@Work chiede al giocatore di immedesimarsi in situazioni reali e riflettere su come un’azione, spesso guidata da stereotipi, può modificare la produttività. La dimensione dell’Applied Game (videogame educativo) è adatta per astrarre determinate situazioni e riproporle in un ambiente neutro e non giudicante. Vengono così fatte emergere tutte quelle circostanze che, se gestite in modo costruttivo e positivo, rappresentano un arricchimento della persona, come individuo e come membro di un team di lavoro. Non si tratta di un test: l’obiettivo del videogioco è far emergere le dinamiche discriminatorie implicite e favorire l’adozione di comportamenti inclusivi. In Diversity@Work viene garantito l’anonimato di chi gioca per assicurare l’autenticità delle risposte, perciò i valori che vengono forniti all’azienda sono dati aggregati.
Le mini storie presenti nel gioco sono tratte da casi reali: le scelte sono semplificate e funzionano su una logica binaria, che apre a situazioni diverse. Si misura l’impatto dei comportamenti e della comunicazione sul sistema a 4 livelli, dove le metriche ‘Management’, ‘Leadership’, ‘Clima’, ‘Team Skills’ evidenziano come ciascuna risposta modifichi l’ambiente in cui il giocatore agisce in quel momento.
Secondo Work Wide Women aumentando la varietà della popolazione che lavora, aumenteremo la performance delle aziende e la competitività dei contesti lavorativi. Come non essere d’accordo?

Cosa c’è di nuovo

Il videogioco è uno strumento interessante per coinvolgere un numero sempre più ampio di persone.  I macro indicatori utilizzati per le metriche sono rigorosi: derivano infatti da un documento dell’Unione Europea che propone una checklist per l’analisi del diversity management.




FUGA DA FACEBOOK?

CON LA NUOVA PRIVACY ZUCKERBERG PERDE AMICI

Mark Zuckerberg ha sempre meno amici, sia nel mondo—in particolare fra i politici—sia nella Silicon Valley, così come dentro la sua stessa azienda. Anche a Wall Street ha perso seguaci: le azioni di Facebook sono le uniche del cosiddetto gruppo Faang a essersi svalutate negli ultimi dodici mesi, con una perdita del 2%, contro i guadagni del 10-20% di Apple, Amazon, Netflix e Google (Alphabet). Un segno delle difficoltà in cui versa il social network, a quindici anni dalla nascita e a sette dal debuttoin Borsa, è anche la fuga di un numero consistente di suoi dirigenti.
L’ultimo a dimettersi, dieci giorni fa, è stato Chris Cox, 36 anni, amico intimo di Zuckerberg e uno dei primi quindici ingegneri di software assunti da Facebook. Era il numero tre, dopo il fondatore e dopo la responsabile operativa Sheryl Sandberg, e per questo era considerato un possibile successore alla guida della società. Fra l’altro era stato lo sviluppatore del servizio di news feed e da dieci mesi si occupava di tutte e tre le piattaforme del gruppo: Facebook, Instagram e WhatsApp.
Con lui se n’è andato anche Chris Daniels, il capo della divisione WhatsApp. A spingere Cox ad andarsene — come lui stesso ha spiegato—è stata la svolta annunciata da Zuckerberg:  dall’enfasi sul condividere tutto nella «pubblica piazza» digitale all’attenzione per gli scambi privati fra amici nel proprio «salotto digitale». Tecnicamente, significa la possibilità di scambiare messaggi criptati e di renderli effimeri, cioè farli scomparire dopo un certo tempo.
Il cambio di rotta incontra le richieste degli utenti, ha dichiarato Zuckerberg, ma sta creando subbuglio fra le file dei suoi collaboratori, perché lanuova filosofia non sembra essere ancora accompagnata da un modello di business sostenibile.

Fronti diversi

Finora il 98% del fatturato di Facebook è derivato dalla pubblicità e oggi non è ancora chiaro come i messaggi criptati possano generare nuovi introiti. D’altra parte Zuckerberg deve  trovare nuovi modi per crescere, visto che il suo network (2,3 miliardi di utenti) sta raggiungendo la saturazione in parecchi mercati e in alcuni sta addirittura perdendo iscritti.
Negli Stati uniti, dove Facebook è nata, la base si sta stringendo, soprattutto nella fascia di età fra i 12 e i 34 anni, cioè fra i teenager e i Millennial che una volta erano i suoi più fedeli fan: secondo la società di ricerche Edison, 15 milioni di americani hanno lasciato il socialnetwork dal 2017 a oggi.
Non conta solo la percezione per cui non sarebbe più di moda condividere tutto sulla pubblica piazza digitale. Pesa molto il calo di fiducia in Facebook. Esattamente un anno fa scoppiò lo scandalo di Cambridge Analytica, la società che ha sfruttato i dati di 50 milioni di utenti americani per la campagna elettorale di Donald Trump. Da allora è partito il movimento #DeleteFacebook (cancella Facebook), a cui hanno aderito celebrity come la cantante Cher, l’imprenditore Elon Musk (Tesla) e anche Brian Acton, co-fondatore di WhatsApp, la piattaforma di messaggi comprata da Facebook nel 2014 per 19 miliardi di dollari. Acton aveva già smesso di lavorare per Facebook nel settembre 2017, quando si è trovato in dissenso con Zuckerberg circa i modi di «monetizzare» WhatsApp.
Come lui, anche l’altro co-fondatore di WhatsApp, Jan Koum, se ne è andato nell’aprile 2018. Poi è stata la volta dei due fondatori di Instagram (comprata da Facebook sei anni fa) Kevin Systrom e Mike Krieger, in disaccordo con Zuckerberg sui cambiamenti da apportare alla piattaforma, che in precedenza aveva invece goduto di una considerevole autonomia.
C’è però chi applaude alla svolta di Zuckerberg: come il venture capitalist Ben Horowitz, che in una serie di tweet ha sottolineato la complessità della mossa di Mark. Sia perché è un forte cambiamento culturale per una piattaforma diventata famosa in quanto social e pubblica; sia perché il criptaggio rende impossibile monitorare i contenuti dei messaggi. Il che permetterebbe a Facebook di non assumersi responsabilità sui contenuti, e quindi di non impegnarsi per prevenire fake news o haters.
Eppure, il tema è attualissimo, dopo la strage perpetrata in Nuova Zelanda, trasmessa in diretta con il live streaming e subito rilanciata da altri utenti, ben prima che gli addetti alla sicurezza del social network se ne accorgessero.
«Amatelo o odiatelo, ma Mark Zuckerberg ha dimostrato due importanti cose andando nella nuova direzione — ha scritto Horowitz —: ha il coraggio di fare ciò che crede sia giusto anche contro un dissenso molto forte, e questa è una qualità cruciale per un leader. Ed è davvero impegnato a garantire la privacy dei suoi utenti». Il nuovo servizio di messaggi criptati comunque non sarà operativo prima dell’anno prossimo.
Intanto Zuckerberg deve far fronte a numerosi attacchi: la pubblica accusa di New York ha avviato un’indagine sugli accordi con cui Facebook avrebbe concesso ad altre società l’accesso ai dati dei suoi utenti senza il loro consenso, mentre un rapporto del governo britannico ha accusato il social network di ostacolare le scelte dei consumatori e soffocare l’innovazione, e ha chiesto una sua forte regolamentazione. Infine, la candidata alla presidenza Elizabeth Warren vuole «spezzettare» le piattaforme, costringendo Zuckerberg a rivendere WhatsApp e Instagram. Facebook insomma appare oggi come Microsoft vent’anni fa: un «monopolista cattivo», ha osservato la veterana analista della Silicon Valley Kara Swisher. L’unica consolazione, per Zuckerberg, è che Microsoft è sopravvissuta, riuscendo a riconquistare la fiducia del pubblico. Ma ha dovuto cambiare leader.




Cassandra Crossing/ Il quarto Cavaliere

Nell’anniversario di Fukushima, alcuni media descrivono correttamente l’apocalisse… o quasi.

Cassandra sulle questioni del nucleare non rappresenta un caso tipico; deve scontare una laurea in ingegneria nucleare e l’aver lavorato nella (ormai scomparsa, anzi assassinata) industria nucleare italiana.

A suo tempo non ha quindi potuto fare a meno di seguire con estrema attenzione notizie, commenti e documenti sul disastro del sito nucleare Dai-ichi TEPCO a Fukushima; su Wikipedia italiana si trova un discreto riassunto ufficiale degli eventi e delle principali questioni tecniche sottostanti. Googlando in inglese si trova moltissimo materiale, anche originale, molto più tecnico e spesso più completo.
Pochi giorni or sono, Cassandra ha avuto il tardivo piacere di leggere, in occasione dell’anniversario del disastro, diversi articoli commemorativi non tecnici come questo che iniziava: “L’11 marzo del 2011, la costa settentrionale del Giappone fu colpita da un sisma di magnitudo 9, che generò il violentissimo tsunami e l’incidente alla centrale nucleare di Dai-ichi di Fukushima”.
Cassandra è rimasta positivamente colpita dalla sintesi di questo incipit, molto più chiaro e corretto di tanti altri, che solo dell’incidente fanno menzione; tanto colpita da farle sentire la necessità di esternare una correzione, anzi un completamento di questa descrizione.
Fukushima è stata un’apocalisse in più fasi, ma come nell’Apocalisse di Giovanni, i Cavalieri sono quattro e non tre.
Terremoto e maremoto sono stati i primi due cavalieri. Il terzo non è stato un generico incidente nucleare, ma il gravissimo danneggiamento di un grande impianto nucleare, tanto solido quanto vecchio, progettato e costruito da 60 a 40 anni or sono, danneggiamento che tuttavia da solo non sarebbe bastato a scatenare l’apocalisse.
Per scatenarla è stato necessario l’intervento di un quarto Cavaliere, quello che Giovanni chiama Morte, in questo caso rappresentato dall’incapacità gestionale e dall’attaccamento ai soldi dimostrata in più occasioni dai gestori dell’impianto di Dai-ichi.

Una pillola di tecnica è necessaria prima di andare avanti. Il combustibile di un reattore nucleare appena spento continua a produrre circa un centesimo della sua potenza massima emettendo calore, produzione che decresce gradualmente in un periodo di diverse settimane.

E’ un calore di origine non chimica ma nucleare, e perciò inestinguibile e inarrestabile, che non richiede ossigeno o altri comburenti, che non può essere fermato. Può far raggiungere al combustibile temperature illimitate, anche fino alla sua vaporizzazione e oltre.
L’unica possibilità di limitare la temperatura del combustibile, molto semplice in verità, è raffreddarlo; il raffreddamento deve essere sempre garantito, e tutta la progettazione dei reattori nucleari è fatta avendo ben chiaro questo problema.
Durante il terremoto, i sistemi automatici hanno spento senza danni i reattori in quel momento attivi (3 su 6), e le pompe di raffreddamento hanno cominciato a funzionare regolarmente. Ma il terremoto aveva interrotto la produzione di energia elettrica, quindi partirono i generatori diesel di emergenza, che continuarono a far funzionare le pompe di raffreddamento.
Poi è arrivato il maremoto, più alto di tutti quelli registrati negli ultimi tre secoli, che superata la diga posta a protezione dei generatori diesel, li ha spazzati via. Le pompe si sono fermate e la temperatura del combustibile dei reattori, sia funzionanti che spenti, ha cominciato ad aumentare.
In questo stato, lo ricorderete, è passato più di un giorno, poi gli edifici dei reattori hanno cominciato a esplodere a uno a uno, a causa dell’idrogeno sprigionato dal contatto tra acqua e combustibile fuso.
Anche se sembra strano dirlo così, perché il combustibile per fondere ci ha messo così tanto? Senza raffreddamento doveva succedere in un tempo molto minore.
La ricostruzione di quanto fatto in quelle ore è piuttosto confusa, e su parecchie cose ci sono versioni contraddittorie. Gli scambi di posta elettronica, vedi caso, sono stati dichiarati ufficialmente persi, e nei processi svolti in Giappone sostanzialmente non è stato condannato nessuno. Su molte cose avvenute nelle prime 48 ore si può essere sicuri solo di quanto verificabile a posteriori.
Esistono comunque molti “pare” e “si dice” assai condivisi dalla comunità tecnica. Pare che durante i primi tentativi di ripristino del raffreddamento, siano stati installati con successo dei generatori diesel trasportabili, ma che successivamente nessuno abbia rifornito i loro serbatoi di gasolio, provocandone l’arresto.

Pare anche che Tepco, il gestore dell’impianto, nei primi due giorni del disastro sia stata sostanzialmente muta verso l’esterno.

Si dice che, alla faccia dell’aplomb e del rispetto delle gerarchie tipico dei giapponesi, il secondo giorno l’allora premier giapponese Naoto Kan abbia fatto irruzione nella sala del CDA di Tepco urlando: “Ditemi cosa sta succedendo”. Decisamente irrituale, soprattutto in Giappone, ma una buon misura non solo del livello di confusione del momento, ma anche delle cose inconfessabili e degli scaricabarile in corso.
E’ certo e documentato invece che Tepco aveva ordinato di non usare l’acqua di mare per raffreddare i reattori, perché questo li avrebbe sì raffreddati, ma anche resi irrecuperabili; tra l’altro quest’ordine venne emanato quando probabilmente già i noccioli di 3 reattori si erano fusi, rendendo i reattori non solo irrecuperabili ma estremamente pericolosi.
La domanda di fondo è: quanto tempo ci è voluto perché le azioni di Tepco non fossero più dettate dalla gestione economica di una società, ma fossero tese a comprendere e gestire a qualunque costo un pericolo di portata mondiale?
Solo l’insubordinazione del direttore della centrale Masao Yoshida rese possibile l’uso dell’acqua di mare (l’unica disponibile in quantità) per raffreddare tutti i reattori (anche il 4, 5 e 6 e le vasche di raffreddamento del combustibile esausto), probabilmente riducendo le conseguenze della catastrofe, ed evitando un possibile incidente di criticità in una delle vasche.
Tra situazioni nascoste, ordini contraddittori e catene di comando incapaci di gestire una vera emergenza, anche perché semi-paralizzate da interessi economici ed eccesso di disciplina e di gerarchia, il risultato finale è stato che nessuna procedura funzionale è stata messa in atto, e uno dopo l’altro i reattori 1, 2 e 3 si sono autodistrutti.
E’ stato il Quarto Cavaliere, creato da procedure aziendali, interessi economici e burocrazia, che ha completato il disastro.
Per concludere, anche in Giappone la giustizia non ha chiarito le cose. Dai processi, ormai conclusi, non è venuta fuori nessuna condanna, e le responsabilità sono rimaste, come spesso accade, orfane.
Eppure, con poche risorse e senza bisogno del senno di poi, molto si sarebbe potuto fare, prima e dopo il maremoto, per ridurre il più grave incidente nucleare della storia alla semplice perdita di una grande centrale elettrica.