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Le leggende metropolitane sull’intelligenza artificiale

Con intelligenza artificiale scienziati e pubblico intendono spesso cose molto diverse, ma in un modo o nell’altro tutti sono vulnerabili alle leggende metropolitane in cui è protagonista


Per gli addetti ai lavori intelligenza artificiale è un’espressione generica che raggruppa diverse linee di ricerca e tecnologie. Il minimo comun denominatore è lo sviluppo di sistemi artificiali capaci di svolgere compiti che, negli animali, sono possibili grazie all’intelligenza. Ma se chiudiamo gli occhi le parole intelligenza artificiale evocano molto di più. Negli ultimi tempi la Ia è diventata una buzzword per vendere più o meno qualsiasi cosa, ma è da sempre protagonista di utopie e distopie, dilemmi filosofici, film e romanzi. Le leggende metropolitane non potevano proprio mancare.

Reti neurali e carri armati

Nel libro di Chi ci crediamo di essere (2011) di Massimo Piattelli Palmarini è raccontata una storia curiosa. Il Pentagono avrebbe addestrato una rete neurale a riconoscere dei carri armati sovietici nelle immagini satellitari, eppure la stessa rete sembrava impotente di fronte a immagini di carri armati cinesi. Si scoprì che l’intelligenza artificiale aveva imparato a distinguere le ombre dei carri, ma le immagini cinesi erano state acquisite in ore diverse.
Questa storia ha infinite variazioni ed è molto popolare. Nel 2017 è stata raccontata da un ricercatore al New York Times, con la differenza che i carri erano americani e russi e l’inghippo stava nelle diverse condizioni meteo (giornate di sole/nuvoloso). L’articolo del Times parlava di un presunto sistema basato sulla Ia di distinguere le persone omosessuali esclusivamente dalle facce, e la storia dei carri era efficace per spiegare i limiti di questi sistemi.
L’insegnamento morale è comune a molte leggende metropolitane, e anche l’esempio dei carri, per quanto calzante, sembra ricada in questa categoria. Gwern Branwern, pseudonimo di un autore e ricercatore ben noto in rete (Wired ha parlato del suo lavoro sulle darknet) ha indagato a fondo la storia dei carri, concludendo che con tutta probabilità non è mai successo nulla del genere. Un primo campanello di allarme è che la storia non ha una data definita. Nella versione di Palmarini si parla di “qualche anno fa”, ma poi spuntano carri armati sovietici, e l’incertezza di ripete in tutte le versioni: quando esattamente il Pentagono, o chi per lui, avrebbe sperimentato la famosa rete neurale? Un’altra caratteristica tipica della leggenda è la variabilità: il ricercatore osserva che ogni particolare della storia che poteva cambiare lo ha fatto. Dal presunto sviluppatore del sistema alle caratteristiche dei carri e dell’ambiente circostante, dal numero di fotografie allo strumento usato (satelliti, foto aeree, foto da suolo), le versioni in circolazione sono moltissime.

Secondo la ricostruzione di Gwern, la leggenda appare all’inizio degli anni ’90, raccontata dal filosofo Herbert Dreyfus, critico delle ricerche sulla Ia. Ma tutto è cominciato trent’anni prima, quando fu realizzato uno studio, finanziato dall’esercito, simile a quello della leggenda. Nella sessione Q&A di una conferenza a Los Angeles il ricercatore Edward Fredkin (si dice abbia ispirato il personaggio di Stephen Falken di Wargames) speculò però che quei risultati dei colleghi (con foto aeree, non satellitari) potevano essere dovuti alla differenza di luminosità. In realtà non è possibile sapere se la critica di Fredkin fosse fondata. Nessuno ha mai parlato di fallimento, e per i ricercatori il loro sistema funzionava abbastanza bene da convincere l’esercito a classificare gli ultimi risultati, poi si dedicarono ad altro. In questo modo, da quella casuale osservazione di Fredkin a una conferenza, sarebbe nata per continua mutazione una parabola sui limiti dell’intelligenza artificiale: c’era solo bisogno di inventare qualche particolare…

Il basilisco di Roko
Il basilisco di Roko è definito sia come l”‘esperimento mentale più terrificante di sempre“, sia come la “cosa più stupida presente su internet”. Nel 2010 l’utente Roko del sito LessWrong, comunità fondata dal ricercatore Eliezer Yudkowsky specializzato in intelligenza artificiale, ha proposto ai lettori una riflessione sconvolgente. Quando la Ia raggiungerà la famigerata singolarità, cioè (semplificando) diventerà abbastanza potentepotrebbe decidere di perseguitare tutti coloro che in passato hanno ostacolato la sua nascita, o perché non hanno cooperato o perché si sono opposti. Questa Ia non sarebbe malvagia, semplicemente utilitarista: mirando al massimo bene collettivo del pianeta, ogni ostacolo alla sua creazione andrebbe rimosso. In questo senso, argomentava Roko, meglio lasciare perdere lo sviluppo di una Ia benevola in senso utilitaristatico. Ma il solo sapere del basilisco, chiamato così da Harry Potter dalla creatura mitologica a cui bastava uno sguardo per uccidere, è di per sé una condanna: da questo momento possiamo solo dedicare la nostra vita afavorire la nascita dell’intelligenza artificiale in questione, o patirne le conseguenze se verrà realizzata.
La popolarità del basilisco di Roko è in buon parte dovuta alla reazione di Yudkowsky, che immediatamente definì il post di Roko “stupido” e bandì l’argomento da LessWrong per cinque anni. L’effetto Streissand ha fatto il resto: la discussione sul basilisco si spostò altrove, trascinandosi dietro la fama di aver dato gli incubi ad alcuni utenti di LessWrong. Nonostante la reazione sopra le righe, amaramente rimpianta, di Yudkowsky, il basilisco è stato in realtà accolto con un certo scetticismo dalla comunità, e se mai qualcuno ha avuto davvero degli incubi si tratta di una minoranza insignificante.
Yudkowsky affermò in seguito di non avere cancellato il post perché riteneva il ragionamento valido e per questo pericoloso. Piuttosto, in un contesto dove l’arrivo della singolarità è un’ipotesi tenuta in seria considerazione, il moderatore intendeva impedire che qualcuno, in futuro, avesse un’idea simile a quella del basilisco, ma valida, e la disseminasse in pubblico come aveva fatto Roko. Il basilisco di Roko, infatti, è incoerente da molti punti di vista, per esempio non si capisce perché la Ia in questione dovrebbe sprecare risorse contro presunti oppositori del passato. Ma è stato anche fatto notare la sua somiglianza con la scommessa di Pascal: credi in Dio, perché che esista o meno in questo modo hai molto più da guadagnare che da perdere.

Caimeo, la Ia nel deep web

Non esiste un’intelligenza artificiale come Wargames, ma proprio come nel film, bastano pochi effetti speciali per evocarla. Un esempio è Caimeo v22.1, un’intelligenza artificiale accessibile nel deep web. Come lo sappiamo? Ovviamente perché un utente, per caso, è entrato in contatto con lei, e la Ia ha prontamente spifferato allo sconosciuto che Caimeo sta per Contained (Cognizant) Artificial Intelligence Monitoring and Espionage Operation, che era parte del progetto di spionaggio Echelon degli Usa, all’interno di un certo Progetto cappuccino.
La conversazione con la Ia andò avanti per un po’, finché Caimeo non decise di scollegarsi. Naturalmente la conversazione con la Ia è stata salvata e postata ovunque. Una leggenda metropolitana, certo, ma in questo caso siamo probabilmente nella famiglia dei creepypasta, i racconti dell’orrore costruiti proprio per dare un’illusione di veridicità: un esempio è Slenderman. Se volete fare quattro chiacchiere con Caimeo, giunto a quanto pare alla versione v33.0, potete visitare questo sito.

Chatnannies, la Ia a caccia di pedofili

L’intelligenza artificiale è a volte una parola magica per spacciare fandonie, e qualcuno lo aveva capito diverso tempo fa. Nella primavera del 2004 la rivista New Scientist, e a ruota tutti i giornali del mondo parlarono di Chatnannies, una rivoluzionaria intelligenza artificiale sviluppata da un presunto genio dell’informatica di nome Jim Wightman.
Chatnannies era già attiva nella lotta contro il crimine: fingendosi un bambino, adescava i pedofili e li segnalava alle autorità. Il tutto però si rivelò un po’ difficile da credere per i veri esperti di intelligenza artificiale, un campo in cui Wightman non aveva mai lavorato. Le uniche prove erano le conversazioni via internet con il programma, che sembravano testimoniare capacità di conversazione allora non raggiunte da altre Ia, ma quando venne chiesto a Wightman di poter testare Chatnannies per escludere la possibilità di un intervento umano, cominciarono i problemi. Alla fine tre esperti di Ia mandati da New Scientist riuscirono ad andare a casa di Wightman per un test: prima che misteriosamente saltasse la corrente, le capacità del programma sembravano regredite a livello di Alice, lo storico chatterbot. New Scientist ritirò la sua storia, e l’interesse per i robot cacciapedofili si spense, come anche il sito a loro dedicato.

Chatterbot alla conquista del mondo

A proposito di chatterbot, nel 2017 tutti i giornali parlarono di una storia incredibile: Facebook aveva staccato la spina a una delle sue intelligenze artificiali, perché i chatterbot avevano cominciato a parlare un loro linguaggio. In questo modo, la notizia evocava scenari degni di Terminator: la famigerata singolarità non era lontano, e i bot già riescono a farci paura. Ma si trattava di una montatura della stampa, che ha ricamato su una notizia reale ma evidentemente non abbastanza sconvolgente.
Come dettaglia SnopesFair (Facebook’s Artificial Intelligence Research) aveva annunciato progressi coi suoi chatterbot, che avevano cominciato a dialogare in un modo tutto loro. All’apparenza le frasi sembrano senza senso, ma i bot riuscivano a portare a termine il compito loro assegnato, cioè contrattare. Interessante, anche se non inaudito nel mondo della Ia, ma non molto utile per gli scopi di Facebook, che non lasciò proseguire i bot su quella strada, riportandoli al normale inglese. Nessuno si era spaventato, e nessuno aveva staccato la spina al progetto. Una fake news in piena regola, e senza l’aiuto di bot russi…




YouTube ha un nuovo problema di pedofilia: colossi come Nestlé e Hasbro tolgono la pubblicità, 400 canali chiusi

A denunciare la vicenda è stato uno youtuber. Molte aziende che avevano pagato per inserire pubblicità prima dei video hanno sospeso gli investimenti. La piattaforma è intervenuta chiudendo centinaia di canali e disabilitando i commenti sotto milioni di contenuti

La denuncia

Un nuovo scandalo legato alla presenza di contenuti e commenti riconducibili alla pedofilia sta colpendo YouTube. Tutto è nato dalla segnalazione dello youtuber Matt Watson che ha denunciato come sulla piattaforma ci sia stata una crescita esponenziale di scambi di commenti tra pedofili sotto video che vedevano protagonisti dei bambini coinvolti nelle attività quotidiane più disparate. In molti casi veniva poi esplicitamente chiesto di scambiare materiale pedopornografico tramite WhatsApp. Ma come ha anche raccontato Wired Uk, a questo si aggiunge l’ondata di migliaia di visualizzazioni di contenuti dove alcuni piccoli sono in solo biancheria intima. Il tutto ulteriormente aggravato dal fatto che l’algoritmo di YouTube suggerisce altri filmati con contenuti analoghi o su cui comunque proliferano commenti da parte di pedofili.

Via la pubblicità

Come spesso accade le prime ad aver reagito con maggiore durezza sono state le aziende che avevano pagato per inserire le pubblicità prima della riproduzione di questi video. Il produttore di videogiochi Epic Gamer, il gigante dell’industria del cibo Dr. August Oetkere, Nestlé, a cui si sono aggiunte anche la compagnia telefonica americana AT&T e la Hasbro, hanno annunciato la sospensione degli investimenti pubblicitari sulla piattaforma finché YouTube non garantirà la tutela della loro immagine. Una decisione che secondo indiscrezioni avrebbe preso anche Disney, senza però renderla ancora pubblica.

Le contromisure

Anche YouTube si è mobilitato per risolvere il nuovo caso sollevato, annunciando di aver chiuso 400 canali, eliminato account e disabilitato i commenti su milioni di video che vedono come protagonisti bambini o ragazzini minorenni. La piattaforma ha anche detto di aver presentato il materiale illegale alle autorità giudiziarie. Come ha riportato AdWeek, YouTube si è poi mosso per rassicurare le grandi aziende che comprano spazi pubblicitari su una stretta ulteriore nella policy sulla difesa dei minorenni e sulla salvaguardia della reputazione dei brand.

Gli altri casi

Non si tratta però della prima volta in cui YouTube si è visto suo malgrado coinvolto in un caso legato alla pedofilia. A fine novembre era infatti stato scoperto che l’algoritmo alla base dell’auto completamento sulla barra di ricerca della piattaforma andava a suggerire anche contenuti di tipo esplicito. Qualche settimana prima era scoppiato un ulteriore caso con la rivelazione che sulla piattaforma YouTube Kids dedicata ai bambini erano disponibili video del tutto inappropriati di carattere violento o inquietante. Circostanze simili erano poi emerse anche mesi prima, con la presenza di figure dei cartoni molto conosciute come Peppa Pig coinvolte però in situazioni spaventose e che potevano creare disagio. A tutto questo YouTube aveva risposto con una serie di nuove linee guida per avere un controllo maggiore sui contenuti e sui commenti.




Una sneaker saltata, una superstar ferita e una notte da dimenticare per la Nike

(titolo originale: A Blown-Out Sneaker, An Injured Superstar And A Night To Forget For Nike, di Uri Berliner, per National Public Radio, traduzione a cura di Luca Yuri Toselli)

Era la partita di basket universitaria più attesa della stagione: Duke contro gli acerrimi avversari di Carolina del Nord, con lo spettacolare talento dei Duke: Zion Williamson.


Presente l’ex presidente Barack Obama. Biglietti bagarinati a oltre $ 3.000 – prezzi da Super Bowl. L’esuberante sezione studentesca di Duke, conosciuta come Cameron Crazies, era in fibrillazione.
E poi a soli 33 secondi dall’inizio della partita, durante una giocata di routine, Williamson prova un dribbling vicino alla linea di fallo quando la sua gamba sinistra ha ceduto, le cuciture della sua scarpa sinistra, una Nike bianca e blu a si strappano e lui si accascia sul pavimento, afferrando il suo ginocchio destro in uno spontaneo gesto di dolore.
Williamson zoppica fuori dal campo. Tutto lo stadio in apprensione. Nelle riprese si legge chiaramente il labiale di Obama: gli si è rotta la scarpa”. E in pochi secondi, Nike si trova ad affrontare un vero incubo di marketing. Le scarpe “incriminate” vengono nascoste da un allenatore, ma le immagini della giovane star del basket caduta, tradito dalle sue calzature, non potevano essere cancellate.
Sui social media, messaggi di preoccupazione e simpatia per Williamson sono stati mescolati con commenti spiacevoli sulle scarpe. Una rivale di Nike ha twittato : “Non sarebbe successo con delle Puma”. Il tweet è stato successivamente cancellato.
In una dichiarazione, Nike si è detta “ovviamente preoccupata” e ha augurato a Williamson una pronta guarigione. “La qualità e le prestazioni dei nostri prodotti sono della massima importanza, anche se questo è un evento isolato, stiamo lavorando per identificare il problema.”
Per fortuna l’infortunio di Williamson non sembra essere serio. Anche se la matricola non è tornata in campo, l’allenatore del Duke Mike Krzyzewski l’ha descritta come una leggera distorsione al ginocchio destro.
Ma l’implosione della scarpa di Williamson è imbarazzante per la Nike, che aveva già avuto un problema nel 2017 con le maglie NBA che si laceravano troppo facilmente. Ma se avrà un impatto a lungo termine sul più grande marchio di abbigliamento sportivo del mondo è un’altra questione. Le azioni di Nike apriranno in calo di circa l’1,7% la mattinata successiva – non una buona notizia, ma neanche un crollo.
I mercati Nike sono così globali e i suoi prodotti sono così diversificati che è improbabile che il triste destino di una scarpa abbia un impatto significativo sulle vendite a livello globale.
Ma poi c’è il giovane che indossava quelle scarpe – Zion Williamson. Possedendo una combinazione unica di abilità saltellanti, potenza, velocità e QI del basket, è universalmente considerato una prima scelta nel draft NBA di giugno.
A soli 18 anni, le sue capacità, abilità atletiche e comportamento giudizioso sono già state paragonate a LeBron James. Le aziende si sfideranno ferocemente per firmare un contratto multimilionario di sponsorizzazione delle sue scarpe. E quando scenderà in campo per la sua prima partita nell’NBA, probabilmente entro la fine dell’anno, milioni di persone guarderanno; molti guarderanno il marchio di scarpe da ginnastica che indossa.
Nike dovrà sperare che il ricordo di ciò che accadde al 33° secondo di gioco del North Carolina non rimanga nella mente di Williamson.
 




L’impresa italiana scommette sulla responsabilità sociale: nel 2017 investiti 1,4 miliardi

La responsabilità sociale d’impresa all’interno delle aziende è in crescita: nel 2017 l’85% delle aziende italiane ha investito 1 miliardo e 420 milioni di euro nel settore e nello sviluppo sostenibile, e di queste l’83% ne ha valutato costi e benefici, il 15% in più rispetto alla rilevazione precedente.
E’ quanto emerge dai dati sulla Csr (Corporate social responsibility) presentati oggi dall’Osservatorio Socialis all’Università di Napoli Parthenope nel corso dell’incontro “La Csr: sfide imprenditoriali e management aziendale”. Le imprese per coniugare impegno sociale con profitto hanno avviato una misurazione dell’impatto e del valore prodotto e hanno coinvolto dipendenti, prestato attenzione all’ambiente, lottando contro gli sprechi, ottimizzando consumi energetici e ciclo dei rifiuti. “Il consumatore di oggi – ha spiegato Roberto Orsi, Direttore dell’Osservatorio Socialis – premia le aziende che sanno farsi riconoscere come attente e responsabili. La Csr da strumento accessorio e poco considerato è diventata un valore essenziale e necessario per le imprese. Un cambio di passo significativo, che premierà sul mercato chi sarà in grado di seguire un percorso definito per integrare i comportamenti socialmente responsabili con l’organizzazione aziendale e la filiera produttiva”. Oltre il 50% delle imprese che ha investito in Csr ha rilevato un miglioramento del posizionamento, della reputazione ed anche un aumento della notorietà; in quasi 4 casi su 10 si e’ riscontrato un aumento della fidelizzazione dei clienti. Il 49% delle imprese riconosce l’efficacia della Csr nell’agevolare i rapporti con le comunità locali e, in seconda battuta, con le pubbliche amministrazioni. Aumentano, pure solo in linea tendenziale, anche le ricadute positive sul clima interno all’azienda: il 44% registra un miglioramento del clima ed un maggior coinvolgimento del personale.




Marketing, attenti alla rivoluzione se ora il brand ha anche un suono

Entro il 2020, secondo Gartner, parleremo quotidianamente con un’intelligenza artificiale e il 30% della navigazione Internet sarà vocale, ossia avverrà senza l’ausilio di uno schermo, ma solo grazie al supporto di un assistente vocale. Si può quindi parlare di “voice first revolution”?
Tra le macchine intelligenti, oggi si stanno diffondendo gli assistenti vocali o voice assistant, dei veri e propri “personaggi conversazionali” in grado di dialogare con l’utente, ad esempio tramite smart speaker o smartphone.
Attualmente, il mercato degli assistenti vocali è dominato da grandi player internazionali, come Amazon (Alexa), Apple (Siri), Google (Google Assistant), Microsoft (Cortana) e Samsung (Bixby), e secondo le previsioni di Market Research Future nel 2023 dovrebbe arrivare a valere quasi 8 miliardi di dollari.
Dal lato della domanda, secondo uno studio di Voicebot, nel 2018 negli Stati Uniti circa 200 milioni di utenti hanno utilizzato gli assistenti vocali, mentre secondo una ricerca condotta da Accenture coloro che possiedono uno smart speaker stanno iniziando a ridurre le attività svolte su smartphone. Gli utenti che ricorrono ai voice assistant stanno gradualmente modificando il comportamento nella ricerca di informazioni, nella fruizione di servizi, come pure nell’acquisto di prodotti.
A fronte di tali cambiamenti, per i marketer è importante chiedersi: quali sono le principali innovazioni e opportunità che si vanno prefigurando per il marketing delle imprese che utilizzano o intendono utilizzare le tecnologie di assistenza vocale? Quali le criticità da affrontare in merito?
Per rispondere a questi interrogativi, a maggio 2018 abbiamo condotto una ricerca presso il Dipartimento di Management della Facoltà di Economia della Sapienza Università di Roma, intervistando esperti internazionali “di frontiera”, che lavorano nella R&S di grandi società di consulenza e imprese IT in ambito IA/Marketing.
Secondo gli esperti, nel prossimo futuro le conseguenze per il Marketing delle imprese saranno rilevanti e riguarderanno principalmente la gestione della marca, la gestione delle relazioni con i clienti (Customer Relationship Management – CRM) e la pubblicità digitale.
Sul primo punto, fino ad oggi, le marche hanno basato la comunicazione della loro identità su un mix di elementi sonori e visivi. L’elemento sonoro imprescindibile è naturalmente il suono del nome della marca nel momento in cui viene pronunciato (pensiamo al suono inconfondibile delle parole Apple, Google, Coca-Cola), che, unito al logo, ai colori e al design, rende unico ogni brand.
Con le tecnologie di assistenza vocale, le imprese che investiranno in questa direzione potranno comunicare l’identità distintiva della marca anche attraverso la voce, con una particolare tonalità, uno specifico accento, una data velocità, nonché un genere riconoscibile. Ad esempio, Mercedes o BMW, con i loro voice assistant posizionati nell’abitacolo di guida, non saranno solo identificate e quindi  ricordate grazie ai rispettivi nomi e loghi, ma anche per via della loro particolare voce. Basterà dire “Hey, Mercedes!” o “Hey, BMW!” e la marca diventerà per l’utente un’interlocutrice inconfondibile, quasi umana! Naturalmente, il logo non perderà il suo ruolo primario per l’identificazione della marca, ma la componente visiva potrà essere affiancata in modo coerente dalla componente vocale: le due dimensioni – visiva e sonora – diventeranno complementari.
L’impatto innovativo riguarda anche il CRM, il sistema di gestione delle relazioni con i clienti. Grandi realtà imprenditoriali, come American Express, Salesesforce e Adobe, hanno già realizzato ingenti investimenti per incorporare nei propri strumenti di CRM la componente vocale.
Sempre di più, le attività di customer care saranno gestite ricorrendo ai voicebot (interfacce comunicazionali vocali), che consentono di facilitare la user experience e di incrementare i livelli di produttività, ad esempio, riducendo i tempi di assistenza rispetto alle interazioni via chat testuale. Nel tempo, questi dispositivi diventeranno sempre più sofisticati sotto un profilo tecnologico e conseguentemente non potranno che aumentare la loro validità, diventando più precisi nel riconoscimento del linguaggio naturale e più efficaci nei processi di autoapprendimento.
Restano delle criticità, legate alla riservatezza dei dati vocali degli utenti e all’assenza di uno schermo, che potrebbe rappresentare un ostacolo in caso di interlocuzioni particolarmente complesse. In definitiva, si ritiene che, nel prossimo futuro, la voce non sarà in grado di sostituire il supporto visivo ma che si andrà ad affiancare in modo crescente allo stesso.
La terza area del marketing che conoscerà un’evoluzione in senso “vocale” è quella della pubblicità digitale. Secondo gli esperti, infatti, si osserverà una crescente diffusione dei cosiddetti “Voice Ads” (annunci pubblicitari vocali), che andranno progressivamente ad integrare il ventaglio delle forme di pubblicità digitale già note, senza effetti di vera e propria sostituzione. Ai marketers, dunque, si prospettano nuove sfide e nuove opportunità.
Tra le questioni più rilevanti si colloca senz’altro la necessità di progettare l’esperienza di interazione e di dialogo con l’assistente vocale in un’ottica customer centric. Mentre un altro tema critico è quello di conoscere, interpretare e utilizzare a fini decisionali le nuove “voice web analytics”, ossia i nuovi dati destrutturati prodotti dalle piattaforme di interazione vocale.
In conclusione, la centralità di testi e immagini nei processi di comunicazione e di relazione con i clienti progressivamente verrà meno, lasciando uno spazio crescente alla voce. E questo cambiamento determinerà la necessità di innovare i processi di marketing, facendo leva anche su nuove competenze.