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Dalla security alla responsibility: la metamorfosi della sostenibilità digitale

Nello scenario cosiddetto data driven, la sostenibilità aziendale passa anche dalla data responsibility, con cò intendendo la gestione sana, etica e sicura dei miliardi di dati che le imprese possiedono e che possono avere un impatto significativo sulla libertà e i diritti dei singoli e delle comunità.

Recentemente Tim Cook ha parlato di Internet e delle società data driven come di “un complesso industriale” che sta sfuggendo completamente dal controllo sociale ed economico e che rischia di avere impatti inaspettati e devastanti sulle società digitalizzate, arrivando a chiedere per gli USA una legge privacy simile al GDPR.
Da questo punto di vista, gestire in modo sicuro e in ottica di aderenza ai principi della privacy i dati che le aziende posseggono, consente alle aziende di fare molto anche dal punto di vista della responsabilità sociale.

Andrea Lambiase, Dpo di Axitea

Per Andrea Lambiase, Dpo (cioè responsabile della protezione dati) di Axitea, la responsabilità sociale significa anche supporto, trasparenza e condivisione di know-how.
La massa di dati e informazioni quotidianamente trattati dalle aziende e dagli enti pubblici, la continua generazione di conoscenza e analisi che ne scaturisce può opportunamente essere messa, quando possibile e quando utile, a disposizione degli stakeholders economici e sociali che possono – a partire da questo know how – creare valore aggiunto per le comunità di appartenenza.

L’etica dei dati, l’esempio di Datakind

È il concetto di Data Ethics, di utilizzo dei dati per il bene comune, che sta cominciando a farsi largo e che già oggi vede alcune tra le più grandi multinazionali impegnate nella creazione di database condivisi con – ad esempio – informazioni utili per la gestione di un disastro naturale e la segnalazione continua di eventi potenzialmente catastrofici.
Un esempio concreto è la piattaforma DataKind, che si prefigge di usare le tecnologie più avanzate a disposizione delle aziende – Big Data analytics, Artificial Intelligence, machine learning – per migliorare lo stato delle comunità e degli individui che le compongono.
Attraverso un’analisi avanzata e accurata dei volumi di dati oggi disponibili, prendono vita progetti e iniziative di varia tipologia, accomunate dal concetto di bene comune. Gli esempi sono numerosi, distribuiti su tutto il pianeta.
Lambiase cita a mo’ di esempio due progetti abbastanza indicativi, che riguardano la città di New York, dove le immagini riprese dalle numerose telecamere di sorveglianza vengono elaborate tramite app sviluppate ad hoc per supportare iniziative specifiche: i dati relativi alla sicurezza stradale e alla viabilità permettono di indicare preventivamente a pedoni e guidatori gli eventuali rischi relativi alla zona in cui si trovano, come un alto tasso di incidenti o la ricorrenza di eventi criminosi.
Le stesse immagini però, elaborate in modo differente, possono dare indicazioni utili sulla presenza in strada di senzatetto, e correlare queste informazioni con quelle relative alla distribuzione geografica dei ricoveri nei quali potenzialmente accoglierli, soprattutto nel caso di condizioni climatiche sfavorevoli.
Un’ulteriore applicazione riguarda la siccità, piaga ricorrente in diverse aree del mondo. Un progetto specifico esiste in California e, tramite un’analisi incrociata dei consumi idrici di ogni unità abitativa e dei livelli dei depositi d’acqua, permette di prevedere il fabbisogno idrico in un determinato periodo, consentendo di prendere provvedimenti preventivi.

Data responsibility in Italia

In Italia, ammette Lambiase, la situazionqui non è altrettanto avanzata, anche se il tema Data Ethics è stato spesso trattato.
Ci sono iniziative virtuose, spiega, che in particolare coinvolgono banche e grandi aziende e sono legate a territori particolari che vedono l’applicazione di paradigmi tecnologici avanzati in ottica di corporate social responsibility.
Il tutto può e deve partire da una gestione corretta e sociale dei dati, che devono essere raccolti e protetti, come le normative vigenti impongono, ma anche messi a disposizione di chi su questi stessi dati può dare vita a progetti di condivisione ed inclusione, oltre che di supporto sociale.
Data privacy & security, sata responsibility e data sharing attraverso piattaforme aperte e funzionali alla condivisione di buone pratiche, statistiche e analisi predittive di utilità sociale: anche questo posiziona aziende e governi nel futuro della digitalizzazione.




Zamagni: “L’economia etica? È il cambiamento di cui abbiamo bisogno”.

L’economista Stefano Zamagni, intervenuto al convegno annuale della B Corps italiane, analizza la storia dell’economia etica, spiegando perché in questa fase storica è proprio ciò di cui abbiamo bisogno.


Il movimento delle B Corps è forse in questo momento l’impulso più forte, quello capace di spingere in modo definitivo il mondo economico verso un nuovo paradigma fondato sull’etica, sulla consapevolezza e sulla sostenibilità. In Italia in particolar modo.

ECONOMIA ETICA: UNA TRADIZIONE A NOI FAMILIARE

Non a caso il nostro paese è il secondo al mondo ad avere istituito un quadro normativo che regola questo settore, dopo gli Stati Uniti – la prima legge in merito è stata approvata nel 2010 da Maryland e Delaware. Ma è anche il secondo, sempre dopo gli USA, per numero di B Corps presenti sul proprio territorio.
Perché allora lungo tutto il percorso formativo e accademico che affrontano, i nostri giovani non si imbattono praticamente mai nell’economia etica? Perché ancora oggi il discorso delle B Corps in Italia non è ancora arrivato alla base, non circola e soprattutto non è ancora entrato nelle università, a parte alcune lodevoli eccezioni? Perchè le B Corps non sono ancora oggetto del curriculum di studi delle facoltà economiche?
Se lo chiede l’economista e docente Stefano Zamagni, sottolineando un ricorso storico interessante e significativo: “È stata la società civile ad anticipare quello che l’università avrebbe dovuto fare e in passato è stato sempre così. Recentemente sono stato alla Bocconi e gli studenti del corso di management non sapevano nulla di B Corps”.
Eppure questo movimento rappresenta un ritorno all’antico, poiché fino all’inizio del ’900 tutte le imprese avevano una funzione pubblica. “La tradizione aziendalistica italiana – spiega Zamagni – vede l’impresa come un soggetto privato che svolge funzioni di natura pubblica”.
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L’IMPRESA PERDE LA SUA FUNZIONE SOCIALE

Tutto cambia quando un saggio di economia pubblicato negli anni ’30 sancì la scissione fra la proprietà (azionisti) e il controllo (management). Gli interessi non erano più sociali, ma privatistici. “Lì comincia una nuova stagione che vede l’impresa come una merce – the firm as a commodity –, che come tale può essere comprata e venduta a seconda delle convenienze del momento”.
Nel 1976 due economisti americani oggi screditati, Jensen e Meckling, elaborano un modello in base al quale il fine dell’impresa è di massimizzare il profitto. A questa lettura si accoda anche Milton Friedman, che dice che alla fine anche la società ne trae un vantaggio. Questa teoria diventa egemone e viene insegnata nelle università di tutto il mondo.
Ed eccoci arrivati a un altro spartiacque: la grande recessione del 2008. Spiega Zamagni: “La crisi ci ha detto che quel modello è sbagliato. Da allora in America, dove c’è una cultura molto pragmatica, le cose hanno iniziato a cambiare. Dopo tre anni di recessione hanno cominciato a delinearsi le prime B Corps: c’era voluto un disastro economico, ma gli americani avevano capito che il fine primario dell’impresa non è la massimizzazione del profitto”.
Un ulteriore impulso arriva nel 2011 grazie all’intervento di altri due economisti, Porter e Kramer. Secondo loro il sistema capitalistico è sotto assedio e le imprese vengono viste sempre più come cause dei problemi sociali, ambientali ed economici. La legittimazione del business è scesa a livelli senza precedenti. Le imprese devono riconciliare business e società, successo economico progresso sociale. Devono mettere al centro i valori collettivi.
Zamagni prosegue raccontando un aneddoto significativo: “La vicenda di Ford e dei fratelli Dodge insegna: i Dodge erano azionisti di minoranza di Ford e quando quest’ultimo iniziò a praticare il welfare aziendale loro lo portarono in tribunale accusandolo di aver sottratto i profitti che spettavano agli azionisti per finanziare la sua politica aziendale. La corte del Michigan diede ragione ai Dodge creando un precedente fondamentale”.
Cosa insegna questa storia? “Ci dice che è fondamentale istituire un quadro normativo che disciplini l’economia etica”, spiega Zamagni. “Le cooperative ad esempio non hanno questo problema, ma le aziende normali, senza la legge del 2015 che istituisce le società benefit, avrebbero potuto incappare negli stessi inconvenienti con cui si dovette misurare Ford a suo tempo”.
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COSA STA SUCCEDENDO IN ITALIA?

L’idea che sta alla base delle B Corps riprende un pensiero che ha radici antiche e a noi familiari. “La figura dell’impresa moderna è nata in Italia, così come tante novità in ambito economico e finanziario. Ma noi italiani non le abbiamo mai valorizzate, rinunciando a innovare. Siamo creativi, ma non siamo capaci di tradurre l’invenzione in operatività”.
Già nel 1400 esisteva la moderna impresa: Leonardo da Vinci fu il primo teorico e pratico dell’organizzazione d’impresa. Il suo modello all’estero viene chiamato “bottega leonardesca” e rappresenta il nucleo dell’organizzazione d’impresa condiviso anche dalle B Corps. Ecco perché per noi italiani questo movimento è particolarmente significativo.
Ma perché oggi abbiamo particolarmente bisogno che in Italia si diffondano le B Corps? Risponde Zamagni: “Perché stiamo attraversando una fase nota come seconda grande trasformazione di tipo polaniano, ovvero riferita a Karl Polanyi, che nel 1974 parlò della prima grande trasformazione, nell’ambito della quale raccontò le due grandi rivoluzioni industriali”.
Oggi viviamo una stagione altrettanto straordinaria, poiché siamo nel bel mezzo della quarta rivoluzione industriale. E si può dimostrare che in questa transizione in modello B Corps è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.
“È una tesi forte ma perfettamente dimostrabile”, prosegue Zamagni. “Sappiamo che il modello taylorista non funziona più, sostituito da quello olocratico teorizzato nel 2007 da Brian Robertson. Questo modello è il contrario di quello taylorista ed è una prefigurazione a livello giuridico della società benefit. Abbiamo bisogno che il numero di queste società aumenti perché così possiamo estendere l’applicabilità del modello olocratico, che garantisce risultati straordinari come la massimizzazione del profitto, molto più del modello only for profit”.
La storia economica stessa sostiene questa tesi. Fino al 1980 la produttività totale dei fattori dell’Italia era superiore a quella della Germania. Con la terza e quarta rivoluzione industriale siamo andati incontro a un forte declino perché non abbiamo adeguato il modello organizzativo. Secondo Stefano Zamagni dunque dobbiamo modificare l’assetto esistente, ne abbiamo un gran bisogno.
 

 L’IMPRESA COME MOTORE DEL CAMBIAMENTO

“Le valutazioni delle performance delle imprese sono di tre tipi: output, outcome e impatto. Misurano rispettivamente l’efficienza, l’efficacia (quanto l’operatività raggiunge i fini dichiarati) e il cambiamento. Il punto è qui: oltre alla valutazione di output (bilancio di esercizio) e di outcome (misurata nel bilancio sociale), la società benefit si spinge al terzo livello, che consiste nella valutazione dell’impatto sociale, ovvero la misurazione del cambiamento. Misurare questo cambiamento è ciò che distingue le performance delle società benefit, poiché le società convenzionali non possono per natura arrivare alla valutazione d’impatto, di cui noi abbiamo invece un gran bisogno, soprattutto se si parla di degrado ambientale”.
Ecco dunque che, pur continuando a perseguire un legittimo profitto, l’impresa recupera la sua funzione sociale e genera benessere – economico, ma non solo – per tutta la comunità. Ma, come spiegato, solo le B Corps, società benefit e altri modelli imprenditoriali etici hanno questa capacità.
Zamagni conclude citando il monaco americano Tomas Merton, che nell’epilogo del suo Nessun uomo è un’isola dice: “Il tempo galoppa e la vita ci sfugge fra le mani, ma ci può sfuggire come sabbia o come semente. Se ci sfugge come sabbia cadendo al suolo non produce nulla, ma il seme produce sempre qualcosa. A noi la scelta”.




Economia circolare: facciamo il punto

Pubblicato il documento del Ministero dell’Ambiente dopo la consultazione pubblica alla quale ha partecipato anche Prioritalia con Piera Magnatti, che abbiamo intervistato


Un ripensamento delle strategie di mercato che consenta di salvaguardare le risorse naturali e la competitività dei settori industriali. Quello che l’economia circolare comporta è nientemeno che un cambiamento radicale di mentalità e priorità. Senza scuse né scorciatoie: la circular economy è una necessità, che necessita a sua volta di essere regolamentata e misurata.
In Italia i primi passi sono stati la pubblicazione, nel novembre del 2017, del documento “Verso un modello di economia circolare per l’Italia” a opera del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (Mattm) insieme al Ministero dello Sviluppo Economico (Mise).
Successivamente – con l’obiettivo di dare strumenti attuativi al modello adottato e renderlo quanto più funzionale possibile al sistema Italia – la direzione generale per i rifiuti e l’inquinamento del Ministero dell’Ambiente ha redatto – il documento “Economia circolare e uso efficiente delle risorse – indicatori per la misurazione dell’economia circolare” su cui è stata avviata una consultazione pubblica aperta a privati cittadini, imprese, organizzazioni e stakeholder. Tra i soggetti aderenti (pubblici e privati) si è attivata anche Prioritalia, che ha come terza area di intervento “Economia circolare ed educazione alla sostenibilità dello sviluppo”, compilando on line il questionario predisposto dal Ministero.
L’azione terminata il 1° ottobre 2018 ha visto la partecipazione di 87 soggetti, di cui 67 in rappresentanza dell’organizzazione per cui lavorano e 20 come privati cittadini. Per Prioritalia, il veicolo per portare il contributo dei manager nella società costituito in Fondazione da Cida e Manageritalia, ha partecipato Piera Magnatti, già direttore generale di Nomisma ed esperta in campo economico della Commissione europea, membro del Consiglio direttivo di Manageritalia Emilia Romagna.
Il Ministero dell’Ambiente ha pubblicato nei giorni scorsi la versione integrata del documento “Economia circolare ed uso efficiente delle risorse – indicatori per la misurazione dell’economia circolare” valorizzando i contributi frutto della consultazione pubblica.
Abbiamo chiesto a Piera Magnatti di raccontarci il ruolo di Prioritalia, lo stato dell’arte circa l’economia circolare e i prossimi passi.
Cosa intendiamo per economia circolare e come ci tocca come cittadini e soggetti economici?
Vi sono numerose modalità per definire l’economia circolare; secondo quella che preferisco per chiarezza e capacità di visione “l’economia circolare è un’economia in cui i prodotti di oggi sono le risorse di domani”.
Si può proseguire dicendo che è l’economia in cui si tende a mantenere il valore dei materiali e in cui c’è una minimizzazione degli scarti e della pressione sull’ambiente.
L’impatto su noi cittadini e/o soggetti economici è enorme poiché la transizione verso un’economia circolare richiede un cambiamento culturale tale da indurre una modifica strutturale e innovativa nei modelli di produzione, distribuzione e consumo.
Quali sono gli obiettivi della consultazione e del documento successivo?
Il percorso intrapreso dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e dal Ministero dello Sviluppo Economico ha previsto due tappe, accompagnate da altrettanti momenti di consultazione.
La prima tappa ha definito un inquadramento generale dell’economia circolare e il posizionamento strategico del Paese sul tema. Il cambiamento implicito nella transizione verso l’economia circolare richiede, infatti, interventi strutturali per salvaguardare la competitività dei settori industriali e, nello stesso tempo, il patrimonio naturale. Le leve previste nel Documento comprendono:
• una revisione dell’assetto normativo per creare un contesto di riferimento che sia di concreto 
supporto e di stimolo allo sviluppo dell’economia circolare, anche semplificando i processi;
• l’ottimizzazione della governance ambientale;
• la rimozione degli ostacoli nell’attuazione della normativa stessa.
Avendo quindi individuato nella misurazione della circolarità un requisito essenziale per perseguire azioni trasparenti e concrete, la seconda tappa è consistita nella presentazione di una proposta operativa di monitoraggio della “circolarità” a livello macro (sistema paese), meso (regione, distretto ecc.) e micro (singola impresa, organizzazione, amministrazione).
Nella consultazione e nel documento finale si punta anche ad individuare strumenti economici che – attraverso una riforma fiscale ambientale – incentivino l’adozione di modelli sostenibili e quali?
L’approccio dei nostri Ministeri vuole essere concreto e per questo ha immaginato l’introduzione di strumenti volti a favorire la transizione verso un modello di economia circolare senza interferire con gli obiettivi economici e sociali. Dal lato della domanda si immagina in primo luogo uno spostamento del carico fiscale dal reddito ai consumi, introducendo anche un differenziale di tassazione tra consumi “sostenibili” e “non sostenibili”. Inoltre si ritiene necessario favorire una più ampia diffusione di schemi “pay-as-you-throw”, ovvero paga per quello che butti.
Dal lato della produzione, lo stimolo all’innovazione tecnologica attraverso appropriate leve fiscali è certamente il punto di partenza; ad esso si associa la proposta di trasferire una parte del carico fiscale dal fattore lavoro a quello delle risorse naturali, con un duplice risultato: ridurre l’impatto ambientale e migliorare l’efficienza economica.
Si punta anche a stimolare attività di comunicazione e sensibilizzazione dei cittadini sui nuovi modelli di consumo. Quanto contano e come farle?
Si tratta di un obiettivo difficile ma imprescindibile. Difficile perché la modifica dei comportamenti e delle scelte personali dipende da una grande molteplicità di sensibilità, bisogni, esigenze e desideri, priorità, abitudini, storie personali. Imprescindibile perché l’impatto potenziale di queste misure è elevatissimo.
Sul fronte educativo i policy-maker immaginano un piano integrato denominato “Piano nazionale di educazione e comunicazione ambientale”, declinato anche localmente che, partendo dalle scuole dell’obbligo fino ad arrivare alle famiglie, contribuisca a formare una generazione di cittadini critici, consapevoli e informati. in grado di decidere consapevolmente e incidere con le proprie scelte sui meccanismi economico-produttivi e sociali del paese.
Ma è necessario anche agire sulla comunicazione ambientale per combattere la pubblicità ingannevole,
per promuovere la conoscenza e l’uso dei marchi riconosciuti (ad esempio l’Ecolabel) e incentivare nuove modalità di consumo: riparare anziché buttare, condividere piuttosto che possedere.
Parlando di circolarità nel documento si parla anche di obiettivi e di come misurarli?
Sì: nel secondo documento “Indicatori per la misurazione dell’economia circolare” il Tavolo di Lavoro tecnico coordinato dal Ministero dell’Ambiente dal Ministero dello Sviluppo Economico, con il supporto tecnico-scientifico dell’Enea, ha individuato una serie indicatori di misurazione e monitoraggio nell’ottica di perseguire azioni concrete e raggiungere risultati quantificabili.
L’obiettivo finale è tendere a un nuovo modello economico che sia contemporaneamente efficiente, sostenibile e soprattutto trasparente per il mercato e per il consumatore. Quanto siamo lontani?
È questa la sfida: costruire un modello economico che coniughi efficienza, sostenibilità e trasparenza. In Italia non mancano imprese eccellenti in tal senso, e il rapporto ne cita alcune. La difficoltà, la sfida vera, è indurre modifiche realmente strutturali nei modi di produrre, distribuire e consumare. La strada è a mio parere ancora lunga.
Quale è stato il suo ruolo e dal suo impegno volontario cosa s’è portata a casa?
Ho rappresentato Prioritalia nell’ambito della consultazione pubblica che il Ministero dell’Ambiente ha promosso con imprese, organizzazioni e istituzioni al fine di consolidare i documenti sotto il profilo operativo e applicativo e renderli quanto più funzionali al sistema Italia.
Ho portato a casa informazioni qualificate su una nuova e concreta prospettiva per il Paese. Mi occupo da sempre di economia industriale, considero questa sfida come un’opportunità importante per le imprese italiane. Ho portato a casa la volontà di dare una mano affinché il disegno strategico si trasformi in valore per il Paese.
Per far muovere l’economia circolare qual è il ruolo dei manager?
Nessuno può stare alla finestra nella prospettiva delineata per il nostro Paese, tanto meno le imprese e i loro manager. Il passaggio più complesso che ogni manager dovrà gestire – in particolare culturalmente – è il superamento dell’apparente trade-off tra risultati economici e sostenibilità ambientale. I manager dovranno essere pronti a mettere in discussione i modelli di business sino ad oggi perseguiti e a confrontarsi con nuovi modelli d’impresa.
E quello dei cittadini?
I cittadini devono impegnarsi a compiere scelte consapevoli nella direzione del riuso e di abitudini non inquinanti. In quanto consumatori, possono svolgere un ruolo importante privilegiando prodotti e servizi di imprese virtuose in campo ambientale.
Quindi Prioritalia diventa un attore importante per arrivare davvero a un’economia circolare efficace ed efficiente e come?
Prioritalia può svolgere un ruolo chiave all’interno del quadro delineato, come prevede la sua mission, in cui si evidenzia come le competenze manageriali debbano dare un contributo fattivo per lo sviluppo dell’economia circolare e dell’educazione alla sostenibilità. Come? Con iniziative per l’informazione, l’aggiornamento e la condivisione di esperienze e buone prassi, con la diffusione delle opportunità legate all’economia circolare, con l’attivazione di dinamiche di knowledge-sharing. Ma anche attraverso la promozione di progetti di innovazione sociale e ambientale che si traducano in azioni concrete sul territorio e diventino modelli virtuosi da replicare.
I risultati completi della consultazione sono illustrati nel Resoconto della consultazione pubblica del documento “Economia circolare ed uso efficiente delle risorse. Indicatori per la misurazione dell’economia circolare” e sono stati utilizzati per implementare il documento del Mattm disponibile, nella sua versione consolidata, a questo link.




Perché Matteo Salvini ha cambiato idea su Mahmood

Perché Matteo Salvini ha cambiato idea su Mahmood

Matteo Salvini ha cambiato rotta su Mahmood dopo un’iniziale presa di distanza dal ragazzo milanese vincitore dell’ultima edizione del festival di Sanremo. Il Ministro aveva scritto un post in favore di Mahmood ma un sentiment negativo probabilmente gli ha consigliato di fare retromarcia. Ecco alcuni dati che dimostrano come il post di Salvini non era stato accolto benissimo.
In linea con quella che è la sua politica social, all’una e mezza di domenica 10 febbraio il Ministro degli Interni Matteo Salvini era davanti alla tv come altri 10 milioni di italiani per guardare l’esito del Festival di Sanremo e, appena proclamata la vittoria di Mahmood che ha avuto la meglio su Ultimo e su Il Volo, ha voluto dire la sua: “Mahmood…………… mah………… La canzone italiana più bella?!? Io avrei scelto Ultimo, voi che dite??” ha buttato lì in attesa di capire come avrebbe risposto il suo pubblico. Ovviamente nelle ore successive si sarebbe scatenato un filone parallelo a quello musicale che avrebbe tirato in ballo le origini egiziane del cantante milanese, una brace che lo stesso post salviniano – con quella “canzone italiana” (c’erano canzoni straniere in gara?) – aveva in qualche modo alimentato.

Il cambio di rotta su Mahmood

Il post raccoglie in pochissimo tempo decine di migliaia di like, commenti e condivisioni (ad oggi ha oltre 100 mila like), ma nonostante ciò, poche ore dopo il Vicepremier ha scelto di fare marcia indietro e in un’intervista a La Stampa ritratta un po’ quanto scritto, ammette di aver chiamato Mahmood ma soprattutto rimbrotta chi aveva posto l’accento sulle origini del cantante: “È un ragazzo italiano che suo malgrado è stato eletto a simbolo dell’integrazione – spiega – ma lui non si deve integrare, è nato a Milano. Lo hanno messo al centro di una storia che non gli appartiene (…) Che questo ragazzo, per il quale mi sono sentito in torto tanto da chiamarlo, sia stato usato dalla sinistra, ci sta. Chi mi conosce potrebbe osservare un rispettoso silenzio” dice al quotidiano torinese, prima di attaccare anche lui a testa bassa i giornalisti e la Giuria d’onore – spostando l’attenzione con quel filone un po’ “gentista”, lanciato da Ultimo in una surreale conferenza stampa post festival -: “Una giuria senza senso, mancava solo mio cugino e sarebbe stata completa. Come se mi chiamassero ad attribuire il Leone d’Oro. Sanremo deciso da un salotto radical chic” ha dichiarato facendo anche riferimento a un fantomatico 90% di perplessi.

Un sentiment negativo per il post di Salvini

Numeri tirati un po’ a caso. Strano per chi pare che tenga molto in considerazione quelli delle interazioni dai propri social che gli permettono di testare, in proporzione, il sentiment – ovvero lo stato d’animo degli utenti – nei confronti di un problema. La retromarcia fatta su Mahmood, spostando l’attenzione dal cantante ai giornalisti e al “salotto radical chic”, ovviamente non è casuale. Avevamo notato un po’ di commenti negativi nei confronti di Salvini, così abbiamo chiesto a Pier Luca Santoro, consulente di marketing e comunicazione e project manager di DataMediaHub, quale fossero state le reazioni a quel post e se queste fossero sufficienti a spiegare il cambiamento di rotta: “Al momento dell’analisi il post di Salvini su Facebook relativo a Mahmood aveva poco meno di 83mila like, ma ha anche circa 7.500 reaction di rabbia e più o meno altrettante di ilarità. Se questo è già un primo indicatore del sentiment, analizzando le condivisioni si vede come il sentiment di queste sia prevalentemente negativo e/o neutrale. Dunque le condivisioni, neutrali o contrarie, hanno generato l’arrivo sulla fanpage di Salvini di persone che non sono suoi fan, anzi, come si vede nel grafico”:


L’analisi sulle parole

Santoro continua spiegando che: “Costoro, i non fan, oltre alle reaction di rabbia e/o ilarità, hanno altrettanto commentato con sfottò o chiaro rimprovero il leader della Lega, come puoi constatare da una semplice osservazione del post. Elemento che si evince anche dall’analisi del sentiment dove “vinto Mahmood”, “egiziano”, “immigrato”, sono in verde [dunque sentiment positivo] perché citati positivamente, appunto, in scherno o in risposta al post di Salvini, come dimostra quest’altro grafico:


Un cambio di rotta in linea con le idee del Ministro

Ma in che modo è possibile poter cambiare in corsa un parere in questo modo, senza perdere credibilità tra i propri fan? Molto semplice: questo cambio di rotta avviene in coerenza con quella che è la sua linea in tema di immigrazione. La battaglia di Salvini, infatti, è sempre stata mirata non tanto alle seconde generazioni, ma agli immigrati irregolari, ai “barconi” insomma. Per questo motivo il suo cambio non viene visto dalla sua fanbase come un tradimento di un qualche ideale, ma accettato come uno spostamento che rientra nei parametri politici e comunicativi del Ministro.
 




La signora della gentilezza: «La insegno nelle aziende»

La signora della gentilezza: «La insegno nelle aziende»

Cristina, ex consulente: non è solo questione di etichetta, può aumentare la produttività

«Molti pensano che la gentilezza sia cortesia, dire buongiorno o buonasera, ma è molto di più: è una forma di cura e attenzione agli altri che richiede anche molto impegno. E che però aiuta a vivere meglio». Cristina Milani, 50 anni, svizzera originaria del Canton Grigioni, per vent’anni è stata consulente nel mondo della comunicazione, con un lavoro che la portava da New York e Singapore. Oggi ha votato la sua vita alla gentilezza («Per me è una droga» dice con un sorriso): la insegna nelle scuole e nelle aziende, guida la Onlus elvetica Gentletude che si propone di diffondere questo atteggiamento come stile di vita ed è vicepresidente del «World Kindness Movement» che ieri ha celebrato la Giornata Mondiale della Gentilezza.

Le lezioni

«Portiamo le nostre lezioni anche nei luoghi di lavoro, perché la gentilezza, oltre a migliorare la qualità del tempo passato in azienda, rende le interazioni più efficaci — spiega —. Essere gentili aumenta la produzione di serotonina, l’ormone della felicità, quindi facilita i contatti sociali e aumenta la collaborazione».
«Io insegno soprattutto metodi per gestire le proprie emozioni. Essere gentili significa essere attenti agli altri, e questo è possibile solo se si è in contatto con se stessi. Tutti noi abbiamo un fardello che ci portiamo dietro ed è quello che ci può rendere scortesi con gli altri» aggiunge.
Non a caso il primo principio del manifesto della gentilezza è «vivere bene insieme: ascoltare ed essere pazienti». Subito dopo c’è l’abc della cortesia «essere aperti verso tutti: salutare, ringraziare e sorridere» e poi «lasciare scivolare via le sgarberie e abbandonare l’aggressività».

Scelta di vita

Cristina Milani li ha adottato anni fa. «Ogni volta che tornavo da un viaggio, dopo tutti quegli incontri con sconosciuti, vedevo gli amici e finivamo sempre a lamentarci della stessa cosa: il menefreghismo generale, la freddezza dei rapporti. A un certo punto abbiamo deciso che dovevamo provare a fare qualcosa, nel nostro piccolo», racconta.
«Da quando sono gentile anche gli altri sono semper gentili con me — assicura —. Trovo sempre qualcuno che mi dà un dono inaspettato: un gesto, una parola». Non è un atteggiamento che si limita ai rapporti con il prossimo umano: «Ma una necessità che riguarda tutti gli aspetti del nostro stare al mondo: dal rispetto per il pianeta in cui viviamo a quello per gli animali».
Ieri Gentletude ha festeggiato la Giornata mondiale della gentilezza a Milano, con un canto terapeutico. «Ma ognuno può portarne un po’ nel mondo: bastano un abbraccio o un saluto. Poi si sta meglio»