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L’esportazione del modello mediatico cinese

L’esportazione del modello mediatico cinese

Il problema della manipolazione è insito nel concetto stesso di comunicazione. Ad ogni atto comunicativo, anche il più semplice, viene sempre applicato il filtro dell’interpretazione del mittente, a cui si aggiungono l’influenza che il mezzo utilizzato ha nella vita delle persone (l’impatto emotivo della comunicazione orale sarà sempre diverso da quello di una comunicazione scritta, così come da quello dell’immagine) e la predisposizione, psicologica ma anche linguistica, di uno specifico destinatario nei confronti del messaggio.

Queste variabili comportano una generale e ricorrente ambiguità nello scambio comunicativo. Non esiste infatti una notizia che non sia, anche inconsciamente, modellata e interpretata secondo specifici criteri.
Durante tutto il secolo scorso, con la nascita, lo sviluppo e l’affermazione dei mezzi di comunicazione di massa, il processo comunicativo è stato sempre più finalizzato alla trasformazione della pubblica opinione in clientela (per quanto riguarda la pubblicità commerciale) o in elettorato (per quanto riguarda la propaganda politica). La manipolazione dell’informazione è anche il primo strumento utilizzato dai regimi totalitari, o tendenti al totalitarismo, per la creazione del consenso.
Un esempio di manipolazione dell’informazione applicata scrupolosamente è la Cina. Dopo decenni di ambiguità e contraddizioni nel campo dei diritti umani, una direttiva del 2015 ha imposto la creazione di nuovi istituti di ricerca per la lotta al pensiero occidentale, mentre il ministero dell’istruzione annunciava la messa al bando dei libri di testo che promuovevano i valori dell’occidente. Il governo cinese si sta inoltre rivelando eccezionalmente incline allo sfruttamento delle nuove tecnologie per il controllo della popolazione e nell’ultimo rapporto sulla libertà di stampa stilato da Reporters sans frontières la Cina si è classificata alla posizione 176 sui totali 180 Paesi presi in considerazione. La Repubblica Popolare Cinese conta attualmente più di 50 persone tra giornalisti e blogger nelle sue prigioni, pochi rispetto a tutti coloro i quali sono indotti all’autocensura al fine di evitare pene detentive o economico-finanziarie. Nel caso cinese, tuttavia, la propaganda non si arresta all’interno dei confini nazionali. La Cina, infatti, acquista spazi di propaganda televisiva anche all’estero, in Paesi come Australia e Stati Uniti, e utilizza le università, secondo l’analista australiano John Garnaut, come veri e propri strumenti di propaganda. Solamente lo scorso anno, su richiesta del governo cinese, la Cambridge University Press ha momentaneamente cancellato 315 articoli dalla rivista China Quarterly. La decisione, nonostante sia stata presto annullata a causa della minaccia di un boicottaggio accademico, è sintomo di come una potenza economica possa potenzialmente manipolare i mezzi di informazione anche in Paesi considerati al di fuori della sua diretta sfera di influenza.
Oltre a tentare l’attuazione di operazioni di censura in accordo con Paesi occidentali come la Gran Bretagna, la Cina sta lentamente esportando, secondo quanto esposto nel rapporto di Rsf, metodi oppressivi di censura e sorveglianza nella sua sfera di influenza, al fine di creare “un nuovo ordine mediatico internazionale”.
Alla Cina si sta sempre più allineando la vicina Cambogia, che nella classifica di Rsf è scesa di 10 posizioni arrivando alla numero 142. La Cambogia riceve benefici dagli scambi di natura economica e finanziaria con il governo di Xi Jinping, mentre l’influenza economica e dunque mediatica statunitense va parallelamente indebolendosi. In vista delle elezioni, dopo l’arresto del principale leader dell’opposizione Kem Sokha, il Cambodia Daily, quotidiano con venticinque anni di attività alle spalle e celebre per le sue inchieste, gravato da ingenti multe, è stato costretto alla chiusura, mentre lo scorso anno l’ultimo quotidiano di opposizione, il Phnom Penh Post, è stato venduto a un investitore della Malesia, Sivakumar Ganapathy, vicino all’attuale premier Hun Sen. Oltre 30 organizzazioni di media indipendenti sono state chiuse.
Il modello cinese, in accordo con Rsf, sta venendo lentamente assimilato anche dai media birmani (il Myanmar è infatti sceso alla posizione 137), tailandesi (140), malesi (145), singaporiani (151). Il Laos (170), in cui già da tempo è applicata la censura sistematica del Lao People’s Revolutionary Party, concede ai media stranieri di stabilire delle sedi in territorio nazionale solo a condizione di essere sottoposti ai controlli degli organi preposti. Solamente l’agenzia di stampa cinese Xinhua e quella vietnamita Nhân Dân hanno acconsentito.
Anche la piccola città-stato di Singapore, che con la Cina continua a intrattenere scambi commerciali, è dotata di una Media Development Authority per il controllo e l’eventuale censura dei prodotti giornalistici. Esistono media formalmente indipendenti, ma costretti all’autocensura dai rischi connessi ai reati di diffamazione o di sedizione. Inoltre, la recente proposta di legge che prevede la possibilità di perquisizione di case e dispositivi elettronici da parte della polizia senza necessità di mandato mette a serio rischio la protezione delle fonti confidenziali.
La manipolazione dell’informazione, dunque, nelle più evidenti forme di censura e sorveglianza, non solo è estremamente diffusa all’interno della Cina, ma sta penetrando sempre più a fondo, sulla base di questo modello, nei Paesi che la circondano, incentivata dai benefici ottenuti dal mantenimento di rapporti amichevoli con quello che è indubbiamente un colosso del mercato e un potente alleato dal punto di vista economico.




“La bestia”, ovvero del come funziona la propaganda di Salvini

“La bestia”, ovvero del come funziona la propaganda di Salvini

Intervista a Alessandro Orlowski, ex hacker e spin doctor digitale, che ci parla della strategia comunicativa della Lega, dell’affaire Cambridge Analytica, del business dei falsi profili twitter, del Gdpr, Facebook e molto altro

Alessandro Orlowski è seduto a un tavolino di un bar di Barcellona. Nato a Parma nel 1967, vive in Spagna da 20 anni. Ex regista di spot e videoclip negli anni ’90 e grande appassionato di informatica, è stato uno dei primi e più influenti hacker italiani. Fin da prima dell’arrivo dei social network, ha lavorato sulle connessioni digitali tra gli individui, per sviluppare campagne virali. Negli anni ha condotto numerose campagne in Rete, come quella per denunciare l’evasione scale del Vaticano o i gruppi estremisti negli Stati Uniti e in Europa. Oggi fa lo spin doctor digitale: ha creato Water on Mars, startup di comunicazione digitale tra le più innovative, e guidato il team social risultato fondamentale per condurre il liberale Kuczynski alla presidenza del Perù. Ci accomodiamo, e cominciamo a parlare con lui di politica nel mondo digitale, per arrivare presto a Matteo Salvini e allo straordinario (e inquietante) lavoro che sta realizzando online.

Alessandro Orlowski: Nato a Parma 50 anni fa, è tra i maggiori esperti
di hacking e comunicazione politica digitale in Italia

Che evoluzione ha avuto negli anni il concetto di “rete social”?
Nasce nei primi anni ’80 con le BBS, le Bulletin Boards System, antesignane dei blog e delle chat. La prima rete sociale, però, è stata Friendster nel 2002, che raggiunse circa 3 milioni di utenti. A seguire l’amatissima (da parte mia) MySpace: narra una leggenda nerd che fu creata in 10 giorni di programmazione. Il primo a usare le reti social per fini elettorali è stato Barack Obama nel 2008.
Oggi in Italia chi è il politico che maneggia meglio questi strumenti?
In tal senso la Lega ha lavorato molto bene, durante l’ultima campagna elettorale. Ha creato un sistema che controlla le reti social di Salvini e analizza quali sono i post e i tweet che ottengono i migliori risultati, e che tipo di persone hanno interagito. In questo modo possono modi care la loro strategia attraverso la propaganda. Un esempio: pubblicano un post su Facebook in cui si parla di immigrazione, e il maggior numero di commenti è “i migranti ci tolgono il lavoro”? Il successivo post rafforzerà questa paura. I dirigenti leghisti hanno chiamato questo software La Bestia.
Quando nasce La Bestia?
Dalle mie informazioni nasce dal team di SistemaIntranet di Mantova, ossia dalla mente di Luca Morisi, socio di maggioranza dell’azienda, e Andrea Paganella. Morisi è lo spin doctor digital della Lega, di fatto il responsabile della comunicazione di Salvini. La Bestia è stata ideata a fine 2014, e finalizzata nel 2016. All’inizio si trattava di un semplice tool di monitoraggio e sentiment. Poi si è raffinato, con l’analisi dei post di Facebook e Twitter e la sinergia con la mailing list.
Come funziona l’analisi dei dati, su cui si basa la strategia?
Diciamo che a livello di dati non buttano via nulla: tutto viene analizzato per stabilire la strategia futura, assieme alla società di sondaggi SWG e a Voices From the Blogs (azienda di Big Data Analysis, ndr). I loro report, su tutti quelli del professore Enzo Risso, sono analizzati attentamente dal team della Lega, composto da Iva Garibaldi, Alessandro Panza, Giancarlo Giorgetti, Alessio Colzani, Armando Siri e altri.
La Bestia differenzia il suo operato a seconda dei social, per rendere immutata l’efficacia di Salvini in base allo strumento?
Per chi si occupa di marketing e propaganda online, è normale adattare la comunicazione ai differenti social. Twitter è l’ufficio stampa, e influenza maggiormente i giornalisti. Su Facebook ti puoi permettere un maggiore storytelling. È interessante vedere come, inserendo nelle mailing list i video di Facebook, la Lega crei una sinergia con la base poco attiva sui social: la raggiunge via mail, e aumenta così visualizzazioni e condivisioni.
Operano legalmente?
Camminano su un lo molto sottile. Il problema riguarda la gestione dei dati. Hanno creato, per esempio, un concorso che si chiama “Vinci Salvini” (poche settimane prima del voto, ndr). Ti dovevi registrare al gioco online e quanti più contenuti pubblicavi a tema Lega, maggiori erano le possibilità di incontrare Salvini. È stato un successo. Il problema è che non sappiamo come siano stati gestiti i dati. A chi venivano affidati? A Salvini? Alla Lega? A una società privata?
C’è qualche legame con lo scandalo Cambridge Analytica in questo utilizzo “disinvolto” dei dati personali?
Difficile rispondere. Circolano voci in merito all’apertura di una sede di Cambridge Analytica a Roma poco prima delle elezioni italiane, progetto abortito in seguito allo scandalo che ha coinvolto la società britannica. Un partito italiano, non si sa quale, avrebbe richiesto i suoi servizi. È noto che la Lega volesse parlare con Steve Bannon (figura chiave dell’alt-right americana, fondamentale nell’elezione di Donald Trump, ndr) in quel periodo, incontro poi avvenuto in seguito.
La destra – più o meno estrema – sta vincendo la battaglia della comunicazione digital? 
Si muovono meglio dei partiti tradizionali, che non sono riusciti a evolversi. Lo dimostra Bannon, e pure Salvini, che a 45 anni è un super millennial: ha vissuto il calcio balilla, la televisione, Space Invaders e le reti social.
Vedi analogie tra la strategia social di Donald Trump e quella di Salvini?
Salvini ha sempre guardato con attenzione a Trump. Entrambi fanno la cosa più semplice: trovare un nemico comune. E gli sta funzionando molto bene. Nel nuovo governo si sono suddivisi le responsabilità: al M5S è toccato il lavoro, con la forte macchina propagandistica gestita dalla Casaleggio Associati, alla Lega la sicurezza e l’orgoglio nazionale, gestiti da Morisi e amici.
Sta pagando, non c’è che dire.
La totale disinformazione e frotte di like su post propagandistici e falsi – per esempio l’annuncio della consegna di 12 motovedette alla Guardia costiera libica (a fine giugno, ndr) – portano a quello che si definisce vanity KPI: l’elettore rimane soddisfatto nel condividere post che hanno migliaia di like, e quindi affermano le loro convinzioni. Consiglio la lettura di The Thrill of Political Hating di Arthur Brooks.
Esiste una sorta di meme war all’italiana? 
Le meme war non esistono. Ci possono essere contenuti in forma di meme per denigrare i competitor e inquinare i motori di ricerca. Ricordiamoci anni fa, quando su Google scrivevi il cognome “Berlusconi” e il motore di ricerca ti suggeriva “mafioso”: fu un esempio di manipolazione dell’algoritmo di Google. Lo stesso sta succedendo in questi giorni: se scrivete la parola “idiot” e fate “ricerca immagini”, compaiono solo foto di Trump.
Come è stata finanziata l’attività delle reti social della Lega?
La Lega voleva creare una fondazione solo per ricevere i soldi delle donazioni, al fine di poter tenere in piedi le reti social senza passare per i conti in rosso del partito. Il partito è gravato da debiti e scandali finanziari (a luglio il tribunale di Genova ha confermato la richiesta di confisca di 49 milioni di euro dalle casse del partito, ndr). Le leggi italiane lasciano ampio margine: permettono di ricevere micro- donazioni, senza doverle rendere pubbliche. È una forma completamente legale. In ogni caso, potresti chiederlo direttamente a Luca Morisi (Morisi non ha risposto ai tentativi di contatto da parte di Rolling Stone, ndr)
Hanno ricevuto finanziamenti dall’estero? 
Recentemente l’Espresso ha raccontato che alcune donazioni al partito provengono da associazioni come Italia-Russia e Lombardia- Russia, vicine alla Lega. D’altra parte, sono stati i russi a inventare il concetto di hybrid war. Il generale Gerasimov ha teorizzato che le guerre moderne non si devono combattere con le armi, ma con la propaganda e l’hacking.
Un sistema come La Bestia alimenta la creazione di notizie false?
Non direi che ci sia un rapporto diretto tra le due cose, ma sicuramente c’è un rapporto tra La Bestia e il bias dei post che pubblicano. Come ha spiegato lo psicologo e premio Nobel Daniel Kahneman, di fronte a una notizia online la nostra mente si avvale di metodi di giudizio molto rapidi che, grazie alla soddisfazione che dà trovare conferma nei nostri pregiudizi, spesso porta a risposte sbagliate e illogiche, ossia biased.
Salvini lavora su questo bias?
Lo fa il suo team, e anche quello del M5S: amplificare notizie semi-veritiere, viralizzandole e facendole diventare cultura condivisa, che viene confermata sia dalla fonte considerata carismaticamente onesta e affidabile, sia dal numero di condivisioni che la rendono in quel modo difficilmente contestabile. Vai tu a convincere del contrario 18mila utenti che hanno condiviso un post di dubbia veridicità! Una delle figure chiave delle fake news della Lega è stato e forse ancora è il napoletano Marco Mignogna, che gestiva il sito di Noi con Salvini, oltre a una ventina di portali pro-Salvini, pro-M5S e pro-Putin (nel novembre 2017 si è occupato del caso il NYT, ndr).
Quanto di ciò che hai detto fin qui vale anche per il Movimento 5 Stelle?
Non c’è dubbio che dietro al M5S ci sia una buona azienda di marketing politico. La loro propaganda è più decentralizzata rispetto a quella della Lega, tutta controllata da Morisi. Creano piccole reti, appoggiandosi agli attivisti “grillini” e risparmiando così denaro. Non pagano per rendere virali i post di Grillo o di Di Battista. Anche se oggi, con il M5S al governo, la strategia è in parte cambiata.
Quanto influisce l’attività di trolling sul dibattito politico?
Dipende dal contesto politico e dal Paese, in alcuni casi può essere molto violenta. Per creare account su Twitter esiste un software acquistabile online, che ti permette di generarne mille in tre ore, ognuno con foto e nome distinto. Parliamo di account verificati con un numero di cellulare: c’è un servizio russo che, per 10 centesimi, te ne fornisce uno appositamente. Con 300 o 400 euro puoi crearti in un pomeriggio un migliaio di account Twitter verificati. A quel punto puoi avviare un tweet bombing, cambiando la percezione di una notizia. È semplice e costa poco.
Ci sono conferme sull’esistenza di una rete di troll leghisti?
Non è facile rispondere, perché ci sono diverse tipologie di reti troll, organiche o artificiali. A volte distinguere le due senza tool specializzati è quasi impossibile. Per esempio, le reti di troll formate da persone reali spesso si auto-organizzano, sapendo benissimo che un utente singolo può avere due o più account social sullo stesso network. È normale vedere un utente pro-Lega o pro-M5S gestire anche cinque account con nomi diversi: cento persone in un gruppo segreto di Facebook o su un canale Telegram, con cinque account ciascuno, fanno 500 troll pronti ad attaccare, e scoraggiare utenti standard a un confronto politico.
Esistono quindi reti costruite ad hoc? 
Una di queste botnet è stata smantellata da un gruppo di hacker italiani sei mesi fa: era collegata a una società romana che gestiva una rete di 3mila account Twitter, collegati a un migliaio di account Facebook. Non mi stupirei se un team gestito da Morisi avesse automatizzato e controllasse qualche centinaio o migliaio di account. Qualcosa di simile era già nelle loro mani, con un sistema di tweet automatici su diversi account (documentato da diverse fonti giornalistiche lo scorso gennaio, ndr). L’unica pecca del loro team è la sicurezza informatica, come si è potuto notare dal leak delle informazioni del loro server, avvenuto all’inizio di quest’anno.
Cosa sappiamo sul “gonfiamento” dei numeri social di Salvini?
Abbiamo notato alcune discrepanze, ma in questo momento di grande successo mediatico di Salvini non sono più rilevanti. Abbiamo scoperto alcune botnet di Twitter nate contemporaneamente che, dopo pochi giorni e nello stesso momento, hanno seguito tutte l’account ufficiale di Salvini. La relazione con il suo account era il fatto che supportavano account di estrema destra in Europa, quindi attribuibili a persone vicine a Voice of Europe e gruppi simili, legati a Steve Bannon, come #Altright o #DefendEurope. La pratica di creare fake account è comune: solo pochi giorni fa Twitter ne ha cancellati alcuni milioni.
C’è un modo per riparare simili storture?
C’è poco da fare. In seguito allo scandalo Cambridge Analytica, Facebook ha colpito tutti, impedendo ai ricercatori di studiare questi fenomeni. Le cose non sono cambiate, anzi. Anche a seguito dell’adozione del GDPR (il regolamento sulla protezione dei dati personali, ndr) nei prossimi anni vedremo come si raffineranno le campagne politiche online: sarebbe utile avere leggi che impongano maggior trasparenza su come funzionano le reti social e, naturalmente, maggiore tutela per i cittadini, in particolare per quanto riguarda i propri big data.




Cyber Security e Digital Marketing, serve una stretta collaborazione per proteggere dati sensibili e reputazione aziendale

Cyber Security e Digital Marketing, serve una stretta collaborazione per proteggere dati sensibili e reputazione aziendale
Il Marketing è spesso considerato l’anello debole della sicurezza informatica. È tempo di ribaltare questa visione e creare uno stretto sodalizio fra gli esperti di Cyber Security e Digital Marketing per la definizione, diffusione e attuazione di strategie mirate a prevenire attacchi e a reagire opportunamente in caso di incidenti

Cyber Security e Digital Marketing sono ormai due facce di una stessa medaglia. Nell’era del 4.0 e dell’Internet of Things, infattii professionisti che lavorano in ambito Marketing si trovano spesso a dover gestire informazioni sensibili, collocate in ambienti cloud e diversificati, noti per essere maggiormente esposti ad attacchi informatici, interni e/o esterni. Quindi è fondamentale che siano coinvolti nella definizione, diffusione e attuazione delle strategie di Cyber Security, non solo perché facile obiettivo per gli hacker, ma come soggetto attivo nel contrasto al cyber risk.
La digitalizzazione dei processi e dei sistemi informativi aziendali, ha consentito a molte organizzazioni di essere più competitive, ma questo ha significato, al tempo stesso, esporre i dati delle stesse a maggiori rischi. Di conseguenza la Cyber Security è diventata una priorità assoluta per le imprese.
All’interno di questo contesto, il Marketing è ancora percepito come un soggetto a rischio per la sicurezza dei dati di un’organizzazione e le persone che lavorano nelle posizioni di Marketing si sono abituate ad essere qualificate come anello debole dei sistemi di sicurezza informatica.
In realtà, preso atto che anche una sola violazione dei dati può danneggiare considerevolmente un’azienda, a livello di Brand Reputation e, in seconda analisi, di costi economici, nessuno può sentirsi al riparo da questo genere di minacce, qualsiasi sia la sua attività ed il settore in cui opera.
Questa riflessione assume un’ulteriore rilevanza se si considera che i trend digitali come cloudmobile, IoT e social, ormai imprescindibili anche per le aziende, espongono le stesse a una grande quantità di minacce.
Per di più, l’opportunità di raccogliere una quantità di dati sensibili sempre più ampia, parliamo quindi degli ormai noti Big Data, aumenta ulteriormente la possibilità di violazioni di sistemi informativi aziendali.
Inoltre, gli attacchi hacker come il furto di dati sensibili dei singoli consumatori, la distribuzione di malware o l’e-mail phishing, sono spesso facilitati dall’incuranza e dalla scarsa conoscenza e consapevolezza del personale interno dei rischi informatici.
Pertanto è fondamentale che l’organizzazione, a tutti i livelli, Marketing incluso, sia informataconsapevole sull’importanza della Cyber Security.

Gli esperti di Cyber Security e Digital Marketing devono collaborare di più

Ciò pone la domanda: cosa può fare il team di Marketing in tale scenario?
Data la quantità di informazioni sensibili a cui i Marketer hanno accesso e il crescente ricorso a nuove tecnologie e ambienti digitali per la condivisione interna e/o esterna all’organizzazione di questi dati, il Marketing è spesso obiettivo del crime sul web.
Perciò, in primo luogo, è essenziale educare le persone che lavorano in questo settore alla sicurezza informatica, con percorsi formativi creati ad hoc, per permettergli di identificare le specifiche tipologie di attacco informatico a cui potrebbero essere personalmente sottoposti, e ad usare con cautela ed intelligenza le tecnologie digitali.
Ciò significa anche che il Marketing dovrà comprendere l’importanza di collaborare con il dipartimento IT, per identificare eventuali minacce, rappresentate da nuove tecnologie, piattaforme e applicazioni, e determinare le misure di attenuazione del rischio informatico.
Una volta ridefinito il modo in cui i professionisti del Marketing affrontano il tema della Cyber Security, passando dall’essere facile bersaglio degli hacker, a utenti consapevoli dei rischi connessi al digitale, gli stessi marketer potranno essere d’aiuto all’intera organizzazione nell’arginare il Cyber Crime, diffondendo la cultura della sicurezza informatica tra tutte le funzioni in azienda.
Questo significa attivare campagne di comunicazione interna pensate per veicolare l’importanza della formazione sulla sicurezza informatica, contribuire alla diffusione del know-how aziendale riguardo le best practice in materia di Cyber Security e così via.

I Marketer devono essere pronti a comunicare in caso di attacco informatico

L’obiettivo per i professionisti che lavorano in ambito Marketing è quindi quello di accelerare e diffondere l’adozione di una strategia condivisa sul tema della sicurezza informatica tra tutta la popolazione aziendale.
Ma il ruolo del Marketing potrebbe andare oltre l’attività di diffusione interna delle norme aziendali di Cyber Security. È infatti altrettanto importante che i Marketer siano preparati ad affrontare un eventuale episodio di Cyber Crime e definiscano quindi preventivamente un piano di comunicazione esterna in caso si verificasse un attacco informatico, così da evitare il panico tra clienti, fornitori e partner.
In definitiva, la Cyber Security è fondamentale ad ogni livello dell’organizzazione, così come la diffusione di una cultura del rischio informatico e, al tempo stesso, lo sviluppo di una fiducia digitale.
All’interno di questo scenario, il Marketing, anziché l’anello debole della sicurezza informatica, può costituire la prima linea di difesa contro il cyber risk e contribuire a cambiare la prospettiva dalla quale il personale interno guarda a queste tematiche, permettendogli di comprendere come oggi la Cyber Security ricopra un ruolo abilitante, e non frenante, rispetto al raggiungimento degli obiettivi di business.




Kevin Kelly e l’inevitabile destino della natura umana

Il famoso scrittore Kevin Kelly ha scritto un saggio molto affascinante e razionale sulle tendenze tecnologiche presenti e future: “L’inevitabile” (il Saggiatore, ottobre 2017, 329 pagine, euro 24).


Negli ultimi anni Google ha comprato almeno 14 società che operano nel campo dell’intelligenza artificiale. Ad esempio Deepmind ha sede a Londra e utilizza un algoritmo molto speciale per imparare a giocare, attraverso l’apprendimento automatico per rinforzo approfondito (p. 40). Probabilmente “Google usa le ricerche per migliorare la sua IA” (p. 45), e solo in un secondo momento utilizza la sua Intelligenza Artificiale per aumentare la sua capacità di ricerca.
Rodney Brooks è l’ex professore del MIT che ha progettato l’aspirapolvere Roomba. Nel 2008 ha fondato Rethink Robotics. Secondo Brooks “quando l’avvento dei robot farà crollare i costi di produzione, saranno i costi di trasporto a diventare il fattore decisivo: vicino vorrà dire economico. Si creeranno quindi delle reti locali di fabbriche in franchising, la cui quasi totalità della produzione verrà distribuita entro un raggio di 10 chilometri” (p. 60 e 61).
Quindi il nostro futuro seguirà quello della rete, “la più grande fotocopiatrice del mondo… copia ogni azione, ogni digitazione, ogni pensiero che facciamo mentre stiamo navigando… alcuni pezzi di informazione possono venire copiati anche dozzine di volte, in un ciclo ordinario, attraverso memorie, cache, server, router e ritorno. Molte aziende informatiche guadagnano parecchi soldi dalla vendita di equipaggiamenti che facilitano questo processo incessante” (p. 69).
I percorsi delle nostre vite si riempiranno di schermi e nei prossimi anni “ci sembrerà strano guardare uno schermo senza che qualche parte del nostro corpo risponda ai contenuti… la visualizzazione ci sprona a creare velocemente degli schemi, ad associare un’idea a un’altra… Con gli schermi in Rete, ogni cosa è collegata a tutto il resto, e lo status di una nuova creazione non viene determinato dalle valutazioni dei critici ma dal grado con cui è collegata al resto del mondo” (p. 109). Però gli “schermi potranno osservarci a loro volta, saranno i nostri specchi” e la nostra coscienza sociale. In molte situazioni saremo quasi sempre sotto osservazione e finiremo per apprezzare sempre di più l’intimità della nostra casa e la qualità delle nostre conversazioni.
Comunque anche in una nuova società centrata sulle immagini ogni popolazione “si espande esattamente fino a un limite superato il quale c’è la fame. Oggi, in un mondo reso abbondante dalla tecnologia, la minaccia alla sopravvivenza è rappresentata dall’eccesso di cose buone: troppa bontà mette fuori uso il nostro metabolismo e la nostra psicologia… non ci siamo evoluti per percepire la pressione sanguigna e la glicemia. Tuttavia, la tecnologia è in grado di farlo” attraverso i sensori e l’autotracciamento (p. 245, ad esempio il dispositivo Scout di Scanadu).
La fiducia non sarà programmabile e nemmeno vendibile. Molti di noi avranno prima o poi “accesso a un robot personale” (p. 65), e a una forma di intelligenza artificiale a distanza, accessibile tramite la rete o attraverso un chip personalizzato inserito nel nostro corpo. Purtroppo non sarà così per la maggioranza della popolazione e “Il vero punto debole è che le tecnologie creano una fascia di esseri umani che non è in grado di adoperarle, e che viene quindi emarginata, spazzata via, distrutta, lacerata, trasformata in prodotto di scarto”(Roberto D’Agostino, lezione all’Università Sapienza di Roma sulla Rivoluzione Digitale). La tecnologia costa e i poveri sono tanti.
In ogni caso “In un mondo ricco di informazioni, l’abbondanza di queste ultime comporta la mancanza di qualcos’altro: la penuria di qualunque cosa le informazioni consumino… l’attenzione dei loro destinatari” (Herbert Simon, 1971, premio Nobel nel 1978, citato a p. 179). La carenza di tempo, la carenza di spazio vitale, la carenza energetica individuale saranno da includere nelle prossime situazioni molto spiacevoli che riguarderanno miliardi di abitanti del pianeta. Più aumenteremo, più informazioni ci scambieremo, e molto più prezioso diventerà il tempo per tutti noi (ogni giornata avrà sempre le solite 24 ore, comprese le circa sette ore di sonno).
Forse fra pochi anni molti di noi diventeranno l’assistente personale di un robot o di un sistema operativo. I nuovi sistemi di intelligenza artificiale lavoreranno tra di loro in rete e saranno formati da alcuni sistemi centralizzati di autoapprendimento più o meno specializzati o generici. Di sicuro “Tendiamo a sopravvalutare gli effetti a breve termine della tecnologia e a sottovalutare quelli a lungo termine” (Roy Charles Amara, Legge di Amara, presidente dell’Istituto per il Futuro, Palo Alto California; Italian Institute for the Future).

Per approfondimenti economici e tecnologici italiani: www.giudittamosca.it/chi-sono(giornalista), www.innovation-nation.it (la terza edizione del forum ci sarà il 18 ottobre 2019 a Milano).
Nota personale – Forse i migliori risultati riguardanti l’intelligenza artificiale li potrebbe ottenere un assistente politico artificiale molto bravo nelle mediazioni e nelle negoziazioni. Ma si può agire in modo veramente imparziale lavorando per gli esseri umani?
Nota sul Web – “Internet non è una tecnologia neutra perché nel lungo periodo la comunicazione fra le persone che la rete abilita crea tolleranza, conoscenza e innovazione” (Riccardo Luna, Cambiamo tutto! La rivoluzione degli innovatori, Laterza, 2013, p. 70). E le persone sono destinate a diventare quello che vedono e che incontrano più spesso (a livello reale o digitale).
Nota cinematografica – Tra i film di fantascienza più emozionanti segnalo Blade Runner (di Ridley Scott, 1982); Gattaca (la porta dell’universo, di Andrew Niccol,1997); Her (di Spike Jonze, 2013, ha vinto il premio Oscar per la miglior sceneggiatura); Ghost in the Shell (di Rupert Sanders, 2017); Eagle Eye (di D.J. Caruso, 2008, l’analisi dei dati e l’intelligenza artificiale al servizio dello Stato totalitario).
Nota aforistica – “Le idee hanno una vita che è tutt’altro che ideale” (Miller Levy); “Avere talento permette di raggiungere un fine che gli altri non possono raggiungere; avere genio permette di raggiungere un fine che gli altri non possono nemmeno vedere” (Schopenhauer, citati in La bicicletta di Einstein, Ponte alle Grazie, 2017).
Nota difensiva – Anders Sandberg studia le minacce per la vita umana presso il Future of Humanity Institute: https://twitter.com/anderssandbergwww.fhi.ox.ac.uk/team/anders-sandberghttps://en.wikipedia.org/wiki/Anders_Sandbergwww.youtube.com/watch?v=1Kduq2IxyM8.
Nota energetica – Secondo il premio Nobel Carlo Rubbia l’estrazione del metano solido (il clatrato) potrebbe essere una produzione energetica del futuro: www.youtube.com/watch?v=z0o9jz7UZDw (2014). Inoltre alcuni scienziati italiani stanno facendo esperimenti molto interessanti sulle nuove reazioni nucleari LENR: www.youtube.com/watch?v=54Sm7pcmpJo(5 gennaio 2019).




Bloom Project

L’ospite di questa settimana è Veronica Magli di Bloom Project, una start up che si occupa di sistemi innovativi per l’agricoltura del futuro.
Ciao Veronica e benvenuta sul mio blog. Quando è nata la vostra organizzazione?
Bloom Project nasce ufficialmente a settembre 2017, dopo una ricerca qualitativa e quantitativa durata 18 mesi e svoltasi in più di 12 paesi nel mondo, con l’obiettivo di sviluppare e sostenere progettualità orientate all’innovazione sistemica e allo sviluppo sostenibile nel campo dell’agricoltura, principalmente nei paesi del sud del mondo.
I tre soci fondatori, Lorenzo Giorgi, Giacomo Battaini e Giorgio Giorgi, che già collaborano da alcuni anni in un altro progetto che si occupa invece di illuminazione sostenibile (Liter of Light), hanno iniziato a sviluppare Bloom Project ad inizio 2017, affidando al DAFNAE (Dipartimento di Agronomia, Animali, Alimenti, Risorse naturali e Ambiente) dell’Università di Padova un programma triennale di ricerca scientifica finalizzato a sperimentare pratiche di agricoltura sostenibile nei paesi del sud del mondo. Io sono arrivata in Bloom Project a metà 2018 e mi occupo di collegare il nostro progetto alle aziende in ottica di responsabilità sociale d’impresa e di social business.
Sul vostro sito si legge che BLOOM è un centro di ricerca low-tech che nasce con l’obiettivo di portare la tecnologia laddove non esiste. Ci spieghi meglio di cosa vi occupate?
Bloom Project nasce per ridurre la distanza che esiste tutt’ora in ambito agricolo tra innovazione tecnologica e fruibilità di quest’ultima nelle zone rurali del sud del mondo. La mission principale di Bloom Project è quella di combinare tecnologie frugali e open source con il trasferimento di conoscenza e formazione in ambito agricolo e social business, per rendere il sistema davvero accessibile, inclusivo e flessibile.
Attraverso Agritube per esempio, uno dei primi prototipi realizzati da Bloom Project, grazie ad un circuito idroponico si può aumentare la produzione di cibo combattendo la malnutrizione ed ottimizzando le risorse idriche (con l’agricoltura fuori suolo è possibile coltivare utilizzando 1/10 di acqua rispetto ad una equivalente produzione tradizionale) e diminuendo la dipendenza dai terreni delle comunità, aumentando al contempo la resilienza delle popolazioni agli shock ambientali. Agritube inoltre, si è rivelato fondamentale nello sviluppare programmi inclusivi di accesso all’agricoltura per i disabili. Se infatti l’80% dei lavoratori dei Paesi in Via di Sviluppo è impiegato in agricoltura tradizionale, il sistema è però inaccessibile per i portatori di handicap (principalmente motori), che proprio grazie all’agricoltura fuori suolo potrebbero essere finalmente inclusi nel sistema e diventare i protagonisti del proprio sostentamento.
Credere e sviluppare un modello di cooperazione in grado di condurre ad una molteplicità di soluzioni, ciascuna disegnata appositamente per il contesto specifico nel quale si opera, che sviluppi le tecnologie più appropriate e adattabili a più ambienti, insieme a modelli economici e di impresa capaci di innovare la produzione, è la vera scommessa di Bloom Project.
Come vi rapportate con il mondo delle imprese?
Siamo convinti che le imprese siano un attore fondamentale del cambiamento per uno sviluppo sempre più sostenibile e che la cooperazione avviata tra soggetti profit e non profit stia già dando notevoli evidenze che siamo sulla strada giusta. Basti pensare che anche le imprese oggi si esprimono sempre di più facendo riferimento agli impegni relativi agli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite (SDG). Da parte nostra quindi incoraggiamo le aziende ad intraprendere con noi relazioni continuative, di lungo periodo e in una vera e propria ottica di social business, che possano dare vita ad una progettazione congiunta riguardo ad i nostri interventi nel sud del mondo, ma anche in Italia e in Europa. Proprio prima di concludere il 2018 abbiamo chiuso un accordo con un’azienda veneta riguardo ad una sperimentazione sull’uso del compost nel substrato del nostro prototipo idroponico Agritube, e già dall’inizio di quest’anno inizieranno dei piccoli laboratori che coinvolgeranno anche i bambini delle scuole elementari del territorio alla scoperta dell’economia circolare.
Progetti di questo tipo, innovativi dal punto di vista delle partnership attivate, sono possibili soltanto tessendo con le aziende relazioni di fiducia reciproca in ottica di responsabilità d’impresa, con l’obiettivo di produrre un cambiamento sistemico positivo e replicabile.
Programmi per il futuro?
Bloom Project è già stato inserito fra le 50 migliori soluzioni di UN Sustainable Development Solutions Network – Youth per raggiungere i Global Goals for Sustainable Development, e a questo proposito vogliamo intensificare il nostro contributo lavorando allo sviluppo di microimprese rurali nel sud del mondo, che siano inclusive e replicabili ad ogni longitudine. Per fare questo, stiamo testando Agritube, il nostro primo prototipo, in Senegal, e in questo secondo anno di ricerca affidato al DAFNAE di Padova sperimenteremo nuove coltivazioni di ortaggi tradizionali per i paesi sub-sahariani. Oltre a questo, vorremmo sviluppare nuove applicazioni dei nostri prototipi idroponici in ottica di economia circolare, rigenerazione urbana ed inclusione di persone diversamente abili anche in Europa.