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Le Mille e una Stories d’azienda Ecco chi sono i «chief storyteller»

Brandtelling. Comunicatore, analista, giornalista: il profilo ibrido dei nuovi cantastorie per comunicare l’innovazione e i valori del marchio e avviare una nuova relazione con i consumatori

Informano, intrattengono, allineano, emozionano. E in fondo rafforzano l’identità, la reputazione, persino il business. Ecco perché le storie sono state sdoganate in azienda. Si tratta di narrazioni fotografiche, frammentate, condivise che fanno la differenza. «Siamo da sempre circondati da storie. Il ruolo del narratore è quello di decriptare la complessità e catturare l’immaginazione proprio attraverso le storie». Così Steve Clayton, chief storyteller di Microsoft al Sole24Ore. Dall’headquarter di Seattle racconta l’azienda guidando un team di venticinque persone. «Ma attenzione. Noi non vendiamo prodotti.  Anche perché oggi il nostro pubblico sempre più sofisticato ignora il marketing tradizionale e si appassiona soltanto alle storie».
 

Identikit dei narratori d’azienda

Connessi, empatici, orientati alla relazione. I nuovi cantastorie d’azienda sono un mosaico di competenze da comunicatori, giornalisti, analisti social, esperti di linguaggi digitali. Profili ibridi specchio di questi tempi liquidi, arruolati sin dagli anni Novanta in Nike e poi in Coca Cola, SAP, IBM, Microsoft, McDonald’s, RedBull e persino alla Nasa. Perché come ha suggerito la testata anglosassone Guardian oggi scienziati e ricercatori devono necessariamente uscire dai laboratori e confrontarsi con gli utenti, diventando narratori.
Queste figure esprimono la mutazione genetica da un modello classico di marketing ad uno inclusivo e allargato. Arrivando a coincidere talvolta con i visionari capitani d’impresa: è questo il caso di Richard Branson per Virgin o di Jack Welch per General Electric. «Oggi quando un consumatore sceglie un brand non partecipa solo al processo di acquisto, ma vive un’esperienza di senso molto più completa e coinvolgente. Ecco l’importanza del brand storytelling. Un fenomeno dovuto all’innovazione tecnologica e anche alla crisi economica. Perché in fondo stiamo ragionando di attività con risorse più limitate rispetto a quelle investite un tempo nella pubblicità tradizionale», afferma Francesco Giorgino, giornalista del TG1 e docente di brand storytelling all’Università Luiss, coautore del volume “BrandTelling” in uscita per Egea. Il manuale è stato scritto con Marco Francesco Mazzù e vede la prefazione di Michele Costabile. Dai video di YouTube alle Stories su Instagram, dai frammenti stilistici della camera company Snapchat ai long-form dei blog aziendali: nascono così nuovi palinsesti social seriali. «Il contatto avviene non più sul prodotto, bensì sui valori. Con una dimensione a medio-lungo termine», precisa Giorgino. È un cambio di baricentro rispetto al passato. Oggi le storie sono per pubblici profilati, coinvolti, raggiunti in mobilità. «In gioco c’è una relazione differente che si sviluppa nel tempo. D’altronde le aziende stanno diventando media company e confezionano contenuti editoriali di informazione o intrattenimento».
 

Le narrazioni del futuro

Siamo di fronte ad una ibridazione di formati che integra online e offline. «Lo storytelling è fondamentale per il business, ma occorre un uso sistemico. Non aiuta solo la reputazione, ma sviluppa il capitale narrativo. Bisogna però attrezzarsi per competere narrativamente con competenze, prassi di lavoro e professionalità specifiche», afferma Andrea Fontana, presidente di Storyfactory. Si tratta di profili professionali in evoluzione. «Gli storyteller vedranno crescere le responsabilità strategiche, occupandosi meno di storytelling e più di storytelling management, ovvero di organizzazione manageriale di esperienze e azioni narrative», precisa Fontana.
E il futuro sarà tanto più efficace se raccontato. Ha fatto il giro del mondo e della rete il recente rapporto McKinsey intitolato “Telling a good innovation story”. Nel documento Julian Birkinshaw della London Business School mette nero su bianco una morfologia della fiaba innovativa. Partendo dal racconto di startup e nuove imprese.
«Il brand storytelling è un’innovazione importante perché segna il trasferimento del focus dal canale al contenuto. E quanto è vero ciò che dice Jordan Bower: il lavoro del chief storyteller è quello di portare alla luce le storie autentiche dell’organizzazione. Non è una questione di stile, ma di sostanza», affermano Carlo Fornaro e Diomira Cennamo, autori di “Professione Brand Reporter” per Hoepli e co-fondatori dell’osservatorio Brand Reporter Lab, presto in uscita con la prima mappatura sul fenomeno.
 

Cantastorie all’italiana

Da noi il processo di inserimento organizzativo è più lento e meno strutturato. «Le aziende italiane non sono ancora media company, cosa che comporterebbe dei cambiamenti organizzativi. Anche se esistono attività di produzione di contenuti di brand non sporadiche», precisano Fornaro e Cennamo.
Tuttavia qualcosa sta cambiando: Oltreoceano il magazine Content Standard ha intervistato alcuni chief storyteller approdati stabilmente nell’organigramma. Tra questi c’è l’italiano Yari Bovalino di Avio Aero, brand italiano del colosso General Electric. «Abbiamo creato questa figura per uscire dal paradigma di comunicazione interna o esterna. Viviamo in un ecosistema talmente complesso e articolato che il dipendente non è più uno stakeholder interno, ma diventa un ambasciatore dell’azienda», afferma Paola Mascaro, VP Communications & Public Affairs General Electric Italia e Avio Aero.
Così la partita si gioca sulle storie delle persone. Efficaci purché siano vere. Perché in una filiera disintermediata solo l’autenticità consente una reale immedesimazione.

LE ESPERIENZE DEI PROTAGONISTI

MICROSOFT Tanti stimoli, le storie catturano attenzione

STEVE CLAYTON – Chief Storyteller della Microsoft

Professione storyteller. In Microsoft un team di professionisti è impegnato a raccontare le storie d’azienda. Coinvolgendo anche i clienti. A guidarli c’è Steve Clayton, chief storyteller. «Creiamo storie all’interno dell’azienda utilizzando diverse piattaforme e strumenti: poster, libri, siti web, video. Tutto ciò per alimentare il cambiamento culturale». C’è poi il fiore all’occhiello: si tratta di Microsoft Stories e del sito Microsoft Life. «Qui vengono condivise storie di clienti e dipendenti. L’obiettivo è contribuire a costruire una storia coerente», precisa Clayton. Un lavoro impegnativo perché l’utente è oggi immerso in una serie di stimoli virtuali. «Siamo in un mondo in cui la nostra attenzione è sempre più sotto attacco e dove il business è più complesso. Ma la narrazione resiste e intercetta interesse suscitando emozioni».
 

AVIO AERO L’immagine dell’azienda nell’ambiente digitale

YARI BOVALINO Chief Storytellel di Avio Aero

È il primo chief storyteller italiano. Viaggia spesso per raccontare al meglio Avio Aero, eccellenza italiana impegnata nella progettazione, produzione e manutenzione di sistemi propulsivi per l’aeronautica civile e militare, oggi appartenente al colosso General Electric Aviation. In Italia l’azienda conta 4.200 dipendenti tra Rivalta di Torino, Brindisi e Pomigliano d’Arco. «Da noi il chief storyteller è un comunicatore con elevate capacità giornalistiche e creative a caccia di contenuti editoriali sull’organizzazione. Le narrazioni che propone sono sfide industriali o tecnologiche raccontate dalle stesse persone che ne sono protagoniste», precisa Yari Bovalino. Una sintesi tra informazione, promozione, intrattenimento con un linguaggio comprensibile. «Le competenze digitali devono essere solide: occorre saper produrre un’immagine contemporanea dell’azienda per tutte le piattaforme».
 

UNIVERSITÀ DI PADOVA L’anima crossmediale della scienza

TELMO PIEVANI – Docente dell’università di Padova

All’università di Padova i comunicatori fanno dirette in live streaming su YouTube e Facebook. La prossima è prevista stasera in occasione della Notte Europea dei Ricercatori, nel palinsesto di Venetonight. Non è la prima volta. La redazione de “Il Bo Live”, giornale dell’Università di Padova, intervista ricercatori, studenti, docenti, cittadini: l’ateneo informa e dialoga, puntando sulla crossmedialità per raccontare la scienza. «È un esperimento per affrontare la sfida più difficile di questi giorni: selezionare le notizie, lavorando scientificamente e adottando linguaggi innovativi», afferma Telmo Pievani, direttore responsabile de Il Bo Live e ordinario di Filosofia delle scienze biologiche. La redazione è composta da 20 persone, tra cui 7 giornalisti. Alla redazione si aggiungono quattro persone per la grafica e il photoediting e tre webmaster.
 




Menti e corpi aumentati nell’epoca elettronica

AI CONFINI DELL’UMANITÀ 
Humachine. Dove ci porterà la simbiosi che sta avvenendo tra esseri umani e macchine

Quello che colpisce quando si visita la mostra “Real Body, oltre il corpo umano” – la nuova edizione ospitata nello Spazio Ventura XV, a Milano – non è solo il percorso tra corpi e organi umani, ma il fatto che ci sia anche una sezione di biomeccanica, che descrivere la simbiosi che si sta sviluppando tra esseri umani e macchine.
«Dalle stampanti 3D all’occhio bionico, dagli esoscheletri alla pelle artificiale fino alla hypercar elettrica guidata con sistemi neuronali realizzata dalla startup italiana Zava che riconosce le abilità e le emozioni del guidatore adattandosi ad esso, le macchine sono ora nei nostri corpi e nelle nostre menti e noi nella loro, e questo offusca il confine tra noi e i nostri servitori meccanici» premette Alex Pontini, ricercatore dell’Università di Padova e responsabile scientifico della sezione di biomeccanica della mostra .
L’anatomia del Ventunesimo secolo contempla dunque umani che si uniscono o assumono i poteri della macchina. Ma il fenomeno funziona anche dall’altra parte, macchine che assumono qualità che consideriamo umane. Prologo di un futuro di Humachine? Se come sembra le innovazioni tecnologiche ci permetteranno di “aumentare “ i nostri corpi e le nostre capacità umane, i confini dell’”umanità” sono tesi a sollevare seri interrogativi etici. Una tecnologia dirompente può infatti offrire un vantaggio imprevisto sugli altri. Cosa accadrebbe un domani se le persone iniziassero a desiderare, come oggi succede con la rinoplastica, nuovi muscoli o protesi cerebrali per diventare più veloci o più intelligenti? Alle disuguaglianze economiche e di genere andrebbero ad aggiungersi anche quelle biologiche? E poi c’è il grande capitolo dell’intelligenza artificiale, che secondo il filosofo Nick Bostrom potrebbe portare all’estinzione dell’Homo sapiens.
«L’idea della scienza che elimina la razza umana è uno scenario più legato alle nostre ossessioni che non a rischi reali – precisa Giorgio Metta, vicedirettore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova -. E l’uomo non diventerà vulnerabile fino a quando le macchine non potranno replicare il cervello umano», cosa che Metta ritiene non sia possibile, contrariamente a quanto sostengono i seguaci di Elon Musk e Singularity come Ray Kurzweil. «Il cervello non è computabile perché la coscienza umana è il risultato di interazioni imprevedibili e non lineari tra miliardi di cellule – spiega -. I nostri cervelli non funzionano in modo algoritmico e non sono macchine digitali». Eppure ci sono una serie di scienziati e filosofi che stanno studiando quali progressi tecnologici pongono “rischi esistenziali” e come sia possibile fermarli. Tra questi Huw Price, che dirige il Centro per lo studio del rischio esistenziale (Cser) all’Università di Cambridge e il fisico Max Tegmark del Mit cofondatore del Future of life institute (Fli). Ma l’intelligenza artificale può essere considerata al pari delle pandemie, della bomba nucleare o del riscaldamento globale? «Se ci atteniamo a quello che sappiamo fare oggi, non ci sono pericoli, perché l’Ai è un pezzetto dell’informatica: si programma la macchina affinchè sia in grado di trovare la soluzione in maniera autonoma rispetto al problema che mi sono posto – spiega Metta – Difficile capire come un “soggetto” di questo tipo possa acquisire capacità non note a chi le ha programmate o motivazioni per fare qualcosa di diverso da quello per cui è stato programmato.
Ciò che creiamo è comunque frutto di un intervento umano, quindi qualunque danno eventuale sarebbe imputabile all’uomo, nella programmazione o nell’addestramento sbagliato dell’Ai. Se costruisco un sistema che è fatto per guidare un’auto e poi lo stesso sistema lo uso dentro un missile, sono io che ho cambiato completamente prospettiva, non l’intelligenza artificiale». La tecnologia quindi è moralmente neutrale. E poi prima di poter fare previsioni sull’Ai è necessario capire come funzioniamo noi, come nascono le motivazioni e cosa sia la coscienza. Impresa lunga e complicata, «ne abbiamo per almeno 100 anni – conclude Metta – nell’arco dei quali abbiamo altri fattori che minacciano la nostra esistenza, sostenibilità in primis, dopodichè forse potremo porci il problema se l’intelligenza artificiale avrà il sopravvento su quella umana».




I brand e la tecnologia: attenti alla trappola del breve termine

Scenari. Parla Dagmara Szulce, managing director della International Advertising Association (IAA) Smart home e mercato africano tra le opportunità maggiori di crescita per le marche globali

Il brand deve evitare la trappola del breve termine e lavorare su strategie di lungo termine in cui il racconto del prodotto deve lasciare spazio allo storytelling e alla narrazione della componente emozionale della marca, di ciò che rappresenta, della sua essenza.
Ne è convinta Dagmara Szulce , da un anno managing director della International Advertising Association (IAA). L’associazione, presieduta dall’indiano Sundar K. Swami, ha in Italia come suo presidente Alberto Dal Sasso, conosciuto nel mondo della pubblicità nella sua veste di Ais managing director di Nielsen. IAA non è solo pubblicità. Anzi, spiega la managing director Szulce al Sole24Ore, punta ad assurgere al ruolo di «bussola globale per il mondo della comunicazione e del marketing».
Al suo interno ci sono aziende della comunicazione, ma anche chi si occupa di marketing nelle aziende e nei colossi multinazionali. Di questa associazione fanno parte anche Facebook e Google come Global corporate in Usa, il cui rapporto con il mondo della pubblicità oscilla fra chi considera i due player come partner e portatori di opportunità e chi invece li vede come il fumo negli occhi, portatori di una disintermediazione che può far male a molti in questa industry. «I brand – liquida la questione Dagmara Szulce – devono sicuramente prendere esempio dal rapporto che piattaforme come Google o Facebook riescono a instaurare con i propri utenti, in termini di engagement».
La IAA ha da poco annunciato il lancio del suo nuovo sito web: iaaglobal.org, visto come strumento per fornire informazioni complete su tutto ciò che accade in IAA a livello globale e anche nel campo della comunicazione di marketing. «Per quanto ci riguarda – dice – forniamo expertise ai brand che vogliono diventare globali o che lo sono già ma non riescono a comunicare come vorrebbero».
Tutti questo in un quadro di un mondo «in cui si sta ponendo la grande sfida delle tecnologie. La quale però può portare al risultato di concentrarsi eccessivamente sul breve termine, anziché puntare a risultati raggiungibili nel medio e lungo termine». Questo per la managing director dell’associazione arrivata al suo 80esimo anno di vita, è uno dei rischi maggiori in cui i brand possono imbattersi in questo momento. E sicuramente il pericolo da scongiurare. Szulce insiste molto sulla necessità di ragionare in maniera ampia. «I brand devono essere globali e devono essere forti. Devono comunicare emozioni e basare i propri messaggi su “verità” che siano le medesime in tutto il mondo».
Ma veicolare messaggi uguali può davvero essere maggiormente utile di una declinazione territoriale e culturale? «Se ti trovi in Nigeria e vuoi diventare un brand globale – replica la managing director di IAA – devi trovare una verità universale da comunicare.
Riferimento non casuale quello al mercato africano, che la manager di questa associazione con “vista sul mondo” ritiene la vera frontiera dello sviluppo per i brand. «Al momento– dice – non ci sono grandi marche africane, quindi il potenziale c’è, ma non è per nulla sviluppato». Se l’Africa è la terra dell’oro, l’ambito che nel futuro potrebbe riservare maggiori e migliori sorprese è quello delle «smart home. La crescita di questo segmento permetterà una comunicazione estremamente personalizzata, basata anche sulle abitudini di consumo. I brand potranno comprendere i consumatori avvicinandoli in un momento molto particolare, quando sono in casa».
Tutto però non può prescindere dalla costruzione di «esperienze che non si basino solo sulle qualità del prodotto, ma che comprendano tutta una serie di altre peculiarità». Lo fa ad esempio «Apple che ha costruito una sorta di religione, non ha più dei consumatori, ma dei seguaci che sono interessati a una filosofia. Hanno creato una connessione tra le persone e tra il brand e le persone». Brand safety e rispetto della privacy sono le frontiere regolatorie sulle quali misurarsi. Ma intanto, «con i dati a disposizione le possibilità di comunicazione diventano enormi».




Il primo computer quantistico progettato per applicazioni commerciali

Si chiama Q System One, l’ha svelato IBM al CES 2019.


In occasione del CES 2019, che si sta svolgendo in questi giorni a Las Vegas, IBM ha presentato Q System One, il primo computer quantisticoutilizzabile per applicazioni commerciali (ossia che può essere usato da ricercatori e sviluppatori).
Nel realizzarlo, IBM ha tenuto conto sia delle esigenze molto particolari che occorre tenere presente per realizzare un computer quantistico sia dell’estetica.
All’interno di un cubo di vetro a tenuta stagna c’è il cuore del sistema, che potrebbe tranquillamente passare per una sorta di candelabro d’arte moderna: un computer a 50 qubit il cui nucleo, per funzionare, deve essere tenuto alla temperatura costante di 10 milliKelvin (appena al di sopra dello zero assoluto) e al riparo dalle vibrazioni, pena la perdita delle informazioni custodite dai qubit.
La progettazione de cubo è stata affidata allo studio Goppion, di Milano, che l’ha costruito in collaborazione con il Map Project Office e lo Universal Design Studio, entrambe realtà britanniche.
Goppion è l’azienda che ha creato anche la teca che protegge la Gioconda al Louvre e quella che custodisce i Gioielli della Corona inglese a Londra.
Ma ciò che più interessa è la possibilità di adoperare per applicazioni concrete la capacità di calcolo del Q System One.
L’esemplare esposto a Las Vegas, per dire la verità, non è completamente funzionante ma l’obiettivo è mettere a disposizione le funzionalità del sistema tramite un accesso remoto, come accade con le tradizionali risorse dei sistemi di cloud computing.
Sviluppatori e ricercatori potranno quindi utilizzare le peculiari caratteristiche di un computer quantistico dalle proprie postazioni di lavoro.
Qui sotto, il video di presentazione.

IBM quantum




«Das brand»: così in tre anni Volkswagen ha spento il dieselgate

Martedì 6 ottobre 2015. A 15 giorni dallo scoppio dello scandalo sulle emissioni truccate dei motori Volkswagen, il ceo Matthias Müller incontra i 20mila dipendenti del marchio per disegnare il dopo-dieselgate. «Sarò molto chiaro, non sarà indolore. Farò di tutto per salvaguardare i vostri posti di lavoro». Poi il tono si fa cupo Müller pronuncia la frase con cui l’azienda tocca il punto più basso e da cui deve provare a ripartire: «Stiamo rivedendo tutti gli investimenti pianificati. Tutto ciò che non è di vitale importanza, sarà tagliato o rimandato». Con l’espressione «di vitale importanza», l’ex numero uno di Porsche chiamato a guidare l’azienda dopo lo scandalo, confessa che il dieselgate mette a rischio addirittura la sopravvivenza del colosso di Wolfsburg. Dallo scoppio dello scandalo sono passati solo15 giorni. Volkswagen, che pochi mesi prima ha compiuto un sorpasso storico su Toyota, conquistando la vetta della classifica mondiale dei produttori di automobili, rischia il fallimento per ammissione del suo amministratore delegato. Matthias Müller era sinceramente disorientato o stava già parlando secondo un piano scritto a tavolino dagli esperti di comunicazione che stavano gestendo la crisi del gruppo? Entrambe le cose.
 

Sbandata controllata sui social

Partiamo dalla coda. Il 17 settembre 2018, con un giorno di anticipo rispetto al terzo anniversario del dieselgate (18 settembre 2015) Volkswagen manda in pensione per sempre il Maggiolino, fissando la fine della produzione a luglio 2019.  Obiettivo dichiarato è snellire la gamma di prodotti per concentrarsi sulle nuove esigenze dei consumatori. L’ultimo tassello, in ordine di tempo, del grande mosaico disegnato per il rilancio dopo lo scandalo dieselgate, che ha portato alla nascita di nuovi marchi e alla (ri)scoperta di un’anima elettrica per tutto il Gruppo (si veda l’articolo in basso). Tassello che dimostra che Müller parlava e comunicava secondo un piano («Tutto ciò che non è di vitale importanza, sarà tagliato»). Un piano già scritto il 6 ottobre del 2015, a meno di un mese dallo scandalo.
In quegli stessi giorni, l’azienda reagiva anche sul fronte della comunicazione, controllando la sbandata che rischiava di portare l’immagine social del Gruppo verso un vicolo cieco. L’episodio più critico accade il 21 settembre 2015. Gli account americani Twitter e Facebook sono in silenzio dal giorno in cui l’Epa – l’agenzia per la protezione ambientale americana – ha reso noto lo scandalo. Ma quel giorno l’account globale di Vw compie un passo falso. Pubblica un post – probabilmente programmato, scappato quindi alla task force che in quel momento stava gestendo la crisi -dedicato all’IAA2015 fiera tedesca con respiro internazionale dedicata al mondo dei veicoli commerciali. Il post non fa alcun riferimento ai fatti di cronaca, appare sospeso in una bolla comunicativa, che viene però immediatamente fatta scoppiare dagli utenti del social. Anche in modo duro. I fan sfogavano la loro rabbia, sia nelle concessionarie, ma con eco ancora più vasta e potenzialmente devastante sui social. L’immagine del brand costruita in 70 anni di relazioni con i consumatori era a rischio sopravvivenza. Müller era stato sincero.
 

Le contromosse e gli evangelist

 Volkswagen corre ai ripari progettando la comunicazione come fosse un prodotto. Apre un sito dedicato (http://vwdieselinfo.com), ancora oggi online, che permette ai proprietari di auto del gruppo di conoscere se la loro auto è tra gli 11 milioni di veicoli coinvolti dal dieselgate. Apre una sezione Faq che aiuta a fare chiarezza tra i consumatori. Fino alla campagna di richiamo: un aggiornamento software gratuito che mette a norma l’auto «senza penalizzare le prestazioni». Quest’ultimo aspetto era quello più sentito dai consumatori, attenti più al prodotto che all’aspetto normativo-ambientale. Qualcuno dubitò, ma man mano che i motori venivano aggiornati si capì che l’operazione aveva effetti impercettibili per il conducente. I proprietari potevano continuare a guidare la loro macchina: soddisfatti, come era stato fino al 14 settembre 2015. Intanto, sui social iniziano a farsi sentire anche gli “evangelisti” del brand: clienti fedeli, magari da generazioni, che continuano ad affermare la bontà delle vetture del marchio.
 

Nuovo logo, vecchi prodotti

 Oggi l’ex capo di Volkswagen Martin Winterkorn rischia fino a 25 anni di carcere. Il Gruppo – che ha annunciato un imminente restyling del logo – si è rinnovato, è tornato a contendere la vetta della classifica mondiale dei costruttori, ha riportato gli utili sui livelli pre-scandalo. Il dieselgate si è allargato, ha coinvolto anche altri produttori, di fatto diluendo il suo impatto sui singoli brand. L’attenzione è tornata sui prodotti. E quelli del gruppo Volkswagen sono sempre più apprezzati. Lo dicono i dati.
«I consumatori sono pragmatici – ha dichiarato Ferdinand Dudenhoeffer, professore di economia aziendale e del mercato dell’automobile all’Università di Duisburg -. Per loro è molto più importante il valore del prodotto: se le macchine funzionano bene, i marchi forti possono sopportare parecchio». È così che Das auto è diventato Das brand. E ha riacceso il futuro.
 

Strategia giocata sul riposizionamento dei marchi

Il gruppo di Wolfsburg ha anche creato nuovi brand per la mobilità

Il gruppo Volkswagen è cambiato profondamente con il dieselgate. Negli ultimi tre anni sono stati, infatti, accelerati processi di riorganizzazione e di riposizionamento dei singoli marchi che compongono il colosso di Wolfsburg. E se è vero che le vendite non hanno subito a livello mondiale alcun impatto dallo scandalo, anzi sono cresciute da 10 milioni di unità del 2015 (in leggero calo rispetto all’anno prima) fino ai 10,8 milioni del 2017, altrettanto vero è che l’immagine del gruppo Vw e della marca principe dell’auto del popolo sono mutati radicalmente.
Il primo passo è stato il rafforzamento di Audi nell’area premium spingendo su frontiere tecnologiche come l’elettrificazione, la guida autonoma e l’intelligenza artificiale. Nel frattempo il gruppo ha portato avanti l’offensiva di prodotto di due brand importanti ma, a torto, considerati minori: Seat e Skoda, che hanno spinto sul fronte dei suv. Nel frattempo la marca principe è stata fatta arretrare leggermente, fino a un anno fa, quando è stato lanciato T-Roc, il suo primo suv compatto e aggiornata la gamma.
Tuttavia la mossa più importante dal punto di vista mediatico, di marketing e di prodotto è stata la creazione della gamma I.D.. Si tratta di una sorta di category brand dedicato alle sole auto elettriche. Al momento sono stati svelati solo una serie di prototipi ma la produzione di serie è vicina. Le vendite delle auto elettriche della marca di Wolfsburg inizieranno nel 2020. I.D rappresenta la terza era di Volkswagen dopo il maggiolino della fondazione e la Golf che nel 1974 salvò la casa dal fallimento facendola diventare il primo gruppo automobilistico mondiale in un duello con Toyota.
La reazione al dieselgate ha inoltre fatto nascere ex novo nuove linee di business e un marchio inedito. Si chiama Moia, è nato nel 2016 e non costruisce automobili, bensì progetta servizi di mobilità urbana, ride sharing, car sharing e soluzioni digitali per gli spostamenti urbani.
L’ultimo passo in ordine di tempo, sotto la guida del ceo Herbert Diess, è stata una profonda rioganizzazione. Il piano è creare supergruppi interni con poli premium e supermium che racchiudono marchi del tecnolusso come Audi e brand sportivi-luxury come Porsche, Lamborghini, Bugatti e Bentley. Ci sarà un polo dedicato ai marchi di massa come Vw, Seat, Cupra (neo nato brand in seno alla marca spagnola) e Skoda che raduna anche i veicoli commerciali leggeri e i servizi per la mobilità del futuro.
La marca Volkswagen sarà la portabandiera per l’elettrificazione di massa, mentre Audi e Porsche avranno il compito di creare vetture green con caratteristiche prestazionali. Il gruppo Volkswagen nei prossimi anni avrà tra pilastri a sostegno dello sviluppo: espansione in Cina, mercato principale del gigante tedesco, elettrificazione (per rispondere alla crisi del diesel creata da scelte “ambientaliste” di alcune città europee) con l’introduzione di nuovi modelli ibridi plug-in e 100% elettrici che arriveranno a pesare nel 2025 per il 10% delle vendite, mentre il terzo pilastro è costituito dalla tecnologia digitale per spingere su connettività, guida assistita e autonoma nonché servizi innovativi per la mobilità del futuro.
 

Tra le innovazioni la creazione della gamma I.D. dedicata ai veicoli 100% elettrici