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Deutsche Bank, ovvero l’etica protestante e lo spirito della truffa

Deutsche Bank, ovvero l’etica protestante e lo spirito della truffa

Caso Deutsche Bank, crisi finanziaria (che verrà?) e reputazione delle banche: alcune riflessioni su questo modello, che pare non essere così graniticamente etico e teutonicamente efficiente come i tedeschi ci hanno sempre raccontato…

 
Chissà come Karl Emil Maximilian Weber, sociologo e filosofo tedesco, avrebbe commentato certi scenari truci che hanno scosso negli ultimi anni il mondo del capitalismo tedesco.

Alcuni – recenti – precedenti

Potremmo parlare di Volkswagen, che con l’ormai tristemente celebre “DieselGate” ha tradito le aspettative di azionisti e risparmiatori truffando sulle emissioni nocive dei diesel delle proprie autovetture, presentandosi inoltre del tutto impreparata all’appuntamento con le giustizia, dal momento che da oltre un anno e mezzo i suoi vertici erano al corrente di un inchiesta della UE a carico dell’azienda ma nessuno, pare, aveva predisposto un crisis communication plan degno di questo nome, al punto che l’inettitudine dei vertici del colosso automobilistico di Wolfsburg è all’origine dell’evaporazione di circa un terzo della capitalizzazione di borsa dell’azienda; ma sarebbe come sparare sulla Croce Rossa.
Parliamo allora di un tema che è vicino a ogni famiglia borghese che si rispetti: le banche, che dovrebbero amministrare con la diligenza media del buon padre di famiglia (cit. dal Codice Grandi del 1942) i nostri risparmi.
Germania: sinonimo di affidabilità e di “cose fatte bene”; ma la morale è un’altra cosa. Come un disallineamento tra etica e vita d’impresa possa distruggere valore per un’azienda è cosa nota, illustrata in tutti i migliori testi di crisis management al mondo; ma si sa, i tedeschi no, loro non hanno bisogno di nessuno, e nulla devono imparare.

Deutsche Bank: gigante con i piedi di argilla?

Richiamiamo allora un esempio paradigmatico: Deutsche Bank, il colosso bancario, il simbolo stesso della solidità tedesca, il cui CdA si è riunito proprio ieri per varare un piano “lacrime e sangue” al fine di salvare una banca i cui fondamentali risultano da tempo significativamente compromessi (l’istituto di ricerca tedesco Zew ha già in passato calcolato che per poter reggere in una nuova situazione di generalizzata crisi finanziaria globale, Deutsche Bank avrebbe bisogno di rafforzare il suo capitale per circa 20 miliardi euro, rispetto ai valori attuali; è il gap più alto d’Europa nel mondo bancario tra situazione reale e situazione ottimale).
Deutsche oggi vale in borsa 11 miliardi di euro contro i 30 miliardi del non lontano 2015 (!). Perché? Come è stato bruciato tutto questo valore? È solo la sfortuna, che ha centrato un bersaglio nel movimentato scenario della crisi economica globale? A mio avviso no: è stata bulimia e avidità, condite con un pizzico di arroganza, supponenza e incompetenza; ricetta fatale, indigeribile anche per un istituto di credito di grande prestigio come Deutsche Bank.
Le sue strette interconnessioni con il sistema bancario e assicurativo teutonico e con i big della finanza globale fecero supporre che se la situazione fosse degenerata irrimediabilmente, sarebbe intervenuto il governo tedesco, sebbene i politici in verità hanno sempre smentito la volontà di varare un aiuto di Stato diretto verso il colosso bancario, anche a causa della vigilanza attenta e severa del watchdog Mario Draghi; fatto sta che già nel 2016 schizzarono verso l’alto i “Credit Default Swap”, le polizze con le quali gli investitori si assicurano contro il fallimento di un ente creditizio, mente il prezzo dei suoi bond convertibili, che sarebbero i primi a essere colpiti in caso di default o di pesante ristrutturazione, è rapidamente precipitato. Il segnale più preoccupante è stata però la decisione di dieci diversi hedge fund di ritirare la liquidità investita in Deutsche Bank, e ridurre conseguentemente la propria esposizione verso la banca tedesca.
In compenso alcune dismissioni succedutesi nel tempo (prima tra tutte la cessione della controllata assicurativa Abbey Life, che fruttò l’incasso di oltre 1 miliardo di Euro) hanno garantito un poco di ossigeno; che si trattasse però di pause effimere dall’apnea nella quale era sprofondata la Deutsche, è risultato chiaro quando il Dipartimento di Giustizia USA ha annunciato una possibile sanzione da 14 miliardi di dollari per comportamenti scorretti legati alla vendita spregiudicata di obbligazioni legate ai mutui subprime durante la crisi del 2008, multa negoziata poi dalla banca tedesca – pochi mesi dopo – a “soli” 7.2 miliardi, a fronte dei 5,5 miliardi di euro accantonati quell’anno da Deutsche per far fronte ad eventuali contenziosi.

DB “spacciatore” di titoli tossici?

Proprio su questi aspetti occorre soffermare la nostra attenzione: la disputa con il Tesoro USA è stata solo l’ultima di una serie di problematiche legate a comportamenti scorretti della banca e dei suoi manager, che sono già costati a Deutsche oltre 20 miliardi di dollari, tra perdite dirette e multe, ad esempio, per essere stata parte attiva in una serie di operazioni finanziarie che hanno consentito a società e miliardari russi di trasferire denaro all’estero aggirando le sanzioni emesse dall’Unione Europea contro Mosca per il conflitto in Ucraina.
Morale: miliardi di ricavi, tra l’altro sempre in crescita, “bruciati” da comportamenti discutibili: come scrivevo poc’anzi, avidità, arroganza, supponenza e incompetenza. Il peccato più grave per Deutsche è stato probabilmente quello dei derivati: titoli ad alto rischio, vere e proprie scommesse, con un grado di aleatorietà tanto alto da renderne difficile anche solo la quotazione. La banca tedesca avrebbe in pancia derivati ad alto rischio in grado di impattare negativamente sul proprio bilancio per circa 32 miliardi (stima assai ottimistica secondo alcuni analisi finanziari indipendenti, tra cui Alfonso Scarano), mentre pare che Deutsche Bank avrebbe emesso, per poi collocarli vendendoli a parti terze in giro per il mondo, derivati con un sottostante di complessivi 75.000 miliardi di euro: una somma pari a circa 20 volte il PIL della Germania, che conferma la fama del colosso tedesco come vero e proprio “spacciatore” sistemico di titoli tossici.In una corrispondenza tra lo stesso Scarano e il Presidente della BCE Mario Draghi, leggiamo: Dal punto di vista tecnico appare incomprensibile l’attuale discriminazione di trattamento tra la puntuale analisi dei rischi del credito commerciale da un lato e, dall’altro, la mancata puntuale analisi del rischio insito nei derivati finanziari in possesso delle banche”; Deutsche Bank aleggia sullo sfondo del “non detto” tra i due.
Inoltre, come ho già accennato, le fortissime ed estese interconnessioni che la banca tedesca ha in essere con tutte le altre principali banche e istituzioni finanziarie del mondo, ne fanno uno dei soggetti con il più elevato rischio sistemico al mondo, e in caso di bancarotta, le conseguenze per il sistema finanziario internazionale sarebbero devastanti: Allianz, Munich Re, Hannover Re, HSBC, Barclays, UBS, Credit Agricole, BNP Paribas e Unicredit sarebbero le prime società ad essere travolte da un eventuale terremoto con epicentro Berlino.

La – solita – ricetta

Soluzione? Innanzitutto, neanche a dirlo, licenziare: il Consiglio di Amministrazione riunito ieri ha deciso quindi drastici tagli, ovvero 18.000 dipendenti a casa, la creazione di una “bad bank” dentro la quale stivare tutta la spazzatura, dal momento che i bilanci sono attualmente così compromessi che anche l’annunciata possibile fusione con Commerzbank non si può realizzare. E poi, sempre al fine di “dimagrire”, uscita dal mercato USA, taglio della maggior parte delle attività in equity in Asia e nell’area Pacifico, forte ridimensionamento delle attività di Corporate e Investment Banking worldwide, e tagli dei top manager a capo delle business-unit principali. Nuovamente, macerie.
Ma queste misure straordinarie, prima tra tutte la cessione alla bad bank di circa 50 miliardi di titoli tossici, sarà sufficiente a far cambiare strada alla banca tedesca? In una nota di Credit Suisse riportata già qualche tempo fa da Il Fatto Quotidiano, la risposta parrebbe essere no. Gli analisti della banca svizzera hanno calcolato che se l’operazione di dimagrimento fatta nel 2012 dal gruppo tedesco era pari al 25% degli asset a rischio, questa volta toccherebbe solo il 10-15% di essi. La domanda allora sorge spontanea: quanti sono realmente i titoli tossici nella pancia di Deutsche? Stante le difficoltà di inquadramento e di calcolo relative a questi titoli, in realtà pare non vi sia una risposta esatta che possa confermarsi realmente affidabile.

Mercenari del XXI Secolo

Fine dei numeri, e lo scenario appare chiaro. Passiamo ora a una breve riflessione stimolata da questo preoccupante scenario. In una mia intervista pubblicata sull’Harvard Business Review l’economista Stefano Zamagni dichiarò: “Nell’ultimo quarto di secolo si è assistito ad un processo di crescente ‘managerializzazione’ delle imprese; cioè oggi le imprese sono guidate da managers e non più da imprenditori. Il manager – dice Zamagni – è una specie molto raffinata di ‘mercenario’. Nel Medioevo i mercenari combattevano per chi pagava meglio. Ora un manager, se qualcuno gli fa un’offerta vantaggiosa, abbandona quell’impresa e passa a un’altra; l’imprenditore no. Ferrero ha fondato la sua impresa, e la famiglia non passerà mai a un’altra impresa. Fino agli anni ’50 del secolo scorso c’erano più imprenditori e troppi pochi manager: allora si sono fatti investimenti nelle Business School, ma ora si è superato un limite, abbiamo troppi manager e troppo pochi veri imprenditori. Ecco allora la prima ragione: a un manager non interessa nulla di ciò che garantisce vantaggio competitivo nel medio lungo termine, perché lui tra ‘x’ anni – o magari mesi – non ci sarà più in quell’impresa”, conclude l’economista.
La spregiudicatezza dei top manager: ecco uno dei principali motivi per i quali la reputazione del sistema bancario è in crisi profonda, dal momento che come ha brillantemente ricordato Toni Muzi Falconi, “guru” delle Relazioni pubbliche in Italia e non solo, per certi analisti le banche “Hanno nel nostro paese una reputazione peggiore dell’ISIS”.
Il Reputation Institute dice che fino al 80% del valore di borsa di una grande azienda dipende da asset intangibili, e tra essi la reputazione è sicuramente il più “pesante”. La domanda provocatoria nasce spontanea: nel mondo bancario, cosa c’è di più “tangibile”, oggi come oggi, della reputazione? Orienta i comportamenti di acquisto e di risparmio, costruisce valore vero per gli azionisti, rafforza il brand, crea gli anticorpi per le crisi che rischiano di pregiudicare la business continuity degli istituti di credito.
Allora possiamo dire che il manager che non preserva la reputazione dell’impresa per la quale lavora, che spinge solo sui profitti per far contento chi aspetta il dividendo – pronto pure lui a mettersi la benda davanti agli occhi finché gli farà comodo e continuerà a incassare – è un manager traditore.
Ebbene: ai traditori, durante la guerra, si sparava, per giunta girati di spalle, e il mondo della finanza in particolare negli ultimi 10 anni ha preso le sembianze proprio di un campo di battaglia; forse allora è questa la fine che meritano molti top manager di grandi banche, stante il fatto che hanno – per sola avidità – generato macerie, disoccupazione, crisi, famiglie rovinate.
E basta con la “deresponsabilizzazione”: è sempre colpa del “sistema”, del “mercato”, di enti astratti, mentre invece ci sono dei nomi e cognomi, delle responsabilità oggettive, personali, degli individui che compiono scelte, che firmano documenti, che omettono azioni che sarebbero opportune, oppure che non agiscono (anche) per il bene generale, e che – non sapendo o non volendo badare alla propria stessa reputazione nel medio-lungo periodo, convinti di non dover rendere conto a nessuno e di poter sempre in ultima istanza “aggiustare le cose” – creano poi distruzione diffusa: a queste persone, demolitrici di reputazione e di valore, qualcuno prima o poi dovrebbe chiedere conto, mentre il plotone di esecuzione carica i fucili.
 
Ultimo edit: 08/07/2019, h. 12.10




20 piccole cose che possiamo imparare dal Catalogo IKEA 2019

20 piccole cose che possiamo imparare dal Catalogo IKEA 2019

Aspettando il catalogo IKEA 2020, ho recuperato un pezzo scritto qualche tempo fa.

Ho iniziato a leggere il catalogo IKEA negli ultimi anni, e mai ne ho letto uno così bello come quello del 2019. Una scrittura agile, godibile, così reale e concreta. Racconta la nostra vita quotidiana, e lo fa con grande naturalezza. Non c’è una sbavatura, non una forzatura: una lettura che vale più di qualsiasi manuale di copywriting, una guida etnografica su come sono cambiati i nostri spazi casalinghi.

1. Addio suddivisioni per cucina, zona giorno, camera da letto, bambini, bagni e ufficio. Il nuovo format è molto semplice: hanno pensato a sette case, dal monolocale minuscolo all’appartamento ecosostenibile. E ci fanno entrare a scoprirle come se fossimo graditi ospiti.

2. I testi ci parlano non dei mobili o degli oggetti, ma di cosa possiamo fare con loro intorno. L’isola in cucina è il punto di incontro per chiacchierare mentre si è ai fornelli, ed è così piacevole questo ambiente che è impossibile rimanere a corto di argomenti. Le parole ci proiettano nelle situazioni più comuni e quotidiane, ci ricordano quanto sia importante apprezzare i piccoli momenti.

3. E ancora, l’accogliente divano al centro regala a mamma e figlia irrinunciabili momenti tutti per loro. I mobili IKEA sono complici delle nostre relazioni famigliari, sono compagni del giorno e della notte, ci affezioniamo a loro perché diventano custodi della nostra tranquillità. È la nostra personalità che li trasforma, non il contrario: non sono più gli oggetti che ci definiscono, ma noi che definiamo loro.

4. Ci racconta qualcosa che non vediamo. Il testo non è didascalico, ma va oltre. Ci parla di qualcosa che è nascosto e non ce lo mostra, giustamente. Ce lo fa immaginare con una descrizione esatta, precisa e allo stesso tempo ammiccante.

5. Accettare che la casa non sia “deliberatamente finita” ci porta a vivere meglio e più serenamente la vita quotidiana. Così in casa, come nella vita. Dobbiamo accettare che è tutto in trasformazione, in cambiamento, in miglioramento. È un divenire che deve divertirci, non metterci ansia. Sono testi che ci aiutano a capire che la flessibilità aiuta a vivere meglio. La casa è viva, e cresce con noi.

6. I bambini! Nel catalogo ci sono tantissimi bambini, anche di poche settimane. Sono loro le persone più preziose al mondo, dalla nascita al momento in cui metteranno tutto in discussione.

7. Un unico spazio, una soluzione per tutti. Ogni componente della famiglia ha una propria esigenza, di spazio e di tempo, e questo IKEA lo sa bene. Convivere significa lasciare la libertà a ciascuno di essere se stessi, senza compromessi o malumori, il ché a volte passa da spazi condividi, altre volte da spazi personali. Non ci sono scuse per non andare d’amore e d’accordo.

8. Spesso associamo IKEA al minimalismo: linee simmetriche, pochi pezzi giusti, funzionalità. Qualcosa, in questo catalogo, cambia. Lo noterete subito, sfogliandolo. Sono tutte case vissute, a volte disordinate, sicuramente non da museo. Sono rappresentate così come potremmo trovarle andando a trovare un amico senza tanto preavviso e cerimonie. Tra i mobili in vendita, ci sono oggetti, ricordi, sogni.

9. Una postilla sul sonno. Mica si parla di quanto sia figo il nuovo materasso a molle, no no. Si parla di quanto sia diventato un lusso raro e prezioso dormire bene. Sedici ore dopo il consueto risveglio è il momento giusto per andare a dormire. Inizia a rallentare un paio d’ore prima, evitando di lavorare e di stare davanti agli schermi. Il testo è un inno al sonno e al benessere. Chapeau.

10. Questo catalogo è anche un buon testo di educazione civica. Perché anche i bambini possano contribuire alla racconta differenziata.

11. Mettersi comodi ad ascoltare i racconti dei tuoi bambini. Come, in una breve passaggio, sia possibile racchiudere tanta poesia e dolcezza. Ve lo state immaginando, quel momento? E non è forse un’immagine stupenda quella che si crea nella mente di noi lettori?

12. I romanzi gialli in alto. Non libri. Romanzi in giallo. Il testo è specifico, autentico. Disinvolto. Genuino.

13. IKEA prende posizione. E la prende in uno dei passaggio più belli del catalogo. A pagina 63 ci parla di questa generazione nata da pochi anni: “una generazione che non crede nei muri, comunque”. Trump, ci sei? Più sotto, continua: “un giorno ricorderà con tenerezza i momenti in cui aveva paura dei mostri sotto il letto. Ma nel frattempo, i suoi amici peluche e una rassicurante lampada possono aiutare a vincere la paura di dormire da soli“.

14. Siamo noi, eccoci. Davanti alla televisione. Stravaccati sul divano. Davanti alla televisione e stravaccati sul divano con il cellulare in mano.

15. I dettagli, i dettagli prima di tutto. Uno spazio lo racconto dal micro al macro, dal cappello a cilindro comprato al mercatino delle pulci all’appendiabito IKEA. E sono proprio i dettagli che ci parlano di chi abita la casa; ci facciamo una chiara idea di chi sono, cosa amano, come vivono.

16. Nella botte piccola c’è il buon vino. Qualsiasi sia la superficie della vostra casa, chissenefrega, perché da IKEA l’unica misura che conta è il metro cubo. Si ribalta la percezione, un po’ come Esselunga con i suoi prezzi corti, anziché bassi.

17. Non ci sono solo famiglie bellissime, creativi con i capelli lunghi e cani (tanti cani). Ci sono anche le signore più anziane (ed estrose). Ed è davvero divertente notare questa trasversalità, che abbraccia tutti, senza alcuna distinzione, come è giusto che sia. Ah, il buon senso.

18. Nostalgia canaglia. Ci sono grandi ritorni quest’anno, perché non tutto ciò che è del passato è da buttare. Alcuni pezzi tornano dopo decine e decine di anni, come la poltrona qui sotto testata e approvata per la vita moderna.

19. Il mondo nascosto degli adolescenti. Che rivendicano la loro identità, proteggono la loro privacy, e non rinunciano ad aprire le porte agli amici del cuore.

20. La Settimana Enigmistica. Venti orizzontale, cinque lettere: BRAVI.




Sostenibilità. Aeroporti europei: accordo per zero emissioni entro il 2050

Sostenibilità. Aeroporti europei: accordo per zero emissioni entro il 2050

Zero Co2 entro il 2050. È il programma ambientalista messo in atto da Aci Europe, l’Associazione dei gestori aeroportuali europei, nel corso del 29° Congresso Annuale e Assemblea Generale tenutisi a Cipro, annunciando ufficialmente la Risoluzione NetZero2050, con cui appunto l’industria aeroportuale europea si impegna a raggiungere un livello di emissioni nette di CO2 pari a zero, al più tardi entro il 2050. La risoluzione è stata sottoscritta, ad oggi, da 194 aeroporti di 24 Paesi europei, con il supporto anche di diverse Associazioni nazionali dei gestori aeroportuali europei. Sulla base degli attuali volumi di traffico negli aeroporti europei, si stima che questo impegno porterà ad eliminare, nel 2050, 3.46 milioni di tonnellate di emissioni annue di Co2.

Per l’Italia, la risoluzione, supportata direttamente anche da Assaeroporti – l’Associazione italiana dei gestori aeroportuali – ha già
visto l’adesione di: Adb (Aeroporto di Bologna), Adr (Aeroporti di Roma Fiumicino e Ciampino), Gesac (Aeroporto di Napoli), Gesap (Aeroporto di Palermo), Sacbo (Aeroporto di Milano Bergamo), Sagat (Aeroporto di Torino), Save (Aeroporto di Venezia) e Sea (Aeroporti di Milano Linate e Malpensa).

«Sono diversi infatti gli interventi già realizzati dai nostri aeroporti in tema di sostenibilità ambientale: è aumentato l’utilizzo di energia derivante da fonti rinnovabili – Valentina Lener di Assaeroporti – sono stati realizzati all’interno dei sedimi impianti fotovoltaici e centrali di cogenerazione o trigenerazione». Diversi aeroporti italiani, infatti, hanno già ottenuto la certificazione internazionale “Airport Carbon Accreditation” ed ora, con la sottoscrizione della risoluzione NetZero2050 «l’intero sistema aeroportuale – aggiunge -si pone un obiettivo ancor più sfidante come quello di raggiungere un livello di emissioni nette di Co2 pari a zero, al più tardi entro il 2050».




Eidoo sponsor di Diversity Media Awards 2019

Eidoo sponsor di Diversity Media Awards 2019

Eidoo è tra gli sponsor di Diversity Media Awards 2019, l’iniziativa ideata e promossa dalla no-profit Diversity fondata da Francesca Vecchioni.

Natale Ferrara, founder di Eidoo, ha spiegato così questa decisione:

“Le crypto sono nate per eliminare le diversità tra i popoli e le barriere territoriali e linguistiche, così abbiamo voluto sostenere questo evento perché in linea con gli obiettivi del settore delle criptovalute che, inoltre, grazie anche a Diversity potrebbe così diventare sempre più mainstream”.


Giunto alla quarta edizione, l’evento valorizza i temi della diversità nell’informazione e nell’intrattenimento anche grazie ad una collaborazione di Diversity con l’Osservatorio di Pavia, istituto di ricerca indipendente specializzato nell’analisi dei media.
Ha spiegato Vecchioni:

“Chi fa comunicazione ha una grandissima responsabilità perché contribuisce a costruire il nostro immaginario collettivo. Saper rappresentare e dar voce a tutte le persone serve a ridurre la distanza tra noi e gli altri ed è il presupposto essenziale per la crescita e il benessere di tutta la società. Una rappresentazione inclusiva, non solo rispetta la reale composizione sociale, ma fa emergere le differenze promuovendo la conoscenza e contribuendo così a ridurre i pregiudizi”. 

Insieme a Eidoo sono partner e sponsor di questa edizione di Diversity Media Awards anche Google, Carrefour, Jack Daniel’s, Lierac, YAM 112003, Esther Burton e Carpeneta.
I Diversity Media Awards 2019 saranno consegnati nel corso di uno show che si terrà il prossimo 28 maggio a Milano presso l’Alcatraz. L’evento sarà condotto dallo showman RAI Fabio Canino, anche direttore artistico, e Melissa Greta Marchetto.
Come ha spiegato Thomas Bertani, CEO di Eidoo,

“Abbiamo deciso di aderire immediatamente alla richiesta di sostegno di Diversity: la diversità è un valore assoluto e prezioso sia in natura che nel mondo della tecnologia, un settore fortemente competitivo dove i fattori di differenziazione diventano elementi sostanziali per vincere queste sfide: i Diversity Media Awards sono a nostro avviso un contesto straordinario per ribadire con forza questi concetti”.




Le iniziative dei brand per i Gay Pride 2019 hanno avuto un solo leit motiv: celebrare l'inclusione

Le iniziative dei brand per i Gay Pride 2019 hanno avuto un solo leit motiv: celebrare l'inclusione

Quali sono state e qual è stato lo spirito delle iniziative dei brand per i Gay Pride 2019? Da H&M a Instagram, le trovate più creative.

Quasi il 75% degli acquisti della comunità LGTBQ+ sarebbe influenzato da quanto e in che modo le aziende si dimostrano sensibili al tema e ne supportano concretamente i membri. Un dato come questo spiega perché, nel tempo, si sia sviluppata una sorta di gay economy la cui manifestazione più evidente sono, forse, collezioni ed edizioni speciali pensate per occasioni come il giugno dei Pride (manifestazioni che ogni anno mettono sotto i riflettori i diritti di gay, lesbiche, trans, queer). Bastano, però, versioni arcobaleno dei propri prodotti cult perché le aziende possano dirsi davvero gay-friendly? Le iniziative dei brand per i Gay Pride 2019 sembrano suggerire qualcosa a proposito.

COSÌ IL MONDO DELLA MODA OMAGGIA DIRITTI E RIVENDICAZIONI DELLA COMMUNITY LGTBQ+

Sono stati soprattutto i brand di moda che hanno deciso di celebrare, quest’anno, i cinquant’anni dalle prime rivendicazioni della community LGTBQ+ al Green Village di New York. Non è certo casuale: se abiti e accessori sono sempre acquisti simbolici, la comunità omosessuale ha spesso fatto proprio della moda e dei suoi prodotti una chiara dichiarazione d’intenti, trovando in capi e nuance veri e propri elementi di riconoscimento. Da fast fashion e apparel ai brand di lusso, così, le iniziative dei brand per i Gay Pride 2019 hanno giocato proprio su questo piano. H&M, per esempio, ha reso disponibile online e in store per tutto il mese di giugno una capsule collection ispirata alla bandiera arcobaleno simbolo delle rivendicazioni LGTBQ: “Love for all” è il nome della collezione che comprende felpe, t-shirt e accessori unisex.

Anche Converse ha fatto un’operazione simile con “Show Your Pride”. Chiunque voglia comprare online o in negozio le iconiche Chuck Taylor ne troverà per tutto il mese versioni speciali, anche in questo caso ispirate alla bandiera arcobaleno della comunità LGTBQ+ che è finita dritta anche su magliette, cappellini, underwear del brand. Per la prima volta quest’anno, però, Converse ha reso omaggio soprattutto alla comunità trans scegliendo il rosa, l’azzurro e il bianco della sua bandiera per customizzare alcuni modelli della collezione ispirata ai Pride.

show your pride converse gay pride 2019

Parte della collezione che Converse ha dedicato ai Gay Pride 2019.

Tra gli altri brand sportivi, anche Adidas e Nike hanno rilasciato versioni speciali, con dettagli arcobaleno, dei propri prodotti di punta per celebrare quest’anniversario importante per la comunità gay: sono prodotti come le classiche Adilette, in vendita ora con una fascia arcobaleno, o le Air Max 720 che si colorano con sfumature dal rosso al rosa.

iniziative dei brand per i pride 2019 adidas

Le Adilette in versione arcobaleno fanno parte della collezione speciale dedicata da Adidas ai Pride 2019.

iniziative dei brand per i pride 2019 nike

Per celebrare i cinquant’anni delle rivendicazioni LGTBQ+, Nike ha lavorato con la Gilbert Baker Estate. Il risultato è la collezione 2019 BETRUE, di cui fanno parte anche una versione speciale delle Air Max 720 con tomaia dai colori della Pride Flag.

Sempre dal mondo della moda viene una collezione come quella di Diesel fatta di t-shirt, pantaloncini, giubbotti che non solo hanno dettagli in arcobaleno ma, soprattutto, rileggono in chiave Pride anche una delle tagline classiche del brand (per questa edizione limitata, infatti, la tradizionale scritta “Denim Division” è stata sostituita su alcuni capi proprio da “Pride“).

Anche Levi’s ha voluto omaggiare il giugno dei Pride con una collezione speciale che strizza l’occhio a una certa estetica degli anni Settanta.

Gap, invece, sembra aver puntato più su una campagna di comunicazione e su commercial dal forte impatto emotivo per celebrare il mese dei Pride che non su collezioni speciali o edizioni limitate dei propri prodotti: “Chosen Family” è il titolo della serie di spot che ha per protagoniste vere famiglie non convenzionali e le loro vite.

INIZIATIVE DEI BRAND PER I GAY PRIDE 2019: IL MONDO DEL BEAUTY

Anche se si guarda al mondo di bellezza e benessere non sono mancate le iniziative dei brand per i Gay Pride 2019. Mac, per esempio, ha supportato e non solo economicamente oltre venti manifestazioni in città diverse.

Sephora invece ha messo in commercio una edizione speciale di uno dei suoi lipstick di punta, donato parte del ricavato della vendite ad associazioni che si occupano di supporto alla comunità LGTBQ+, coinvolto il proprio team in workshop dedicati ai temi dell’inclusione e, soprattutto, organizzato in alcuni punti vendita delle lezioni di “Bold Beauty” dedicate a transgender e non-binary people che possano trovare nel trucco e nella cosmetica un modo per esprimere pienamente se stessi.
iniziative dei brand per i pride 2019 sephora
Niente di molto diverso dal messaggio che Gillette prova a dare, ormai da tempo, con la campagna “It takes a real man” che, ultima in ordine di tempo, ha visto anche la partecipazione della drag queen Rubén Errebeene.
Dal lipgloss di Marc Jacob dedicato ai Pride 2019 alle proposte ecologiche e amiche dell’ambiente di un brand giovane come YTTP, non è secondario che anche da un settore fortemente gendered come la cosmetica venga un segnale di supporto a forme diverse di sessualità, che è, poi, anche un segnale di apertura verso bisogni di mercato nuovi.

DA IKEA A STARBUCKS: GRANDI AZIENDE, GRANDI INIZIATIVE CONTRO L’OMO-TRANSFOBIA

Se Ikea ha distribuito a degli influencer una versione speciale, in arcobaleno ovviamente, dell’iconica busta blu e celebrato il Pride 2019 con la campagna #FateloACasaVostra, anche il brand Starbucks sembra essersi dato al merchandising con una versione speciale e riutilizzabile del suo bicchiere, ovviamente in arcobaleno e con le scritte “orgoglio”, “amore” e “diversità”, disponibile prima nei punti vendita americani e canadesi e poi nel resto del mondo al prezzo di circa 17 dollari.

iniziative dei brand per i pride 2019 Starbuck's

Neanche Starburcks ha rinunciato al merchandising arcobaleno per celebrare il Gay Pride 2019, ma non è l’unica iniziativa del brand.

Il brand ha voluto offrire, comunque, un #ExtraShotofPride (questo l’hashtag scelto da Starbucks per la campagna), alla propria community Instagram raccontando le storie normali di dipendenti coinvolti in storie d’amore con persone dello stesso sesso o membri attivi della comunità LGTBQ+.

La catena, del resto, è tra quelle che più investono in programmi di CSR proprio a favore della questione gay: da tempo sostiene, infatti, associazioni che danno supporto anche legale a vittime di omo-transfobia e, più recentemente, avrebbe destinato dei fondi a copertura dell’assistenza sanitaria per gli interventi di riassegnazione del sesso.

PERCHÉ UN BRAND HA BISOGNO DI PIANI DI INCLUSIONE CHE TENGANO CONTO ANCHE DELL’ORIENTAMENTO SESSUALE DEI DIPENDENTI

Ad accomunare la maggior parte delle iniziative dei brand per i Gay Pride del 2019, del resto, è proprio un certo (auspicabile) impatto sociale. Che sia stato nella forma di donazioni dirette, di partnership finalizzate a obiettivi specifici – come quello di una migliore inclusione degli atleti LGTBQ+ nel mondo dello sport a cui punta, per esempio, la collaborazione di Puma con associazioni e realtà internazionali che operano in questa direzione – o di campagne di crowdfunding, aziende e brand hanno provato a sostenere nel concreto e nel quotidiano le realtà omo-transessuali. Tra l’altro lo hanno fatto spesso per ovviare alle critiche che negli scorsi anni erano piovute su versioni speciali, collezioni arcobaleno e altre forme di merchandising ispirate al Pride, considerate dalla stessa community LGTBQ+ come un mero tentativo di sfruttare economicamente e per il proprio tornaconto un proprio simbolo identitario.
La maggiore sensibilità al tema, comunque, ha portato le aziende ad avere all’attivo non solo iniziative di corporate social responsibility ma, anche e soprattutto, programmi interni che mirano all’inclusione e alla valorizzazione di sessualità altre: bagni e spogliatoi senza separazioni per genere, la possibilità di utilizzare anche per la firma e nelle email il pronome che si preferisce, registri familiari che non tengono conto solo dei matrimoni tradizionali ma anche di altre forme di unioni di coppia sono tra le misure che i brand hanno intrapreso per migliorare la soddisfazione dei propri dipendenti, quando non si sono dotate di un vero e proprio diversity team con l’obiettivo di migliorare l’ambiente di lavoro e il benessere delle persone al suo interno.

COSÌ I BIG DEL DIGITALE SI DIMOSTRANO SENSIBILI ALLA CAUSA LGTBQ+

Per tornare comunque a come brand e aziende hanno deciso di celebrare i cinquant’anni di rivendicazioni LGTBQ+, non può certo sfuggire il commitment dei big del digitale. Google, per esempio, ha disegnato un Doodle che ripercorreva la storia delle rivendicazioni della comunità gay, lesbica, trans e queer a partire proprio dalle prime rivolte al Green Village. In collaborazione con LGTB Community Center, poi, a Mountain View hanno partecipato alla costruzione di Stonewall Forever, un monumento «vivente al Pride» (così lo hanno chiamato direttamente da Google) alla cui costruzione hanno contribuito le voci dei primi attivisti gay, materiali e documenti storici digitalizzati, un documentario di Ro Haber e che è visitabile sia online, attraverso un’esperienza immersiva, sia fisicamente e con l’aiuto della realtà aumentata nel caso ci si trovi a New York. Parola d’ordine: non dimenticare.

Che è lo stesso spirito, tra l’altro, con cui Instagram ha realizzato diverse installazioni in giro per New York dedicate ad attivisti e veterani LGTBQ+ non molto conosciuti e lanciato un hashtag#UntoldPride, da utilizzare per rendere virali le loro storie anche sui social.
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Per tutto il mese di giugno, tra l’altro, utilizzando gli hashtag più popolari legati alla causa – come #loveislove#pride2019 o semplicemente #lgtbq – si colora di arcobaleno il cerchio che nel profilo dell’utente indica la presenza di nuove storie, non ancora viste. La piattaforma starebbe rinnovando, tra l’altro, le sue policy per quanto riguarda le informazioni personali da indicare all’iscrizione, prevedendo opzioni personalizzate per quanto riguarda il sesso e che sfuggono alla logica binaria del maschio o femmina.

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Anche il “cerchio” delle Storie di Instagram si tinge di arcobaleno se si utilizzano hashtag come #loveislove o #pride2019, a supporto della causa LGTBQ+.

Anche Netflix ha voluto celebrare il mese dei Pride con quel pizzico di ironia e quei toni giocosi che, da qualche tempo, caratterizzano il suo stile di comunicazione, online soprattutto. Voce narrante del video per il Gay Pride 2019 è infatti Spadino, uno dei protagonisti di “Suburra”, che gioca di doppi sensi e ambiguità con il termine “lobby”: mentre si susseguono immagini di altri protagonisti di serie e prodotti Netflix famosi e molto amati proprio in virtù della loro sessualità diversa, infatti, si delineano i contorni di una lobby che, se ha qualche elemento distintivo, è quello di essere «la più colorata» e l’unica «lobby esclusiva in cui c’è posto per tutti».

AZIENDE E GAY PRIDE IN ITALIA

Solo piccoli gesti simbolici? Non si direbbe, soprattutto in un tempo in cui prendere posizione è diventato un imperativo a cui nessuno può sottrarsi. Lo evidenziano bene due iniziative dei brand per i Gay Pride 2019 come quelle di Barilla e Protect & Gamble. Che c’entrano una storica azienda di pasta e una multinazionale di beni di largo consumo con i diritti LGTBQ+? Il dubbio è legittimo ma, se la prima ha deciso di sostenere la manifestazione milanese e la seconda di sfilare al Roma Pride 2019 una ragione c’è e ha a che vedere, appunto, con messaggi valoriali e simbolici che l’azienda è desiderosa di veicolare. Nel caso di Barilla si tratta di continuare a svecchiare la propria immagine, di affrancarla dall’idea di famiglia tradizionale e di renderla più d’appeal per consumatori giovani e che vivono in maniera decisamente più fluida affetti e relazioni personali, come ha già provato a fare del resto la collezione co-disegnata con il brand di urban wear GCDS.
P&G Italia ha sfilato, invece, a Roma al grido di “We see equal” in omaggio a valori come l’inclusione e la valorizzazione delle differenze che da sempre fanno parte non solo di storia, mission e cultura aziendale ma anche dei programmi di employment e di welfare aziendale.
Non erano, comunque, gli unici brand presenti e protagonisti dei Pride italiani: da Skipper con il suo succo «senza pregiudizi aggiunti», a Deliveroo che ha cambiato temporaneamente logo e lettering in «Deloveroo» lasciando che la parola amorefosse colorata di arcobaleno, passando per Jack Daniel’s che, oltre a un cocktail speciale dedicato ai Pride, ha customizzato la fermata della metropolitana di Lima a Milano con una piccola operazione di ambient marketing che ricordava l’importanza di vivere la propria vita in maniera «più libera», molte aziende hanno voluto dare il proprio sostegno alla comunità LGTBQ+ italiana.