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Gli italiani non sono mai stati così intolleranti online

Gli italiani non sono mai stati così intolleranti online

La mappa pubblicata dall’Osservatorio Vox descrive un paese incattivito, leggermente meno omofobo ma più razzista e antisemita. E la responsabilità, nel bene o nel male, è della politica


L’Italia sul web odia di più e con un linguaggio più estremo, esasperato dalla politica per fini elettorali, ma le leggi influiscono positivamente sulle pratiche dell’intolleranza online. Questo, in sintesi, il quadro offerto dalla quarta edizione della Mappa dell’Intolleranza, il rapporto annuale elaborato da Voxl’Osservatorio italiano dei diritti, in collaborazione con l’università Statale di Milano, la Sapienza di Roma, l’università di Bari e il dipartimento di sociologia dell’università Cattolica di Milano.
Il progetto, modellato sull’esempio della Hate Map della Humboldt State University of California, è andato avanti per 4 mesi e ha riguardato una produzione di oltre 200mila tweet, con l’obiettivo di isolare le principali categorie oggetto di discorsi d’odio e mappare le città maggiormente sensibili all’esasperazione del dibattito sui social network, così da creare uno strumento potenzialmente utile alle amministrazioni locali. Ci sono delle buone e delle cattive notizie, ma il punto di partenza è quello comune a molte analisi di questo tipo: l’Italia del 2019 è un paese più spaventato e incattivito.

Il peso della politica

Le (poche) buone notizie, innanzitutto: delle sei categorie di hate speech prese in considerazione dai curatori, una mostra i segnali di un leggero miglioramento. Si tratta dell’omotransfobia, un fenomeno che nell’ultimo anno ha riguardato 187 casi denunciati – e dunque un numero ben lontano dalla stima reale – in Italia e che i ricercatori hanno riscontrato in circa 7800 messaggi dei quasi 12mila riferiti alla comunità Lgbt+.
Secondo gli autori della mappa, le ragioni della flessione sarebbero riconducibili alla legge Cirinnà e all’influenza che la sua approvazione ha generato nel dibattito pubblico, una conseguenza diretta della buona politica che però fa il paio con gli effetti negativi di discorsi contrari alle unioni civili. “Le persone omosessuali sono le meno colpite dall’intolleranza via Twitter”, spiega l’Osservatorio Vox, “ma l’odio cresce quando scoppiano polemiche sulle famiglie arcobaleno e in occasione di appuntamenti controversi come il Congresso sulla Famiglia di Verona”. Il picco dei messaggi d’odio sul tema si registra infatti nella giornata del 23 marzo, nei giorni caldi delle polemiche sulla partecipazione del leader della Lega Matteo Salvini al Congresso di Verona.

La politica ha dunque il potere di agire sulla percezione di un tema – e indirettamente sulla vita delle minoranze – non solo con l’attività legislativa, ma anche e soprattutto con l’impostazione dell’agenda e con dichiarazioni pubbliche. Non a caso in cima alla classifica dell’odio online si piazza la xenofobia, con quasi un terzo dei messaggi d’odio complessivi e un’impennata del 15% rispetto al 2018, cui va a sommarsi l’ulteriore 15%dei tweet islamofobici (+7% rispetto al 2018). In entrambi i casi, tra le città più intolleranti spicca Milano, ma i messaggi che associano l’Islam al terrorismo sono particolarmente concentrati anche a Bologna, Torino e Venezia.

Le altre categorie sensibili

Anche quest’anno la lista delle categorie più odiate contiene le donne. Rispetto al 2018, la misoginia è in aumento dell’1,8% e si rileva tanto al nord quanto al sud, con Milano e Napoli capitali dell’intolleranza di genere. Nell’anno che ha prodotto un caso di femminicidio ogni 72 ore, la violenza verbale sui social network si è scatenata prevalentemente in concomitanza con i principali fatti di cronaca, ma tra i picchi ritroviamo anche le giornate tra il 20 e il 25 marzo, che gli autori della mappa riconducono al dibattito provocato dalle dichiarazioni di Matteo Salvini sull’utero in affitto.
Cresce anche l’odio nei confronti delle persone affette da disabilità – 17mila tweet, l’11% del totale – ma a preoccupare maggiormente è l’esplosione dell’antisemitismo, pressoché assente nelle scorse rilevazioni e che oggi si concentra soprattutto a Roma. Dei 20mila tweet estratti, il 76% ha un contenuto negativo che di nutre spesso e volentieri di stereotipi e fake newsTra i picchi l’osservatorio Vox registra quello del 27 marzo 2019, il giorno del tweet in cui Giorgia Meloni definì George Soros “un usuraio




Mascolinità tossica: quando il concetto di virilità fa male agli uomini

La mascolinità tossica è un costrutto sociale che danneggia l’uomo, descrivendolo come violento, non emotivo, sessualmente aggressivo, lazzarone e così via.

La mascolinità tossica è un nuovo modo di definire l’aspettativa nei confronti della virilità, o meglio, dello stereotipo maschile che ormai nutre da anni l’immaginario nostrano e non solo.
Spesso si parla della pressione che noi donne subiamo dai media e dalla cultura, ma altrettanta pressione ricevono i maschi che si vedono sempre descritti in modo ovvio: gli uomini sono quelli che non devono chiedere mai.
Siamo immersi e immerse in una cultura patriarcale che da sempre ha descritto le donne come asservite e assertive e il maschio come forte, dominante, quello che comanda, quello che lavora e porta a casa la pagnotta.
La mascolinità tossica è lo stereotipo della virilità: lui è quello che decide, l‘uomo nella stanza dei bottoni, quello su cui pesano oneri e onori, quello con le palle, insomma. La virilità come fattore dominante e di dominio, direttamente connesso al possesso. Intendiamoci: essere quelli che comandano rispetto a essere quelle a cui viene stampato il cognome dell’altro sulla scheda elettorale a molti fa comodo e ci sguazzano, del resto stare dalla parte di quelli che hanno sempre ragione a prescindere non deve essere poi tanto male.
Sta di fatto che anche loro, gli uomini, comunque, si trovano a dover sempre aderire a un modello, meno inarrivabile di quello femminile che ci vuole sempre giovani/belle/disponibili/assoggettate/pronte a sorridere esteticamente attraenti e a disposizione – ma comunque un modello mascolino che prevede irruenza e competitività, padronato e padronanza; nel loro immaginario spesso sono maschi ruspanti sulle ruspe, che scacciano non si sa che terribile nemico per tenersi le proprie femmine al focolare. Birra ghiacciata, rutto libero, e guai a parlare di sentimenti.

Virilità maschile: creiamone una nuova

Questo tipo di descrizione di virilità maschile ha tolto agli uomini la virilità emotiva, il diritto alla fragilità, alla gentilezza, alla sensibilità. L’empatia.
Mi è capitato di leggere dei meme ironici che dicono che gli uomini così esistono e si chiamano gay. Ora: non trovate tutto questo un attimo castrante?
Quanta ansia da prestazione mette il dover sempre aderire a quel modello? E ancora: quanto state facendo a cazzotti con una realtà che vede le vostre mogli/fidanzate/compagne altrettanto preparate carrieriste e giustamente capaci di rivendicare i loro ruoli e i loro spazi? Quanto vi disorienta?
Il ruolo maschile si sta ridefinendo non con qualche difficoltà: un dato per tutti – i femminicidi in continuo aumento sono un elemento a mio avviso chiaro, una cassa di risonanza di come molti non accettino il nuovo assetto femminile. L’incapacità di accettare l’indipendenza della compagna, il suo saper vivere senza un LUI al fianco.
Le donne si sono riscoperte, ridescritte, si stanno rivalutando e rimettendo in gioco.
Gli uomini arrancano dietro una visione di sé che non riescono a dare. Si vedono spodestare dal loro ruolo comodo e privilegiato, ma allo stesso tempo nessuno (o pochi) si sono presi la briga di dire loro: potete prendervi la libertà di essere anche altro.
Maschio non è solo quello del cielodurismo: maschio è un sacco di altre cose empatiche, responsabili, partecipate e partecipanti, belle e altrettanto gratificanti. Certo: tocca alzare il culo dal divano e fare fatica a metà con noi.
Il macho che rientra dopo il lavoro stanco e si mette in panciolle sul divano non ha diritti prioritari rispetto alla compagna che rientra a casa ed è stanca tanto quanto lui.
Quindi come si sentono gli uomini a cui chiediamo equità di diritti fuori e dentro le mura domestiche? Meno macho ma decisamente più uomo, nel senso alto del termine. Prendetevi la libertà di entrare più in contatto coi vostri sentimenti e sentitevi liberi di parlarne. Potreste scoprire che non è così male. E non c’è nulla di debole, di sconveniente o di sbagliato.

Gillette e la mascolinità tossica disinnescata

La comunicazione ancora fatica ad accettare una nuova narrativa del maschile, ma ci sono marchi dedicati prettamente a un target maschile che più che un posizionamento hanno scelto una posizione: quella di dire agli uomini che possono essere diversi. Migliori. E che è necessaria una nuova descrizione di cosa sia un uomo.
Gillette quella dei rasoi e degli spot ultra mascolini con super atleti tartarugatissimi che si radevano, quelli de “il meglio di un uomo” – hanno deciso di narrare in modo differente che cosa significa per loro il meglio di uomo. E sono scelte decisamente condivisibili.
Nello spot di lancio della nuova strategia, Gillet narra di uomini che non sono bulli che non hanno paura della loro sensibilità e della loro fragilità. Della loro capacità di dialogare, di comprendere, di confrontarsi civilmente. Perché quello che facciamo oggi sarà visto (e vissuto) dagli uomini di domani. Quindi basta nascondersi dietro alla scusante “sono ragazzate” o “sono maschi”. Gillette ha deciso di narrare un nuovo “Il meglio die un uomo” andando oltre.

Se tanto questo spot aveva fatto discutere – e soprattutto arrabbiare – gli uomini dalla cultura patriarcale – quelli che la sera rientrano nella grotta con la loro brava clava, Gillette è andata ancora oltre, facendo uscire uno spot che parla della prima rasatura di un ragazzo che ha fatto la transizione passando da donna a uomo.
Un video commovente, postato da Samson Bonkeabantu Brown, il protagonista, che mostra come il padre gli stia dando i consigli giusti per la sua prima volta col rasoio.
Epico. Immenso. Fuori ogni misura. Straordinario. Il ragazzo spiega che la sua transazione non riguarda solo se stesso, ma tutte le persone che gli sono attorno e che si è chiesto spesso che tipo di uomo volesse essere. La risposta che si è dato è che desidera essere una persona felice.
Tra le cose bellissime del video c’è il padre che gli dice “non aver paura. Lo stai facendo bene” perché in un certo senso la rasatura è una questione di fiducia in se stessi. È uno spot che emoziona tantissimo:

Questa è stata una presa di posizione storica che ha diviso il pubblico di Gillette.
In gergo si dice che ha polarizzato il target: una decisione importante da parte del brand che preferisce schierarsi in modo aperto e chiaro anziché restare su una descrizione della mascolinità che passa per una visione di virilità maschile vecchio stampo. E pace se non piace ai maschilisti: Gillette ha deciso di fare volentieri a meno di loro. Quelli non sono i veri uomini.
Ci vuole coraggio. E visione.
Voi cosa ne pensate? Il modo che hanno i media di raccontarvi, il modo che ha la società di dire come dovete essere non vi sta ormai stretta? Non trovate che strida anche rispetto al ruolo della donna?




La sostenibilità light e il rischio della vittoria di Pirro

La sostenibilità light e il rischio della vittoria di Pirro

Adesso che è al centro del dibattito pubblico, di quello politico, delle strategie delle imprese la sostenibilità rischia di diventare un concetto diluito

Caro Davide, anche io ho il mio però. Ho letto con grande interesse il commento che Davide Dal Maso ha riservato al mio pezzo apparso qualche giorno fa sul Corriere, nel quale, per farla breve, invocavo un approccio più radicale al tema della sostenibilità. Nella sostanza e nello spirito condivido quasi tutte le cose che scrive Davide. Dopo aver inutilmente cercato singoli punti del suo commento che non sottoscriverei, ho capito che l’unica cosa che forse ci divide è lo sfondo contro il quale proponiamo le nostre riflessioni. Coloro che negli anni hanno sostenuto una dura battaglia, chi in forma più evangelica, chi in forma più militante, per mettere la sostenibilità al centro del dibattito e forse della coscienza collettiva possono oggi dire di aver quasi vinto la loro partita. Questa secondo me è la notizia degli ultimi mesi, ed è una notizia meravigliosa. Chi c’era può godersi il successo, chi, come me, non c’era, può solo fare i complimenti. Ma proprio qui nasce il problema.

Adesso che la sostenibilità è al centro del dibattito pubblico, di quello politico, delle strategie delle imprese e delle intenzioni dichiarate degli investitori, qual è la giusta direzione del nostro impegno? Qual è l’agenda di chi ci crede veramente? Ecco, io credo che l’agenda sia radicalmente cambiata negli ultimi dodici mesi. Prima le parole erano advocacy, sensibilizzazione, presa di coscienza, inclusione, dimostrazione. Oggi a mio parere sono invece integrità e pregnanza del concetto e delle intenzioni. Non perché a me, che credo profondamente alla sostenibilità dentro il mercato, dia particolarmente fastidio che qualcuno approfitti della sostenibilità per fare dei soldi con green o impact-washing, ma perché se non preserviamo l’integrità della parola e del concetto ne perderemo presto la vera forza trasformativa sulla società e questo non possiamo proprio permettercelo. Presto, qualunque cosa passerà sotto questo cielo verrà aggettivata come responsabile, inclusiva, sostenibile, a impatto. Il risultato sarà diluire il senso delle parole fino a renderle inutili.

A questo punto, l’aver messo la sostenibilità al centro del dibattito si trasformerà da trionfo a vittoria di Pirro e a festeggiare saranno quelli che intravedono nella narrativa della sostenibilità-light una potentissima arma di conservazione dello status-quo. Il mio punto è semplice Davide: nel primo tempo della partita ti avrei dato ragione su tutto, ma adesso siamo all’inizio del secondo tempo e dobbiamo porci delle domande nuove, cosa che peraltro tu sai meglio di me. Ed è per questo che se fino a ieri era giusto essere tolleranti e inclusivi, oggi diventa invece importante essere settari e financo divisivi. Fino a ieri, qualunque sforzo, piccolo o grande, profondo o superficiale, vero o falso, genuino o strumentale, doveva essere accolto nella grande famiglia della sostenibilità e della responsabilità sociale d’impresa, perché l’obiettivo era creare massa, numeri, consenso. Ma adesso che si è innescata inarrestabile, per fortuna, una dinamica di arrembaggio al carro della sostenibilità, mi chiedo se sia ancora giusto essere tolleranti e inclusivi e continuare ad accontentarci di qualunque cosa abbia tracce di verde o di buono. Non è forse meglio essere un po’ analitici e fare dei distinguo, sulla base del fatto che accogliere sul carro non è a costo zero, perché ogni abusivo si porta via un pezzo del potenziale trasformativo? E allora sì, lo confesso, in questa nuova agenda io credo che la Csr di maniera non debba trovare più posto: io credo che il bilancio sociale, quando è solo un esercizio rendicontativo, sia non solo inutile ma anche dannoso e come tale vada trattato.

Un budget di impatto, invece, sarò il primo a celebrarlo, perché credo che il posto giusto dove cercare la responsabilità sociale d’impresa sia il piano industriale e non il bilancio consuntivo. Se non è nel piano industriale è un esercizietto, non trovo parole migliori per giustificare l’uso del diminutivo che tanta irritazione ha creato. Perché tanta foga nel sostenere questo? Che fastidio mi da la sostenibilità-light, marginale e rendicontativa? Provo con un esempio in casa mia. La gran parte delle Università italiane sta per fortuna sostituendo il consumo di bottiglie di plastica con fontanelle e borracce e ovviamente iscrive questo nelle proprie politiche di sostenibilità. Anzi, in qualche caso, identifica in questo, o in iniziative simili, l’intera propria politica per la sostenibilità. Sono scontento della sostituzione? Al contrario, lo trovo sacrosanto. Penso che sia uno sforzo troppo piccolo per essere significativo? Proprio no, anzi, nessuno sforzo è troppo piccolo di fronte a un problema così drammatico. Il problema è che tutto ciò si trasforma in una catastrofe se l’intera nozione di sostenibilità di un Ateneo collassa su questo, se tutte le buone intenzioni trovano soddisfazione nelle fontanelle e non invece in una ristrutturazione dei piani didattici, nell’istituzione di centri di competenza, in un ridisegno della terza missione che tenga conto delle grandi sfide che abbiamo davanti. Questa è la natura della sfida, caro Davide, ed è per questo che mi permetto non di ridicolizzare, ma di provare a dare i nomi giusti alle cose.

Questa è la ragione della mia diffidenza verso la sostenibilità-light, verso la Csr di maniera, verso la finanza sostenibile buona per tutte le stagioni. Mi sembra del tutto evidente che ci sono molte imprese che fanno cose straordinarie con la loro Csr e anzi alcune che hanno reso la Csr quasi indistinguibile dal loro comportamento strategico, ma ve ne sono anche molte altre che invece fanno cose del tutto inutili e opportunistiche. Mi sembra un’eterogeneità del tutto normale in una fase di transizione e francamente in questo senso mi sembrano anacronistiche alcune reazioni un po’ corporative che il mio pezzo ha suscitato, e non mi riferisco qui al commento di Davide. Mi sembrava di averlo espresso chiaramente nel mio pezzo, non ho alcuna difficoltà ad attribuire impatto virtuoso e positivo a qualunque genuino sforzo nella direzione della sostenibilità, anche se non rispetta la triade intenzionalità-misurabilità-addizionalità cui mi rifaccio fin troppo ossessivamente. A due condizioni. La prima è che si diano i nomi giusti alle cose giuste. La seconda è che si tenga ben a mente che la dimensione dei problemi che abbiamo di fronte, non solo ambientali o climatici, è bene ricordarlo, ma anche di diseguaglianza sociale, è tale per cui l’imperativo per tutti è solo uno: difendere la potenza trasformativa dell’idea di un mondo più sostenibile. Mi permetto quindi di suggerire che la strada per fare ciò, per imprese e investitori, sia mettere al centro le soluzioni, non le pratiche. Ma non credo proprio che questo ci sia bisogno di spiegarlo agli amici di Avanzi.




Dove sta andando internet?

Dove sta andando Internet?

Maggiori contenuti visivi, più privacy e il pericolo della radicalizzazione online. Nel suo Internet Trends 2019, l’analista finanziaria Mary Meeker pubblica la sua radiografia dell’anno che è stato sul web


Maggiori contenuti visivi, più privacy e il pericolo della radicalizzazione online, ma anche una corsa sfrenata all’acquisto di pubblicità che potrebbe aver raggiunto il suo picco fisiologico. Per il ventiquattresimo anno di fila la leggendaria analista e investitrice Mary Meeker ha sintetizzato le principali tendenze di internet in Internet Trends 2019, il rapporto più atteso dagli appassionati di dinamiche digitali e dagli imprenditori del web, un vero e proprio Stato dell’unione che la rockstar degli analisti finanziari ha illustrato nel corso della conferenza di Vox Media e che rappresenta il documento essenziale per capire in che direzione si stia muovendo la rete.

Internet in cifre

I numeri, innanzitutto. Per la prima volta nella storia dell’umanità, più di metà della popolazione mondiale ha accesso a internet, con una penetrazione complessiva del 51%, in crescita di due punti rispetto al 2017 e più che raddoppiata negli ultimi 10 anni. La geografia delle connessioni risente delle profonde diseguaglianze economiche e sociali a livello globale e ciò fa sì che buona parte della popolazione digitale arrivi dall’Asia (51%), mentre il Nord America, pur rappresentando appena il 9% del mercato complessivo, garantisca una copertura internet all’89% della popolazione (lo stesso dato, in Africa, è fermo al 32%).
Aumenta la quantità media di tempo che gli americani trascorrono su internet (6,3 ore al giorno nel 2018) e di pari passo sale la percezione della paura di dipendenza dal web, ma gran parte della presenza digitale avviene tramite mobile, che per la prima volta nella storia supera il mezzo televisivo per tempo di utilizzo.
Internet, insomma, è un medium più popolare e più utilizzato rispetto a un anno fa, ma il suo trend di crescita è in costante rallentamento. Sta diventando sempre più difficile trovare nuovi utenti e ampliare il tasso di penetrazione sul territorio – e in questo senso assume rinnovata centralità l’idea di un’agenda digitale transnazionale e di un welfare basato anche sulle infrastrutture internet – e al contempo calano le vendite di smartphone, per molti l’unico punto d’accesso online.
Ciò non impedisce comunque ai colossi del tech di crescere a ritmi vertiginosi: tra le prime 10 compagnie al mondo per capitalizzazione, appena 3 non fanno della tecnologia il proprio core business – Berkshire Hathaway, Visa e Johnson & Johnson – mentre le altre 7 hanno una capitalizzazione di mercato dal 46% al 266% più alta rispetto a tre anni fa.
Tra le prime 25 aziende tecnologiche degli Stati Uniti, sottolinea inoltre il report, il 60% è stato fondato da immigrati di prima o seconda generazione, che nel solo 2018 hanno dato lavoro a 1,9 milioni persone.

Come usiamo internet

Nel suo rapporto, Mary Meeker sottolinea le maggiori tendenze rilevate nel 2018 e prova a tracciare una previsione realistica per il futuro di internet. Una parte significativa dei contenuti scambiati online è composta da immagini, di cui gli utenti sono al tempo stesso fruitori e creatori. La tendenza è in corso già da qualche anno, ma reti più veloci e fotocamere di qualità migliore stanno accelerando tale dinamica, che ha finito per soppiantare l’utilizzo del testo scritto persino in un medium prettamente testuale come Twitter, che tra le sue impression oggi conta più del 50% di contenuti visivi.
Questo stadio dell’evoluzione di internet va prevedibilmente a premiare Instagram, che nel 2018 cresce più di tutti, aumentando i suoi utenti giornalieri del 6% e staccando di poco YouTube, che pur facendo molto bene incrementa la sua platea del 5%. L’ultimo anno ha visto raddoppiare i fruitori di video brevi – Instagram Stories, Facebook Stories, WhatsApp Status – e aumentare significativamente gli ascoltatori di podcast, che oggi sono arrivati a toccare i 70 milioni ogni mese, ma il trend più futuribile in assoluto sembra essere quello relativo al gaming.

Mary Meeker, venture capitalist e tra i principali analisti di internet (foto: Tony Avelar/Bloomberg via Getty Images)

Gli utenti che utilizzano internet per praticare sport elettronici – in maniera più o meno amatoriale – sono quasi 2 miliardi e mezzo, il 6% in più del 2017, e le esperienze di gioco interattivo e multiplayer stanno diventando dei veri e propri social network per i più giovani, che secondo un sondaggio di Survey Monkey utilizzano Fortnite anche per stabilire relazioni online (nel 44% dei casi). Altrettanto interessante è il successo di Twitch, la piattaforma di streaming video dedicata principalmente ai giochi elettronici, che in due anni ha più che raddoppiato spettatore e ore di contenuti prodotti.
Continua a crescere stabilmente il settore dell’e-commerce, che segna un incremento del 12,4% a fronte del +2% registrato dai punti vendita fisici, rappresentando oggi il 15% del fatturato complessivo derivante dalle vendite al dettaglio negli Stati Uniti. Nonostante gli sforzi delle piattaforme per semplificare l’esperienza di compravendita e gli investimenti in pubblicità, le ragioni che spingono i consumatori ad abbonarsi ai servizi di shopping online sono ancora prettamente di natura personale e il 23% degli utenti viene convinto grazie al passaparola. Ad ogni modo, il 59% delle transazione giornaliere avviene oggi tramite pagamento digitale.

Le sfide del futuro

Un capitolo importante dell’evoluzione di internet è quello dedicato alla privacy e ai contenuti potenzialmente problematici. Nel primo trimestre del 2019, l’87% del traffico web è risultato crittografato, un dato parziale ma che appena tre anni fa si assestava poco sopra il 50%. Secondo Meeketer, questo sarebbe il segnale di un’esigenza diffusa di privacy, collegata ai recenti scandali riguardanti la gestione dei dati da parte delle grandi piattaforme e che oggi i giganti del tech stanno provando a intercettare, almeno nelle dichiarazioni pubbliche.
Altro tasto dolente è quello della radicalizzazione e polarizzazione del confronto online. I contenuti pubblicati diventeranno sempre meno gestibili, grazie all’accelerazione dei fenomeni della viralità e la difficoltà nella loro rimozione. Rispetto all’anno precedente, Facebook ha aumentato i suoi sforzi per rimuovere contenuti problematici, mentre YouTube ha fatto peggio del 2017, diventando il luogo preferito per la proliferazione della propaganda suprematista. In questo quadro, il 42% degli adolescenti americani ha subito offese online, il 32% è venuto a contatto con voci diffamatorie e il 16% ha subito minacce fisiche.
L’ultima – ma non la meno importante – sfida per il futuro di internet è quella dell’advertising e interessa soprattutto piccoli e grandi imprenditori digitali. Sempre più persone utilizzano il web per farsi pubblicità, nella maggior parte dei casi veicolata tramite mobile, e le piattaforme sperimentano metodi via via più efficaci per renderla fruttuosa. Il numero degli spazi acquistati è destinato a crescere ancora, ma si sta avvicinando il momento in cui l’attuale strategia di marketing, troppo costosa e sempre meno remunerativa (anche per via delle nuove norme del Gdpr), non converrà più alle piattaforme. Il futuro, prevede Meeker, è il periodo prova gratuito, che nel corso del 2018 ha fatto la fortuna delle principali piattaforme di streaming.




LO SHARP POWER E IL RITORNO DEI REGIMI AUTORITARI

LO SHARP POWER E IL RITORNO DEI REGIMI AUTORITARI

I cambiamenti geopolitici, che hanno interessato l’Europa e gli Stati Uniti nell’ultimo decennio, evidenziano la profonda crisi attraversata dalle democrazie liberali e l’emergere dell’autoritarismo. Come ha sottolineato lo storico e politologo statunitense Robert Kagan, sarebbe in realtà più corretto parlare del riemergere dell’autoritarismo, dal momento che i regimi autoritari hanno sempre rappresentato la più grande minaccia al liberalismo, sin dalla nascita dell’idea liberale.

Oggi l’autoritarismo, che si credeva debellato per sempre, ritorna come forza geopolitica a livello mondiale, grazie ad attori quali Russia e Cina, alfieri di un modello illiberale che trova estimatori anche all’estero. La recessione democratica sperimentata recentemente da Ungheria, Turchia e Filippine, Paesi dove le prospettive democratiche sembravano decisamente allettanti fino a qualche anno fa, testimonia da un lato come il modello della leadership autocratica stia prendendo decisamente piede, dall’altro come le democrazie vengono attaccate a livello di idee e principi.

Il ritorno dell’autoritarismo è stato accompagnato da una netta presa di posizione ideologica che riprende temi cari alla millenaria critica al liberalismo, proprio in un momento in cui il mondo liberale sta soffrendo la sua più grande crisi di fiducia dagli anni Trenta. Il neo-autoritarismo di Mosca e Pechino è armato di nuovi mezzi di controllo e di disgregazione sociale, inimmaginabili fino a qualche anno fa, che, avvalendosi di tutti gli strumenti del nuovo universo dei media digitali, rafforzano il dominio autoritario in patria e raggiungono il cuore delle società liberali all’estero per indebolirle dall’interno.

L’applicazione calcolata di metodi non lineari, come l’uso della disinformazione, per attaccare un avversario creando divisioni interne a un Paese, ossia la strategia di Prometeo, resa popolare dal famoso statista polacco Józef Piłsudski nei primi del Novecento, viene aggiornata alla luce della teoria Gerasimov. Valery Gerasimov, Capo di Stato Maggiore delle forze armate russe e teorico dell’omonima dottrina, applicata nella guerra della Russia in Ucraina e in Siria, sottolinea come “il ruolo degli strumenti non-militari nel conseguimento di obiettivi strategici politici e militari sia cresciuto e, in molti casi, questi strumenti abbiano superato il potere delle armi in quanto ad efficacia”.

In altre parole una campagna di dezinformatsiya, volta a screditare il governo di un determinato Paese, e/o un attacco cyber a un’istituzione finanziaria, possono creare effetti destabilizzanti superiori a quelli conseguibili con metodi di guerra convenzionale. La capacità, per certi versi inaspettata, dei regimi autoritari di attuare la censura a livello digitale e di esercitare influenza all’estero ha reso necessaria la creazione di nuovi termini capaci di descrivere adeguatamente questa nuova situazione.

Centrale nella strategia d’attacco dei regimi autoritari al mondo liberale è il concetto di sharp power, parola relativamente recente nata in antitesi al soft power, che aveva caratterizzato la politica mondiale nell’arco temporale compreso tra la fine della Guerra Fredda e l’attentato alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001.

Con l’espressione sharp power, intendiamo un approccio agli affari internazionali che comporta tipicamente tentativi di censura o l’uso di manipolazione per indebolire l’integrità di istituzioni indipendenti. Come affermato nel report stilato nel dicembre 2017 dal Forum internazionale per gli studi democratici del National Endowment for Democracy che ha coniato questo termine, la parola sharp (in italiano “tagliente”) è stata scelta espressamente per sottolineare come questo potere (power) cerchi di “perforare, penetrare gli ambienti politici e informativi dei paesi presi di mira“.

Un esempio recente di sharp power è l’ingerenza del Cremlino nelle elezioni straniere, con l’obiettivo di indebolire la credibilità dei regimi democratici. Negli ultimi dieci anni, gli Stati Uniti e le democrazie europee sono stati soggetti a interferenze sempre più sofisticate da parte russa. Mosca sfrutta i conflitti esistenti all’interno di queste società per aumentare la polarizzazione ed erodere il consenso democratico. Concentrandosi sulle elezioni, il Cremlino cerca di minare le norme democratiche di base.

L’interferenza del Cremlino nei processi elettorali all’estero è un fenomeno sul quale è opportuno spendere qualche ulteriore parola prima di occuparci di altri settori in cui lo sharp power esercita la sua influenza. L’ingerenza elettorale del Cremlino consiste di dieci metodi chiave (disinformation, political advertising, sentiment amplification, identity falsification, hack-and-leak operations, reconnaissance hacking, infrastructure attacks, elite co-optation, party or campaign financing, extreme intervention) che rientrano in quattro macro categorie di interferenze: 1) manipolazione delle informazioni, 2) interruzione informatica, 3) political grooming, 4) intervento estremo.

Non esiste un modello universale per le operazioni di ingerenza russe, ogni caso è diverso e comporta una combinazione unica di metodi basati sugli obiettivi del Cremlino e sul contesto e le vulnerabilità specifiche del Paese di destinazione e/o del processo elettorale. Molti di questi metodi si sovrappongono e si completano a vicenda. Ad esempio, le campagne di influenza dei social media coinvolgono generalmente sia la disinformazione sia l’amplificazione di certe affermazioni (sentiment amplification) su temi divisivi (immigrazione, etc), a volte combinata con la pubblicità politica (political advertising).

L’interferenza elettorale russa è un gioco di lungo corso: molti di questi metodi sono usati, in varia misura, ben prima delle elezioni e si intensificano durante le campagne elettorali. Gli sforzi di influenza sono diventati nell’ultimo decennio una caratteristica costante del nostro panorama politico. La guerra di disinformazione del Cremlino contro l’Europa non mostra segni di rallentamento e le notizie sugli attacchi informatici sono sempre più frequenti.

Tale strategia manipolativa deriva dal concetto sovietico di Aktivnie Meropriyatiya (Misure Attive): un lento processo di sovversione ideologica e guerra psicologica il cui obiettivo di medio-lungo periodo è modificare la percezione della realtà da parte di un soggetto per indurlo ad agire in modo tale che a trarne beneficio sia il suo avversario. Gli sforzi di influenza attuati dal Cremlino in questi anni sono solo un sofisticato aggiornamento all’era digitale di questa vecchia strategia.

Chi volesse approfondire questi temi con dei casi relativi a Brexit, Presidenziali americane del 2016 ed elezioni politiche italiane del 2018 può consultare questo link

L’ambito di applicazione dello sharp power va al di là della politica e investe anche il settore cosiddetto CAMP (Culture, Academics, Media, Publishing) dispiegando i suoi effetti anche sulle sfere della cultura, dell’università, dei media e del mondo editoriale.

Christopher Walker, vicepresidente per gli studi e le analisi del National Endowment for Democracy, ha sottolineato come “gli effetti corrosivi dello sharp power sono sempre più evidenti nelle sfere della cultura, del mondo accademico, dei media e dell’editoria, settori cruciali per determinare in che modo i cittadini delle democrazie comprendono il mondo che li circonda. L’assalto dello sharp power sia alla politica sia al regno delle idee rappresenta una minaccia critica per i sistemi democratici. Lo sharp power può essere usato per degradare l’integrità delle istituzioni indipendenti attraverso la manipolazione, come quando le entità cinesi che agiscono per conto dello stato-partito comunista mascherano le loro iniziative come iniziative commerciali o iniziative di base della società civile”.

Un caso da manuale di sharp power nel settore dei media è quello verificatosi in Australia 5 anni fa. Nell’aprile 2014, la sezione internazionale della Australian Broadcasting Corporation (ABC) annunciò un accordo di grande successo con lo Shanghai Media Group, una conglomerata sostenuta dalla Repubblica popolare cinese (RPC). Alcuni osservatori accolsero con favore l’accordo sottolineando come questa intesa avrebbe potuto fornire all’ABC un maggiore accesso al pubblico cinese, cosa mai successa prima a un emittente occidentale. L’amministratore delegato della ABC, Mark Scott, salutò l’accordo con grande entusiasmo affermando che era nato un nuovo mondo della televisione e della cooperazione online tra Australia e Cina.

In realtà l’intesa si rivelò l’esatto contrario di quanto auspicato da molti. Chi in altri termini sperava che l’ingresso dell’ABC nel mercato dei media in mandarino costituisse un primo step del regime di Pechino verso un modello di informazione pluralista dovette constatare quanto ingannevole fosse il patto sottoscritto dagli australiani con la controparte cinese. L’accordo conteneva infatti una grave limitazione all’integrità giornalistica dell’emittente australiana finanziata dai contribuenti: la direzione della ABC aveva accettato di eliminare le notizie e gli argomenti di attualità sgraditi a Pechino dal rispettato servizio in lingua mandarina ABC, sia in Australia sia all’estero. Le autorità cinesi erano riuscite a imbavagliare un’importante voce indipendente dei media australiani.

Un episodio simile, in ambito accademico, ha invece visto protagonisti l’Università di Cambridge e la Russia di Putin. Nel 2014, la Cambridge University Press (CUP) si rifiutò di pubblicare il libro di Karen Dawisha Putin’s Kleptocracy: Who Owns Russia?, un saggio in cui la studiosa americana ricostruiva meticolosamente le origini post-sovietiche dell’attuale regime russo, temendo cause per diffamazione, specie nelle corti britanniche. Il libro venne poi dato alle stampe dall’editore Simon & Schuster, ma non prima che la Dawisha scrivesse una lettera aperta alla Cambridge University Press denunciando quelli che lei definiva “roghi preventivi di libri per la paura di un’azione legale”. 

Un preoccupante tentativo di intimidazione, questa volta da parte cinese, si è verificato in Italia qualche settimana fa e ha visto coinvolti Giulia Pompili, giornalista del quotidiano Il Foglio, e Yang Han, funzionario dell’ambasciata cinese in Italia. Venerdì 22 marzo, al Quirinale, durante l’incontro tra il presidente cinese Xi Jinping e il presidente della Repubblica Sergio Mattarella, la Pompili è stata avvicinata dal capo dell’ufficio stampa della sede diplomatica cinese a Roma che le ha intimato di “smettere di parlare male della Cina”. Tutto questo avveniva mentre il presidente Mattarella chiedeva al suo omologo Xi Jinping garanzie sul rispetto dei diritti umani. Il gravissimo episodio non fa che confermare l’approccio cinese al mondo dell’informazione e della cultura. 

Christopher Walker nel suo paper What is “Sharp Power”? ha inoltre messo in evidenza come la mission della fitta rete mondiale degli Istituti Confucio, con cui collaborano molte università europee, statunitensi, africane ed asiatiche, vada ben al di là dell’insegnamento del Confucianesimo e della lingua cinese. “Le autorità cinesi descrivono gli Istituti di Confucio come simili all’Alliance Française francese o al Goethe-Institut tedesco, che ricevono finanziamenti governativi per fornire lezioni di lingua e cultura. Tuttavia, a differenza di quelle organizzazioni indipendenti, gli Istituti Confucio sono integrati nelle istituzioni educative. Inoltre, impiegano personale che a volte ha cercato di impedire alle università ospitanti di tenere discussioni su argomenti delicati come Taiwan o il Tibet ”.

La sfida allo sharp power di Mosca e Pechino è una sfida globale di grande momento. Una sfida a cui il mondo occidentale deve fornire una risposta forte e proattiva, pena l’agonia stessa del mondo libero.