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Real Time Marketing. Una lettura che invita all’ascolto.

Real Time Marketing. Una lettura che invita all’ascolto.

Nel 1976, comparvero alcuni manifesti molto particolari in metropolitana, a livello dei mezzanini, dove si aspetta l’arrivo del convoglio. Eccone qui un esemplare (intonso) superstite.

Creata da Emanuele Pirella (copywriter) e Michele Göttsche (art director), dell’agenzia Italia, la campagna invitava a esprimersi su tutta una serie di grandi temi di attualità, compresa la religione.
Ecco come ne parlò lo stesso Pirella, molti anni dopo:

«Nata nel periodo in cui Eco teorizzava sul concetto di “Opera aperta”, sulla collaborazione del fruitore alla creazione del senso dell’opera, la campagna consisteva in una serie di manifesti affissi in metropolitana, che proponevano “Scrivi qui cosa pensi della politica, scrivi qui cosa pensi della droga” e poi a seguire, solo delle semplici righe che facevano da guida per la scrittura. Questi manifesti venivano affissi al mattino e ciascuno scriveva un proprio pensiero. In tal modo il visual lo facevano i fruitori con matite di vari colori, con parolacce, con pensieri seri. Così, ne veniva fuori un panorama dissonante, del tutto contraddittorio, un po’ violento, un po’ forte. In fondo al poster c’era scritto “Ma non è meglio essere più informati? – Panorama”».

Ogni notte i poster venivano cambiati, così da offrire nuove pagine da riempire di commenti il giorno successivo.
È questo probabilmente il “paziente zero” del marketing real time in Italia.
Una sorta di Twitter ante litteram, secondo Paolo Iabichino (Chief Creative Officer del Gruppo Ogilvy&Mather Italia): poster di topic, più o meno trend, che agivano come uno stetoscopio per ascoltare lo stato d’animo del Paese. Senza hashtag di mezzo. Ma molto “real”.
E ancora Panorama è coinvolto in qualche modo in un altro caso italiano molto “real time”.
È l’estate del 1984, gli anni di piombo sono ormai alle spalle nell’Italia del primo governo Craxi. Allo storico Direttore Lamberto Sechi è succeduto Carlo Rognoni. Il suo vice direttore, Gianni Farneti, è parente di uno dei “ragazzacci di Livorno” che si stanno facendo beffe dei più grandi critici d’arte (a parte un giovanissimo Vittorio Sgarbi).
In virtù di questa parentela i ragazzi confessano proprio a Panorama di avere realizzato loro, con un trapano, le teste recuperate in Arno e da tutti attribuite a Modigliani. La conversazione si accende e si propaga attraverso i media (rigorosamente offline) dell’epoca. Il Corriere della Sera pubblica la storia in prima pagina. Il giorno dopo, sulla quarta di copertina dello stesso quotidiano compare il seguente annuncio (ideato da Dario Diaz e Sergio Neri Pelo, impaginato da Renato Magni).

È probabilmente la prima volta che dei pubblicitari italiani sfruttano una breaking news per inserirsi nella conversazione con il punto di vista della marca. Il contenuto viene citato da radio, giornali e telegiornali dell’epoca.
Le persone ne parlano al bar, in panetteria, dal parrucchiere. I canali social del secolo scorso. Ma ne parlano tutti: “hai visto cosa ha fatto Black & Decker” (nel 1984 i persuasori erano ancora occulti e termini come “creativi” “viral” e content manager non facevano parte del lessico comune).
Non è ovviamente mia intenzione cercare di inquadrare il “real time marketing” parlando solo di campagne del Novecento. Ma ritengo importante sottolineare un requisito fondamentale, attitudinale prima che tecnologico, senza il quale real time marketing è solo un’espressione in più con cui riempirsi inutilmente la bocca nelle sale riunioni. Questo requisito è l’evidente disponibilità all’ascolto manifestata dal Brand. Requisito che accomuna i due casi “antichi” citati.
Fare real time marketing nel 2018 vuol dire trasformare un brand in un soggetto conversazionale, che ha il coraggio di parlare delle stesse cose di cui parlano le persone (il che implica la capacità di ascoltarle – ndr) e avere la cortesia di rispondere quando qualcuno lo interpella. È il parere di Federica Nanni, Head of social media in BCube e tra gli artefici del successo di Ceres.
Non interessa più a nessuno sentirsi dire quanto sia buono quel prodotto o quanto sia conveniente quella offerta, i consumatori sanno scegliere benissimo da soli, non hanno bisogno di un brand che dica loro cosa comprare, tanto comprano comunque quello che vogliono. Piuttosto hanno bisogno di brand coraggiosi che li ispirino, che dicano cose con un portato valoriale alto, e che sia coerente con il posizionamento di marca.
E ancora alla capacità di ascoltare gli utenti fa riferimento Paolo Iabichino che indica proprio in questa abilità il requisito indispensabile per comunicare.
Dobbiamo avere le antenne alzate verso i nostri interlocutori. Non per come ci vengono descritti nei brief in PowerPoint, ma per come siamo capaci di ascoltarli dentro i loro habitat.
Sin qui ho citato l’opinione di creativi. Ma in che modo le aziende interpretano il real time marketing?
Quasi tre anni fa Wayin pubblicò un interessante studio, derivato dalle interviste a 200 manager e marketer (dirigenti) attivi in aziende con oltre 100 milioni (dollari) di fatturato.
Le prossime slide del rapporto Wayin rispondono a domande secondo me importanti:
Perché mettere in atto comportamenti di RTM?
Quali comportamenti di RTM sono più praticati dalle marche?

E quali sono i comportamenti di RTM più utili alla marca?
Lo studio Wayin ha rilevato che è più probabile osservare un ROI pari o superiore al 50% sull’investimento marketing in tempo reale, tra le marche capaci di “cavalcare” le breaking news nei canali Social.
Viceversa, si osserva la tendenza a un ROI inferiore al 50% tra le aziende meno propense a partecipare alle conversazioni online.
Allo stesso modo, viene evidenziato nel report, “i leader del ROI si legano di più a eventi importanti come il Super Bowl che offrono opportunità per momenti di marketing in tempo reale.
Ecco l’esempio, notissimo, di come Oreo sfruttò nel 2013 il black out che interruppe per mezz’ora il Super Bowl tra Baltimore Ravens e San Francisco 49ers. Oltre 15 mila retweet e 20 mila nuovi fan Facebook nelle prime 14 ore.

Jordan Slabaugh, Vice Presidente di Wayin, ha dichiarato che “i migliori brand marketer non fanno più affidamento solo sulle campagne pianificate; guardano ai Social Media per ascoltare gli utenti e creare una comunicazione più coinvolgente, legata al momentum”.
In Italia, uno dei punti di riferimento, da questo punto di vista, è sicuramente Ceres. Qual è stato il post/contenuto di maggiore successo della “Saga” Ceres?
I contenuti di successo di Ceres sono diversi, mi ha raccontato Federica Nanni, ma sono sempre i post di real time a fare il botto. Per noi un post è andato bene quando la reach organica ha superato quella paid, perché ce l’abbiamo a morte con l’algoritmo di Facebook e quando succede vuol dire che siamo stati bravi, li abbiamo fregati insomma, e la gente ci ha aiutato spesso a “rompere il Facebook”, come in questi 4 casi recenti:

(Una delle mie preferite, perché molto difficile. Un modo intelligente di esprimere il cordoglio per la morte di Solvi Stubing, la “celebre bionda per eccellenza” e testimone storico del concorrente Peroni. Ndr)

Sono contenuti contemporanei. Parlano di quello di cui conversano le persone vere, che sia in tram o su Facebook. E lo fanno con un linguaggio caratterizzante che, portato avanti con coerenza nel tempo, diventa la voce del Brand senza mai risuonare come “polveroso pubblicitese”.
L’invito a non sembrare pubblicità non è una novità. Uno dei più grandi (ed efficaci) copywriter di ogni epoca, nato oltre 100 anni fa, dichiarò:
Nobody reads advertising. People read what interests them, and sometimes it’s an ad.
Se Gossage fosse nato nel 1987 (anziché nel 1917), avrebbe probabilmente affermato:

Nobody shares advertising. People share what interest them, and sometimes it’s an ad.

Non so tu, lettore paziente, ma io sento la necessità di una pausa. Di un primo “recap”.
Real Time Marketing è una categoria in via di continua ri-definizione. Ma non è una rivoluzione copernicana né una panacea.
L’innovazione tecnologica ha potenziato le nostre capacità di ascolto, dimostrandoci con i numeri che sapere ascoltare è conditio sine qua non per comunicare.
Migliorare l’ascolto ci permette di rafforzare la relazione tra persone e marche con operazioni di comunicazione volte a evidenziare l’affinità di valori più che la funzione del prodotto.
Implica la capacità di cogliere il sentiment, innanzitutto, e poi il momentum in cui esprimersi con un enunciato che dimostri sia il nostro carattere sia la nostra volontà di essere entità dialoganti, la nostra disponibilità a metterci in gioco e quindi sullo stesso livello degli utenti.
E come nella teorizzazione di Umberto Eco sul concetto di Opera aperta, è la collaborazione del fruitore (commenti, condivisioni, interazioni) a completare il senso dell’opera.
Da questo punto di vista la relazione stessa tra brand e utente diviene un’Opera aperta. Un’opera etica oltre che estetica, in quanto il primo non cerca di invadere la testa dell’altro a mazzate di GRPs.
Credo nel marketing. E credo che i mutamenti di contesto sociale ne modifichino necessariamente le strategie.
Al tempo stesso mi chiedo se certi cambiamenti comportamentali delle persone, determinati dall’avvento delle piattaforme Social e devices ormai di uso comune, rendano ancora attuale la definizione stessa di marketing.
Anche in questo caso propongo due contributi di estrazione diversa, un “Marketer” e una “Creativa”. Entrambi considerati meritatamente Guru nei rispettivi campi.
Il marketing è l’individuazione e il soddisfacimento dei bisogni umani e sociali”. (Philip Kotler – Marketing Management 1967)
Marketing è una parola – e un modo di procedere – che appare in Italia nel secondo dopoguerra: significa avvicinare i prodotti al pubblico e viceversa, rendendo desiderabili i primi e desiderante il secondo”. (Annamaria Testa – La parola immaginata 1996)
Ho sempre trovato più completa la definizione di Annamaria Testa (confesso di non essere del tutto imparziale), anche se i cambiamenti degli ultimi 10 anni mi portano a credere che sarebbe oggi forse più giusto affermare: “marketing significa avvicinare le marche alle persone e viceversa, rendendole entità dialoganti”.
Al tempo stesso, aggiornerei lievemente anche la definizione di Kotler:
“marketing è l’individuazione e il soddisfacimento dei bisogni umani e sociali in ogni occasione di contatto con le persone, comunicazione compresa.”
La possibilità di monitorare le reazioni delle persone in tempo reale sta dimostrando, anche ai più conservatori, che la stessa comunicazione, come il prodotto, dovrebbe mettere al centro il soddisfacimento dei bisogni umani.
Il marketing ha spinto le aziende a passare da una posizione product oriented a quella customer oriented. Ma la comunicazione, che pure sarebbe uno strumento del marketing, ha spesso dato l’impressione (specie in Italia) di non comprendere del tutto questa transizione avvenuta ormai da molti decenni.
Quando Procter & Gamble usa ripetutamente la sponda dei Giochi Olimpici per operazioni di comunicazione come Thank you Mom sta perseguendo con costanza il soddisfacimento di un bisogno che va ben oltre la funzione di un prodotto: il bisogno di vedere riconosciuta l’importanza del ruolo di madre.
I marketer e i creativi più illuminati e meno autoreferenziali l’hanno sempre intuito e ci hanno sempre provato.
Ogni nostra attività di comunicazione dovrebbe essere tesa a creare una dinamica empatica” mi ha scritto Paolo Iabichino in una delle sue risposte.
E se anche Iabichino riconosce l’ottimo lavoro fatto per Ceres, Federica Nanni sceglie elegantemente di non citare se stessa e il suo team, e menziona Buondì Motta come best practice italiana di real time marketing.
“Io vado pazza per la saga del Buondì. Sono felice che qualcuno abbia trovato il coraggio di rompere il tabù e usare toni forti, toni che fino ad ora si erano visti solo sui social, finalmente anche in TV! Per cui bravi in Saatchi&Saatchi e bravo il cliente”.
(condivido l’entusiasmo di Federica per Buondì, ne ho scritto recentemente: Buondì, BuonDio).
Comunicare non significa solo saper parlare bene. Significa soprattutto sapere ascoltare bene.
Io non so mai esattamente ciò che ho detto prima di ricevere la risposta a ciò che ho detto”. (Norbert Wiener – padre della cibernetica moderna)
La “novità” è che la tecnologia ci permette oggi di ricevere feedback e learning in tempo reale per comprendere ciò che abbiamo realmente detto.
“Perseguire il soddisfacimento dei bisogni umani e sociali” in tempo reale non può ovviamente limitarsi alle attività di branding. Deve comprendere necessariamente qualunque occasione di contatto tra brand e persone.
Abbiamo già visto dal rapporto Wayin quali comportamenti di RTM sono più praticati dalle marche. Ma è real time marketing anche utilizzare software come per esempio Hotjar. Perché permette di migliorare la user experience di un sito leggendo e registrando il comportamento di fruizione delle persone. Anche questo è saper ascoltare.
Nell’era digitale possiamo ascoltare bene e reagire immediatamente ai comportamenti di navigazione dell’utente a cui ci rivolgiamo. Utenti singoli, non cluster di individui. Il percorso dell’utente non dovrebbe essere una travagliata Odissea, o lo perderemo. Devo poter riconoscere ogni Ulisse in rete dai suoi comportamenti, anche quando è ancora un signor Nessuno, un utente anonimo.
Devo poter capire che vuole tornare a Itaca e che benché uomo non è per niente interessato alle Sirene. Devo essere in grado di mandargli call to action adeguate: “vuoi rivedere Penelope?” Perché se gli propongo “dovresti andare a Troia”, difficilmente aumenterò il mio tasso di conversione.
Fuor di metafora: Il 75% delle persone è oggi più propenso ad acquistare da un retailer che lo riconosce per nome, gli propone offerte e suggerimenti rilevanti, basati sulla sua navigazione e che conosce lo storico dei suoi acquisti (Fonte: Accenture).
Anche questi sono bisogni umani da soddisfare.
Per questo riterrei incompleto parlare di real time marketing senza fare riferimento alla Content Intelligence. Ne ho già scritto l’anno scorso, descrivendo uno dei 20 migliori DAM (Digital Asset Management) al mondo secondo Forrester. Tra l’altro è una brillante realtà italiana, malgrado il nome (THRON)
Sempre più aziende si ritrovano ad avere migliaia di contenuti (digital asset) di vario tipo, online. Un DAM intelligente è in grado di classificarli automaticamente. Con il motore semantico la piattaforma assegna infatti dei tag ai contenuti sulla base degli argomenti trattati e questo vale per tutti i documenti multimediali come: foto, video, testi ecc.
Il motore semantico “ascolta” il parlato, “guarda” le immagini e in pochi millisecondi è in grado di classificare i contenuti. Un Dam intelligente non si limita a ordinare i contenuti. Attraverso la taggatura li “attiva”. Li rende in grado di restituire informazioni sugli interessi di tutte le persone (anche anonimi) con cui i contenuti stessi entreranno in contatto.
Possiamo sapere quale contenuto (immagine, video o altro) porta più persone nello store online. Possiamo capire quali altri interessi ha l’utente. Sulla base di questi interessi, un DAM come Thron è in grado di personalizzare automaticamente la user experience di ogni singolo utente: inutile mostrargli quello che ha già o che non considera rilevante. Possiamo così sapere se il visitatore è a livello awareness o ci sta prendendo in “consideration” per un acquisto. Ovviamente possiamo anche sapere se è un cliente già acquisito da fidelizzare. Questo ci permetterà di inviare sempre gli inviti all’azione più opportuni.
E possiamo riconoscere gli utenti anonimi, anche a distanza di tempo, sulla base della loro navigazione precedente. Il loro percorso di acquisto non ripartirà quindi mai da zero. Possiamo offrire una brand experience personalizzata e una call to action basata sugli interessi manifestati per invitarli a registrarsi.
Possiamo evitare l’errore di riproporre un articolo già acquistato. Particolarmente fastidioso (per l’utente) quando nel frattempo è entrato in promozione e costa magari il 50% in meno.
E possiamo avere continui e costanti insight, utili non solo alla gestione dei contenuti ma anche alla ridefinizione delle strategie di adattamento al mercato. Insight che possono orientare il lavoro dei creativi che operano sul fronte più “appariscente” della relazione tra marca e persone.
Alcuni mesi fa, in Brasile, i commenti di persone che stavano provando la nuova Volvo XC60 sono diventati, in tempo reale, i titoli di una campagna OOH. Una campagna affissione quanto mai dinamica, dal momento che i titoli continuavano a cambiare, via via che la regia sceglieva le espressioni più divertenti. A questo link è possibile vedere (in due minuti) il caso.
E sempre Volvo ha utilizzato il Super Bowl 2015 per piazzare un magistrale touch down real time con l’operazione “Interception”. Anziché investire 5 milioni di dollari per uno spazio da 30 secondi, lo hanno “rubato”: “appena vedi un commercial di automobili, di qualunque marca, durante il Super Bowl puoi twittare usando l’hashtag #VolvoContest per vincere una Volvo da regalare a qualcuno che ami.”
In questo modo, quando compariva uno spot di un brand di auto che aveva pagato perché le persone lo guardassero, quelle stesse persone distoglievano lo sguardo dalla TV e prendevano in mano lo smartphone per parlare di Volvo. Volvo ha trasformato 60 milioni di dollari spesi dai concorrenti, per essere presenti durante il Super Bowl, in una conversazione sui Social (e non solo) riferita a Volvo. Il caso può essere visto a questo link.
Quando si parla di RTM, sono ancora in molti a fare riferimento al post “creativo” e “simpa” che interpreta la festa della mamma, del papà, degli innamorati. Ma è evidente che la categoria si sia nel frattempo ampliata e nei casi più ambiziosi arriva a determinare una conversazione, una notizia, più che accontentarsi di cavalcarle. In questo senso considero Fearless Girl un altro brillante caso di RTM. Per i pochi che dovessero esserselo perso, questo è il link.
Per amore di confronto ho chiesto sia a Federica Nanni, sia a Paolo Iabichino se fossero d’accordo nel considerare RTM gli ultimi due esempi. “Sì. Perché sono due attività perfettamente sintonizzate con il sentire dei propri destinatari” (Paolo I.)
Sì. Sono assolutamente esempi di real time marketing. Perché hanno nel DNA quel portato conversazionale e relazionale di cui scrivevo prima, perché includono e necessitano per forza del contributo delle persone per vivere. Non si tratta più di Top-down vs bottom-up, con il real time è proprio cambiata la natura della comunicazione: il consumatore non è più “tua moglie” il consumatore è il tuo centro media“. (Federica N.)
Fare real time marketing implica spesso una virtù che deve essere comune a reparto marketing e reparto creativo: la reattività.
Quanto reattivi occorre essere nel RTM?

Il 73% dei marketer intervistati da Wayin ha dichiarato di poter reagire in meno di un’ora.
Condivido ma mi permetto una raccomandazione: non muovetevi così rapidamente da scivolare.

Confesso di avere provato una Pietas quasi virgiliana quando ho letto la rapida, ma chirurgica, risposta di Norwegian Airlines alla tenera e incauta Alitalia.
Del resto, la stessa compagnia aerea norvegese si era già distinta con operazioni in tempo reale come questa, in occasione della separazione tra Brad Pitt e Angelina Jolie.

La capacità di reagire in tempi molto brevi implica necessariamente altre caratteristiche virtuose del team marketing e creativo. La prima è la complicità, l’essere realmente un team unico e unito, capace di superare un ormai anacronistico (e sterile) antagonismo. Alla mia domanda sul tema, Paolo Iabichino ha indicato nel “coraggio” il supporto principale che un reparto marketing e comunicazione può dare al team creativo impegnato in attività di RTM. Coraggio e una relazione non ingessata tra cliente e agenzia. Federica Nanni mi ha infatti risposto:
“Real time vuol dire anche uscire dalla formalità di approvazioni e procedure infinite, perché richiede di rispettare i tempi delle persone, non delle aziende. In questo senso ha scardinato non solo la formalità della comunicazione frontale, ma anche la formalità tra azienda e agenzia. Ci vuole quindi una grande fiducia da parte dell’azienda nei confronti dell’agenzia, ascolto, confronto e coraggio. Ci vuole un riconoscimento reciproco di talento. All’agenzia spetta quello di presentare cose che il cliente mai avrebbe immaginato, altrimenti poteva farsele da solo, e al cliente spetta il compito di essere visionario e affidarsi a dei professionisti che paga, spesso anche per disobbedire ai brief, se è la cosa giusta da fare”.
In Cookies & Partners io e i miei soci crediamo che la comunicazione contemporanea possa nascere solo quando persone dell’azienda e nostre lavorano come un unico team. E così come un popolo è caratterizzato in genere dall’uso di una stessa lingua, allo stesso modo perseguiamo questo senso di identità tra figure chiave dell’azienda e nostre, attraverso workshop che portino tutti ad associare alle parole della marca gli stessi significati. Condividere profondamente e autenticamente il lessico della marca tra chi deve costruirla, affermarla, e consolidarla, è l’unica strategia possibile. L’unica via per essere reattivi in tempi molto brevi salvaguardando la brand consistency.
Questo articolo nasce da chiacchierate e scambi di email tra me e altri 3 colleghi, di generazioni diverse (Federica Nanni, Paolo Iabichino e Pasquale Barbella). Ma sarei ingrato se non citassi anche Flavia Brevi e Francesca Mudanò, rispettivamente Head of Social Media ed Executive Partner in Cookies & Partners.
Dovessi provare a sintetizzare questa “lunga cavalcata” in una definizione azzarderei:
con l’espressione real time marketing descriviamo un’ampia gamma di comportamenti che le aziende mettono in atto sfruttando anche le possibilità offerte dalla tecnologia per individuare, attraverso l’ascolto continuo, i bisogni umani e sociali e soddisfarli in ogni occasione di contatto con le persone. Così da creare e mantenere con esse una relazione empatica in costante ri-negoziazione.
Lascio l’ultima parola a Pasquale Barbella, non solo per diritto di anzianità.
Real time marketing» è una categoria del marketing contemporaneo, caratterizzata dalla prontezza del digitale e favorita dalle piattaforme social. Si pone come obiettivo la partecipazione attiva, oltre che immediata, del pubblico cui una certa iniziativa è rivolta. Le tue citazioni di Black & Decker e Panorama lasciano però intendere che tu voglia ampliare il concetto a qualsiasi esperienza, anche passata, di marketing connesso a eventi di attualità. Per un maggiore approfondimento delle opportunità sarebbe forse utile considerare due specie distinte di reazione in tempo reale: una statica e una dinamica. La seconda corrisponde con maggior precisione a quanto oggi ci si aspetta dalle pratiche di real time marketing. Le iniziative che definisco «statiche» non pretendono che il pubblico faccia qualcosa di concreto nei prossimi quindici secondi; si limitano ad ancorare la marca a qualcosa che è appena accaduto o sta per accadere, sfruttando con intelligenza una circostanza o un argomento di pubblico interesse. Ti ricordi, per esempio, la sindrome di fine millennio – la paura che un bug facesse saltare, a mezzanotte in punto, tutti i sistemi informatici del pianeta? Come augurio di buon anno la mia agenzia (BGS – Barbella Gagliardi Saffirio– ndr) regalò a clienti, amici e fornitori una esorcistica paletta schiacciamosche e schiacciabug, che molti ricordano ancora con simpatia a distanza di quasi vent’anni.
È indubbio che il marketing interattivo possa dare il meglio di sé grazie alla disponibilità tecnologica di oggi, ma anche in tempi remoti circolavano, talvolta, intuizioni brillanti: hanno fatto storia quelle di Gossage, le cui campagne stampa (formalmente staticissime) riuscivano a creare eventi e mobilitazioni sensazionali. (Gossage chi era costuiGossage II puntata)
Belle cose. Ma il real time marketing presenta anche aspetti diabolici. Mi riferisco soprattutto alle sue applicazioni nella propaganda politica. La recente campagna elettorale italiana, per esempio, ha rivelato picchi di autentico «cinismo in tempo reale»: Macerata docet. Un ex leghista spara sui migranti e la città si schiera con lui, regalando alla Lega un bel 20%.
Appendice
Dodici progetti molto interessanti, degli ultimi 10 anni, che rientrano a mio avviso nella categoria real time marketing. Alcuni cavalcano una notizia, altri la creano, tutti pongono la marca (che sia una serie TV o un aspirante presidente USA) su un piano conversazionale con le persone.
The Young Pope
Man boobs for boobs
REI – #Optoutside
Deisel – Go with the fake
Samsung – Oscar Selfie
Axe – It is ok for guys…
Touring Mobilis noto agli automobilisti belgi per i suoi aggiornamenti in tempo reale sul traffico, alla radio. Hanno realizzato questa operazione nel 2010 per lanciare il nuovo sistema GPS
Don’t drink and drive
Radio Tango (ha convinto una chiesa di Oslo a suonare con le campane brani dei Led Zeppelin, dei Metallika e altre band storiche. I passanti potevano provare a indovinare i titoli e inviare degli sms alla radio per vincere i premi in palio.)
Kit Kat “Jesus”
Birra Andes
Obama “Wassup” Questo contenuto fa parte della campagna presidenziale di Obama per il primo mandato (2008). Gli attori utilizzati sono gli stessi della celebre saga Wassup, realizzata per BudWeiser alla fine degli anni novanta. Li ritroviamo nel 2008, segnati da otto anni di presidenza Bush. Divertentissime supporting evidence alla necessità di un cambiamento.




Gossage. Chi era costui?

Gossage. Chi era costui?

Quando si parla del copywriting e della sua storia il pensiero corre senza indugio a William (Bill) Bernbach, 

il maestro dei maestri, anche se a scrivere le campagne più famose della DDB furono Bob Levenson, Paula Green e altri. Certo Bernbach aveva ampiamente mostrato di saper usare non solo la testa ma anche la penna, essendosi distinto come copywriter alla Grey e in varie attività di consulenza prima di aprire, a trentotto anni, la propria agenzia e di scatenare con quella la creative revolution degli anni sessanta. Ma è utile ricordare, a chi intende specializzarsi nella scrittura pubblicitaria, il talento e il lavoro di molti altri – dai pionieri come John Caples[1] a Jim Durfee, da Jerry Della Femina a Mary Wells, da Ed McCabe a Barbara Nokes, da David Abbott ad Alfredo Marcantonio, per citare qualche nome alla rinfusa.

Detto questo, occorre chiarire che sarebbe improprio – e, ai nostri giorni, poco producente per un copywriter – limitare il proprio ambito di ricerca e di studio ai soli protagonisti della scrittura pubblicitaria. Che è una forma di scrittura applicata e – pur se contraddistinta da stilemi e funzioni che le appartengono in modo specifico – presuppone un insieme di cognizioni e sensibilità non troppo lontane dalla letteratura, dal giornalismo e da altre forme di espressione colta. Analizzare i contributi pubblicitari più riusciti di ogni tempo è istruttivo e necessario, ma non deve essere l’unico dei serbatoi ai quali attingere: in tal modo si rischia l’iperspecializzazione, tra le cui conseguenze ci sono quelle, mortali, dell’autoreferenzialità e dell’imitazionismo.

Il copywriting presenta qualche somiglianza con le cosiddette arti applicate: arti decorative, arti industriali, artigianato artistico. Attività che procedono da ascendenti “nobili” (le arti vere e proprie) per adattarsi a scopi manifestamente commerciali. Il bravo specialista di design industriale, o editoriale, ha una molteplicità di punti di riferimento che vanno dalla pittura all’architettura, dalla tecnologia alle teorie della percezione. Analogamente, il bravo copywriter trarrà profitto da una varietà di campi estranei, ma solo in apparenza, al tipo di professione cui ha scelto di votarsi. Quella che chiamiamo – con un po’ di autocompiacimento – “creatività” altro non è se non il risultato di fusioni a sorpresa tra intuizioni e stimoli d’origine eterogenea; e più aperti si è alla varietà, più umori se ne possono ricavare. Va dunque bene considerare maestri Bernbach, Tony Brignull, Tim Delaney o il vostro capo, ma a condizione di lasciar entrare nel vostro club ideale anche – sparo a caso – Hemingway, Calvino, la saggistica sul Bauhaus e qualche trattato di economia, filosofia, psicologia, musicologia, un po’ di critica d’arte, insomma quello che vi pare: perché un copywriter che si rispetti deve essere diverso da tutti i suoi colleghi (o antagonisti), e questa diversità la si raggiunge attraverso una formazione così articolata da permettere una fuga dall’omologazione.

Lo stesso termine “copywriter” andrebbe preso come una riduzione di orizzonte. Nessuno si sognerebbe di riferirsi a un Bernbach, o a un Ogilvy, definendolo semplicemente così. Non c’è nulla di offensivo, beninteso, nella parola in sé; tutt’altro. Ma i tempi sono cambiati, esigono un surplus di ambizione e competenze. Le nuove generazioni professionali sono costrette a misurarsi con una committenza scaltrita, scettica, persino avara: questa barriera di resistenza può crollare solo se l’interlocutore è in grado di sottrarsi alla subalternità, forte di una superiore credibilità razionale e dialettica sui problemi o le opportunità che è stato invitato, di volta in volta, ad affrontare.

C’era una volta, a San Francisco, l’agenzia di Howard Luck Gossage, sistemata in una ex stazioncina di pompieri.

La frequentavano divi dello spettacolo come Stan Freberg, teorici della comunicazione di massa come Marshall McLuhan, inventori come Richard Buckminster Fuller, scrittori come John Steinbeck e Tom Wolfe. In Italia Gossage non è mai diventato popolare come altri geni dell’advertising; il suo culto è condiviso all’interno di una ristretta cerchia di fan, che amano presentarlo come “il copywriter più eccentrico di tutti i tempi”. Anch’io l’ho sempre presentato così, ogni volta che ho voluto istigare i giovani copywriter a ragionare in modo “eccentrico” – cioè nell’unico modo che, a parer mio, giustifichi l’insano desiderio di occuparsi di pubblicità.
Vero è che l’eccentricità di Gossage si vede e si tocca con mano in ogni cosa che ha detto, scritto e fatto. Intanto non lo si può chiamare copywriter, anche se va considerato, almeno potenzialmente, tra i massimi trainer della categoria. Gossage è stato un pensatore, scrittore, teorico dei media, operatore culturale, sperimentatore, innovatore – un polivalente uomo di genio prestato alla pubblicità. È stato anche polemista sublime: sarcastico e cattivo come pochi; e gli strali più appuntiti li ha scagliati proprio contro la pubblicità. Con ciò dimostrando, nel modo più esplicito possibile, la verità di un paradosso che mi sta a cuore: per fare della pubblicità interessante bisogna odiarla un po’.
Il nostro uomo scriveva solo, o prevalentemente, annunci destinati a giornali e periodici, con poche o senza immagini ma, in compenso, con abbondante testo. Li pensava come articoli d’informazione, e detestava l’idea di fare uscire lo stesso lavoro più d’una volta, o su testate diverse, perché questo nel giornalismo non si fa. Trovava che la ripetizione fosse un controsenso: una mancanza di fiducia verso i propri mezzi, il giornale ospitante e soprattutto il lettore; un’ammissione di stolidità, di fallimento. Non considerava nessuno dei suoi messaggi come rivolto a una massa, ma a un gruppo di persone che avessero qualche interesse in comune:
«Se avete da dire qualcosa di rilevante, non dovete rivolgervi a molte persone (basta parlare alle persone veramente interessate al messaggio), né dovete ripetervi troppe volte. Quante volte bisogna dirvi che sta bruciando la vostra casa? Quante volte dovete leggere un libro o una notizia o guardarvi un film? Se si tratta di una cosa interessante, basta una volta. Se invece si tratta di qualcosa di noioso, una volta è più che sufficiente.»
Tornava sì sullo stesso tema, ma come si torna su una storia a puntate, ampliandolo e sviluppandolo, aggiungendovi delle novità. L’aspetto più notevole di questa attività stava nel fatto che l’efficacia dei suoi testi si poteva misurare. Non solo perché gli annunci finivano spesso con un coupon che ne rendesse, appunto, controllabile la redemption; ma perché li concepiva allo scopo di mobilitare i lettori alla partecipazione compiendo un gesto specifico, tangibile e riscontrabile. Questo lato dell’esperienza di Gossage è attuale in modo indiscutibile. Fosse vissuto nell’era digitale, avrebbe usato i mezzi di cui oggi disponiamo per moltiplicare in modo considerevole gli effetti di quelle campagne: a dir poco profetiche per il modo di rapportarsi al lettore in una condizione quasi one-to-one, sollecitandone e ottenendone forme di partecipazione attiva sperimentate solo nelle azioni di marketing postale.
 

Il caso Aria Rosa.

A quei tempi (siamo negli anni sessanta; Gossage è morto nel 1969, poco più che cinquantenne, di leucemia) le compagnie petrolifere erano tra i maggiori investitori in pubblicità. Anche in Italia. Agip, Shell, Esso, British Petroleum e le altre erano una presenza costante sui giornali, sui muri, alla radio e in televisione, come adesso Barilla, Lavazza e le marche di automobili. Si facevano concorrenza a colpi di additivi, puntando su argomenti come l’economia di esercizio e l’ambiente pulito (le colombe) ma, più spesso, la maggiore potenza sprigionata da manipolazioni chimiche dei carburanti (i falchi), spacciate come esclusive e dotate di presunti effetti mirabolanti. «Metti un tigre nel motore.» «Scappa con Superissima.» Gli additivi servivano soprattutto a incrementare il numero di ottano, prima che la benzina verde, senza piombo, entrasse nell’uso comune.

Era evidente anche allora che a quelle promesse, edificanti o spaccone che fossero, non ci credeva nessuno. Così come nessuno si lasciava impressionare dalle cosiddette campagne d’immagine, cariche di simbolismi aggressivi e talvolta pateticamente erotici. A muovere qualche punto Nielsen in più o in meno non erano le rosse sexy con la pompa in mano o i ruggenti felini nel motore, ma le promozioni a punti, come avviene ancora oggi. Nel remoto 1962, Gossage uscì con un paginone di solo testo per l’American Petrofina di Dallas. C’era scritto, a caratteri cubitali e senza virgole, come per simulare un ironico flusso di coscienza:

«Se state guidando per strada e vi capita di vedere una stazione Fina e questa si trova nel vostro senso di marcia così che non siete costretti a fare una svolta a U in mezzo al traffico e non ci sono sei macchine in attesa davanti alla vostra e vi serve benzina o altro** prego accomodatevi.»*** 
Come negli articoli di giornale, il titolone era sormontato da un occhiello, ovvero un breve testo introduttivo, messo tra parentesi:
[Il nostro motto]* 
L’asterisco rimandava a una minuscola nota a pie’ di pagina:
Sappiamo che come motto non è molto stimolante, ma è realistico e del resto Fina non si aspetta da voi nulla che non sia ragionevole e appropriato.
Era tutta qui la chiave concettuale della campagna, e anche l’etica di Gossage: non spariamo sciocchezze, diciamo le cose come stanno.[2] Di per sé la benzina era ed è nient’altro che una commodity: un bene utile ma uguale a sé stesso, a prescindere dalla marca. Non il prodotto, ma la singola stazione di servizio può eventualmente esibire vantaggi differenziati. Il doppio asterisco, dopo le parole «benzina o altro», rimandava a una nuova nota:
Lubrificanti, per esempio. E altri 1503 articoli di cui la vostra auto potrebbe aver bisogno.
Triplo asterisco alla fine della headline, e relativa nota di chiusura:
Tuttavia, se vi mancasse (come probabilmente vi manca) il tappo di una valvola, e ve ne piacesse uno rosa, saremmo lieti di inviarvene uno gratis e prepagato. Dovete solo compilare il coupon. Se dovesse interessarvi anche una carta di credito Fina, segnate una X nell’apposito quadratino.
Il coupon era così concepito:
Spettabile Fina,
o Per cortesia inviatemi un coperchio di valvola rosa.
o Per cortesia inviatemi il modulo per la richiesta della credit card Fina.

Come si vede, la campagna aveva lo scopo di esortare il lettore a compiere un gesto. Non solo un gesto prevedibile, di immediata utilità commerciale; ma anche un gesto superfluo, di pura e scherzosa partecipazione. Chi scrive lancia un’esca per stabilire una relazione basata sul gioco inaspettato e sul nonsense. Gossage prefigura, con mezzo secolo di anticipo e senza computer, un tipo di comunità molto simile al social network; come quando qualcuno, su Facebook, ci invita a giocare a Papa Pear Saga o a Criminal Case. Mettere una X sul coperchio rosa, o sulla richiesta di credit card, equivale al clic su «Mi piace» dei giorni nostri.

E non si creda che quel tappo rosa sia solo una battuta en passant: perché arriva a conclusione di una saga di stravagante rilievo, fondata su un additivo immaginario chiamato Pink Air, aria rosa. La case history dell’aria rosa è burlesca, dada e, al tempo stesso, spietatamente critica sui meccanismi e i cliché della comunicazione di massa. Lo scherzo era cominciato nel 1961 con un annuncio-notizia, una pagina intitolata, per l’appunto,

PINK AIR!

Anche lì il titolo era preceduto da un occhiello tra parentesi quadre, una costante nei lavori di Gossage:

[Fina rivendica la proprietà dell’additivo del futuro.]

L’intero testo era impostato alla maniera di un servizio giornalistico:

[Fina rivendica la proprietà dell’additivo del futuro.]
ARIA ROSA!
Riportiamo questa notizia apparsa sul Daily Commercial News di San Francisco il 21 marzo 1961:
In un futuro non lontano le stazioni di servizio forniranno ai vostri pneumatici aria colorata, anche in tinte brillanti, secondo R. G. Lund, consulente di marketing.
Lund ha dichiarato che le compagnie petrolifere, in linea con una forte tendenza di mercato, «stanno già aggiungendo additivi ad additivi ai loro prodotti per guadagnarsi il favore degli automobilisti in questo settore ad alta competizione. Hanno arricchito di ingredienti extra ogni parte dell’automobile eccetto l’aria che va nelle gomme. L’additivo per l’aria rappresenterà senza alcun dubbio il punto d’arrivo dell’evoluzione in corso.» Ci vorranno dieci anni, secondo le stime dell’esperto di Portland, Oregon, per mettere a punto la ricerca e risolvere i problemi di produzione. Gli impianti esistenti dovranno subire adeguate riconversioni per soddisfare la domanda di prodotti cromaticamente più attraenti. «Ma alla fine», conclude, «le stazioni saranno in grado di offrire aria in sfumature di verde, blu, viola e persino rosa, come avviene per i prodotti destinati alla decorazione d’interni.»
A buon intenditor poche parole, ammesso che ci sia qualche buon intenditore in ascolto. Fina non è il genere di compagnia che si lascia dire le cose due volte. Il rosa è un colore buono quanto un altro e, in più, ha un nome corto e orecchiabile. Lo diciamo per notificarvi che abbiamo deciso di concentrarci su Aria Rosa®.
E non è tutto. Abbiamo già varato, senza esitare, un programma d’urto: il Piano Quinquennale Fina. Ciò che gli altri hanno bisogno di fare in dieci anni, noi lo faremo in metà tempo. Il 12 maggio 1966 – giorno più, giorno meno – chiedete Aria Rosa nelle migliaia di stazioni Fina! La ragione di tanta fretta sta nel fatto che, come dice quel tale, se si vuole stare in vetta bisogna avere qualcosina di nuovo da offrire, di tanto in tanto. Ma la benzina, l’olio e gli accessori Fina sono già buoni come sono, esattamente uguali ai migliori. Non vorremmo aggiungergli nulla che serva soltanto come pretesto per dirvi che l’abbiamo fatto. (Oh, gli additivi li abbiamo anche noi, ci mancherebbe; solo che non siamo riusciti a trovargli dei nomi o delle sigle efficaci). Ecco perché siamo così felici di avere un additivo nuovo di zecca tutto per noi: Aria Rosa. Se vi capita di sentirlo vantare da qualche altra compagnia, fatecelo sapere e la sistemeremo a dovere. Tenete gli occhi aperti. Nel frattempo ci piacerebbe darvi un’idea più precisa di come sarà l’aria nei vostri pneumatici il 12 maggio 1966. Stiamo già lavorando a una serie di prototipi sperimentali. Quando uscirà il nostro prossimo annuncio dovremmo essere già in grado di inviarvi per posta un campione di Aria Rosa; stiamo solo pensando a come non farlo scappare dalla busta. Ed ecco, prima di lasciarvi, il nostro emblema Fina.[3] Così, la prossima volta che vedete una nostra stazione di servizio, potrete riconoscerla. E se si troverà nel vostro senso di marcia in modo da non costringervi a fare una svolta a U e non ci saranno già sei macchine a fare la fila prima di voi e vi servisse benzina o altro, accomodatevi.

La Fina story continua con episodi come The Pink Inch? e Send for your free sample of Pink Air! Nel primo, Gossage si interroga sui problemi di logistica e distribuzione dell’Aria Rosa:

Sorge spontanea una domanda: come far arrivare l’Aria Rosa in oltre 2000 stazioni Fina entro il 12 maggio 1966?
(Aria Rosa, se ve lo ricordate, è l’additivo Fina del futuro; l’ingrediente segreto per colorare l’aria nei vostri pneumatici. Era l’unico additivo ancora mancante; tutte le altre parti della vostra auto hanno già ricevuto le attenzioni dovute. Perché Fina arrivi prima a questo traguardo abbiamo varato un programma d’urto: il Piano Quinquennale Fina.)

Chi ha memoria storica ricorderà i «piani quinquennali» dell’economia programmata dallo stato, introdotti da Stalin in Unione Sovietica nel 1928 e sopravvissuti, in parte, solo nella Repubblica Popolare Cinese. La stampa occidentale non esitava a commentare con sarcasmo queste pianificazioni, specialmente quando gli obiettivi fallivano o venivano ritoccati – a metà strada – in caso di difficoltà insormontabili. Gossage si diverte a caricare lo scherzo dell’aria a colori paragonandola, indirettamente, ai progetti mancati delle strategie sovietiche. All’epoca degli annunci Fina si era appena concluso, sotto la guida di Nikita Chruščёv, il Sesto Piano Quinquennale (1956-1960), esibito come un grande successo dalla propaganda sovietica. La “campagna delle terre vergini”, finalizzata allo sfruttamento di aree incolte, aveva creato lavoro e spostamenti in massa mobilitando 300.000 aspiranti agricoltori russi e ucraini verso le steppe del Kazakistan e dei monti Altai. La produzione di grano era stata notevolmente incrementata, ma la pianificazione aveva trascurato, oltre all’impatto ambientale sui territori interessati, “dettagli” come la costruzione di silos e la gestione della distribuzione: sicché nel resto dell’Urss il grano continuò a scarseggiare e se ne dovettero importare venti milioni di tonnellate dal Canada. Forse fu proprio questo paradosso a ispirare la parodia di Gossage, che nel testo di The Pink Inch? esamina due soluzioni possibili: utilizzare le stesse autocisterne adibite al trasporto di carburante o, in alternativa, realizzare un sistema capillare di oleodotti o pompe («The Pink Inch Hose Line») riservati esclusivamente all’Aria Rosa.

Lo scherzo rende evidente, come in tutto il lavoro di Gossage, una delle caratteristiche del suo metodo: adottare il linguaggio del mezzo utilizzato (in questo caso il quotidiano) anziché il “pubblicitese”, ovvero quel sottosistema di segni e parole al quale l’advertising ci ha abituato. La pubblicità, secondo Gossage, altro non è se non un derivato del giornalismo: un modo parallelo di fare notizia.

L’altro principio tipico della visione di Gossage è, come si è detto, l’interattività con lacommunity di lettori disposti a giocare con lui. L’annuncio intitolato Send for your free sample of Pink Air! promette un campione di Aria Rosa ai curiosi che vogliano dare un sbirciatina in anteprima al “prodotto” allo studio. In realtà si tratta di doppi palloncini a ossigeno, uno infilato nell’altro: una coppia per ogni bambino in casa; il coupon da compilare e spedire alla Petrofina invita ciascun interlocutore a specificare quanti figli ha.

Il gioco diventa ancora più coinvolgente con la promozione «15 iarde di Asfalto Rosa» (equivalente a circa 14 metri di pavimentazione). Questa volta il lettore è chiamato a partecipare in modo creativo: deve spiegare dove e come intenderebbe utilizzare l’asfalto eventualmente conquistato, e sarà la risposta più originale a decretare il vincitore. Oltre che divertente per la sua bizzarria, l’idea sembra essere straordinariamente congeniale alla web communication dei nostri giorni: se ne possono immaginare senza sforzo gli sviluppi su una pagina Facebook, su Twitter (“spiegare cosa faresti con l’asfalto in 140 caratteri”), su YouTube (tutorial videos per lanciare la promozione, candid camera per registrare le reazioni pubbliche a insoliti interventi urbani realizzati con l’asfalto rosa, video creati spontaneamente dai partecipanti, referendum attraverso i social network per designare il vincitore, etc.)

Traduco i passi salienti dell’annuncio di lancio:


[Apriamo la strada a un’altra tappa fondamentale del Piano Quinquennale Fina]

LA VOSTRA CHANCE DI VINCERE 15 IARDE DI ASFALTO ROSA  Lo sapete anche voi cosa succede nelle aziende quando un reparto si distingue con qualcosa di speciale: è come con i bambini. Quelli del TBA (Tires/Battery Accessories), per esempio, hanno preteso di avere anche loro un Pink Program. Per non essere da meno, si sono inventati il Tappo di Valvola Rosa («l’accessorio che vi aiuta nel difficile periodo di transizione dall’Aria Normale alla Premium Pink»).   Alla Divisione Trasporti, invece, qualcuno ha proposto: «Perché non dipingiamo di rosa un po’ dei nostri automezzi? Almeno la gente saprà che siamo pronti a trasportare Aria Rosa dalle nostre raffinerie Fina, nel caso che la Pink Air Pipeline non sia stata completata entro il Pink Day.» Detto, fatto.  Al Dipartimento Asfalti si sentivano tagliati fuori. Siamo mica dei piccoli incatramatori di provincia; siamo fra i maggiori produttori di asfalto del paese. Roba di qualità: il nostro è un signor asfalto. Modello base, il nero; finché i nostri ragazzi non hanno compiuto una serie di esperimenti rivoluzionari.  Ecco perché adesso disponiamo di 15 iarde di Asfalto Rosa di qualità superiore, da consegnare a chi sia capace di immaginare il modo migliore di utilizzarle. (15 iarde fanno un bel mucchio di asfalto: che sia rosa o di altro colore pesa una trentina di tonnellate. Se lo vincete, ci vorranno due autoribaltabili con ruote gemellate o due semirimorchi per scaricarvelo a domicilio). Una volta spianato occuperà una superficie complessiva di circa 270 iarde quadrate, che è come tingere di rosa la rampa del box, più un campetto da badminton, più il pavimento di un patio. Oppure sette ottavi di un campo da tennis. Vabbè, d’accordo, ve lo pavimentiamo per intero.  Anche se qui nessuno sa come si sentirebbero le mucche in una stalla dal fondo ridipinto interamente di rosa, almeno una cosa possiamo darla per scontata: che l’asfalto ne tratterebbe con delicatezza le estremità, ed è pulito. Riteniamo sia il materiale ideale anche per la copertura di terrazzi e solarium; solo che non abbiamo ancora idea di come portare il rullo compressore a quell’altezza. Quanto a voi, se avete un pezzo che vi piacerebbe rivestire gratis con il Premium Pink Asphalt, non dovete far altro che precisare, nella prima sezione del coupon sottostante, il cosa e il perché. Vince la risposta più interessante.

La chiusura del concorso è annunciata in pretto stile “notizia di cronaca”:

[Fina annuncia tre premi ex aequo, ovvero: ciò che merita di essere fatto, merita pure di essere strafatto]

 MADRE DI CINQUE FIGLI VINCE 15 IARDE DI ASFALTO ROSA

Dal testo si apprende che la vincitrice del Gran Premio, una signora di Nashville madre di cinque maschi, per anni ha infiocchettato di nastri rosa la culla di vimini nella speranza di partorire una bambina. Auspici sprecati. Ma se il vialetto d’ingresso fosse rosa, la vecchia cicogna… chissà.

Premio di consolazione a una scuola di Wichita, in risposta ai solleciti di 86 studenti vogliosi di una pista o un campo da tennis rosa per «avere qualcosa in cui eccellere dopo i disastrosi risultati conseguiti nel football»; e premio speciale a un benzinaio texano della catena Fina, desideroso di migliorare l’aspetto della sua modesta stazioncina di servizio.

[1] Autore, nel 1925, del citatissimo annuncio per una scuola di musica intitolato They Laughed When I Sat Down At the Piano – But When I Started to Play!–
[2] «La maggior parte dei messaggi pubblicitari va sul sicuro e non esprime un’opinione propria. Non c’è collegamento col pubblico, non si sa mai se si è arrivati fino alla gente, se abbiano applaudito, fischiato o se semplicemente non vi abbiano sentito. Fintanto che la pubblicità non si convince che là fuori c’è qualcuno in carne e ossa e fin quando non gli si rivolge la parola (non con accento pubblicitario ma con la propria madrelingua semplice e senza fronzoli), non svilupperemo mai neanche la metà del senso di responsabilità nei confronti del pubblico e di noi stessi di quanto non ne abbia una spogliarellista di terz’ordine.» (Howard L. Gossage)
[3] Il marchio dell’azienda.




Jean Twenge, lo smartphone e i ragazzi iperconnessi e fragili

Jean Twenge, lo smartphone e i ragazzi iperconnessi e fragili
Iperconnessi è il saggio molto denso, chiaro e diretto di una psicologa californiana che descrive l’infelicità e i vari ritardi di maturazione emotivi e cognitivi dei ragazzi americani tra i 13 e i 20 anni (www.jeantwenge.com, Einaudi, 2018, 371 pagine effettive, euro 19).


Una grande percentuale di ragazzi e ragazze nati intorno al 2000, che sono cresciuti con lo smartphone costantemente in mano, passano la maggior parte del tempo connessi, o a fare giochi digitali. E passano troppo tempo in compagnia dei loro genitori, quasi al livello dei ragazzini di dieci anni. Molti ragazzi e ragazze preferiscono addirittura passare quasi tutto il loro tempo in camera da letto durante le vacanze estive, giocando online o guardando dei telefilm scaricati dalla rete.
Questa particolare classe di età viene definita iGeneration ed è caratterizzata da queste qualità: immaturità, iperconnessione, incorporeità (poche relazioni faccia a faccia), instabilità (piccoli e grandi problemi emotivi), isolamento, incertezza (lavorativa e non), inclusività (tolleranza). Le reti sociali di questi adolescenti si allargano quasi solo online e vengono fatte sempre meno feste, poiché ci vuole troppo tempo a programmarle, e se si beve troppo si mette a rischio la reputazione e la sicurezza emotiva e fisica (ci sarà sempre qualcuno pronto a fotografare e a taggare).
La rete ha attirato tutta l’attenzione dei ragazzi e il tempo impegnato nelle relazioni faccia a faccia nel mondo reale si sta riducendo in maniera molto preoccupante. La libertà di movimento legata al possesso della patente di guida e la piena libertà sessuale, vengono posticipate di almeno uno o due anni rispetto alle generazioni precedenti. Naturalmente le loro scarse abilità pratiche e relazionali stanno rallentando e complicando il loro inserimento nel mondo del lavoro. Ad esempio molti ragazzi parlano pochissimo al telefono non sono in grado di gestire una telefonata educata.
In media gran parte degli adolescenti esaminati dalla psicologa californiana controllano “il cellulare più di ottanta volte al giorno” (p. 5), e vengono descritti come molto individualisti, narcisisti e molto preoccupati dalle disuguaglianze di reddito percepite attraverso le innumerevoli allusioni alla dura competizione, fatte dalla scuola, dalla politica, dalla televisione e dalla pubblicità. Per questo motivo molti ragazzi individualisti perdono incredibili quantità di tempo nel guardare le foto e le attività degli amici o addirittura di “conoscenti” mai conosciuti di persona (amici virtuali).
I ragazzi “all’ultimo anno delle superiori passano ogni giorno una media di due ore e un quarto a mandare i messaggi col cellularedue ore su Internet, un’ora e mezza con qualche gioco elettronico e circa mezz’ora in video chat… Totale: sei ore al giorno in compagnia dei nuovi media, e stiamo parlando esclusivamente del loro tempo libero” (p. 75). Per i più giovani il telefono è come una droga o come un innamorato: è la prima cosa vedono la mattina ed è l’ultima che vedono la notte (avere il telefono vicino anche la notte risulta molto rassicurante, p. 74).
I ragazzi iGeneration leggono pochi libri e riviste (nemmeno online). Nel 2015 in USA, i quotidiani sono stati letti dal 10 per cento dei cittadini, rispetto al 70 percento di dieci anni prima (p. 91). Il distacco dalla carta stampata e dalla lettura ha comportato un grosso calo delle competenze universitarie, nei voti di ammissione, nella scrittura e nell’analisi dei testi (p. 93). Anche se esiste l’obbligo a farlo, “quasi tutti i docenti raccontano che i loro studenti non leggono il testo” o i testi indicati. Quindi “agli iGeneration servono libri di testo che prevedano momenti interattivi – video da condividere, questionari – ma anche libri meno lunghi e di registro più colloquiale” (p. 95).
L’aspetto più positivo di questa generazione è la grande creatività nella socializzazione a breve termine e nelle loro capacità di superamento di molti tabù sociali ingiustificati. Ma purtroppo “sono in prima linea nella peggior epidemia di disturbi psichici degli ultimi decenni, che dal 2011 a oggi ha visto salire alle stelle i casi di depressione e suicidio tra gli adolescenti” (p. 5).
Lo stile di vita americano condiziona in maniera impressionante gli stili di vita dei ragazzi di tutte le società più tecnologizzate, quindi dobbiamo renderci conto che stiamo allevando delle nuove generazioni molto forti fisicamente, ma molto deboli psicologicamente. Del resto anche in Giappone e in Cina, i giovani hanno già delle grandi difficoltà nella socializzazione, nelle relazioni sentimentali e nella riproduzione. Quindi in molte nazioni, e a tutti i livelli (anche accademici), nasceranno dei nuovi gruppi sociali composti da persone troppo infantilizzate e rimbambinite.
 
Jean Twenge è nata nel 1971 e insegna Psicologia alla San Diego University in California. Grazie alle sue ricerche sulle generazioni americane ha pubblicato altri due libri: Generation Me e The Narcissism Epidemic. Per approfondimenti: www.youtube.com/watch?v=T6IBlFELDxc (2018).
 
Nota personale – A quanto pare molti americani sono diventati più iperprotettivi degli italiani, forse soprattutto gli abitanti delle grandi città, a causa della piccola e grande criminalità. A mio modesto parere nel migliore dei casi stiamo creando una generazione di grandi ficcanaso digitali. Molti ragazzi diventano dipendenti della caccia ai like e alcuni non smettono mai. Altri “smettono di farsi incantare dal simulacro della caccia ai like, ma di norma accade sono dopo che sono usciti dall’adolescenza”, intorno ai ventuno anni (p. 83). Forse la salute cognitiva di molti adolescenti italiani verrà salvata da una delle lingue più mentalmente libere e precise del mondo (Ama l’italiano, i segreti e le meraviglie della lingua italiana, https://annalisaandreoni.it, 2017).
Nota ludica – I giochi online hanno una distribuzione bimodale: molti adolescenti li usano tantissimo e altri li ignorano. Le ragazze molto appassionate stanno aumentando. Nel 2016 soltanto il 30 per cento dei quattordicenni usava Facebook almeno una volta al mese, mentre l’80 per cento usava Instagram… “il 59 per cento dei giovani fra i diciotto e i ventinove anni usava Instagram” (Pew Research Center, p. 85). Le immagini portano via meno tempo delle parole, ma una singola immagine fuori dal contesto può mentire e può incasinare la vita più di mille parole.
Nota sul bullismo – Oggi le vita sociale dei più giovani si svolge principalmente online “e uno di loro su tre subisce il bullismo senza nemmeno uscire di casa” (p. 126). Diventa quasi impossibile impedire questa forma di bullismo senza uscire dai social. Negli Stati Uniti “dal 2007 il tasso di omicidio tra adolescenti è diminuito, mentre è aumentato il tasso di suicidio”. E per la prima volta da quando si studia il fenomeno, nel 2011 “il tasso di suicidio tra gli adolescenti è stato più alto del tasso di omicidio nella stessa fascia d’età… nel 2014 il tasso di suicidio superava del 32 per cento quello di omicidio”. Però le cause della depressione sono svariate e “negli anni Novanta il tasso di suicidio era ancora più elevato” (p. 127). Comunque il cyberbullismo nel 2016 ha riguardato il 34 per cento degli adolescenti, mentre nel 2007 era il 19 per cento” (Cyberbullying Research Center, p. 125). Per approfondimenti italiani sul bullismo: https://albertorossetti.com (psicoterapeuta).
Nota finale – L’individualismo estremo si riflette nella continua ricerca di sicurezza e nel declino costante dell’impegno civile, nonostante l’aumento del grado di tolleranza nei confronti di quasi tutti i generi di diversità. Poi si riflette nell’instabilità delle relazioni sentimentali. Per ora quasi tutte le problematiche esposte nel libro riguardano più da vicino le classi medie e alte della società americana. Nel giro di pochi anni il ritardo di maturazione emotiva riguarderà probabilmente tutte le classi sociali. Il ritardo di maturazione cognitiva potrebbe danneggiare tutte le fasi della vita. La crisi economica spinge a rinunciare le relazioni stabili e forse anche ai figli. Forse “gli Stati Uniti assomiglieranno sempre più all’Europa, dove i tassi di natalità sono al di sotto del tasso di ricambio generazionale e il matrimonio è un optional” (p. 288). In effetti i matrimoni e i figli comportano molti problemi e rischi individuali: emotivi, economici, lavorativi, abitativi, logistici, di carriera, ecc.
Nota iperfinale – “Quando frequentavo le superiori io, se fossi andato in giro a dire: “Ecco una mia foto, dimmi che ti piaccio”, mi avrebbero dato un pugno. Se una ragazza avesse distribuito a destra e a manca fotografie in cui appariva nuda, la gente avrebbe pensato che le serviva uno psicanalista. Adesso, sono solo i selfie della domenica ” (Paul Roberts, p. 84, ha scritto The Impulse Societyqui trovate una sua conferenza del 2014).
Nota apocalittica – Anche l’incremento dei debiti legati ai prestiti universitari e degli anni da dover passare nel ruolo indesiderato e prolungato di moderni schiavi finanziari, stanno mettendo in crisi la salute psicologica di innumerevoli studenti americani (p. 161 e p. 209). Il debito medio di un laureando nel 1993 era di 9727 dollari, nel 2005 è diventato di 22575, mentre nel 2016 ha raggiunto i 37173 dollari (p. 232). Inoltre l’esagerato bisogno di protezione sta minando il diritto mentale della libertà di ascolto, di confronto e di espressione: in molti atenei americani sono comparsi degli “spazi protetti”, e “se gli studenti si sentono turbati dai discorsi di un relatore invitato a tenere una conferenza nella loro facoltà, si riuniscono in un apposito locale e si consolano a vicenda”. Qualche burocrate sconsiderato ha diffuso l’allucinante idea che bisogna tutelarsi “dalle persone che la pensano in modo diverso” (p. 185). “Un’università non protegge, nelle università si impara e ci si fanno domande”. A volte ci si sente a disagio e si chiama imparare (p. 192). Del resto molti ragazze e ragazzi immaturi si sentono “la prima generazione totalmente impossibilitata a sfuggire ai propri problemi” (Faith Ann Bishop, ventenne, p. 145, testimonianza di resa mentale resa al Time). Ma non basterebbe alzare le chiappe e andare a trovare qualche amico o un parente? Ma noi “Ci lasciamo distrarre dai dettagli più futili e tutto diventa intrattenimento” (Vivian, 22 anni, p. 209). Qui ci sono delle altre riflessioni americane: http://anationofwimps.comhttps://lisa-wade.com/american-hookupwww.peggyorenstein.com/main-st.




Genera

Genera

L’ospite di questa settimana è Marco Busetto, Business Analyst di Genera, una nuova realtà del mondo cooperativo.
Buongiorno Marco e benvenuto sul mio blog. Quando è nata e qual è la missione di Genera?
Genera è un fondo di investimento “a rotazione” che ha iniziato la propria attività in Lombardia nei primi mesi del 2016 con l’obbiettivo di sostenere progetti di sviluppo, diversificazione, riorganizzazione ed innovazione di imprese cooperative o ad alto valore cooperativo. La società investe in capitale di rischio in iniziative imprenditoriali (start-up e imprese consolidate) anche non cooperative ma caratterizzate da un marcato impatto sociale e interesse cooperativo. Lo slancio verso l’innovazione e la sostenibilità rappresentano quindi il fil-rouge che dà coerenza agli investimenti effettuati e agli sforzi che Genera ha prodotto e sta producendo. A partire dal suo lancio Genera ha investito in 7 progetti in diversi settori tra cui, solo per citarne alcuni, la mobilità sostenibile, soluzioni innovative in ambito welfare e il settore degli affitti brevi.
Vi definite una rete di soggetti con un unico obiettivo: promuoviamo i valori della cooperazione per rilanciare un modello di sviluppo sostenibile e con un impatto sociale positivo. Ci spieghi meglio?
Genera nasce in collaborazione con Legacoop Lombardia, è naturale quindi che abbia nel suo DNA i valori cardine della cooperazione. I soci di Genera credono in un modello di lavoro e di sviluppo che metta le persone al centro. Per questo sostengono l’avvio di nuove società cooperative e di progetti imprenditoriali che prestino particolare attenzione al capitale umano e ai valori della responsabilità sociale. Il valore di questi progetti dipende non solo dalla remunerazione del capitale di rischio e dal loro grado di evoluzione tecnologica ma anche dalla qualità e dalla quantità dell’apporto fornito dalle persone che fanno parte dell’impresa.
Come siete organizzati e quali sono i vostri punti di forza?
Genera è una struttura agile basata a Milano e composta da un team dinamico e flessibile. Una parte importante del lavoro è dedicata al processo pre-investimento attraverso il quale vengono selezionati i progetti che meglio rispondono alle linee guida e ai criteri di Genera. La società monitora periodicamente, attraverso una serie di strumenti di supporto all’attività manageriale, l’andamento dei propri investimenti senza però volersi sostituire all’attività degli imprenditori. Uno dei principali punti di forza risiede nella capacità di contribuire all’attivazione di processi virtuosi di integrazione e collaborazione tra istanze imprenditoriali cooperative ed extra-cooperative.
Programmi per il futuro?
Accanto alla funzione di piattaforma abilitante in grado di fornire risorse economiche e manageriali (capitale, assistenza, servizi, ma anche networking e strategia) Genera intende porsi come un aggregatore di domanda e offerta di innovazione cooperativa. In quest’ottica si è deciso di costituire un vero e proprio centro per l’innovazione e per l’open innovation. Un luogo fisico di aggregazione e attrazione capace di accogliere, stabilmente o temporaneamente, cooperative mature e start-up innovative. Questo spazio, chiamato Open Innovation Lab, ospiterà nel corso del 2019 una serie di workshop tematici.




ARABIA SAUDITA: NON DI SOLO CALCIO….

ruolo della donna Arabia Saudita

Il ruolo della donna nella comunicazione pubblicitaria in Arabia Saudita

È trascorso poco più di un mese dal 25 novembre, Giornata Internazionale ONU contro la violenza sulle donne, quando la Lega della Serie A di calcio aveva invitato i calciatori a scendere in campo con un segno rosso sulla faccia e il Presidente della Lega Gaetano Micciché aveva dichiarato: “Il mondo del calcio deve sensibilizzare contro questi fenomeni, perché può avere un ruolo molto rilevante nel dare il suo contributo”, e – peraltro – solo 3 mesi dal giorno in cui Jamal Khashoggi, collaboratore del Washington Post e in passato critico verso il regime di Riad, si era recato nel consolato Saudita di Istanbul per completare alcune pratiche burocratiche, uscendone morto e tagliato a pezzetti, e l’Arabia Saudita entra nuovamente nell’occhio del ciclone – con inevitabili polemiche online e i Social scatenati – a causa della decisione della Lega di giocare la Super Coppa italiana in un paese che, notoriamente, nega vari basilari diritti alle donne.
Che l’Arabia Saudita – alleato fondamentale degli USA e importante acquirente di armi anche dall’Italia, nonché principale protagonista, con l’Iran, della guerra per procura in corso in Yemen, dall’inizio della quale più di 85.000 bambini sono morti di stenti – presentasse ampi “spazi di miglioramento” sul fronte dei diritti umani, non è certamente una novità, come anche cosa nota da tempo è che, paradossalmente, a presiedere il Comitato consultivo del Consiglio ONU dei Diritti Umani sieda proprio Faisal bin Hassan Thad, Ambasciatore dell’Arabia Saudita alle Nazioni Unite: ma in Italia ci si sveglia sempre e solo quando di mezzo c’è una partita di calcio, per riaddormentarsi poi immediatamente dopo lo scoccare del 90° minuto.
In ogni caso, la decisione di giocare la Supercoppa di Lega nel regno arabo ha suscitato numerose polemiche, in quanto la maggior parte dello stadio King Abdullah Sports City Stadium sarà riservato agli uomini, e le donne – secondo quanto riportato dai principali mass-media mainstream – saranno confinate in pochi settori secondari.
In Arabia Saudita alle donne sono da sempre preclusi alcuni basilari diritti umani: la testimonianza offerta da una donna in Tribunale vale la metà di quella dell’uomo (!), le donne non possono viaggiare liberamente, o sottoporsi a un’operazione chirurgica, senza l’approvazione di un parente maschio, e solo da pochi mesi possono prendere la patente; in occasione della partita tra Juventus e Milan, che si giocherà il 16 gennaio nella città di Gedda, i biglietti riservati alle donne saranno un’esigua minoranza, e comunque potranno assistere all’incontro solo da settori periferici del King Abdullah Sports City Stadium. Qualcuno alla Lega sottolinea come si tratti in fondo “di un passo avanti”, in quanto se non altro è la prima volta nella quale le donne saudite allo stadio potranno entrarci: anche per i sauditi pare quindi esserci la speranza, prima o poi, di vedere la fine del tunnel e uscire dal medioevo teocratico.
Allargando il focus, qual è la rappresentazione che viene data della donna nelle case dei Sauditi? Ne ha scritto in un recente articolo il quotidiano liberal tedesco Suddeutsche Zeitung, riportando il testo di uno spot molto diffuso in TV a Riad e dintorni: “Tutte le cose finiscono, tranne l’amore per la famiglia e per il tuo bucato”. E giù con la donna che afferra il cesto e corre in bagno per lavare “la quantità infinita di panni sporchi”, ma con gioia, ovviamente, al servizio del benessere dei figli e soprattutto del marito. Pulire, cucinare, spolverare, cambiare i pannolini, e attendere fremente il rientro a casa del consorte che porta i soldi a casa, e – mi raccomando – sempre con il sorriso sulle labbra: uno spot del genere, andato in onda nel non lontano 2017 per pubblicizzare il detersivo Persil della multinazionale tedesca Henkel, era tipico anche da noi negli anni ’50, e forse anche più recentemente, ma dà l’esatta misura del gap culturale che separa attualmente i due mondi. E non si tratta certamente di un’eccezione, ma anzi, della regola. La nordica e modernissima Ikea, ad esempio, ha rimosso “per rispetto” – o forse per evitare polemiche – tutte le figure femminili dal proprio catalogo per l’Arabia Saudita, mentre nella pubblicità del detersivo Tide della Procter&Gamble, diffuso nel mondo arabo a fine 2016, la madre redarguisce la figlia al grido di: “Non crederai di trovare marito se non sai usare la lavatrice!”, trascinandola contro la sua volontà in bagno per illustrarle l’arte del bucato e i benefici dell’uso del detersivo americano.
Interpellati dal quotidiano tedesco, i responsabili dei vari marchi hanno rilasciato dichiarazioni tra lo sconcertante e il desolante: “Ovviamente nelle nostre iniziative pubblicitarie rispettiamo le tradizioni e la cultura di ogni paese, e d’altra parte le pubblicità non hanno certamente il compito di cambiare la società”, ha dichiarato Elke Schumacher, responsabile comunicazione della Henkel. Peccato, avrà pensato la Schumacher, non essere riusciti a realizzare quello spot sulle lamette per rasoi per la zona del Mali e del Centro Africa, ambientata nella casa dove la madre costringe la figlia urlante alla mutilazione rituale del clitoride: sarebbe stato così tipico e rispettoso delle tradizioni locali! Fatma Abd al Salam, regista e blogger egiziana, madre e moglie, si irrita dinnanzi a questi spot: “Anche i marchi occidentali diffondono nel mondo arabo messaggi misogini, con le donne impegnate solo a soddisfare i bisogni degli altri, invece che dare un’immagine più neutrale e utile per stimolare piccoli cambiamenti, mostrando ad esempio un bambino, maschio, intento ad aiutare la madre a fare il bucato”, immagine che – al netto dei minus habens che squittiscono di continuo urlando al “complotto gender”dovrebbe essere del tutto sdoganata in occidente.
Circa l’opportunismo e schizofrenia delle multinazionali occidentali, bravissime nella redazione di bilanci sociali patinati che difettano sistematicamente dell’essenziale requisito dell’autenticità, avevo già scritto, ma sconcerta il doppiopesismo di aziende che pur aderendo alle linee guida dell’Advertising Standards Authority (“Gli stereotipi di genere andrebbero rimossi in quanto limitano la percezione di se e le possibilità di scelta”) finiscono poi per puntualmente violarli per interessi meramente commerciali.
Considerata l’influenza profonda della pubblicità sull’inconscio delle persone, è proprio così vero che le aziende non devono dare alcun contributo al cambiamento della società, in barba alle tanto decantate policy di responsabilità sociale d’impresa?  Chiunque abbia accesso ai mass media contribuisce di fatto a forgiare la società”, dichiara a tal proposito Massimo Guastini, pubblicitario esperto e Direttore Creativo di Cookies & Partners. “Marketer e pubblicitari sono, nel bene e nel male, operatori culturali a tutti gli effetti, in quanto la comunicazione commerciale diffonde modi di essere, linguaggi, metafore e gerarchie di valori che entrano a far parte dell’immaginario collettivo, orientando opinioni, convinzioni, atteggiamenti e comportamenti quotidiani degli individui. Che la pubblicità non abbia il compito di cambiare la società è quindi una falsa questione: il tema davvero centrale è che la pubblicità non deve rappresentare una specifica forma di ‘inquinamento cognitivo’, e non deve consolidare stereotipi e pregiudizi arcaici che contribuiscano a mantenere disparità e discriminazioni anticostituzionali, punto di vista che trova conforto anche nella ricerca ‘Come la pubblicità racconta le donne e gli uomini, in Italia’”.
Qualcuno sui Social ha poi preso la parola dicendo: “Chi siamo noi per dare lezioni, quando in occidente nella maggior parte dei casi una donna in pubblicità vale in base alla quantità di centimetri di nudo che mette in mostra?”. Vero, tanto che siamo il paese nel quale il Presidente di “Pubblicità Progresso”, Alberto Contri, può affibbiare serenamente online a due professionisti della televisione, omosessuali nel loro privato, l’appellativo di “spregevoli checche”, ed essere ancora comodamente seduto al proprio posto. Con qualche lodevole eccezione, in definitiva, dal punto di vista dei diritti la gara a chi fa peggio, in pubblicità, pare quindi essere sempre aperta.