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Instagram, il social della perfezione che ci rende infelici

Per un numero sempre crescente di utenti ed esperti di salute mentale, il problema è proprio l’immagine eccessivamente perfetta che emerge su Instagram, che ci spinge a sentirci inadeguati


UN VIAGGIO strepitoso, una colazione con i fiocchi, un panorama mozzafiato e un selfie impeccabile. Il tutto impacchettato con innumerevoli filtri di bellezza, combinazioni chiaro-scuro per mettere in risalto i particolari e una pioggia di hashtag che fanno registrare in media 4,2 miliardi di like al giorno. È il mondo di Instagram, il social della perfezione, che innumerevoli volte al giorno decidiamo di aprire sui nostri smartphone per scorrere velocemente foto e video e aggiornarci sulle ultime novità delle persone che abbiamo deciso di seguire. Ma parliamoci chiaro: anche un soggetto banale diventa splendido quando la fotografiamo e la postiamo su instagram. Ed è proprio la ricerca di questa perfezione, a metà strada tra realtà e finzione, che ci costringe a una corsa interminabile verso il raggiungimento di stili di vita ideale, impeccabile, in un eterno confronto con gli altri utenti. Alimentando in alcuni di noi sensi di inadeguatezza e bassa autostima.

L’EFFETTO INSTAGRAM

Per un numero sempre crescente di utenti ed esperti di salute mentale il cuore del problema sarebbe proprio la continua ricerca della perfezione a cui ci spinge Instagram. È quanto si legge in un articolo appena pubblicato sul Guardian, secondo cui il social incoraggia a presentare un’immagine accattivante che potrebbe far pensare ad alcuni utenti di non essere all’altezza, che siano tutti perfetti, tranne loro. Un atteggiamento che può trasformarsi in un’autentica minaccia per la nostra salute mentale e il benessere personale. Nel 2017, per esempio, la Royal Society for Public Health (Rsph), ha condotto un sondaggio su 1.500 giovani del Regno Unito tra i 14 e i 24 anni, chiedendo loro quanto le cinque grandi piattaforme di social media (Twitter, Facebook, YouTube, Snapchat e Instagram) influissero sulla loro vita. Secondo le analisi, Instagram è risultato particolarmente negativo per i suoi effetti sulla qualità del sonno, sull’immagine del corpo e sul Fomo (Fears of missing out, ovvero la paura di essere tagliati fuori), e legato a un maggiore rischio di depressione e ansia dovuti alla paura di non sentirsi all’altezza, di non potersi permettere lo stile di vita che osservano sul social.

NASCE PRIMA L’UOVO O LA GALLINA?

Tuttavia, bisogna precisare che gli studi che analizzano il rapporto tra salute mentale e social media si basano su questionari e indagini in cui la persona che fa uso dei social auto-riferisce il proprio stato d’animo. E trattandosi di opinioni soggettive, è impossibile stabilire la causa reale dei malumori. “Da questi report emerge che gli utenti che stanno 2 o più ore sui social sono quelli che riportano più frequentemente ansia, depressione e altri problemi di disagio mentale, ma il problema è che non si sa bene se nasce prima l’uovo o la gallina – ci ha spiegato Bernardo Carpiniello, presidente della Società italiana degli psichiatri e professore ordinario di psichiatria dell’Università di Cagliari – cioè se tutto questo è legato al fatto che i media siano la causa diretta di ansia e depressione, o viceversa, se chi ha questi problemi tenda piuttosto a farne un uso maggiore”. In particolare, precisa Carpiniello, il problema di Instagram è che è un social basato sulle immagini, e questo aumenta la competizione e il confronto con gli altri utenti. “Per fare un esempio – prosegue l’esperto – i giovani postano spesso fotografie di se stessi o in interazione con gli altri. E ciò, soprattutto i giovani che hanno problemi di interazione sociale o problemi di bassa autostima, può innescare un confronto e aumentare il senso di diversità e di frustrazione, la sensazione di essere inadeguati, e tutti i sentimenti di tipo depressivo”.

IL BUONO DI INSTAGRAM

Il social della perfezione, tuttavia, avrebbe anche qualche aspetto positivo. Secondo uno studio della University of Missouri-Columbia, pubblicato a febbraio scorso, la maggior parte degli utenti utilizza Instagram per evadere dai problemi e dalle preoccupazioni della vita quotidiana. “Certamente, l’essere osservatore di immagini positive come metodo di evasione dalla realtà potrebbe essere un sollievo psicologico per alcune persone”, sottolinea Carpiniello. Tuttavia, precisa l’esperto, è una sorta di surrogato che non contribuisce a migliorare molto lo stato soggettivo, in quanto si gode di qualcosa che non si appartiene, ed ha quindi un effetto momentaneo. “È possibile, invece, che per alcuni possa essere un fattore di miglioramento, intendendo Instagram come un modo di esprimere se stessi e la propria creatività”, spiega Carpiniello. “Per un giovane, questa forma di espressione potrebbe essere un potenziatore dell’autostima.

IL TEAM DEL BENESSERE

Piuttosto che ignorare il problema sollevato dalla Rsph, Instagram ha così pensato di affrontarlo con una precisa contromisura: un intero team (non si sa ancora da chi è composto e quali qualifiche abbia) dedicato a far sentire meglio le persone durante il suo utilizzo. Stando agli ultimi aggiornamenti, il Wellbeing (così si chiama il team) si occupa della salute mentale degli utenti, esaminando segnalazioni di post che potrebbero in qualche modo indicare che la necessità di un’assistenza psicologica, e provvedendo poi a contattare l’utente per fornire consigli e aiuto. “Questa è potenzialmente un’idea buona”, conclude Carpiniello, “Essere consapevoli di questi problemi ha portato il social a un tentativo di porre dei rimedi. Ma bisogna assicurarsi che le contromisure si rivelino efficaci: sarebbe interessante sapere se questo rimedio stia veramente aiutando gli utenti o se abbia dato adito ad altri problemi”.




Stroppa: analisi visuale su Instagram, ecco il futuro per le aziende e la politica

Stroppa: analisi visuale su Instagram, ecco il futuro per le aziende e la politica
L’ex hacker, oggi security reasearcher, spiega il software che rivoluziona la comprensione di Internet. E come può essere decisivo anche nella lotta ai populismi o nell’antiterrorismo

Secondo i due più completi report sulle operazioni di disinformazione avvenuti attorno alle elezioni americane – ordinati dalla Commissione intelligence del Senato Usa e svolti dal Computational Propaganda Project dell’Università di Oxford (in collaborazione con la società di analisi Graphika), l’altro coordinato da Renee Di Resta e Jonathan Albright di Columbia University – un fatto è certo: non solo le interferenze russe nel voto che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca sono state ingenti, ma sono avvenute (oltre che su Facebook) probabilmente ancora di più su Instagram. Facebook aveva comunicato che la campagna di disinformazione russa aveva raggiunto almeno 126 milioni di persone, e altri 20 milioni su Instagram, Ma i numeri per Instagram sembrano essere stati gravemente sottostimati.

È Instagram, insomma, la nuova frontiera per chi vuole analizzare i dati di Internet. Non solo per quel che riguarda la disinformazione: anche in tantissime altre sfere, l’antiterrorismo, la pubblicità, la profilazione, le analisi dei trend di marketing per le aziende, l’anticontraffazione, lo studio dei comportamenti e delle abitudini. In realtà già da diversi anni le più importanti società di analisi avevano indicato come Instagram avesse superato Facebook nei livelli di engagement: ovvero le persone che fruiscono degli stessi contenuti su Facebook e Instagram, sul secondo generano più interazioni, nonostante Facebook abbia quasi il doppio degli utenti registrati.

Tutto passa da Instagram, insomma. Che oggi vanta un miliardo di utenti attivi ogni mese e che, grazie alla funzione Stories, i contenuti che scompaiono dopo 24 ore, è diventato un diario sempre aggiornato di influencer, brand, politici, aziende e organizzazioni, tanto che alcune campagne di comunicazioni per grandi aziende hanno deciso di creare delle mini-serie destinate soltanto al format delle Stories. In Italia poche persone si occupano principalmente di Instagram e delle analisi complesse dei dati su questo social network: uno di questi, forse il maggiore, è Andrea Stroppa, ex hacker, security researcher, collaboratore del World Economic Forum di Davos, e mente di Ghost Data, un progetto realizzato assieme ad altri esperti provenienti da Russia, Italia e Stati Uniti. Ghost Data è un software che ha focalizzato la sua tecnologia e il suo sviluppo sull’analisi dei dati “a scomparsa”, Ghost (come fantasma), e che grazie a diverse tecniche e tecnologie permette di estrarre informazioni fruibili da dati complessi. Stroppa ha accettato di parlare – per la prima volta così diffusamente -di questa nuova frontiera, big data a analisi di dati soprattutto in relazione al mondo dei video e delle immagini.

Possiamo spiegare perché l’analisi di dati testuali è superata ormai da quella su video e immagini?

«Innanzitutto, quando sentiamo dire “big data” non stiamo parlando di altro che di una grande mole di dati. “Analizzare i dati” però è un’espressione ancora generica, anche in inglese “data analysis” non ci spiega fino infondo il suo significato. Tuttavia questi termini sono sempre più utilizzati, e allora imparare il loro significato è fondamentale per capire dove sta andando il mondo e lo sviluppo tecnologico. In breve lo sviluppo di potenti algoritmi, sistemi informatici sempre più performanti e accessibili permettono di realizzare analisi che prima erano soltanto fantascienza. I video e le immagini consentono di capire con enorme precisione molte più cose dei testi perché al loro interno hanno una immensa vastità di informazioni».

Andiamo con ordine. Fino a oggi cos’è successo? Le analisi dei dati possono avere tanti clienti, istituzioni, partiti, aziende. Ma finora si sono occupate per lo più di testi, e di social network che avevano al centro i testi, come Facebook, o twitter. Questo ha portato con sé una certa limitazione di prospettive, è così?

«Le analisi web sono di certo analisi potentissime e diffuse perché contribuiscono a spiegare o anticipare fenomeni sociali, economici, politici, finanziari, geo-politici, tecnologici. La piattaforma per eccellenza in questi anni, per le analisi fatte sul web, è stata Twitter: l’analisi dei tweet, e la profilazione degli utenti e altre informazioni come la geolocalizzazione, i dispositivi utilizzati, eccetera, hanno permesso a ricercatori, accademici, aziende e organizzazioni di studiare le elezioni politiche, trend, analizzare i mercati finanziari e molto altro. Questo genere di analisi viene svolta da circa dieci anni ormai, e è stata poi allargata ad altre piattaforme con tecniche simili».

L’Italia com’è messa?

« Ci sono non poche realtà che analizzato testi, ma pochissime che analizzano video e immagini. Eppure le piattaforme cambiano, come cambiano gli scenari: ci sono molti più utenti collegati a internet con connessioni veloci, smartphone di ultima generazione capaci di realizzare contenuti multimediali di alta qualità, persone sempre più giovani, ma anche tantissimi ultra cinquantenni in grado di comprendere pienamente i nuovi strumenti tecnologici e tecnologie che permettono di analizzare in pochi minuti migliaia di immagini, video e suoni grazie all’intelligenza artificiale, o più specificatamente alla visual recognition. Google, Amazon, IBM, Microsoft e alcune startup – non tantissime, e decisamente poche in Italia – hanno sviluppato software potentissimi in grado, attraverso modelli, di estrarre informazioni incredibili».

Ecco, ma cosa ci possono dire queste informazioni? Perché è tanto utile capirle, e saperle analizzare?

«Perché ci dicono tante cose che possono diventare asset di conoscenza per aziende, istituzioni e via dicendo. Faccio alcuni esempi anche banali e diversi tra loro: quali sono i loghi più ripresi nelle strade dello shopping? Quali sono le categorie di utenti che condividono contenuti di violenza, droghe, nudo o armi? Quali sono i dati demografici (ci sono persone nere, bianche, di quale età stimata) dei partecipanti a un concerto di musica rock? Quali sono i ristoranti di tendenza tra i giovani a Singapore? Quali canzoni e serie tv guardano a Milano le ragazze universitarie? Quali sono le vacanze preferite dai parigini? Tutto questo rappresenta una nuova generazione di analisi che va oltre la semplice analisi di testi dei tweet, ma entra in una dimensione più potente e complessa, che offre informazioni straordinariamente precise. Non sono più i messaggi di utenti che ci dicono “oggi ho ascoltato Vasco Rossi”, oppure “in quel quartiere c’è molta violenza in strada”, o ancora “la mia marca preferita di scarpe è la Nike”. Sono i software e gli algoritmi che, da soli, interpretano e analizzano i contenuti che le persone condividono spontaneamente. E ovviamente nello stesso video possiamo avere un mix di tutte queste informazioni».

Perché Instagram diventa così centrale, e perché voi analizzate soprattutto video e immagini? Voglio dire, in cosa è più ricco rispetto, poniamo, a twitter?

«Il vero cambiamento è avvenuto con Snapchat, che ha inventato un formato nuovo di contenuti multimediali: i contenuti a tempo. Ovvero immagini e video che scompaiono dopo un tempo massimo di 24 ore. Instagram, di proprietà di Facebook, quasi due anni fa ha intuito che quel modello era vincente e ha creato le Stories. Dopo 24 ore le immagini e video scompaiono: gli utenti si sentono più rilassati nell’usare questo social quasi in modo compulsivo, facendolo ormai quasi coincidere con il quotidiano. Instagram, al di là di ogni considerazione più filosofica che potremmo fare, fa centro e le Stories diventano in meno di due anni la funzionalità più utilizzata, che Facebook inserisce subito su tutti i suoi prodotti. Oggi i trend ci dicono che per chi fa inserzioni, l’interesse commerciale è sempre più rivolto a Instagram, anche a scapito di Facebook. Grazie a questa intuizione Instagram cresce in modo esponenziale e raggiunge un miliardo di utenti attivi al mese. I maggiori analisti tecnologici sia sui media parlano di Instagram come il futuro non solo di Facebook. Ma anche il ceo di Facebook Mark Zuckerberg l’ha confermato, a fine ottobre ha dichiarato che il futuro di Facebook sono i contenuti a tempo, e soprattutto che stanno lavorando a un modo per monetizzare questo formato».

Perché le aziende, e le istituzioni, dovrebbero essere così tanto interessate all’analisi dei dati visuali?

«Perché gli utenti attraverso le Stories raccontano ogni istante della loro vita quotidiana offrendo delle informazioni nuove, uniche, fresche, multimediali, altamente profilabili e genuine. Dove si trovano, cosa acquistano, cosa indossano, cosa hanno mangiato, chi sono le persone che incontrano, come guidano l’automobile, che musica ascoltano, il loro umore, i comportamenti, le abitudini e molte altre informazioni. Un vero tesoro per chi analizza dati e è in grado di estrarre informazioni. Una nuova frontiera delle analisi dei dati».

Sembra che anche l’intelligence possa essere rivoluzionata, da queste analisi: l’antiterrorismo, per esempio. È così?

«Faccio un esempio su un lavoro abbastanza fortunato che ho fatto anni fa. Associated Press a settembre 2017 scrisse, sulla base di un mio report, che l’Islamic State utilizzava la funzione Stories di Instagram per comunicare e condividere messaggi di propaganda. Era la prima volta al mondo che veniva documentato attraverso un report che lo Stato Islamico utilizzava il social dei filtri per eccellenza per comunicare messaggi in tutto il mondo con sostenitori e lupi solitari. Fino ad allora soltanto Twitter e Telegram erano conosciuti dal pubblico come mezzo favorito dal sedicente stato islamico. Molte delle Stories contenevano anche dati di geolocalizzazione, altre degli screenshot degli smartphone. Potete immaginare quanto può essere utile per un analista di intelligence avere dati di geolocalizzazione o vedere che operatore utilizza, quanto campo ha, di quale connessione internet dispone, quale sistema operativo e app sono installate sul cellulare di un simpatizzante o affiliato a un’organizzazione terroristica».

Il vostro team fu contattato anche da esperti di intelligence, in quel caso?

«Sì, è successo».

Cos’è, esattamente, “Ghost Data”?

«È un software in grado di profilare, estrarre e analizzare le Instagram Stories e Live (oltre che ai semplici post di IG) utilizzando differenti tecniche: la network analysis, la data analysis e l’ausilio dell’intelligenza artificiale che prendiamo dai migliori: Amazon Rekognition, IBM Watson, Google Vision, Microsoft Azure e della startup americana Clarifai. Integrando differenti conoscenze e tecniche lo scopo è generare report o costruire cluster di dati che possono realmente aiutare aziende e non rispondere a delle esigenze ben precise».

È mai successo che qualche azienda vi abbia proposto di vendere il progetto, di comprare il vostro software?

«Sì, in generale le aziende del settore assicurativo, per esempio, sono molto interessate a comprendere i comportamenti dei loro clienti o potenziali. Non vogliono sapere nello specifico il comportamento del singolo, vogliono avere una panoramica più chiara su gruppi di persone».

Qual è la situazione in Italia e fuori?

«Per rispondere si può pensare al libro del cinese Kai-Fu Lee dal titolo AI Superpowers: China, Silicon Valley, and the New World Order. L’autore, un esperto del settore e anche un investitore in società di intelligenza artificiale, racconta come la Cina e gli Stati Uniti stanno costruendo sistemi di intelligenza artificiale straordinariamente avanzati e che soprattutto la Cina sta facendo dei passi da gigante soprattutto negli ultimi anni. Gli Stati Uniti ovviamente rispondono con le loro super università o i super laboratori delle aziende tech, come quello di Google, partito però dall’acquisizione di una società inglese alcuni anni fa. In Italia ci sono accademici di altissimo profilo nel settore, ma ho l’impressione ci siano scarse risorse finanziarie – per tuta una serie di ragioni – per avviare progetti che possono competere con i più bravi»




Medici, Asl e ospedali: la sanità italiana non sa usare i social

Saper comunicare in sanità è importante e i social media sono uno strumento imprescindibile oggi, ma in Italia non sono molte le Aziende Sanitarie ad averlo capito.
Secondo quando emerge dal Rapporto OASI 2018 dell’Università Bocconi in collaborazione col CEDAS, in un sondaggio condotto su 51 fra Aziende Sanitarie Locali (ASL), Aziende Ospedaliere (AO) e Ospedaliero Universitarie (AOU) e Istituti di Ricovero e Cura a Carattere Scientifico (IRCCS), 18 non sono presenti per nulla sui social media, nemmeno su Facebook. Ma solo 3 delle 51 aziende sono presenti su Instagram, il social più in voga oggi fra i più giovani.
Al primo posto troviamo Facebook, scelto da 33 aziende su 51, cioè il 65% del campione, al secondo posto YouTube (adottato in 21 aziende), seguito da Twitter (15) e LinkedIn (14). Solo 4 aziende utilizzano piattaforme di blogging.
In ogni caso avere un account social non basta se viene utilizzato a senso unico, cioè come la versione digitale della vecchia bacheca di sughero dove affiggere le comunicazioni di servizio. Il vero valore aggiunto dell’utilizzo dei social media in sanità è rappresentato dalla possibilità di fare prevenzione, promozione della salute ma soprattutto di interagire con la popolazione. Tuttavia sono poche le aziende che utilizzano i social media in questo senso. Colpisce infatti un’impronta ancora molto caratterizzata dall’approccio di «comunicazione» in senso stretto Sebbene risultino più diffuse le finalità di informazione su temi legati alla salute (ad esempio, dando agli utenti indicazioni e consigli su stili di vita sani o sull’alimentazione) e quelle di pubblicazione di contenuti specifici sulle attività svolte dall’azienda, solo 5 usano i social per raccogliere feedback sull’esperienza dei pazienti e 3 mettono in comunicazione questi ultimi con specialisti.
Poche sono le aziende che pensano a contenuti specifici per l’online – meno di una su quattro fra chi usa i social – e non deve stupire, dal momento che sono rari i casi in cui i social sono gestiti da una figura professionale competente in materia. Il più delle volte si tratta di dipendenti che già svolgono altri compiti all’interno della struttura e a cui viene chiesto di alimentare il profilo. Questi elementi portano a ipotizzare che, anche nei casi in cui la presenza aziendale sui social media sia una realtà sempre più diffusa, non sempre esiste una strutturazione delle attività che specializzi più persone sulla gestione di questi canali e che essa sia parte delle attività di comunicazione d’azienda insieme ad altre (ad es. l’ufficio stampa).
Un ulteriore elemento importante emerso nel sondaggio è che non si riscontra la presenza di attività di analisi e di inclusione delle informazioni e dei feedback raccolti tramite social media all’interno dei processi decisionali aziendali. Nessuna azienda fra quelle esaminate fa ricorso a sistemi di analytics e reporting strutturati che permettono di raccogliere e analizzare in modo completo e sistematico le informazioni provenienti dai social. Solo il 23% delle aziende che dichiarano di effettuare analisi dei dati utilizza strumenti appositi, come ad esempio elaborazioni in Excel, o strumenti ad hoc come Google Analytics o Hootsuite, mentre il restante 77% non utilizza alcun tool dedicato.
Il 50% delle aziende intervistate dichiara di analizzare solo alcune informazioni e il 21% tutte le informazioni raccolte sui social, ma in entrambi i casi in modo non strutturato, Il 4% analizza solo alcune informazioni, ma in modo strutturato, mentre il rimanente 25% utilizza i social senza analizzare nulla di quanto raccoglie, rendendo impossibile, di conseguenza, valutare la qualità e l’efficacia dell’utilizzo dello strumento come valore aggiunto. Ed è un’enorme occasione persa.




Perchè i Brand Devono Prendere Posizione su Temi Civili e Sociali

Apriamo l’anno su un tema che è al centro del dibattito tra gli addetti ai lavori grazie al rapporto su “Gli Italiani e lo Stato”, giunto alla XXI edizione, realizzato da Demos & Pi per La Repubblica, pubblicato il giorno prima di Natale.
La rilevazione è stata condotta da Demetra con metodo “mixed mode” [Cati – Cami – Cawi], nel periodo 10 – 14 Dicembre 2018. Il campione è rappresentativo della popolazione italiana con 15 anni e oltre, per genere, età, titolo di studio e area [margine di errore 2.8%].
Al suo interno vi sono molti dati d’interesse. Tra questi abbiamo deciso di focalizzare la nostra attenzione su quelli che Demos & Pi chiama “nuove forme di partecipazione”, poiché crediamo che siano di particolare interesse per chi si occupa di marketing e comunicazione, visto, appunto, che tale tema è da qualche mese di grande interesse per gli addetti ai lavori.
Dall’indagine emerge come stabilmente negli ultimi tre anni un quarto degli italiani abbia preso parte almeno una volta negli ultimi dodici mesi al boicottaggio di un prodotto e/o di una determinata marca. A questi di aggiunge, in forte crescita dal 2015 ad oggi, poco meno della metà della popolazione [47%] che afferma di aver fatto un acquisto di prodotti in base a motivi di tipo etico, politico, o ecologico.
Complessivamente, quello che l’istituto di ricerca chiama “indice di nuove forme di partecipazione” cresce di dieci punti negli ultimi quattro anni.
Insomma, dal caso Carpisa a quello di Uliveto, passando per il flop del Grande Fratello, è evidente che le persone reclamino con sempre maggior forza un’attenzione ai temi sociali e civili da parte dei brand, delle imprese, come, se necessario, conferma anche il caso Nike che [di]mostra come quando il brand prende posizione vince.
La scelta è tra averne consapevolezza, ed adeguarsi, mettendo realmente al centro la responsabilità sociale d’impresa, oppure perdere la propria reputazione, e rilevanza. Fate vobis…




Sorpresa: Salvini sui social è in crisi. Lo dicono i numeri

Crescono i follower ma le interazioni sono in netta diminuzione. E allora lo staff del vicepremier leghista corre ai ripari aumentando la frequenza dei post: ecco come la “Bestia” si sta indebolendo


La Bestia di Salvini si atteggia da bullo ma si sta indebolendo come un cucciolo. Se da una parte il leader leghista e il suo team social nei salotti televisivi e sulla stampa sono portati ad esempio come vero e proprio modello di promozione politica vincente, dall’altra, negli ambienti del settore digitale, aleggia da mesi qualche dubbio: siamo davvero di fronte ad una squadra di invincibili guru della comunicazione web?
I primi segnali che qualcosa di strano stesse accadendo nelle retrovie social della Lega erano evidenti già da qualche tempo: adozioni di strategie funzionali effettuate con un leggero ritardo rispetto ai competitor, cambi di stile sperimentali, post ai limiti del grottesco o eccessivamente provocatori costruiti con l’unico intento di far polemica (come le sempre più presenti citazioni evocanti il Ventennio) erano solo alcune delle prime avvisaglie di una strategia in crisi d’identità.
I numeri, a ben vederli, sono tuttavia ben più spietati delle ipotesi: scordatevi quanto letto e scritto fino ad adesso sulla presunta invincibilità della squadra social del vicepresidente del Consiglio leghista perché i segnali di cedimento lassù, sulla pagina Facebook del Capitano, sono evidenti e incontrovertibili.
Secondo i risultati forniti da Crowd Tangle, azienda di analisi dati social comprata da Facebook nel 2016, Matteo Salvini perde infatti vertiginosamente quota nonostante solo pochi mesi fa abbia raggiunto l’impressionante risultato dei tre milioni di follower.

Come sia possibile affermare questo? Leggendo a fondo i dati.

La pagina cresce ma non vuol dire che vada tutto bene

Se da un lato crescono i follower, dall’altro diminuiscono le interazioni sulla pagina, elemento che gli esperti usano per interpretare il riscontro nella produzione di contenuti. Se a giugno il Capitano registrava ben 17 milioni e 298mila azioni sui propri post, a novembre, dopo una costante discesa negli ultimi cinque mesi, il leader della Lega si è fermato ad un “ben più modesto” 8 milioni e 876mila. Una riduzione di interazioni pari ad un pesantissimo 51 per cento.


E non è finita qui. A giugno interagivano con il post del Capitano l’1,96 per cento dei suoi follower, oggi solo lo 0,67 per cento. Meno della metà e lo stesso fenomeno, con grandezze simili, si registra sull’account Twitter, dove il Ministro ha registrato un calo di interesse a post che va dal 0,47 per cento di giugno allo 0,24 per cento di novembre.

Una discesa di interesse alle sue comunicazioni che può essere letta in diversi modi ma che racconta di un meccanismo di propaganda che oggettivamente perde portata ogni giorno, segnale evidente di una difficoltà intrinseca nell’iniziare a gestire la Bestia una volta che questa si è svestita dei comodi abiti dell’opposizione.

Il team social di Salvini lo sa e forse non sa più che pesci pigliare

Il Capitano pubblica sempre più spesso momenti personali della propria vita, ma onestamente è davvero difficile pensare che l’incremento di post simili derivino da un’inclinazione spontanea di Salvini a voler condividere momenti privati con i propri fan.

In questi due mesi la strategia social è cambiata: dietro alle fotografie di piatti di pasta, pescherie, bagni di folla, gattini e citazioni provocatorie potrebbe esserci infatti un tentativo disperato di rianimare il giochino, con scarsissimi risultati. Lo si potrebbe dedurre anche dall’incremento di oltre il 30 per cento di post giornalieri della pagina Facebook del Capitano: sempre secondo i dati estrapolati da Crowd Tange, prima di ottobre i contenuti mensili erano mediamente circa trecento, da due mesi a questa parte – in concomitanza con la nuova fase di storytelling personale del Ministro – sono aumentati sforando i quattrocento.

Più contenuti sì, ma che non arrestano l’emorragia di interazioni. Un’erosione giornaliera che pare non fermarsi nemmeno a dicembre mese in cui, visto l’andazzo, non ci si stupirebbe se dal canale di comunicazione di quello che è un ministro della Repubblica venisse pubblicato un sondaggio che divida gli italiani fra panettonisti e pandoristi.
La Bestia si è nutrita per anni del malessere degli italiani e fino al 4 marzo il meccanismo pare abbia funzionato abbastanza bene. Dalla firma del contratto di Governo tuttavia la bacheca del leader leghista ha dovuto diversificare i propri contenuti, non potendosi più permettere di limitare la strategia ad una somministrazione quotidiana di qualche dose d’odio.
Essere in grado di cambiare rotta in corsa non è facile e Luca Morisi e compagni stanno sicuramente soffrendo per la loro stessa incapacità di rinnovare il prodotto che per anni li ha elevati a maestri della comunicazione. Forse non erano “i guru dei social” che ci hanno raccontato, forse hanno solo avuto la fortuna di potersi impadronire di contenuti colmi di rabbia, di averlo potuto fare al momento giusto e con il politico giusto. Ma purtroppo per loro su Facebook così come in politica la rabbia non si può di certo annoverare fra gli elementi a lunga conservazione. Ce lo dicono i numeri.