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La pubblicità ha due nuovi padroni, anzi tre

La pubblicità ha due nuovi padroni, anzi tre

Facebook e Google superano per ricavi i quattro grandi gruppi che per decenni hanno dominato il settore. Ma Amazon potrebbe complicare la partita

Nel mondo delle serie tv lo chiamano “jumping the shark”, il salto dello squalo (da una puntata di Happy Days), il momento in cui le idee originali sono finite e da lì in poi, al di là del successo di pubblico, la serie inizia il suo declino. Una linea di confine è stata superata e il cambiamento che è nell’aria da tempo sta davvero per compiersi. È quello che sta accadendo nel mercato dell’advertising.

Non è certo una novità che la disruption digitale abbia colpito anche il mondo della pubblicità con interi settori, ad esempio la stampa, retrocessi da protagonisti a semplici comparse nella suddivisione dei suoi ricavi.

In questo nuovo panorama le grandi holding che gestiscono tutta la filiera dell’advertising, dalle agenzie creative a quelle che pianificano le campagne pubblicitarie, hanno finora mantenuto il pieno controllo del mercato avendo in mano la quasi totalità dei budget che le grandi aziende investono per promuoversi.

Primi scricchiolii

Afine agosto, però, la holding pubblicitaria Wpp ha dovuto ammettere che la prima metà del 2017 era stata molto più dura del previsto e che le proprie previsioni di crescita dovranno essere riviste nettamente al ribasso (ovvero pari a zero o al massimo a un misero 1%).

Può succedere di dover rivedere i propri conti, ma la società fondata da Martin Sorrell a metà anni Ottanta del secolo scorso non è un attore qualunque: ha un peso specifico enorme nell’industria globale della comunicazione essendo l’azienda che più di ogni altra negli ultimi trent’anni ha ridisegnato la “geografia” del settore.

Ha dato vita al centro media più grande al mondo, GroupM; ha acquisito agenzie creative come la Ogilvy & Mather (fondata da una figura mitica del mondo della creatività pubblicitaria come David Ogilvy, che ha ispirato la figura del protagonista di Mad Men, tanto per citare un’altra serie tv), e nel 2016 ha gestito investimenti pubblicitari per 55 miliardi di sterline con un fatturato annuo sui 14 miliardi.

Dopo l’annuncio di Martin Sorrell il titolo della Wpp ha perso l’11% alla Borsa di Londra raggiungendo il prezzo più basso da almeno un anno (e guardando la sua attuale valutazione leggiamo che la differenza anno su anno è un pesante -21,42%). Che anche gli investitori abbiano fiutato per il mondo delle grandi agenzie pubblicitarie il momento “jumping the shark”?

I big spender non spendono più

Ibig spender pubblicitari stanno tagliando i loro budget. Il più grande di tutti, Procter & Gamble (P&G), ha ridotto pesantemente le spese per advertising, quelle messe a bilancio a chiusura (anno fiscale americano) del 2017 sono le più basse degli ultimi anni: 7,12 miliardi di dollari, erano 8,19 miliardi nel 2013. Tagli che fanno parte di un più ampio piano di alleggerimento dei costi di marketing di P&G, che toccherà anche le spese per i costi di agenzia (sfoltite di 300 milioni di dollari nel 2016, secondo la rivista AdAge).

E altri colossi del settore come la Unilever stanno seguendo la stessa strada, parliamo di multinazionali che rappresentano circa due terzi dei clienti delle grandi agenzie.

Non solo: lo scorso luglio Procter & Gamble ha anche annunciato di voler tagliare oltre 100 milioni di spesa in marketing digitale: troppa pubblicità online è risultata inefficace. Molti bot, con il rischio di finire su contenuti ritenuti inappropriati.

Il nodo dell’affidabilità dell’advertising digitale sta venendo al pettine, e a farne le spese sono soprattutto i “vecchi” banner e i siti che non hanno la capacità di fornire tutti quei dati che oggi gli uffici marketing delle grandi aziende richiedono. Un cambiamento di strategia che non tocca ovviamente colossi digitali come Google e Facebook.

Perché se è vero che i grandi investitori stanno rivedendo i loro piani, riducendo gli investimenti pubblicitari digitali, nel loro complesso questi non stanno affatto diminuendo. Anzi: secondo le previsioni dell’agenzia Magna gli investimenti pubblicitari negli Stati Uniti su mobile (49,5 miliardi di dollari) supereranno a fine 2017 quelli fatti sulle televisioni nazionali (42,4 miliardi). E a beneficiarne sarà ancora il duopolio Google-Facebook.

La disintermediazione mette in discussione lo status quo di chi fino ad oggi ha controllato il mercato e apre a nuovi consumatori. Facebook e Google (e tutto il loro universo di siti, app e servizi) con la pubblicità fai-da-te stanno attirando anche tutte quelle piccole e medie imprese che non potevano permettersi di pagare le commissioni delle grandi agenzie.

Allo stesso tempo, le grandi agenzie devono continuare ad acquistare spazi pubblicitari sui loro siti: del ricchissimo budget che Wpp investe su diversi mezzi ogni anno per conto dei propri clienti, Google è il primo beneficiario ormai da qualche tempo e — stando a quanto dichiarato dalla holding — quest’anno Facebook sarà la seconda forza superando per la prima volta anche la News Corp., ovvero l’impero di Murdoch che raggruppa testate come il New York Post e reti televisive come Sky. Altra data da segnare sul calendario.

Se Google vale più delle fab four

Seconfrontiamo i numeri di Alphabet-Google e Facebook con quelli delle maggiori holding pubblicitarie sembra che ormai non ci sia più partita: nei primi sei mesi del 2017, i ricavi pubblicitari dei due giganti della Silicon Valley ammontano a 61 miliardi di dollari mentre i ricavi complessivi, incluse quindi anche tutte le altre attività di marketing, delle quattro principali holding (Wpp, Ipg, Omnicom e Publicis, le cosiddette “Big Four”) sommano poco meno di 27 miliardi di dollari.

Il loro valore di capitalizzazione — a metà settembre 2017 — è stato complessivamente di circa 65 miliardi di dollari; quello di Facebook è intorno ai 495 miliardi e quello di Google di 646 miliardi di dollari (da sola Mountain View vale circa dieci volte le quattro holding pubblicitarie messe assieme). Il tutto con un numero di dipendenti nettamente inferiore: Alphabet e Facebook insieme arrivano a malapena a 100 mila dipendenti; quelli della sola Wpp sono intorno alle 200 mila unità.

Ma in questi mesi sta accadendo ancora qualcos’altro che potrebbe segnare l’inizio di una nuova era e, in futuro, rompere il duopolio Google-Facebook: Amazon sta pensando sempre più a incrementare i propri profitti pubblicitari.

Ancora Sorrell ha dichiarato a più riprese quest’anno che proprio Amazon — se solo lo volesse — sarebbe in grado di diventare nei prossimi anni il vero rivale di Google. D’altronde se oggi gli investimenti pubblicitari sono determinati dai dati, la piattaforma di Jeff Bezos possiede quelli più interessanti per le aziende: le nostre abitudini d’acquisto (carta di credito compresa). Circa la metà delle ricerche online per fare acquisti negli Stati Uniti oggi inizia da Amazon.

Il fattore Amazon

Bezos e soci per il momento non sembrano avere fretta. Hanno introdotto nuovi strumenti per fare pubblicità sul proprio sito, e i ricavi pubblicitari di Amazon crescono velocemente, ma gli 1,5 miliardi realizzati quest’anno sono ancora lontani da quelli fatti dai due giganti della Silicon Valley. Ad Amazon in questo senso hanno anche un altro vantaggio: possono permettersi di aspettare il momento giusto, l’azienda non vive di pubblicità come Facebook e Google, ha solidissimi ricavi in altri settori: punta semmai ad aggiungere ancora un nuovo mercato.

“Amazon sta tranquillamente lavorando per diventare una nuova potenza dell’advertising” titolava Quartz qualche settimana fa. Il tempo gioca a loro favore. Il salto dello squalo per Google e Facebook è sicuramente molto lontano ma forse nel mondo della pubblicità la disruption della disruption è già cominciata.




Paolo Iabichino: «Oggi il cliente vive in casa nostra»

Paolo Iabichino: «Oggi il cliente vive in casa nostra»
Le piattaforme social hanno aperto porte che hanno cambiato i rapporti tra aziende e clienti. E sono le persone, oggi, a dettare le regole della relazione. Paolo Iabichino, pubblicitario creativo e Comunicatore dell’anno 2018, sarà tra i protagonisti, con il suo keynote speech, dell’edizione 2019 de #ilCliente, l’evento del 15, 16 e 17 aprile in scena a Milano. Ecco perché, per lui, la strada della relazione tra banche e clienti porta a un futuro semplice

Il mestiere del pubblicitario è – pur variando nelle epoche e nei contesti – riuscire a rendere in un messaggio semplice la complessità di un prodotto, di un servizio, di un’intera azienda. Un messaggio che accenda non solo un interesse (e questo sarebbe già metà del lavoro svolto), ma possibilmente – e soprattutto oggi – che inneschi una relazione. Cosa che non è semplice per niente. Proprio per questo, per la decennale esperienza maturata in colossi della comunicazione pubblicitaria nel far nascere relazioni tra aziende e persone-clienti, e nel riuscire a farlo con una complessa semplicità, sarà Paolo Iabichino a tenere il 15 aprile il keynote speech nella sessione plenaria di apertura dell’edizione 2019 de #ilCliente, l’evento promosso dall’ABI in scena a Milano il prossimo 15, 16 e17 aprile, che mette al centro della riflessione i modelli innovativi di relazione di banche, assicurazioni e mondo finanziario con la clientela retail (vai al sito dell’evento).
Dagli esordi come copywriter nel 1990 al ruolo di chief creative officer della branch italiana di Ogilvy & Mather (parte del colosso Wpp), passando per diversi libri che rimettono costantemente in discussione regole e idee della comunicazione (l’ultimo è Scripta volant. Un nuovo alfabeto per scrivere (e leggere) la pubblicità oggi, edito da Codice Edizioni) e il premio come Comunicatore dell’anno 2018, nel suo lavoro e nei suoi numerosi speech e interviste la “preoccupazione” di Iabichino per la relazione tra marca e cliente è da sempre centrale: «Ogni momento di contatto è un momento di relazione», sostiene: «pensiamo che la relazione si costruisca solo sulle piattaforme? Che sia solo digitale? È anche digitale, ma la relazione è tutto, è uno spazio fisico, è un evento, è una scatola e poi è anche digitale». Stabilire e far vivere una relazione così complessa, non pare una cosa semplice. Partiamo da qui.
Un futuro semplice” è il titolo guida di questa edizione de #ilCliente. Questa semplicità di relazione è una previsione fondata, oppure è ancora una speranza?
Premetto che, da qualche anno, quando sento citare la parola “futuro” mi insospettisco. È da sempre citato come luogo dell’attesa, come un qualcosa che è “domani”, che viene sventolato ma posto sempre un passo più in là, e a furia di citarlo ha via via perso consistenza. Ma se c’è un momento in cui ha senso di parlare di futuro, e appunto di “futuro semplice”, è proprio questo che stiamo vivendo. Il futuro è semplice nella misura in cui finalmente si è presentato alla nostra porta. È corretto oggi parlare di semplicità perché stiamo toccando con mano come tutto ciò che consideravamo distopico fino a pochi anni o mesi fa in realtà non è illusione o fantasia. Ma sono tecnologie e soluzioni entrate nella realtà e perfettamente alla nostra portata, che ci consentono davvero di dar vita a nuove relazioni e nuove dialettiche con i nostri interlocutori di riferimento, e quindi anche con i nostri clienti. Abbiamo messo da parte quel timore che fino a poco fa la parola tecnologia associata a futuro faceva scattare e ci siamo accorti che l’innovazione può essere implementata nella quotidianità delle persone, delle aziende, con uno sforzo tutto sommato misurato. Un approccio al cliente basato su ecosistemi di tipo digitale migliora le performance e migliora la relazione.
Pare però che, a questo abbraccio con il futuro-presente tecnologico, le persone siano arrivati in molti casi prima delle aziende e che queste ultime si siano trovate quasi a rincorrere questa relazione.
Ahimè, è andata esattamente così. E per fare un passo avanti le aziende non devono concentrarsi più solo sul dire, sul comunicare, ma devono saper ascoltare: ascoltare le istanze dei clienti e soprattutto le loro aspettative. Oggi il set di aspettative dei nostri clienti non lo fanno più i competitor di settore, ma le piattaforme che si chiamano Google, Spotify, Netflix: i modelli di relazione con il cliente devono essere misurati rispetto a questi soggetti. Se ci fermiamo a fare il benchmark di relazione con chi sta nella nostra stessa industria, facciamo uno sforzo decisamente parziale. Dobbiamo essere convinti che la partita delle aspettative relazionali tra azienda e cliente oggi viene giocata su altri playground, rispetto ad altre logiche. Se ormai per me è scontato ricevere un libro acquistato online in 24 ore, non posso più accettare di ricevere una carta di credito in 10 giorni.
Il nuovo playground si è affermato in maniera talmente rapida che ha messo in discussione le modalità di business tradizionali. Stando al mondo bancario, vede un dinamismo in atto?
C’è un’attenzione risvegliata, che è da salutare con ottimismo. Ma per acquisire e padroneggiare quell’agilità che le nuove attese dei clienti impone, e che è un must per tutti i player, vedo ancora molto lavoro da fare. Di sicuro le banche, rispetto a chi vende libri e film online, hanno vincoli e regole molto più complesse. Per questo, al di là degli sforzi che può fare ogni singola azienda per attuare quel “futuro semplice” che tutti stanno cercando di costruire, bisogna fare una riflessione di sistema, bisogna agire appunto sul contesto delle regole. Come strutturare set di regole che snelliscano e rendano semplice il mestiere delle banche, continuando a tutelare le persone-clienti?
Così come “futuro”, c’è un altro grande classico giro di parole talmente usato che finisce per insospettire: “il cliente al centro”…
Uffa, basta (sbuffa, ridendo). Quando si dice “il cliente al centro”, penso al ritardo che è stato accumulato tra questa terminologia e una riflessione seria su cosa significhi. Oggi però qualcosa è cambiato. Si continua a usare a sproposito queste parole, ma finalmente noto che tante aziende stanno davvero implementando sistemi e soprattutto visioni che danno centralità alle persone e alle loro attese. Devo dire che non si tratta di una questione da poco, anzi: la centralità del cliente ha un impatto fortissimo sull’azienda, non significa solo cambiare le modalità di servizio. Significa proprio cambiare la modalità di relazione lungo tutta la catena di attività. Oggi se ti impegni a mettere il cliente al centro, poi non si torna più indietro. Il cliente finisce davvero al centro del rapporto.
Quali sono le regole di questa relazione?
Molto banalmente, nel momento in cui ci mettiamo in relazione con il cliente – e lo facciamo principalmente attraverso le piattaforme social – non possiamo più escluderlo da nessuna strategia di marca. È una relazione estremamente impegnativa, insomma, e l’azienda deve esserne consapevole. Il cliente è al centro non più perché ogni tanto ci ricordiamo di lui, ma perché è letteralmente entrato in casa nostra. Quando oggi un’azienda apre una pagina Facebook, si mette su Instagram, apre una porta: è il cliente che, entrando in quella porta, si mette al centro di sua spontanea volontà, decide di mettersi in relazione con la marca su un piano dialettico completamente diverso rispetto al passato. Oggi infatti parliamo di Social Crm: le aziende, banche comprese, che fanno bene questo lavoro riescono per esempio a offrire servizi di customer relationship management anche attraverso bot di intelligenza artificiale nativi su Facebook. Questo significa mettere il cliente al centro. Ed è impegnativo, sotto molti punti di vista.
Un tempo le aziende parlavano con il cliente attraverso la comunicazione pubblicitaria. Nell’epoca della disintermediazione, questo livello è saltato? Da “vecchio” pubblicitario, cosa dice?
Io dico di no. La sana e vecchia pubblicità continua a esistere e a far bene il suo lavoro, che è principalmente quello di far conoscere e dare notorietà a un marchio. È vero che poi oggi esistono armi nuove che dimostrano la loro efficacia in diverse fasi del percorso di relazione tra azienda e cliente: sia nel pre-vendita sia, soprattutto, nel post-vendita, perché possono dare valore aggiunto a un rapporto più stretto e diretto con il cliente, cosa che la vecchia pubblicità non può fare. La pubblicità però continua a fare il suo mestiere di “segnalazione d’esistenza”, di messaggio di prodotto. Poi nella comunicazione di valore sono altri gli strumenti che entrano in gioco
I nuovi strumenti di comunicazione, social in testa, hanno in qualche modo anche trasformato la reazione delle persone con la comunicazione di marca. Quelli con cui oggi parlano le aziende, sono clienti più emozionali o più razionali?
Nell’ambito bancario il cliente è un animale assolutamente razionale. Quando ci si rapporta con l’azienda che gestirà il tuo denaro e una gran massa di informazioni sensibili che ti riguardano, c’è poco da essere emozionali. Per questo, la banca deve trovare – anche sui nuovi canali di relazione – un linguaggio adeguato per essere razionale e rassicurante. Che, lo ammetto, rispetto a quelle che sono le tipologie di linguaggio vincenti sui social, è una sfida complessa, perché questi canali si muovono attraverso codici di comunicazione empatici, nel bene e nel male. Altra cosa è quando una banca vuole agire in chiave emozionale per trasferire per esempio un set di valori: allora si può approcciare al linguaggio e alla comunicazione in maniera più sottile e più empatica.



Italia agli ultimi posti nella “digital economy”. I numeri per capire

Italia agli ultimi posti nella “digital economy”. I numeri per capire

infografiche:

OCSE digital skills – Il Sole 24 Ore – Cristina Da Rold
Infogram

Lo Skills Outlook Scoreboard di OCSE, rilasciato qualche giorno fa è lapidario: la popolazione italiana non possiede le competenze di base necessarie per prosperare in un mondo digitale, sia nella vita sociale che sul posto di lavoro.Solo il 36% degli italiani, la percentuale più bassa tra i paesi OCSE, è in grado di utilizzare Internet in maniera complessa e diversificata. Solo un italiano su cinque tra i 16 e i 65 anni possiede un buon livello di alfabetizzazione e capacità di calcolo (cioè ottengono almeno un punteggio di livello 3 nei test di alfabetizzazione e calcolo). Si tratta del terzo peggior risultato tra i paesi esaminati.
L’Italia è il paese con la più bassa percentuale di lavoratori capace di utilizzare software anti-tracking (lo sa fare l’8% degli intervistati), e di modificare le proprie informazioni personali online (sa farlo solo la metà delle persone). Un quarto degli italiani invece sa impostare i cookies nel proprio sito o blog. Gli anziani con scarse capacità cognitive e digitali sono un terzo del totale in Italia, mentre la media OCSE è del 17% e in Norvegia si arriva a quote bassissime, meno del 5%.
I lavoratori italiani utilizzano le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) sul lavoro, ma meno intensamente rispetto al resto dei paesi dell’area OCSE. Inoltre si assiste a un gradiente controproducente: i lavoratori più esposti al rischio di automazione e i lavoratori poco qualificati partecipano meno ad attività di formazione se confrontati con quelli altamente qualificati o con un basso rischio di automazione. La formazione continua viene erogata al 20% dei lavoratori ad alto rischio: peggio di noi solo la Grecia, mentre in paesi come la Finlandia si arriva all’80%, in Germania al 70%. Chi parte svantaggiato insomma, è più facile che resti tale, dal momento che chi possiede solide competenze ha maggiori probabilità di adattarsi quando la digitalizzazione trasformerà il contenuto del loro lavoro e le loro mansioni quotidiane.
Secondo gli esperti, il 13,8% dei lavoratori sarebbe impiegato in occupazioni ad alto rischio di automazione, dove cioè la loro figura professionale potrebbe venire meno, e avrebbero bisogno di una formazione moderata (fino a 1 anno) per passare a occupazioni più sicure, con basso o medio rischio di automazione. Un ulteriore 4,2% avrebbe invece bisogno di una formazione intensa (fino a 3 anni) per evitare l’alto rischio di automazione sul posto di lavoro. Tuttavia, solo il 30% degli adulti ha ricevuto formazione negli ultimi 12 mesi, contro una media OCSE del 42%.
Anche sul fronte degli insegnanti la situazione non è rosea. 3 insegnanti su 4 ammettono di aver bisogno di ulteriore formazione nell’utilizzo autonomo della tecnologia per svolgere la propria professione. Se osserviamo l’indice elaborato da OCSE vediamo che peggio di noi ci sono solo gli insegnanti russi e lo stacco fra noi e il paese che totalizza il punteggio appena superiore è rilevante. Gli insegnanti statunitensi, al top della classifica, totalizzano un punteggio si 0,8 (in un range da 0 a 1) mentre noi 0,4. Tedeschi, francesi e spagnoli 0,7 su 1.
La conseguenza è che si usano meno gli strumenti informatici. Mentre in molti Paesi OCSE gli insegnanti utilizzano le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione con pari intensità rispetto ad altri lavoratori con istruzione terziaria, i docenti Italiani rimangono indietro e utilizzano le nuove tecnologie ben al di sotto di altri lavoratori altamente qualificati.
È notevole in Italia infine la forbice fra gli studenti che sanno utilizzare bene internet e chi invece si sente in difficoltà davanti a questo strumento. Abbiamo una delle percentuali più basse dell’area OCSE di top performers, mentre quasi sei ragazzi su dieci si definiscono low performers in tal senso.




Le navi da crociera inquinano venti volte più delle auto

Le navi da crociera inquinano venti volte più delle auto
Nel 2017 le 203 imbarcazioni di lusso che hanno solcato i mari europei hanno emesso 62mila tonnellate di ossidi di zolfo e 155mila tonnellate di ossidi di azoto. Barcellona maglia nera e Venezia si piazza al terzo posto tra le città portuali più inquinate. Il report di “Transport & Environment”


Nel 2017 le 47 navi da crociera della flotta di Carnival Corporation -compagnia anglo-americana che in Italia opera con Costa Crociere, prima a livello mondiale nel settore- ha emesso quasi dieci volte più ossido di zolfo (SOx) rispetto a tutto il parco macchine europeo (260 milioni di veicoli). Seguono le navi della Royal Caribbean Cruises, secondo più grande operatore al mondo, le cui emissioni sono pari a quattro volte quelle del parco auto europeo. È quanto rivela il report “One corporation to pollute them all. Luxury cruise air emissions in Europe” pubblicato dall’ong “Transport & Environment”.
Lo studio ha analizzato gli spostamenti nel corso del 2017 di 203 navi da crociera lungo le coste dei Paesi europei (comprese Norvegia, Islanda, Albania, Montenegro, Groenlandia e Far Oer) , stimando un’emissione complessiva pari a 62mila tonnellate di ossidi di zolfo (venti volte superiore a quella emessa da 260milioni di automobili circolanti in Europa) 155mila tonnellate di ossidi di azoto (NOx), 10mila tonnellate di polveri sottili e più di 10 tonnellate di CO2.
Il bacino del Mediterraneo, e in modo particolare Spagna e Italia, è l’area più interessata dai fumi inquinanti delle navi da crociera. Il triste primato va a Barcellona dove nel 2017 sono attraccate 105 navi per un totale di 8,293 ore stazionate in banchina e 32,8 tonnellate di ossidi di zolfo emessi in atmosfera. Segue Palma di Maiorca con 87 navi che hanno emesso 28 tonnellate di ossidi di zolfo.
Tra le cinquanta città più inquinate, dieci sono italiane. Venezia si piazza al terzo posto, preceduta da Barcellona e Palma di Maiorca: nella città lagunare, nel corso del 2017, 68 navi da crociera hanno stazionato per poco meno di 8mila ore, liberando in atmosfera 27,5 tonnellate di Sox. Seguono lo scalo di Civitavecchia al quarto posto (76 navi, per un totale di 5.466 ore durante le quali sono state emesse 660mila chilogrammi di Sox), Napoli e Genova (rispettivamente al dodicesimo e tredicesimo posto), La Spezia e Savona, Cagliari, Palermo, Messina e Bari.

La quantità di SOx emessa nel 2017 dalle navi della compagnia “Carnival” a confronto con quella delle auto di tutta Europa © Transport Environment

L’inquinamento nelle città deriva in larga parte dallo stazionamento delle navi da crociera ormeggiate ai moli: lunghe ore durante le quali queste città galleggianti devono tenere accesi i motori per far funzionare i servizi di bordo. “Nelle grandi città come Barcellona, Marsiglia e Amburgo nel corso del 2017 le navi da crociera hanno emesso quantità di ossidi di zolfo (Sox) da due a cinque volte maggiori rispetto all’intera flotta di autovetture di queste stesse città”, si legge nel rapporto. Le circa 560mila auto registrate a Barcellona, ad esempio, hanno emesso nel 2017 circa 6,8 tonnellate di Sox, a fronte delle 32,8 tonnellate emesse da 105 navi da crociera che hanno attraccato nel porto cittadino nello stesso periodo. Il rapporto è ancora più stridente se si guarda alla situazione di piccole isole, come Palma di Maiorca (dove le emissioni delle grandi navi sono quasi dieci volte superiore a quelli delle auto) o a Venezia, dove poco più di 110mila auto hanno emesso 1,3 tonnellate di Sox a fronte delle 27,5 tonnellate emesse dalle navi da crociera.

I porti europei più inquinati dalle grandi navi e il rapporto con le emissioni inquinanti delle auto © Transport & Environment

La situazione è altrettanto preoccupante per quanto riguarda l’ossido di azoto (NOx): “L’analisi dimostra che le principali destinazioni europee delle navi da crociera sono esposte a quantità di NOx emesse dalle grandi navi equivalenti a una quota considerevole dell’intero parco auto”, si legge nel report. Ad esempio, le 57 navi da crociera che hanno fatto scalo a Marsiglia nel 2017 hanno emesso una quantità di NOxpari a circa un quarto delle 340mila autovetture della città. “Nelle città portuali più piccole, come Civitavecchia o Venezia, le navi da crociera emettono più NOx del totale della flotta locale di autovetture”, sottolinea il report.
Quello del trasporto marittimo, sottolinea il rapporto, è uno dei settori in cui le normative in materia di inquinamento atmosferico sono meno stringenti. “Transport Environment” sottolinea come il miglior carburante utilizzato dalle navi da crociera ha una concentrazione di zolfo dello 0,1%. A confronto, il carburante utilizzato nelle automobili in Europa negli ultimi 15 anni ha una concentrazione di zolfo pari allo 0,001%. “Le navi da crociera sono città galleggianti, alimentate dal carburante più inquinante che esista. Le città stanno giustamente mettendo al bando le auto alimentate a diesel, ma al tempo stesso danno luce verde alle compagnie di navigazione che sprigionano fumi tossici, danneggiando sia coloro che si trovano a bordo, sia le coste vicine. Questo è inaccettabile”, sottolinea Faig Abbasov, shipping policy manager di “Transport & Environment”.
Di fronte a questa situazione, l’associazione chiede all’Europa di attuare quanto prima una norma portuale a emissioni zero (da estendere poi ad altri tipi di navi) e raccomanda di estendere le zone di controllo delle emissioni (ECA) attualmente esistenti solo nel Mare del Nord , nel Mar Baltico e nel Canale della Manica al resto dei mari europei.
Già oggi le soluzioni disponibili per ridurre le emissioni non mancano. “L’elettricità da terra piò aiutare a ridurre le emissioni delle navi ferme in porto, le batterie sono una soluzione per le distanze più brevi e la tecnologia dell’idrogeno può alimentare anche le più grandi navi da crociera -conclude Faig Abbasov -. Il settore crocieristico non è apparentemente disposto a fare il passaggio volontariamente, quindi abbiamo bisogno che i governi intervengano e impongano standard di emissioni zero”.




Incidente. Venezia, polemiche dopo lo scontro tra una nave da crociera e un battello

Incidente. Venezia, polemiche dopo lo scontro tra una nave da crociera e un battello
4 feriti nell’incidente nel canale della Giudecca. È scontro politico, Toninelli: entro giugno una soluzione. Zaia: non si può più attendere. E intanto sabato la protesta del comitato No grandi navi


Collisione a Venezia tra una nave da crociera della Msc e un battello da turismo nel canale della Giudeccaquattro turiste straniere tra i 67 e i 72 anni sono rimaste ferite, nessuna in modo grave, ma gli attimi di terrore vissuti sulle due imbarcazioni e sulla banchina hanno riacceso le polemiche sul transito delle grandi navi nella laguna veneziana.
La Msc Opera è andata a sbattere contro la banchina a San Basilio-Zattere e ha speronato così il battello fluviale “River countess” che vi era ormeggiato. La nave da crociera ha riportato lievi scalfiture allo scafo mentre nel battello si è aperta una piccola falla all’altezza della linea di galleggiamento, ma non ci sono verificati sversamenti di idrocarburi.
Tra le ipotesi delle cause dell’incidente un’avaria o la rottura del cavo d’acciaio utilizzato da uno dei rimorchiatori della Msc: la nave, a quel punto ingovernabile, sarebbe stata trascinata dall’abbrivio contro la banchina. I feriti sono uno a bordo della Opera, gli altri a bordo del natante più piccolo.
La Msc Crociere ha assicurato “massima collaborazione”. E mentre infuriano le polemiche, il governo ha promesso che entro la fine di giugno si dovrebbe trovare una soluzione per allontanare le grandi navi dalla Giudecca e San Marco. “Sulle grandi navi a Venezia il tavolo istituzionale è da tempo in corso”, sottolineano fonti del ministero delle Infrastrutture, “i ministri interessati si vedranno a breve scadenza per tirare le somme sulle opzioni progettuali individuate, allo scopo di trovare la soluzione definitiva migliore, che arriverà presumibilmente entro il mese di giugno, per allontanare le grandi navi da crociera dalla Giudecca e da San Marco”.
L’incidente di domenica ha spinto il ministro dei Trasporti ad assumere una posizione sulla questione delle grandi navi in laguna: entro giugno saranno bandite, ha assicurato Toninelli. “Siamo per la chiusura”, ha precisato rassicurando chi chiede il divieto di attracco per le grandi navi in centro città, “ma prima, per non perdere le crociere a Venezia, bisogna trovare l’alternativa, anzi le alternative, quella definitiva e quella provvisoria. Come ho detto, dopo anni di stasi, siamo prossimi a una soluzione finalmente capace di tenere assieme tutti gli interessi in campo”. Spiega infine che “entro fine giugno verrà scelto il progetto. Nel frattempo stiamo già lavorando per la soluzione provvisoria e ci vorrà qualche mese per metterla in campo”, “si tratta di procedure costose e complesse, che richiedono un po’ di tempo”.
Ma il presidente della Regione Veneto Luca Zaia attacca: per allontanare le grandi navi dal centro “giace da anni un progetto di Regione e Comune, il ministro dell’infrastrutture decida qualcosa; non si può più attendere“. L’evento “avrebbe potuto risolversi in una tragedia”, aveva sottolineato già domenica dopo lo scontro avvenuto nel canale della Giudecca il governatore veneto, “gli incidenti sono assolutamente possibili nella marina mercantile ma devono avvenir fuori da contesi storici e abitati senza mettere repentaglio vite umane e in condizioni generali di sicurezza”.

Intanto il comitato “No grandi navi,” che da anni lotta contro il passaggio delle navi da crociera a un passo dalla città, non si fida delle promesse e convoca per sabato prossimo una manifestazione di protesta.
Nel frattempo la Procura di Venezia ha aperto un fascicolo a carico di ignoti sull’incidente navale nel canale della Giudecca, e valuta se procedere per il reato 1231 del codice di navigazione, inosservanza delle norme sulla sicurezza. Lo ha detto il Procuratore Bruno Cherchi. Nei prossimi giorni verrà disposta la consulenza tecnica, e se vi saranno atti irripetibili, com’è probabile, vi saranno iscrizioni di indagati. Sono finiti sotto sequestro i sistemi di movimento (motorini, timone, scatola nera), ma non la nave stessa.