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C’è ancora vita su Second Life. E un parrucchiere può guadagnare 10mila euro al mese

Pensavate che Second Life appartenesse a un passato lontano e forse imbarazzante? Fareste bene a ricredervi, perché sono in molti ancora a divertirsi guadagnando pure del denaro. La storia di due parrucchieri italiani di successo


Si chiamano Rouge Darcy e Missallsunday Lemon. Guadagnano molto più di uno stipendio medio italiano. Attività come la loro incassano facilmente cifre di gran lunga superiori ai diecimila euro mensili netti. Sono una coppia e lavorano assieme da circa dieci anni. Fanno i parrucchieri. Su Second Life.
Sì, avete letto bene: Second Life. Quella roba che pensavate morta e sepolta assieme al modem che cigolava. Quella roba che nel 2003, quando è nata, sembrava il futuro di internet. Un’epoca senza YouTube, Amazon e smartphone. Quando Netflix spediva dvd e un diciannovenne di nome Mark Zuckerberg aveva nel proprio computer un progetto chiamato Facemash.
Forse siete persino troppo giovani per averne sentito parlare. Second Life è una

piattaforma virtuale dove si può creare e personalizzare un avatar. Ci si muove in un ambiente simile a un videogioco e si interagisce con gli altri utenti chattando. Oltre che con i vari elementi presenti. Una sorta di mondo parallelo, almeno nelle intenzioni.

L’idea è dell’informatico e imprenditore Philip Rosedale, dopo un’esperienza al festival Burning Man. Nel 1999 fonda Linden Lab, società di San Francisco che quattro anni dopo avvia Second Life.
Stando ai dati ufficiali, solo nel 2017 c’è stato un giro d’affari per i creatori all’interno della piattaforma di 68 milioni di dollari. Negli ultimi quindici anni sono stati creati circa 57 milioni di account. In media ci sarebbero 350mila iscrizioni al mese (50 mila in meno rispetto al 2013). Altre stime parlano però di circa 600 mila persone realmente attive. Dopo il picco di oltre un milione di utenti nel 2007, il trend è in costante decrescita. Ma non così in declino di come forse ci si potrebbe aspettare.
Proprio nel 2007, complice un’intensa campagna pubblicitaria di Linden Lab, Rouge Darcy e Missallsunday Lemon conoscono Second Life. Così si chiamano i loro avatar. Preferiscono non usare i loro veri nomi perché la vita reale è un’altra cosa. Dove spendono realmente i soldi guadagnati. Da una decina d’anni vivono creandacconciature virtuali. E vivono decisamente bene. Abitano in Italia e lavorano nell’altro mondo.
Lei ha studiato lingue orientali e lui architettura. Entrambi si sono formati da autodidatti nell’ambito della programmazione e design grafico. Hanno aperto quasi subito il loro negozio di parrucchieri su Second Life, Wasabi. E quasi immediatamente è diventato un lavoro a tempo pieno.

Lo store su Second Life (crediti: Wasabi)
Lo store su Second Life (crediti: Wasabi)

Perché spendere soldi per i capelli, i vestiti o altro per un avatar?
Rouge Darcy (R.D.) – “Perché è importante avere un certo aspetto come al di fuori della piattaforma. Tanti concepiscono Second Life come uno sfogo per quello che non possono essere nella vita reale. E non è una cosa necessariamente triste, anzi. Per altri ancora è un po’ come vestire le bamboleUn’acconciatura costa circa un dollaro, indipendentemente dal modello. Più o meno 250 Linden. Come tutti abbiamo un prezzo fisso. A meno che non facciamo qualcosa di particolare, per esempio elaborazioni molto impegnative. Anche in caso di ordini importanti il prezzo totale può variare. Ci arrivano molte richieste di customizzazione, ma in genere preferiamo evitarle, perché non vale la pena. Realizziamo non meno di un modello di capelli a settimana e in media ci mettiamo tre giorni. Al momento abbiamo circa duecento tipologie. Ogni tanto eliminiamo i modelli vecchi. Comunque anche altri oggetti più complessi normalmente non costano più di dieci euro”.
Una volta creato un personaggio non lo si può personalizzare autonomamente?
R.D. – “Fino a un certo punto sì. Second Life offre un sistema molto basico di personalizzazione e creazione. All’inizio era un po’ come costruire con i mattoncini. Andando in questi posti definiti sand box si potevano creare vari oggetti con forme geometriche semplici. Poi hanno introdotto delle funzionalità esterne, per le quali bisogna avere una certa competenza tecnica”.
Ed è in quel momento che avete iniziato a lavorare?
R.D. – “Esatto. Conoscendo il funzionamento di programmi 3D si ha la possibilità di creare elementi più complessi”.
Missallsunday Lemon (M.L.) – “Non c’erano tutorial, per cui ci siamo ingegnati. Oggi la piattaforma consente di creare varie tipologie di capelli, ma restano comunque basiche. I prim, o primitive objects, sono le forme base di Second Life. Gli sculpties sono la loro evoluzione. Poi nel 2011 sono arrivati i mash, elementi che si possono effettivamente modellare. Noi siamo stati i secondi in assoluto a usare questo sistema”.

Acconciature di Wasabi su Second Life (crediti: Wasabi)
Acconciature di Wasabi su Second Life (crediti: Wasabi)

Venite pagati in Linden Dollar, la valuta di Second Life. Se ne acquista un tot tramite carta di credito (reale) e si possono poi spendere solo all’interno della piattaforma. I bitcoin non c’entrano nulla?
R.D. – “No, per l’acquisto dei crediti Linden Lab accetta carte di credito e Paypal. Poi noi negozianti raggiunta una certa somma riconvertiamo i Linden dollar in dollari e li depositiamo in banca. C’è un cambiavalute. La società californiana trattiene una percentuale su tutte le transazioni. Non lavoriamo per loro però, siamo indipendenti”.
Quanto guadagnate?
M.L. – “Viviamo di questo. Anche se nell’ultimo anno i guadagni si sono notevolmente abbassati. Non so bene se sia una questione di crisi economica o del settore. Ma c’è da dire che esiste pure una forte concorrenza. Ormai di parrucchieri ce ne sono tantissimi, da ogni parte del mondo. Anche se quelli più famosi come noi sono una decina”.
Che spese avete?
M.L. – “Per avere un’attività commerciale bisogna avere un terreno, acquistato o affittato. Second Life è una sorta di oceano con tante isole”.
R.D. – “Oggi affittare un’intera isola costa più o meno duecento dollari al mese. Per comprarla si spende circa un migliaio di dollari più altri duecento dollari mensili. Soldi che servono principalmente per il mantenimento del server per far funzionare la tua isola. Per la tipologia di prodotto che vendiamo noi abbiamo deciso di costruire un negozio. Una cascina in stile toscano. Ma non è necessario. Se vendi per esempio oggettistica fantasy ti puoi creare una foresta magica e appendere le cose sugli alberi. L’edificio l’abbiamo costruito noi, ma gli arredi li abbiamo comprati. Altrimenti non avremmo avuto il tempo di lavorare”.
E la promozione?
M.L. – “Partecipiamo soprattutto alle fiere di settore. È lì che otteniamo più visibilità e passaparola”.

Un'immagine tratta da Second Life (crediti: Wasabi)
Un’immagine tratta da Second Life (crediti: Wasabi)

Ci si fa belli per conquistare? Se non sbaglio sesso e porno su Second Life negli ultimi anni sono aumentati.
R.D. – “Il porno cè sempre stato, in realtà. Ma non è per forza predominante. Si può benissimo evitare quel mondo. Il sesso, per così dire, lo devi cercare. Anche se ovviamente, come dappertutto, è la cosa che vende di più”.
In che modo i personaggi possono far sesso?
R.D. – “Bisogna creare e comprare delle animazioni apposite. Ma puoi comprare animazioni di qualsiasi tipo. C’è tutta un’industria dietro. Chi si occupa di questo ha dei veri e propri studi di motion capture, allo stesso modo dei film o videogiochi. Le animazioni servono anche per i giochi di ruolo. Si possono ricreare molti dei giochi classici, come Dungeons & Dragons. Poi ci sono le fashoniste, quelle che si divertono a fare shopping, selfie o le sfilate di moda.
C’è anche il fenomeno della criminalità reale? Per esempio alla possibilità di riciclare denaro.
M.L. – “Se c’è noi non ci siamo mai imbattuti. Immagino sia possibile. Ma considera che sono tutte transazioni relativamente piccole”.
R.D. – “C’è stato il fenomeno della rivendita di terreni. Nel 2006 un’imprenditrice cinese (Anshe Chung, ndr) ha guadagnato una cifra equiparabile al milione di dollari con la compravendita di terreni virtuali. Ora però la logica economica di Second Life è cambiata. Ci sono più restrizioni”.

Un'immagine tratta da Second Life (crediti: Wasabi)
Un’immagine tratta da Second Life (crediti: Wasabi)

Bisogna dire che online si leggono diverse esperienze desolanti su Second Life. Voi invece state descrivendo un mondo piuttosto vivo. Come mai è percepita come una piattaforma ormai defunta?
M.L. – “C’è una barriera tecnica. Per usare appieno Second Life bisogna avere una macchina da gaming. E un’ottima connessione. Poi a livello di interfaccia le cose possono diventare complesse. Anche solo quando inizi ad acquistare personalizzazioni non è banale capire come utilizzarle. La quantità di azioni possibili può essere disarmante”.
R.D. – “Un’altra ragione è racchiusa nel nome stesso: è una seconda vita. Una vita che gli utenti tendono a mantenere rigorosamente separata rispetto a quella reale. Tengono molto all’anonimato”.
M.L. – “Questo cozza un po’ con la logica della maggior parte dei social network. Anche perché c’è sempre lo stigma di chi pensa che siccome c’è questo livello di anonimato su Second Life ci vai a fare le porcherie”.
Però non si può prescindere ormai dai social network. Avete delle alternative?
R.D. – “A parte Flickr e ultimamente Instagram, tra gli utenti va molto Plurk. Soprattutto tra quelli asiatici. È un social network che a differenza di Facebook non implica per forza esplicitare la propria identità. E poi ci sono sempre i fashion blog, per noi molto importanti. Lì si parla anche delle nostre acconciature. Tieni conto che quello che va di moda per le modelle e i modelli di Instagram va di moda su Second Life”.




Come un semplice cinguettio può far "schizzare" lo spread e creare il caos sui mercati

Un tweet di Borghi viene travisato sui social: “Se la Lega avrà la maggioranza, Italia fuori dall’euro”. La fake news fa salire i rendimenti e…


Il caso fa scuola e spiega bene come la frenesia, le ideologie contrapposte e quel po’ di malafede che agitano di questi tempi il dibattito pubblico sulla situazione economica italiana possano creare non pochi dolori. C’è poco da ridere, ma tutto inizia da un account twitter dal nome per nulla benevolo verso se stesso: “Venduto schifoso”. Dal singolare nickname viene diffuso un cinguettio all’una di notte: “Senza #ITAEXIT (l’uscita dell’Italia dall’euro, ndr) sarà considerato #traditore quindi se non vuole avere rimpianti faccia quello che tutti #noi#vogliamo“. Il destinatario del messaggio di “Venduto schifoso” è il leghista Claudio Borghi, presidente della Commissione Bilancio della Camera e noto per le sue posizioni euro-scettiche. Borghi, al quale va riconosciuto il merito di rispondere sempre agli utenti che lo coinvolgono nei dibattiti sui social, ha replicato: “Prima questi #noi devono diventare maggioranza nelle urne..”. Un tweet forse superficiale o avventato, vista la carica che Borghi ricopre e l’attenzione che già in passato i media, in particolare quelli finanziari, hanno riservato ad ogni sua esternazione. Ma nulla di più.
Il tweet finisce lì, nella notte. Qualche ora dopo, però, un professore associato di Economia all’Università di Pavia, Riccardo Puglisi, anche lui molto attivo su twitter e noto per le sue posizioni europeiste nonché duro contestatore delle posizioni euroscettiche espresse da Borghi, si accorge della risposta del deputato. E la rilancia, interpretandola, con il seguente tweet delle 14.18:

+++ BORGHI, CHIEF ECONOMIC ADVISOR TO SALVINI: IF THE LEAGUE GETS A MAJORITY IN THE NEXT ELECTIONS ITALY WILL EXIT THE EUROZONE +++

In pratica, secondo Puglisi, il capo dei consiglieri economici di Matteo Salvini avrebbe annunciato che se la Lega dovesse avere la maggioranza alle prossime elezioni l’Italia uscirà dall’euro. Una forzatura evidente della risposta di Borghi: messa così, in una fase delicata per l’Italia alle prese con la costante minaccia di una risalita dello spread e con una procedura di infrazione in vista da parte della Commissione Ue – sarebbe stata subito letta come un affronto a Bruxelles e ai mercati. E senza tralasciare che da tempo si susseguono rumors (sempre smentiti) che la Lega possa chiudere l’esperienza al Governo con M5S visto l’enorme consenso che gli attribuiscono i sondaggi. In altre parole, che possa passare all’incasso e liberarsi degli alleati grillini con cui ultimamente il rapporto non è affatto idilliaco.
Non si sa come, non si sa perché, la “headline” (titolo) del presunto annuncio di Borghi inizia a circolare sui social, anche su account di operatori finanziari e siti di informazioni che hanno l’occhio sui mercati. Viene ripresa così da Zerohedge, un blog finanziario statunitense anonimo anti-establishment seguito a Wall Street, che riporta la notizia attribuendola alla agenzia di stampa Reuters. E non si limita a questo: sul blog americano viene anche notato come dopo la diffusione della notizia i rendimenti dei titoli di Stato italiani subiscano una brusca impennata. Tra le 15 e le 16, da circa 313 punti base lo spread con i bund tedeschi arriva a toccare quasi i 320, per poi tornare a calare dopo che la notizia viene ridimensionata.

Com’è ovvio, il leghista Borghi resosi conto di quello che stava accadendo, scrive adirato alla Reuters: “Con che coraggio trasformate questo mio vecchio tweet allegato in immagine in QUESTA “notizia”? Non vi vergognate?”. La Reuters però smentisce attraverso il capo della corrispondenza in Italia Crispian Balmer: “Mai scritto questo, sembra che Zerohedge lo abbia attribuito erroneamente a noi, si prega di correggere immediatamente”. L’indomito Borghi naturalmente non si dà pace e scrive al blog statunitense: “Chi devo segnalare alla Consob? Voi o la Reuters?”.
Qui il mistero si infittisce e la vicenda assume i contorni del teatro dell’assurdo. Zerohedge rettifica, indicando la fonte da cui è stata ripresa la notizia che il blog americano ha attribuito erroneamente alla Reuters: si tratta dell’account twitter Dick Darlington. A sua volta, questo addita la fonte da cui l’ha ripresa: è il tweet di Riccardo Puglisi.

Claudio Borghi A.

@borghi_claudio

Ricostruita perfettamente la catena della fakenews di oggi sull’euro. La fonte è Riccardo Puglisi che inventa una mia dichiarazione che viene ripresa da una fonte di Zerohedge che la attribuisce a @Reuters. Deciderà la Consob se mandare in procura tutti o solo Puglisi.

Il mistero sembra quindi essere risolto. A complemento va detto che in effetti la Reuters, alle 15.33 ha battuto la seguente notizia: “I rendimenti dei titoli italiani salgono dopo le dichiarazioni anti-euro di Borghi”. Nel testo si legge:

Claudio Borghi, the economic spokesman of Italy’s ruling League party, said that if the League gets a majority in the next elections, Italy will exit the euro zone, analysts cited a media report as saying.

Insomma, la Reuters riporta la notizia successivamente attribuendola agli analisti che citano alcuni report di organi di informazione. Per Borghi comunque è tutto chiaro: “Ricostruita perfettamente la catena della fakenews di oggi sull’euro. La fonte è Riccardo Puglisi che inventa una mia dichiarazione che viene ripresa da una fonte di Zerohedge che la attribuisce a @Reuters. Deciderà la Consob se mandare in procura tutti o solo Puglisi”. “Diffusione di notizie false con conseguenza di provocare ribasso dei titoli di stato: a codice fanno fino a 6 anni di carcere. Per qualcuno finisce oggi la ricreazione”, aggiunge poi Borghi. Il caso è chiuso ma, come detto all’inizio, fa scuola. E farebbe anche ridere, se non facesse piangere, se si pensa che tutto è nato da un tweet di “Venduto schifoso”.




La bufala della scuola di Napoli che non può andare a una finale a Boston

Non si è qualificata, e la finale comunque non è a Boston: sembra che la scuola abbia diffuso informazioni false, e i giornali non le abbiano verificate

Nei giorni successivi – in particolare da lunedì 12 novembre – la notizia è stata molto ripresa dalla stampa; e ne ha parlato pubblicamente anche Vittoria Rinaldi, la preside del Righi. Durante un’intervista della trasmissione di Radio Capital condotta da Massimo Giannini, Rinaldi ha risposto così alla domanda: «Però siete già sul podio, professoressa?».

«Si, si, si, sicuramente. Voglio precisare perché non è ancora il ritiro del premio. È lo svolgimento della finalissima».

Durante l’intervista, la preside Rinaldi ha detto anche che servono 6-7mila euro per partecipare alla finale. Intervistato il 13 novembre dal TG5, il professore del Righi Salvatore Pelella ha parlato invece di almeno 15mila euro «per poter stare una settimana a Boston».
Dal 14 novembre, però, qualcuno ha fatto notare tutto quello che non tornava in questa vicenda. I primi a farlo sono stati Luca Allione – uno studente di 18 anni dell’IIS Giulio Natta di Rivoli, in Piemonte, che sta partecipando allo Zero Robotics – e in seguito il Politecnico di Torino, che coordina la sezione europea del torneo Zero Robotics.
Il torneo Zero Robotics si disputa tra studenti delle scuole superiori di tutto il mondo che si sfidano nella programmazione degli SPHERES, dei piccoli satelliti sferici ospitati all’interno della Stazione Spaziale Internazionale. Le finali consistono nel mandare dei codici di programmazione per gli SPHERES alla Stazione Spaziale Internazionale. Come si capisce bene anche dal sito del torneo, i ragazzi del Righi non hanno vinto e nemmeno sono arrivati secondi nella classifica finale: sono solo arrivati secondi in una classifica relativa a una fase preliminare, che si è conclusa. Ora restano altre 84 squadre (molte delle quali italiane) che ripartiranno da zero, con una nuova classifica. In più, spiega il Politecnico di Torino, gli studenti «si sfidano, suddivisi in tre aree geografiche (Europa + Federazione Russa, Americhe, Australia)» e «la finale per le squadre europee si svolgerà ad Alicante (Spagna), non al MIT di Boston». A Boston ci sarà solo la finale dell’area geografica delle Americhe. Le tre finali – che si svolgeranno nello stesso giorno – saranno a inizio 2019. Ipoteticamente una squadra italiana potrebbe quindi fare la finale da Boston anziché da Alicante, ma non è tenuta a farlo.
Sembra quindi che il Righi abbia diffuso – e accettato che venissero diffuse – informazioni sbagliate sul concorso, senza smentirle o ritrattarle quando hanno incontrato grande diffusione sui media (che a loro volta le hanno diffuse senza verificarle, nonostante fosse sufficiente andare sul sito del concorso o contattare le parti in causa) e hanno portato a offerte da più parti per pagare le spese per partecipare alla finale del concorso. Tra i giornali che ne hanno parlato, diffondendo informazioni false, ci sono il Sole 24 Ore e Repubblica; ma anche molti altri sulla stampa, in radio e in tv.
La preside del Righi di Napoli, Vittoria Rinaldi, ha detto al Post che la scuola «non ha ancora ricevuto un soldo» e ha aggiunto «non ho avuto un centesimo e né lo voglio»; ha spiegato che la scuola aveva solo provato a assecondare il desiderio degli studenti di andare a Boston, dando ai giornali la colpa di aver comunicato male il messaggio. In realtà, come mostra per esempio il video qui sotto, è stata proprio la preside a dire erroneamente che la scuola sarà «convocata a Boston per la finalissima», che «i ragazzi dovranno recarsi a Boston per la finale» e che «tutto questo implica dei costi». Inoltre non risulta che nelle varie occasioni pubbliche in cui ha avuto modo di parlare del concorso – a Radio Capital, dal presidente De Luca, eccetera – la preside abbia ritenuto opportuno chiarire che quelle informazioni non erano corrette.

Contattato dal Post, Allione – che frequenta la 5B del Natta di Rivoli, che sta partecipando a Zero Robotics – ha spiegato, insieme al suo compagno Fabio Zorzan e al loro professore Marco Goia, che andare a Boston, alla finale americana, è una semplice opzione, per assistere alla finale americana. Dicono che «pochissime squadre italiane vanno a Boston» per la finale americana e che nemmeno il Natta, la loro scuola, ci è mai andata. La finale consiste nel mandare un codice alla Stazione Spaziale Internazionale; una cosa che, in pratica, si può fare anche senza andare dove è stata organizzata la finale. È sicuramente piacevole andarci, ma non è imprescindibile per partecipare e addirittura vincere.
Dopo gli articoli dei giornali, i servizi dei TG e le trasmissioni radio, comunque, in molti hanno provato a partecipare «alla gara di solidarietà» per il Righi, evidentemente senza fare le necessarie verifiche e senza che qualcuno del Righi spiegasse loro la situazione. Anzi, gli studenti del Righi sono apparsi insieme a chi ha offerto loro le spese per partecipare alla finale a cui non si erano qualificati. Tra chi ha detto di aver offerto soldi ci sono:
1. Il Senato della Repubblica

2. Il Movimento 5 Stelle, con un articolo firmato da Luigi Di Maio che dice anche di aver parlato con la preside della scuola:

Oggi ho letto questa notizia che mi ha colpito molto. Abbiamo le menti migliori del mondo e poi ci mancano i soldi per far sviluppare le loro idee. I tre diciassettenni di Napoli in foto sono Luigi Picarella, Davide Di Pierro e Mauro D’Alò e hanno sbaragliato la concorrenza di oltre 300 scuole nel mondo in una gara di robotica.
Sarebbero dovuti partire per Boston per la finalissima, ma l’Istituto non aveva i soldi per sostenere il loro viaggio. E’ chiaro che dobbiamo dare più soldi alla scuola, all’istruzione, alla ricerca e cercheremo di fare il possibile per mettere maggiori finanziamenti nella manovra. Ma intanto è fondamentale dare un’opportunità a questi tre ragazzi che sono pronti a spaccare il mondo. Così, d’accordo con tutti i parlamentari e i consiglieri regionali campani, abbiamo deciso di raccogliere la somma che serve per dare a questi tre ragazzi geniali la possibilità di realizzare il loro sogno.
Abbiamo parlato con la Preside della scuola e siamo d’accordo nel portare avanti questa iniziativa. Lunedì incontreremo Luigi, Davide e Mauro per fargli i complimenti, dirgli che si meritano di andare alla finalissima e che i soldi per farlo li abbiamo trovati. Meritocrazia, investimenti e sviluppo. L’Italia riparte da qui!

3. Il TG3

 

4. Vincenzo De Luca, presidente della Campania

5. Alcuni privati.
  • Giovanna Manzi, CEO di Best Western Italia, che ne ha parlato a Radio Capitalquando ha telefonato anche la preside. «Abbiamo congiunto domanda e offerta», ha detto Giannini.




STEFANO GABBANA Vs. ELTON JOHN: TRA MEDIOCRITÁ, E POTENZA DELLE EMOZIONI

STEFANO GABBANA Vs. ELTON JOHN: TRA MEDIOCRITÁ E POTENZA DELLE EMOZIONI

È successo di nuovo. E tutti ne parlano. In sintesi, per quei pochi che si sono persi la notizia, la Maison “Dolce & Gabbana” lancia la propria attesa sfilata a Shangai con un videoclip stereotipato e denso di luoghi comuni: lanterne rosse, cinesi che ridacchiano, e una voce fuori campo che sussurra “È troppo grosso per te..?” alla ragazza orientale che tenta di mangiare un cannolo siciliano; partono le (più che comprensibili) polemiche, e l’epic-fail monta al punto che la controllata locale del gruppo è costretta a togliere il video dai Social; Stefano Gabbana viene a quel punto informato della cosa, e con la solita imperturbabile eleganza che da sempre lo contraddistingue, scrive a Michaela Trianova, influencer esperta di moda: “Fosse per me quel video non lo avrei mai tolto, ora dirò a tutti che la Cina è un paese di merda, ignorante, sporco e che puzza di mafia”; la Trianova pubblica gli screenshot, e viene fuori un putiferio di livello mondiale, ampiamente coperto dalla stampa internazionale, senza contare – solo nelle prime 48 ore – i 120 milioni di interazioni non certo lusinghiere su Weiboo, il più importante social network cinese, al punto che, per protesta, i prodotti della maison vengono rimossi da tutti gli store on-line cinesi e da molti negozi veri e propri.
A margine, interessante notare in Italia la differenza di copertura tra i social e la stampa mainstream, e – analizzando più nel dettaglio – tra la stampa mainstream beneficiaria di investimenti pubblicitari del gruppo e quella libera da questo vincolo: diversi addetti ai lavori del settore moda maliziosamente hanno rammentato l’abitudine di Gabbana – che pare essere assai “vendicativo” – di sospendere stizzito gli investimenti pubblicitari a qualunque rivista prenda posizioni distoniche rispetto ai suoi desiderata, come si mormora abbia fatto con diversi periodici in passato.

Errori che costano caro

Tutte facezie, direbbe qualcuno: se non fosse che uscite di testa come quelle per le quali ama distinguersi lo “stilista” mettano periodicamente a rischio la reputazione del marchio, e quindi – dal momento che la reputazione orienta fortemente i comportamenti di acquisto, e di conseguenza il fatturato – facciano ogni volta tremare i polsi agli oltre 5.000 dipendenti della maison, che giustamente temono ripercussioni sui propri posti di lavoro. Impossibile poi non osservare come, al netto dell’ovvia sgradevolezza delle affermazioni del Gabbana dal punto di vista umano, anche dal punto di vista imprenditoriale si debba essere davvero masochisti per insultare i cittadini di un mercato – quello cinese – che sviluppa il 35% del fatturato del gruppo, con 1,3 miliardi di incassi e 50 negozi sparsi per il paese: i media di settore già parlano di “Crollo dell’impero cinese di Dolce & Gabbana”, con possibili ripercussioni negative sul resto delle produzioni “Made in Italy”.
Al netto di ciò, dopo un giorno appare, imperdibile, lo scontato video di scuse di Dolce & Gabbana,

che ha immediatamente scatenato l’ironia della rete…

Uno delle centinaia di fotomontaggi che spopolano sul web in queste ore

Quando si dice “la toppa è peggio del buco”: i due stilisti – riporta RollingStone – “hanno recitato un testo di scuse con la convinzione di un condannato a morte jihadista: un capolavoro d’avanspettacolo”. Gabbana e i suoi addetti alla comunicazione tentano di interpretare – probabilmente senza averne le capacità – una delle regole base della crisis communication: porgere le proprie scuse incondizionate; però lo fanno leggendo un testo di una banalità sconcertante, con affermazioni del tipo “ci scusiamo perché i cinesi sono molti nel mondo” (…fossero stati pochi sarebbe stato giusto insultarli?). Per com’è costruito questo video, neppure il settore comunicazione della maison pare fare gran bella figura: fortissima si sente la mancanza di Cristiana Ruella, che per molti anni diresse con polso fermo e grande capacità la casa di moda milanese, tenendo a bada laddove possibile le intemperanze di Gabbana, e anche risolvendo efficacemente il coinvolgimento dell’azienda in diversi precedenti epic-fail online: troppo brava evidentemente, infatti Gabbana l’ha allontanata a inizi 2017.

Gabbana recidivo

Nelle dichiarazioni successive sui Social, in piena bufera, Gabbana incolpa presunti e sconosciuti hacker informatici che avrebbero piratato i suoi profili pubblicando le frasi offensive (la cybersecurity: da criticità a risorsa…).  No, Stefano Gabbana, temo che nessun hacker abbia “piratato” i tuoi profili social, né d’altra parte tu hai prodotto alcuna prova che ciò sia realmente accaduto: le tue esternazioni riguardanti questa vicenda sono perfettamente in linea con il tuo stile, come quando – nel pieno della bufera per le oche spennate dai sub-fornitori di Moncler per fare piumini, da vive e senza alcun accorgimento per ridurne il dolore (scrissi del caso nel 2014) – twittasti, senza che nessuno ti interpellasse ne ti chiedesse alcunché, “Voi non capite che cos’è il lusso”, scatenando polemiche, non certo solamente da parte degli animalisti; oppure quando twittasti “Comune di Milano, vergognatevi, ignoranti, fate schifo e pietà!” in risposta a un Assessore che si era permesso di commentare l’accusa di evasione fiscale per la quale all’epoca veniste rinviati a giudizio e condannati in primo e secondo grado, a 1 anno e 6 mesi di reclusione (poi, è giusto ricordarlo, assolti in virtù di complesse interpretazioni giuridiche in sede di Cassazione). Le malelingue richiamano l’attenzione sull’orario abituale di vari tweet di Gabbana: tarda sera e notte, quando probabilmente il peso dell’alcool (e forse non solo dell’alcool) si fa sentire, e il personaggio pare perdere il controllo di se, e forse di tutto ciò che lo circonda.
Vi confesso che non avrei voluto scrivere di questo squallore, che conferma una volta di più – semmai ve ne fosse bisogno – la sconcertante impreparazione di parte della classe imprenditoriale italiana sul fronte delle complessità proprie del Reputation management (disciplina che va ben al di la di una comunicazione più o meno ben riuscita), ma era indispensabile farlo per inquadrare il contesto e poter ora parlare di qualcosa che – a differenza dei pensieri confusi di Stefano Gabbana – ha realmente importanza: il potere straordinario delle emozioni, unico driver in grado di veicolare efficacemente i valori di un marchio, come ci dimostra il monumentale video realizzato da Elton John in vista delle feste natalizie in collaborazione con la catena di grande distribuzione inglese di qualità JLP – John Lewis and Partner .

Tutto un altro stile

Nata poco dopo la metà del 1800, JLP si contraddistingue da sempre per la forte attenzione al benessere dei propri dipendenti: fu proprio uno dei visionari fondatori dell’azienda a voler inserire nelle regole di governance del gruppo l’obbligo di ridistribuire una parte assai significativa degli utili a tutti i collaboratori, trattenendo per gli azionisti una quota decisamente minoritaria dei guadagni, e creando così una delle prime “cooperative di fatto” della storia imprenditoriale mondiale; un marchio che macina oggi più di 3 miliardi all’anno di sterline di incassi e da lavoro a quasi 40.000 persone (tutte assai felici, ogni qual volta arriva il dividendo di fine anno).
JLP ha voluto sottolineare nel breve e curatissimo video con protagonista il baronetto del pop mondiale, clip intensissima e davvero emozionante, l’importanza di non regalare oggetti a caso e di “mettere il cuore” negli acquisti: esistono infatti regali e regali, e alcuni di questi possono fare la differenza, condizionando positivamente la storia e la vita di una persona. Il video è un viaggio a ritroso nella carriera del cantante, sulle note di una delle più belle canzoni di tutti i tempi, fino ad arrivare alla sua infanzia, con una conclusione potente e in grado di far venire “voglia di Natale” a chiunque, cuori di pietra inclusi.
https://www.youtube.com/watch?v=mNbSgMEZ_Tw
Dopo aver visto il video, concludiamo ricordando come non troppo tempo fa Stefano Gabbana si sia scontrato duramente proprio con Elton John; Gabbana definì “sintetici” i figli nati mediante procreazione assistita, come quelli del cantante: “Sono uteri in affitto e semi scelti da un catalogo”, profondendosi con l’occasione in un elogio alla famiglia tradizionale (punto di vista rispettabilissimo, non fosse che sia Stefano Gabbana che Domenico Dolce sono gay, circostanza che sarebbe del tutto ininfluente, se non toccasse il tema reputazionalmente assai delicato dell’autenticità e della coerenza).
Guardata in quest’ottica, la cronaca di questi giorni prende i contorni di una nemesi pre-natalizia: Gabbana fa (l’ennesima) figuraccia a livello planetario, ed Elton John ci accompagna verso le feste con una pubblicità emozionante e straordinaria.
Potremmo a questo punto discettare di capacità manageriali; di prerogative tipiche di chi esercita una leadership, aziendale o culturale che sia; di responsabilità sociale d’impresa; di presa di coscienza del proprio ruolo di influencer; o anche solo – banalmente – di stile. Ma penso che ogni ulteriore commento potrebbe risuonare superfluo.
Buoni acquisti Natalizi a tutti; magari non nelle boutique Dolce & Gabbana, bensì nei magazzini JLP.




“Caro cliente ti scrivo”, La rivincita dei blog sui social

Il 36% dei brand Top 500 di Fortune ne ha uno: raccontano prodotti veicolano valori e visione, posizionano verso campagne sociali e intercettano clienti

Uno degli uomini più ricchi al mondo ha deciso di dividere il palco con un campione di feci umane. Raccontando poi il perché in un post a sua firma sul suo blog costantemente aggiornato e navigabile su Billnotes.com. Così l’imprenditore statunitense e filantropo Bill Gates, messo in una storica copertina dall’Economist con il neologismo Billanthropy, è diventato anche blogger. Gates ha raccontato il suo impegno al Reinvented Toilet Expo di Pechino, fiera finanziata dalla fondazione Gates per presentare i venti migliori prototipi di gabinetti del futuro. «Non capita spesso di salire su un palco con un campione di feci umane, ma l’ho fatto per attirare l’attenzione su un problema serio che uccide più di ___mila persone ogni anno: la scarsa igiene», ha scritto Gates, diventando tendenza sui social.
 

L’avanzata del blog storytelling

Professione blogger d’azienda. Così  il manager (e non solo il comunicatore) scommette sul blog, puntando su una scrittura long-form e quindi argomentata, approfondita e con un taglio personale, autentico, empatico.
D’altronde in questi anni liquidi nei quali ogni company diventa media- company – così ha dichiarato al Financial Times Richard Edelman, a capo dell’omonimo colosso di comunicazione – grazie al blog aziendale il brand presenta prodotti e servizi con un taglio laterale, offre il suo punto di vista sul mondo, conversa con la community, ospita interventi, promuove incontri dal vivo. E il fenomeno registra un aumento esponenziale.
Lo segnala anche la ricerca State of Blogging: oggi il 36% delle aziende inserite nella classifica Fortune 500 ha un blog, l’89% ritiene che questi spazi saranno importanti nei  prossimi cinque anni e addirittura il 60% li considera vantaggiosi per il proprio business.
Nel mondo si distinguono i corporate blog Tech Page One di Dell, Real Business di Xerox, Free Press di Intel. E in Italia negli ultimi anni sono nati Eniday di Eni, Nati per Proteggere di AXA, Morning Future di Adecco, New Heroes di Red Bull, Mondo Leasing di Banca Ifis, Changes di Unipol, Non Solo Buono di Fini Modena, On/Off di Edison, Fatti di Bio di Alce Nero.
Una narrazione multimediale che dalle piattaforme abbraccia i social, mantenendo però una propria identità in uno spazio più protetto. «Il blog aziendale può essere al centro della comunicazione online. Una pagina di Facebook, un account Instagram o altri social non riescono a sopperire a questa funzione informativa, essendo dispersivi e basati sulla contingenza. Invece condividendo i contenuti del blog sui social si ottiene l’effetto di aumentare le visite e i contatti in un luogo che ci appartiene: il nostro sito web», afferma Riccardo Scandellari, autore di “Rock’n’Blog” per Mondadori. Focus su storie, interventi, testimonianze, anche in video. «Quando qualcuno cerca un’informazione solitamente usa un motore di ricerca. Se il sito aziendale contiene un blog, quindi informazioni utili, si aumenta enormemente la capacità di essere trovati e contattati. Qualche anno fa si pensava di sostituire il blog con Facebook. Chi l’ha fatto ha commesso un grosso errore strategico», precisa Scandellari.
 

Consigli di scrittura(poco) aziendale

Autenticità, utilità, continuità. E la necessità di catturare l’attenzione offrendo contenuti di valore. «Dieci anni fa si stimava che un americano fosse mediamente esposto a cinquemila pubblicità ogni giorno. Oggi quel numero è aumentato enormemente. Ecco perché le aziende più reattive hanno cominciato ad investire sui contenuti. Il blog diventa uno spazio proprio dove poter offrire informazioni utili, risolvere problemi e dialogare in maniera aperta con il mercato e i suoi potenziali clienti», afferma Dario Vignali, ventisettenne imprenditore digitale, inserito tra i migliori under __ da Forbes e pioniere nel blogging. Perché Vignali ha aperto il primo blog a tredici anni. «Se è vero che le piattaforme social continuano a dominare il mercato èaltrettanto vero che le aziende sistanno accorgendo della necessità di svincolarsi dalle regole spesso penalizzanti dei loro algoritmi». Ma per funzionare un blog deve essere autentico. E deve verticalizzare, intercettando community. «Il futuro è caratterizzato da una verticalizzazione sempre maggiore. Guide, articoli d’aiuto e contenuti d’intrattenimento si sono resi portavoce dell’autorevolezza e dell’affidabilità aziendale agli occhi del cliente», precisa Vignali.
Occorre surfare nella contemporaneità, evitando l’autoreferenzialità.  e è convinto Scandellari: «L’errore classico consiste in una comunicazione fredda da ufficio stampa. I contenuti del blog devono essere utili e caldi, firmati con il nome e il volto dell’autore».