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La web reputation passa anche attraverso le recensioni negative

Talvolta per comprendere a fondo un fenomeno è necessario porsi interrogativi che a prima vista possano sembrare “contraddittori” o che semplicemente permettano di focalizzare la propria visione di un determinato problema da una angolazione diversa dal solito.

Ma facciamo un passo indietro, sezionando la domanda del titolo nelle sue parti per comprendere meglio…. Iniziamo dalla web reputation.
Sino a qualche anno fa suonava avveniristico acquistare un paio di scarpe o un volo aereo, un orologio o un abito da sposa in un negozio on line. Ora le piattaforme di acquisto in Rete si moltiplicano, spesso sono più convenienti dei negozi fisici, e col tempo comprovano anche la propria affidabilità, per esempio grazie alle recensioni ricevute come feedback dai clienti.

 Ma cosa è di preciso la web reputation?

Si tratta della reputazione che un’attività costruisce on line e di certo non vale meno di quella che negli anni si costruiscono i negozi fisici. Il sistema del passaparola esiste da tempi inimmaginabili, di certo prima che il web fosse inventato. Eppure il meccanismo è analogo: se operi bene, i clienti parleranno altrettanto bene di te. E tornano, magari trascinando altri clienti.

Il feedback che costruisce nel tempo una buona reputazione, però, non è solo affidata al giudizio del cliente, anche se a parere di una piattaforma specializzata come eShoppingAdvisor.com, questi rimane il motore principale della reputazione. L’ecosistema del web, negli anni si è modificato, arricchendosi di dinamiche complesse. Tra queste c’è il servizio destinato ai clienti, il posizionamento nei principali motori di ricerca (essere trovati in Rete attraverso parole chiave è fondamentale) , la comunicazione “corporate” necessaria per interagire con il pubblico di riferimento attraverso il blog, i social, i servizi di mailing, le newsletter eccetera.
Così come nella vita quotidiana, le variabili che classificano la web reputation sono almeno tre: il tempo, senza il quale la reputazione non si costruisce, la continuità  rigorosa dei servizi web senza adottare pause ingiustificate (no a “buchi” temporali nella gestione di servizi ai clienti, aggiornamento di social e siti), e la cura del rapporto con il cliente, che continua anche se questi – soprattutto- non è soddisfatto dei vostri servizi. Se si sbaglia, c’è sempre tempo per riparare.
 

Parola magica: web reputation.

web reputation strategy
 
Tutti ne parlano, ma pochi sanno in cosa consista realmente. Uno studio made in USA spiega le varie sfaccettature della reputazione di un’attività on line traducendola nella concretezza del linguaggio quotidiano. A cimentarsi nell’analisi è stata Invespcro.com (qui l’infografica completa) che riscontra in almeno tre aspetti fondamentali, e cioè l’affidabilità (per il 27% degli intervistati), le competenze (21%) e la professionalità (18%) i più importanti tratti sui quali si basa la reputazione di un’azienda.
Molte imprese investono significativi capitali in studi di settore per analizzare questi aspetti e diffonderne i risultati per ottenere una buona pubblicità di ritorno. La reputazione guadagnata sul web, invece, è veicolata a costo zero dagli stessi consumatori che, diffondendo i loro feedback, contribuiscono a creare quel “passaparola” che disegna l’identikit dell’eshop. È questa la forza della community della Rete e nel caso delle recensioni legate al mondo dell’ecommerce, col tempo viene costruita una preziosa banca dati che consente al consumatore di orientarsi tra la varietà e la qualità di prodotti e servizi offerti.
Proprio all’interno di una community di acquirenti che hanno scelto di affidarsi al web, eShoppingAdvisor.com permette ai negozi on line di avere in automatico recensioni “certificate”, anche con il profilo gratuito per sempre; sarà anche possibile monitorare gli andamenti delle recensioni e ottenere un riconoscimento concreto rispetto a questi valori con una prospettiva del + 3-5% di aumento delle vendite grazie alla versione PRO.
Talvolta però gli imprenditori non si avvicinano al mondo delle recensioni perché hanno paura, anzi terrore di quelle negative, non considerando un principio fondamentale e ineluttabile: avere una piccola percentuale di recensioni negative è fisiologico e se rimane una piccola percentuale permette al proprio “score” di assumere una connotazione più “umana” e vera.
Cosa fare quando la recensione al proprio ristorante o albergo su piattaforme globali come Trip Advisor è negativa? E come reagire a fronte di commenti aggressivi o addirittura giudizi falsi? La buona notizia è che si può far fronte non solo a sfide molto complesse sul web ma si può anche costruire un percorso di crescita insieme ai consumatori.
Lo dimostrano nel loro saggio Web Marketing delle recensioni. Guida di sopravvivenza a TripAdvisor & co per albergatori e ristoratori” (Apogeo), gli autori Francesco Tapinassi  e Nicola Zoppi  , il primo dirigente alle politiche del turismo presso il Ministero dei beni e delle attività culturali e del turismo, il secondo docente in vari master di Hotel Management. Lungo i nove capitoli della guida, il lettore viene accompagnato dai due professionisti della comunicazione turistica on line che propongono un percorso di comprensione del valore reale delle web recensioni, del loro ruolo centrale nelle strategie di marketing  e di monitoraggio della struttura (o della destinazione), nell’evoluzione del mercato turistico in Rete. Ma come gli stessi autori spiegano nel testo, l’analisi è valida anche per il sistema di recensioni dedicata ai negozi on line.
web marketing recensioni
 eShoppingaAdvisor.com ha chiesto a Francesco Tapinassi di chiarire alcune dinamiche per venditori o clienti.
 Per cominciare, quanto conta il processo di “condivisione” durante l’acquisto?
“Il consumatore è di certo consapevole del proprio ruolo. Lo dimostra anche un’intervista che citiamo nel libro ad una prolifica produttrice di recensioni che spiega quanto sia importante per lei, viaggiatrice solitaria, confrontarsi con i giudizi degli altri viaggiatori. Il bello di questi strumenti è che nessuno ti obbliga a scrivere nulla, nessuno ti sollecita, eppure ci si può sentire utili con il proprio contributo. Siamo tutti autori, in veste di singola monade o di elemento di valore. Poi se scrivo molto e anche in maniera informata, vengo riconosciuto come un bravo selezionatore e magari può arrivarmi un riconoscimento. L’elemento utilitaristico ovviamente esiste, eccome. Il sistema funziona per me e per gli altri, ma solo se tutti partecipano…”
 I venditori comprendono appieno il valore delle recensioni?
“La consapevolezza dei venditori è crescente e non c’è più la resistenza culturale degli anni scorsi. Ma resta sempre in ballo una componente conservatrice; in pratica, non è facile demolire l’idea della comunicazione enfatica che cerca di negare gli eventuali aspetti negativi. Rimane ancora la traccia del marketing più antico: quello del “purché si venda!”. Questo però è un concetto in crisi, non solo perché le recensioni smascherano l’eventuale servizio gestito male o assente, ma anche perché le false promesse incrinano il rapporto di fiducia tra compratore e venditore che nella dimensione virtuale è ancora più importante”.
 E se arriva una recensione negativa che non ci si aspetta?
Esiste un concetto importante: la “qualità percepita”. La soggettività fa parte del gioco, perché spesso non ci sono dati oggettivi di valutazione e le stelle, da sole, fanno fatica a reggere la sfida, perché non possono raccontare anche l’ospitalità o la cordialità della struttura. Pensiamo alla ristorazione ad esempio, e di come sia difficile giudicare con il proprio gusto. Ecco perché il gran numero di recensioni fa la differenza…”
 Fatta salva la buona fede, come dovrà comportarsi il gestore o venditore di fronte alla critica?
“La critica è un privilegio, è una delle tesi di Gianluca Diegoli. Nella nostra guida spieghiamo chiaramente l’importanza della replica della direzione della struttura, come strumento essenziale nelle relazioni con gli utenti della Rete per confermare la centralità della cura dei bisogni dell’ospite”.
 Se si diventa bersaglio di fake reviews, gravi falsità, o addirittura insulti?
“Non posso di certo chiedere l’intervento della polizia postale se la recensione alla mia struttura non mi piace, ma in caso di elementi diffamatori di certo se ne può chiedere l’intervento. Personalmente però sarei più attento all’eventuale richiesta risarcitoria dei danni…”
recensioni vere false
 Il venditore spesso si chiede: ma quanto ci guadagno da tutto questo? 
“La nostra guida affronta il delicato rapporto tra marketing, revenue e reputazione. È scientificamente dimostrato che la reputazione è correlata alla revenue e dunque ai guadagni. La vera domanda è: lei acquisterebbe in Rete da una struttura o negozio senza neppure una recensione? Più che per gli alberghi o i ristoranti che esistono a prescindere dal web, la questione riguarda soprattutto l’e-commerce, che ha dalla sua solo gli strumenti di verifica delle piattaforme”.
Noi abbiamo una piccola ricetta per gestire le recensioni negative.
Prepararsi, Parlare, Prodigarsi. Non è poi difficile tenere sotto controllo le recensioni negative dei clienti e trarne persino vantaggio. Se pensi che ricevere giudizi non positivi dai consumatori che acquistano beni o servizi sul web equivalga a subire un danno per la tua reputazione, siamo pronti a dimostrati che non è così.
Le recensioni degli utenti sugli eshop sono una risorsa dal valore inestimabile. Quando la propria attività riceve un giudizio positivo sul web, e quando queste gratificanti valutazioni a quattro/cinque stelle si ripetono nel tempo, il negoziante ha la possibilità di verificare che la strada intrapresa è quella corretta. Ma soprattutto costruisce, giorno dopo giorno, una buona web reputation analoga (anzi, di valore maggiore) rispetto a quella che qualunque commerciante crea faticosamente nei negozi fisici.

 Ma come affrontare una recensione negativa sul web?

Noi di eShoppingAdvisor.com ti proponiamo di seguire la regola delle tre P e considerarla parte integrante della tua customer care.
P come Prepararsi: non lasciare nulla al caso. Studia con anticipo una risposta dai toni cordiali e dai contenuti convincenti, meglio se del tutto veritieri, in grado di convincere il cliente che l’errore può accadere e che non è affatto una regola. Spiegane brevemente le cause. Se puoi, affida questo compito ad un collaboratore in grado di trovare il tempo per seguire lo scambio con garbo e attenzione.
P come Parlare: se possibile, cerca di contattare privatamente il cliente.
Già con il profilo gratuito di eShoppingAdvisor.com abbiamo fatto in modo che tu possa rispondere in privato nei 3 giorni precedenti la pubblicazione di una recensione negativa; in questo modo, prima della potrai gestire il reclamo in privato. L’utente potrà anche modificare la recensione. In alternativa avrai comunque la possibilità di rispondere pubblicamente e quindi di gestire il reclamo on line. Gli altri clienti apprezzeranno la prontezza di spirito e l’onestà del venditore.
P come Prodigarsi: ecco arrivati al punto che ci sta più a cuore. Le recensioni negative spesso funzionano da preziosi allarmi rispetto ad aspetti critici dell’attività che magari erano stati ignorati. Capita nella vita di tutti i giorni di fare ogni cosa per bene ma di farne qualcuna male, senza comprenderne cause e dinamiche. Prodigarsi, dunque, affinché gli errori non si ripetano.




DigitalMente

“DigitalMente”, rubrica settimanale che ogni Venerdì prova a fornire spunti e appunti su digitale e dintorni per riflettere a tutto campo su innovazione e digitale. Oggi abbiamo scelto di parlare di Twitter.
Diffusi ieri i risultati relativi al terzo trimestre 2018 da parte di Twitter Inc. Risultati con luci e ombre che offrono spunti di riflessione che, volendo, vanno al di là del caso specifico. Vediamoli.
Si assiste al calo più significativo di sempre per quanto riguarda il numero di utenti mensili attivi. Complessivamente la flessione è del 2.6% rispetto al trimestre precedente, che già era in calo, e del 1.2% rispetto al pari periodo dell’anno precedente. La flessione negli USA è del 1.4% rispetto al trimestre precedente e del 2.9% rispetto al pari periodo dell’anno precedente. Più pesante il calo di utenti mensili nel resto del mondo con una flessione del 3% rispetto al trimestre precedente, mentre rispetto al pari periodo dell’anno precedente il calo è solamente del 0.4% .
In totale sono stati persi nove milioni di utenti unici rispetto al trimestre precedente, che aveva già registrato un calo di un milione di utenti unici mensili, e di quattro milioni rispetto al pari periodo dell’anno precedente, eppure le quotazioni del titolo sono aumentate del 15.5% in seguito all’annuncio dei risultati, nonostante le attese siano di un ulteriore, modesto, calo degli utenti attivi mensili nel futuro prossimo.
Il perché è presto detto. Infatti, per quanto riguarda il numero di utenti mensili, il calo è dovuto alla pulizia di bot e account fake nei mesi scorsi. Pulizia e trasparenza che era stata oggetto di plauso da parte di agenzie e centri media, e infatti i ricavi complessivamente aumentano del 29% e quelli da advertising crescono addirittura del 36% anno su anno. Se a questo si aggiunge che l’ad engagement è in continua crescita, si capisce come mai a fronte di un calo degli utenti mensili vi sia una reazione positiva degli investitori, con Twitter che orgogliosamente annuncia: «We’re attracting great people to Twitter who believe in our purpose, and we’re driving investments in our highest priority areas: health, audience and engagement growth, revenue product, ads platform, and sales».
Insomma, nell’era delle “fake news”, delle metriche falsificate, o comunque falsate, dei fake influencer con un audience altrettanto fake, e, a adbuntatiam, della piaga dell’ad fraud, apertura e trasparenza sono un valore, se possibile, ancor più apprezzato. Una lezione che va ben al di là del caso specifico di Twitter.




Torinostratosferica: sotto la Mole il festival sulle migliori pratiche urbane dal mondo

Seconda edizione per la rassegna che porterà sotto la Mole i pensatori più visionari da New York, Detroit, Copenaghen per un dibattito sulla cultura urbana. Ne abbiamo parlato col suo fondatore Luca Ballarini


Torino sarà al centro del dibattito sulla cultura urbana grazie al Festival Torinostratosferica Utopian Hours, che si terrà in città fino al 21 ottobre 2018, negli spazi ex industriali recuperati di Q35, già sede di The Nesxt. Giunta alla seconda edizione, la rassegna farà convergere sotto la Mole i pensatori più visionari da New York, Boston, Helsinki, Berlino, Parigi, Londra, Oslo, Rotterdam, Lisbona e Praga  per discutere in modo poco convenzionale di città e processi di rigenerazione urbana. Su tutti, Aaron Foley, il primo chief storyteller ufficiale di Detroit (e prima figura di questo tipo negli Stati Uniti e nel mondo); l’esportatore del “modello Copenaghen” di mobilità lenta e ciclabile Mikael Colville-Andersen(volto della serie tv The Life-Sized City in onda su laEffe come Racconti dalle città del futuro); e Jeff Stein,il direttore del progetto Arcosanti, la città-laboratorio fondata negli anni ’70 in Arizona dall’architetto torinese Paolo Soleri. L’iniziativa, supportata da importanti istituzioni come la fondazione di origine bancaria Compagnia di San Paolo ed Edison, è promossa dall’omonima associazione no profit Torinostratosferica, fondata da Luca Ballarinidello studio torinese di progettazione e comunicazione Bellissimo (sua anche l’idea di portare Open Housea Torino), al quale abbiamo posto qualche domanda.
Come nasce Torinostratosferica?
Torinostratosferica nasce come logo e come progetto alternativo a Torino Strategica, a cui avevo collaborato come grafico e copywriter insieme al mio studio, Bellissimo. Ha il vantaggio di essere un’associazione privata, no profit e interdisciplinare. Oggi non basta creare un brand della città rivolgendosi alle élite: occorrono nuove narrazioni soprattutto a partire dalle immagini e da un linguaggio diretto e internazionale che, a differenza del passato, oggi attraverso social come Instagram e Facebook possono essere condivisi molto più facilmente di elaborati concetti strategici.
Di cosa si tratta in concreto?
È un esperimento collettivo e innovativo di city imaging e di city branding nato nel 2014, che parte dal concetto di città come immagine mentale (The Image of The Citydi Kevin Lynche, soprattutto, la frase: “Cities are mental weapons” di Julian Beinart, suo successore al MIT nel corso di Theory of City Form). È un progetto che vuole esprimere una visione che guardi avanti e punti in alto, con ambizione e coraggio. In modo sperimentale, psichedelico, senza limiti, senza committenti, preconcetti e senza calcoli di fattibilità.
Altro?
È un modo innovativo per riflettere sulla città (come arma mentale) e trovare modi inediti e distintivi di raccontarla all’esterno, diventandone entusiasti ambasciatori. In sintesi, Torinostratosferica è un’immagine potente, una grande utopia collettiva di cui c’è urgente bisogno.
Continua in qualche modo il tuo impegno nei confronti della città. Dopo l’architettura di Open House Torino, ora questo festival più orientato all’urbanistica e all’elaborazione di un piano strategico per la città…
Sì, attraverso il lavoro volontario e no profit svolto da Torinostratosferica, come anche con il progetto di Open House Torino, ho deciso di dare un contributo diretto e concreto alla mia città, e di tornare a occuparmi di architettura e di sviluppo urbano a livello internazionale.
Perché? Qual è la tua visione?
La città è la mia più grande passione, insieme all’architettura e alla grafica. Prima di fondare il magazine Label e lo studio Bellissimo nel 1997-98, ero convinto che avrei fatto il sociologo urbano o l’urbanista. Poi le cose sono andate diversamente. Ma oggi sento un forte richiamo a lavorare su questi temi, apportando tutto quanto ho imparato in questi 20 anni di comunicazione, branding ed event design.




Ma chi si può permettere davvero di pagare il conto del ristorante in follower di Instagram?

Ma chi si può permettere davvero di pagare il conto del ristorante in follower di Instagram?

A Milano apre il primo ristorante dove si paga in base al numero dei propri follower di Instagram, ma in sintesi, nulla di tutto ciò ci riguarda davvero


Lunedì 15 ottobre, in via Lazzaro Papi a Milano, in zona Porta Romana, ha aperto il ristorante che molti media hanno annunciato essere il primo al mondo in cui sarà possibile pagare il conto in follower. Si tratta del sesto locale della catena This is not a sushi bar, nata nel 2007, prima realtà a portare il sushi delivery nel capoluogo meneghino.
La trovata, c’è da ammetterlo, ha centrato nel segno, almeno da un punto di vista comunicativo, e viene da chiedersi come mai nessuno ci avesse pensato prima. L’obiettivo non è tanto riempire il ristorante con la folla della sagra della porchetta di Ariccia, ma trascinarvi influencer e personaggi dal discreto successo social, motivarli a condividere una foto sul proprio profilo Instagram e offrire loro uno o più piatti in base all’entità della fan base che li segue.
Il meccanismo è presto spiegato. Si ordina la prima portata, si scatta una foto al piatto o al locale, si pubblica un post su Instagram (badate bene, niente Instagram stories, perché ai proprietari “piacciono le cose che durano nel tempo”) taggando il profilo ufficiale della catena e utilizzando un apposito hashtag, e poi ci si presenta in cassa sventolando il contenuto in attesa di riscontro. A questo punto, scatta un “giochino” da fare invidia ai quiz a premi del Biscione.
Per chi ha un seguito dai mille ai 5mila follower, si ottiene un piatto gratuito, da 5mila a 10mila due, da 10mila a 50mila quattro, che diventano otto se il cliente ha tra i 50 e i 100mila fan, mentre oltre i 100mila viene offerta l’intera cena. Insomma, se siete Chiara Ferragni rilevate direttamente l’immobile con pronta consegna chiavi in mano.
Per una realtà che vive all’80% di delivery a domicilio, il pagamento in follower non è tanto un pretesto per trascinare clienti in un locale che conta appena una dozzina di coperti, ma una trovata pubblicitaria e commerciale. Le prime settimane dopo l’apertura ci possiamo facilmente immaginare uno stuolo di morti di like pronti a mostrare chi ce l’ha più lungo, il seguito: gli influencer dentro a scroccare una cena, i follower, potenziali fruitori, stuzzicati dalle condivisioni social spronati a consumare il sushi comodamente seduti sul divano di casa. O almeno è così che devono essersela immaginata i proprietari, condannandosi, con una punta di masochismo, a lavorare in un un ambiente di influencer o pseudo tali, con tutte le idiosincrasie che li contraddistinguono.
Al di là di scenari apocalittici alla Black Mirror immotivatamente paventati da qualcuno, e lasciando da parte le implicazioni etico-morali che un’iniziativa simile, volente o nolente, porta con sé, c’è da chiedersi quanti e quali saranno gli influencer o pseudo tali che beneficeranno di un meccanismo simile. Per farvi un’idea, basta dare un’occhiata alle persone che seguite dai vostri profili personali.
Tralasciando nomi monstre alla Frank Matano – gente con milioni di follower che gioca in un altro campionato social – sono appena una manciata gli amici che riuscirebbero a portarsi al tavolo un Uramaki Santa Monica con Philadelphia, avocado e sesamo gratis. Insomma, a cenare a scrocco saranno giusto gli ex tronisti di Uomini&Donne e pochi altri.
Anche perché c’è da chiedersi quale interesse possa avere chi, costruita la propria reputazione social, superati i 100mila follower, si presterà a quella che agli occhi di molti potrebbe apparire come un escamotage desolanteper non pagare la cena. Stiamo sì parlando di figure in grado di monetizzare l’attenzione del proprio seguito, ma seguendo crismi e netiquette forse lontani da dinamiche di questo tipo. Non si tratta di una caduca Instagram story pronta a sparire allo scoccare delle 24 ore, ma di un post con il quale gli influencer guadagnano, anche grazie alla pubblicità di piccole e medie realtà, fino a centinaia di euro. Ben più di un pranzo infrasettimanale. Insomma, c’è il rischio che possa dimostrarsi tutto molto fumo e poco sushi. Chi vivrà, vedrà, fotograferà e mangerà. Gratis.




In Danimarca lavorare fino a tardi fa una brutta impressione su capi e colleghi

I danesi si confermano di nuovo al primo posto della classifica dei popoli più felici. Ma perché? Cos’ha la Danimarca che noi non abbiamo?

Una cosa molto importante, per la quale ogni tanto guardiamo a nord con invidia, è la Work-Life-Balance. Ufficialmente l’orario di lavoro settimanale è di 37 ore, ma una nuova indagine dell’OCSE mostra che il danese medio lavora appena 33 ore circa alla settimana.

Si stacca alle quattro

he corrispondono più o meno alla tipica giornata lavorativa danese dalle otto del mattino fino alle quattro del pomeriggio; e al venerdì si torna a casa ancora prima.
Quasi nessuno fa gli straordinari, che in Danimarca praticamente non esistono. A nessuno verrebbe in mente di restare sul posto di lavoro più a lungo del necessario solo per fare bella figura. Se si andasse negli uffici al pomeriggio tardi, li si troverebbe deserti: ad eccezione del personale in portineria e dell’AD tutti si sono lasciati il lavoro alle spalle.
I datori di lavoro si fidano dei dipendenti. Finché eseguono bene i propri incarichi e svolgono il proprio lavoro in maniera efficiente, possono anche andare a casa in orario.

Anzi, restare più a lungo dà una cattiva impressione

Restare più a lungo solo per fare buona impressione ha un effetto abbastanza negativo e mette in discussione l’efficienza come anche la capacità di gestire il proprio tempo da parte dei dipendenti. Dall’esterno ci si potrebbe chiedere come ci riescano i danesi.
Continuano semplicemente a lavorare da casa? Altrimenti, come si spiega il fato che la Danimarca sia comunque uno degli stati più produttivi dell’UE?
In realtà, praticamente nessun danese continua a lavorare dopo la chiusura. Una volta spento il portatile, resta anche lui spento. Piuttosto, i danesi godono anche di una vita al di là del lavoro.

Considerazione per gli impegni privati e per la famiglia

Dopo il lavoro, si dedicano ai propri hobby, fanno sport o escursioni nella natura scandinava. Ad esempio, è molto diffuso lo stand-up paddle (una variante del surf in cui si sta in piedi sulla tavola e si usa una pagaia per muoversi, ndr). E poi cucinano o trascorrono il tempo con la loro famiglia e i loro amici.
Alcune attività sono persino incluse nel calendario degli impegni lavorativi e vengono rispettate dai colleghi — se il collega deve andare a prendere i figli alle 16, a quell’ora non verrà più fissato alcuna  riunione.
Il giorno dopo, sono tutti di nuovo riposati e rilassati, e la stessa riunione, fatta da persone riposate, sarà probabilmente più veloce. E si sarà più produttivi; infatti, come ha scoperto un’indagine, le persone felici sono più efficienti del 12%.