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La goffa (ma efficace) disinformazione russa per far vincere Trump

La goffa (ma efficace) disinformazione russa per far vincere Trump

I servizi segreti russi, già al servizio della vecchia Unione Sovietica, stanno diffondendo l’assurda accusa che la vicepresidente degli Stati Uniti Kamala Harris sia comunista. Questo è solo uno dei paradossi della campagna di disinformazione che il regime di Putin ha intensificato negli ultimi mesi, sperando che con una possibile vittoria di Donald Trump alle prossime elezioni presidenziali, Mosca possa ottenere un via libera per portare a termine la sua aggressione contro l’Ucraina. Una rete simile a quella adottata in Italia per influenzare la nostra opinione pubblica, come rivelato da Massimiliano Coccia su questo giornale. 

In un’inchiesta del Washington Post, funzionari governativi e federali statunitensi hanno confermato come il Cremlino continua a promuovere false narrazioni, concentrandosi in particolare su temi come l’immigrazione e la figura di Kamala Harris, nonostante le misure adottate dagli Stati Uniti per contrastare questa ingerenza, tra cui accuse formali, confisca di beni e ripetuti avvertimenti pubblici. 

Il mese scorso è stato rivelato che un gruppo di influencer di estrema destra aveva ricevuto finanziamenti da personaggi legati ai media statali russi. Questi si sono difesi dicendo che non sapevano che la società da cui ricevevano fino a centomila dollari a settimana era sostenuta da persone legate alla rete di propaganda statale russa RT. Però hanno continuato a diffondere informazioni false ai loro numerosi follower. Tra le altre, anche l’epica bufala sugli haitiani di Springfield che mangiavano gatti e altri animali domestici, rilanciata dallo stesso Trump addirittura nel dibattito con Kamala Harris. Una fake news talmente colossale da meritarsi non solo ironici cartelli sul gemellaggio tra Springfield e Vicenza, ma addirittura una voce a sé su Wikipedia

Erika Lee, la donna il cui post ha dato il via al dibattito, ha dichiarato di essersi pentita della sua azione. L’intera vicenda sembra aver avuto origine dall’arresto di una donna a Canton, Ohio, lo scorso agosto, una città situata a circa due ore a est di Springfield. La polizia era intervenuta dopo una chiamata dei vicini, preoccupati perché la donna sembrava sotto l’effetto di droghe ed era stata vista con un gatto morto 

Secondo il rapporto della polizia, la donna, identificata come Allexis Telia Ferrell, di 27 anni, era stata trovata con sangue sulle mani e sui piedi, e con peli di animale sulle labbra. Ferrell, residente a Canton, si è dichiarata non colpevole delle accuse di crudeltà sugli animali domestici. Nonostante alcuni messaggi avessero diffuso la voce che Ferrell fosse originaria di Haiti, i documenti di nascita confermano che è nata in Ohio nel 1997.

Le indagini dimostrano che le voci sono nate autonomamente, ma gli agenti russi ci si sono poi buttati a capofitto, aggiungendovi altre affermazioni ancora più esagerate, Ciò è avvenuto anche dopo che all’inizio di settembre i due cittadini russi Kostiantyn Kalashnikov and Elena Afanasyeva erano stati accusati di presunto riciclaggio di denaro finalizzato a influenzare segretamente l’opinione pubblica.

Secondo i ricercatori, il sequestro da parte del governo americano di trentadue domini web che diffondevano notizie false da Fox News e Washington Post, non è riuscito a fermare la strategia russa. Gli account automatizzati che diffondono collegamenti a quelle storie ora condividono collegamenti a nuovi articoli doppelganger in versioni falsificate di noti media. Alcuni di questi sostengono la «collusione criminale» del Secret Service nell’ultimo apparente tentativo di assassinare Donald Trump.

La scorsa settimana, gli investigatori hanno scoperto un’ulteriore rete russa impegnata nella diffusione di falsità riguardanti Kamala Harris. Tra le accuse infondate ci sarebbero affermazioni secondo cui la vicepresidente mostrerebbe segni di Alzheimer, avrebbe legami segreti con l’industria farmaceutica e promuoverebbe farmaci per bloccare la pubertà a causa di un presunto conflitto di interessi. Inoltre, circolano voci che la Harris sarebbe marxista, basandosi sul fatto che suo nonno insegnava la teoria marxista. 

Clint Watts, responsabile delle iniziative di Microsoft contro la disinformazione governativa, ha osservato che i troll russi sono migrati su nuovi siti web per ospitare notizie false, ora che «il pubblico è molto più vulnerabile man mano che ci avviciniamo al giorno delle elezioni». La sua più grande preoccupazione non è la disinformazione, ma «una fuga di file vera e degna di dossier sulla campagna Harris che plasmerà il ciclo delle notizie».

In particolare, il fatto che un tweet del 24 settembre con link a una falsa storia di Fox News sugli haitiani abbia raccolto in due giorni più di novecento retweet e nessun like ai ricercatori suggerisce una amplificazione automatizzata da parte di bot, piuttosto che interazioni umane. La storia, intitolata «Attenti ai bambini, ai gatti e alle automobili: gli haitiani vogliono togliervi tutto», andava oltre le falsità diffuse da Trump, sostenendo che un gatto dichiarato scomparso era stato trovato «scuoiato come una carcassa di vitello in un covo di migranti». 

In realtà, l’animale era stato ritrovato illeso nel seminterrato del suo proprietario. Anche un falso articolo del Washington Post che descriveva il presunto fallimento delle autorità nell’arrestare il secondo presunto aggressore di Trump come «autentica collusione criminale» e sosteneva che il sospettato era «un fascista che condivide la posizione dei nazisti ucraini» aveva accumulato più di ottocento retweet e nessun like. I responsabili sono stati identificati dal gruppo di attivisti investigativi Antibot4Navalny.

Sul punto, le autorità federali hanno citato numerosi documenti interni russi. Il politologo Thomas Rid ne ha scritto su Foreign Affairs, ricordando come i responsabili di queste offensive sui social media hanno lamentato che, dopo le continue cancellazioni di account da parte di Meta, X è diventata «l’unica piattaforma di massa che potrebbe essere attualmente utilizzata negli Stati Uniti». Altri documenti hanno rivelato che gli appaltatori del governo russo responsabili della campagna di notizie false nota come Doppelganger hanno visto la copertura mediatica americana e le azioni delle aziende tecnologiche contro di loro come prova che erano temuti e quindi meritavano maggiori finanziamenti da parte del governo russo. 

Ma nuove reti di propaganda continuano a venire alla luce. Ad esempio come quella identificata dalla società di monitoraggio della disinformazione Alethea Group: settantasette account X che generano contenuti originali e più di quattrocento che amplificano tali post. Questa rete ha diffuso le false voci precedentemente menzionate sulla salute e sulla famiglia di Kamala Harris. Dopo che l’Fbi ha spiegato i dettagli della campagna di influenza contrattuale in una dichiarazione giurata di duecentosettantasette pagine, la stessa rete ha iniziato a diffondere l’idea che dietro ci fosse l’Ucraina.

 Il 10 settembre, ad esempio, l’utente X Jhon Piell dall’account ora sospeso @salman1212120, ha pubblicato un video in cui cita Eliot Higgins, fondatore del gruppo investigativo Bellingcat, affermando che l’operazione era «un progetto ucraino complesso e pericoloso». «Meno di mezz’ora dopo la pubblicazione del video, è stato ritwittato almeno settantasei volte in meno di sessanta secondi da una rete di account, tutti creati in batch tra il 2 e l’8 settembre 2024», ha scritto Alethea.

La Russia ha a lungo preso di mira Bellingcat e Higgins, che hanno denunciato agenti dell’intelligence coinvolti in omicidi e complotti di disinformazione. Ora cerca di screditare il loro lavoro e allo stesso tempo attaccare Kamala Harris. Higgins ha pubblicato mercoledì che un falso video della Fox affermava che era stato proprio lui a scoprire un immigrato che aggrediva uno degli assistenti di Harris. Il tweet ha raccolto più di sedicimila visualizzazioni in meno di cinque minuti senza ricevere retweet o like




Conti correnti “spiati” e crisis managament di Intesa San Paolo: alla ricerca dell’autenticità perduta

Conti correnti “spiati” e crisis managament di Intesa San Paolo: un gigante con i piedi d’argilla?

Cosa è successo

Per i – pochissimi, immagino – che non avessero seguito la cronaca di questi giorni, la procura di Bari ha avviato un’indagine su Banca Intesa Sanpaolo a seguito del caso di Vincenzo Coviello, dipendente della filiale di Bitonto, in provincia di Bari,  accusato di aver ficcanasato nelle reti aziendali violando i dati bancari di migliaia di persone, tra cui politici e personaggi molto noti, dalla Presidente del Consiglio Giorgia Meloni al Ministro della Difesa Crosetto, da Mario Draghi a Luca Zaia, ma anche Procuratori della Repubblica, ufficiali dei Carabinieri e della Guardia di Finanza, diversi cantanti e influencer, e chi più ne ha ne metta.

Denunciato lui, indagata però anche la banca: avrebbe violato la ben nota – per gli addetti ai lavori – Legge 231/01 sulla “responsabilità amministrativa delle persone giuridiche”, non informando le autorità in maniera tempestiva sugli accessi compiuti dal proprio dipendente in violazione dei dati dei clienti della banca stessa. Un modello che in Banca Intesa esiste, é sorvegliato da un Organismo di Vigilanza composto da professionisti di primissimo piano e grande competenza, ma che probabilmente – alla prova dei fatti – avrebbe mostrato qualche limite, se non altro per come il management della Banca l’ha applicato, circostanza inspiegabile per un colosso di quelle dimensioni.

I numeri del dossier

Oltre 7.000 mila accessi abusivi sui conti di 3.572 clienti sparsi in 679 filiali in tutta Italia, effettuati tra il febbraio del 2022 e l’aprile del 2024, data nella quale il dipendente infedele sarebbe stato formalmente sospeso dall’incarico (ma torneremo su questo più avanti nell’articolo), per venir poi licenziato lo scorso 8 agosto, al termine di un procedimento disciplinare interno.

Movimenti dei conti correnti, bonifici in entrata e in uscita, importo dei depositi e degli investimenti, prelievi dei Bancomat e utilizzo delle carte di credito: nulla sarebbe sfuggito al ficcanaso reo-confesso, e per questo gli avvocati dei Clienti “spiati” affilano i coltelli e preparano cause per danni a carico della banca, che – oltre che dover “pagar pegno” dal punto di vista finanziario e patrimoniale – non ne uscirà benissimo neppure da quello reputazionale.

Motivazioni, mandanti ed eventuali responsabilità

Coviello si sarebbe difeso adducendo a semplice (sic!) “curiosità morbosa”, ma gli inquirenti passano al setaccio il web e i dispositivi elettronici: c’è un mandante, e/o le informazioni sono state rivendute a qualcuno, oppure sono state trasferite a terzi? La Procura sospetta che Coviello abbia agito (cito verbatim il provvedimento dei PM) “verosimilmente in concorso – e previo concerto – con persona/e da identificare”: quindi l’ipotesi è che esistano presunti mandanti degli accessi abusivi ai sistemi informatici della banca.

Il giallo si dipanerà sicuramente nelle prossime settimane, e i mass-media non mancheranno di aggiornarci, ma ciò che pare più inquietante è che Coviello avrebbe continuato a spiare i conti, come se nulla fosse accaduto, anche dopo le prime contestazioni: dagli atti della banca emergerebbe che dal novembre 2023 (data dell’avvio delle verifiche interne) ad aprile 2024 (data della sospensione dall’incarico) il dipendente infedele avrebbe eseguito ulteriori 347 accessi abusivi, interrogando i conti di 261 clienti da lui non gestiti.

E – clamoroso – la banca non avrebbe potuto, o saputo, impedirlo.

I precedenti

Questa banca parrebbe non essere nuova al mancato presidio dei rischi reputazionali: nel recente passato, Intesa Sanpaolo e Isybank, la banca digitale del gruppo, sarebbero finite sotto la lente delle Autority per aver comunicato in maniera “ambigua” a centinaia di migliaia di correntisti “con modalità che non sembravano coerenti con l’importanza della questione trattata” – il trasferimento dei loro conti correnti dalla prima, controllante, alla seconda, controllata.

È quanto si leggeva in una nota diffusa dall’Antitrust riguardo quella vicenda, a seguito dell’avvio di un procedimento istruttorio generato dalle segnalazioni pervenute da oltre 2.000 correntisti, evidentemente contrariati dal modo di procedere dell’istituto, accusato non solo di aver “traslocato” i conti senza chiedere il consenso dei correntisti, ma anche di aver apportato, con l’occasione (e con scarsa trasparenza, secondo l’Autority) “importanti modifiche delle condizioni contrattuali e delle modalità di fruizione del servizio”, nonché generato un aumento dei costi di tenuta del conto a carico dei clienti.

Insomma, in quanto a relazioni con gli stakeholder, gli spazi di miglioramento parrebbero più che evidenti, e la reputazione della banca avrebbe già dovuto scricchiolare. O forse no: vediamo perché.

L’atteggiamento (benevolo) dei mass-media

Molto pungente l’analisi di “Morning”, l’eccellente podcast quotidiano condotto da Francesco Costa: secondo i redattori de Il Post, “…forse non è un caso che siano Il Fatto, Domani e Il Manifesto i tre giornali che dedicano più spazio e aggiornamenti alla storia del dipendente di Intesa Sanpaolo (…), i giornali con il minor numero di inserzioni pubblicitarie ogni giorno, e quindi tra quelli che ricevono meno denaro dagli inserzionisti pubblicitari”.

E Intesa San Paolo, si sa, è un inserzionista pubblicitario che muove cifre enormi. Per motivi forse opposti e speculari, in questo periodo di concitati aggiornamenti sulla vicenda, in diverse sue edizioni un importante quotidiano non ha fatto minimamente menzione, nemmeno con un piccolo box – prosegue Costa – e quel giornale “è La Stampa, il quotidiano di Torino, dove (incidentalmente, ndr) ha sede Intesa Sanpaolo. Uno si aspetterebbe di trovare sul giornale di Torino gli aggiornamenti più completi, approfonditi e informati su una questione così vicina a quel giornale, a quella città, a quella redazione. E invece è proprio il giornale che non bisogna guardare, purtroppo, se si vogliono avere notizie sull’accaduto”, conclude Costa.

Maligni, questi de Il Post. Ciò detto, come ha reagito alla crisi Intesa San Paolo?

Il caso, sotto il profilo del Crisis management

La riflessione – lato comunicatori e relatori pubblici – è quindi la seguente: qual è stato esattamente il grado di responsabilità dell’istituto di credito, e quindi quale sarà l’impatto sul perimetro reputazionale di Intesa San Paolo?

Se lo chiedono in molti, considerando che non più tardi dell’anno scorso, la banca risultava ai vertici della Top 20 dell’ESG Perception Index, l’osservatorio sulla reputazione di sostenibilità (che peraltro pare non azzeccarci molto, se consideriamo che anche la Giorgio Armani Operation, recentemente commissariata dal Tribunale di Milano, era ben posizionata in quella classifica).

La banca – nei propri comunicati ufficiali – si dice costernata, e dichiara “di aver fatto tutto il possibile per intervenire sollecitamente e limitare i danni nell’interesse dei correntisti e degli azionisti”.

Tuttavia qualcosa non torna, e per un motivo molto semplice: perché Intesa avrebbe lasciato Coviello in condizione di continuare a spiare per altri mesi, nonostante sapesse che i fatti descritti configurassero una violazione delle normative di norme aziendali (e non solo) riguardanti la privacy…?

E ancora: se l’istituto aveva contezza della gravità dello scenario, perché si è mosso così tardi? Forse – denuncia Il Post – si voleva tentare di risolvere la cosa internamente, al fine di limitare il danno reputazionale?

Genuinità e coerenza: 4 in condotta

Per farci un’idea dell’aderenza del comportamento di Intesa San Paolo alle migliori prassi in tema di crisis management e crisis communication, analizziamo brevemente contenuti e tono di voce delle comunicazioni della banca.

“Come noto – scrive Intesa San Paolo nei propri comunicati stampa indirizzati ai mass-media – un dipendente infedele della nostra banca, con un comportamento che ha gravemente violato le norme, i regolamenti e le procedure interne, ha consultato dati e informazioni riguardanti alcuni clienti (in realtà migliaia, ndr) in modo ingiustificato. Il sistema interno di controlli lo ha individuato, abbiamo inviato notifiche al Garante della Privacy, abbiamo licenziato il dipendente infedele e abbiamo sporto denuncia come parte lesa (…) Siamo molto dispiaciuti di quanto accaduto e chiediamo scusa. Quanto avvenuto non dovrà più accadere. Confermiamo che non c’è stato alcun problema di sicurezza informatica, rispetto alla quale Intesa Sanpaolo si colloca tra le migliori posizioni internazionali.

Gli analisti de Il Post sottolineano come “…una volta che la struttura di controllo interno ha evidenziato le anomalie, si è subito avviata la procedura disciplinare e l’analisi dei fatti, che ha richiesto una complessa ricostruzione di quanto avvenuto”.

Ottimo. Peccato che durante questa analisi complessa, il dipendente abbia serenamente continuato a fare esattamente quello che faceva prima.

E – aggiungiamo noi – l’istituto non ha effettuato alcuna comunicazione alla pubblica opinione: sorprendentemente, per quasi un anno la vicenda è restata sotto traccia, tradendo il rapporto di fiducia non solo con la propria audience, ma con tutto il mercato.

Inoltre, rimarca Costa, “…se è vero che la banca non ha alcuna responsabilità, significa che non avrebbe potuto fare nulla per accorgersi prima di questi settemila accessi abusivi. Vuol dire che qualsiasi altro dipendente di Intesa Sanpaolo, per quanto ne sappiamo, potrebbe in questo momento fare la stessa cosa. D’altra parte, Coviello lo faceva da anni. Evidentemente non esiste un sistema che faccia scattare un allarme quando avvengono accessi così anomali”. Incredibile, considerato quanto sarebbe semplice – ce lo confermano vari esperti informatici – disporre di un sistema di controllo in grado di allertare immediatamente per accessi a conti correnti al di fuori del proprio perimetro territoriale di competenza. Più che corretta quindi l’analisi della redazione di Morning: incomprensibile che il colosso bancario non disponga di sistemi di allerta in grado di intercettare sollecitamente – e non dopo mesi – accessi abusivi ai conti di questa portata.

Appurato questo, dove sono le scuse incondizionate di Intesa San Paolo?

Il tentativo di contenimento del danno, che fa ancora più danno

La verità è che in Intesa avrebbero dovuto fare dei controlli, avrebbero dovuto essere attrezzati per tracciare più che sollecitamente degli accessi abusivi, non hanno fatto nulla di tutto ciò, e ora – nell’evidente tentativo di ridurre l’angolo di attacco e di attribuzione delle responsabilità – ci raccontano di essere anche loro “parte lesa” e di aver fatto tutto il possibile per intervenire.

Ebbene, se non c’è stato “nessun problema di sicurezza informatica”, come afferma Intesa…cosa è successo? Tutto in ordine, tutto bene? Pare di no, la contraddizione è evidente: quindi la strategia narrativa scelta da Intesa per fronteggiare questa preoccupante crisi di reputazione pare scricchiolare, e molto, in termini di genuinità e coerenza, che – ben lo sa qualunque addetto ai lavori – sono tra gli ingredienti base di un buon crisis management.

Di nuovo, l’ennesima volta per una grande azienda: un approccio dilettantesco, basato sulla “dilazione”, sulle ammissioni tardive e parziali, sul “cerchiamo di raccontarvela bene e di infiocchettarla quanto meglio possibile”, al fine (pensa forse il management della banca) di ridurre l’impatto negativo sull’indice reputazionale dell’azienda.

Peccato che questi atteggiamenti, queste strategie, appaiano non solo fortemente desuete, ma in gran parte disallineate da quell’impianto teorico, sostenuto da migliaia di case-history pratiche, che, se convintamente e tempestivamente applicato, avrebbe davvero contributo a ridurre la forza d’urto della vicenda, tutelando il valore della banca. Così non è stato, perché c’è sempre qualche comunicatore “che la sa lunga”, i signori del “ve lo spieghiamo noi, come si fa, che siamo una grande agenzia di comunicazione…”

Cosa succederà ora?

Certo, in Intesa San Paolo non sono stati con le mani in mano, e un segnale l’hanno dato: oltre a denunciare e licenziare Coviello, e mettersi a completa disposizione delle autorità (e sarebbe assai singolare il contrario), il CEO di Intesa ha proposto lo scorso mese al CdA della banca la nomina – a mio avviso assai tardiva – del Generale del Corpo d’Armata dei Carabinieri Antonio De Vita nel ruolo di Chief Security Officer di gruppo, nuova area a riporto diretto del Consigliere Delegato, con responsabilità su temi di Cyber Security e Sicurezza.

Tuttavia, si sa, la scelta, per un’azienda coinvolta in una crisi reputazionale, di un registro narrativo nel quale inserirsi al fine di tentare di dimostrare coerenza, autenticità e trasparenza gestionale, mantenendo almeno in parte il governo dei flussi di comunicazione, è cosa delicata, e non può essere improvvisata, né affidata alle funzioni che routinariamente si occupano della comunicazione corporate.

Gli ultimi decenni sono infatti costellati di “cadaveri” vittime di questo peccato mortale: aziende floride la cui business continuity è stata pregiudicata, in tutto o in parte, non solo dalla deflagrazione di crisi reputazionali peraltro del tutto prevedibili, ma anche (e, a volte, soprattutto) da come esse sono state – o no – gestite. Esempio tra tutti valga la crisi dell’impero di Chiara Ferragni, generata da seri e fondati motivi endogeni, ma amplificata dalla totale inadeguatezza della gestione da parte della protagonista di quella vicenda – che certo, a sua discolpa, non è una specialista in queste materie – come anche dei suoi consulenti, quelli del “Chiara è la regina dei Social e sa cosa fare” (molto probabilmente della stessa scuola di quelli di Intesa San Paolo).

Inoltre, tutti i colossi come Intesa San Paolo destinano ingenti risorse all’implementazione delle proprie strategie ESG (Environment, Social and Governance) e alla loro rendicontazione, e allora la domanda è una sola: situazioni come questa non rientrano forse nel perimetro ESG? A quando un approccio più genuino e concreto a queste tematiche, abbandonando definitivamente – sarebbe pur ora! – un approccio basato sulla mera compliance, del tipo “dobbiamo sistemare anche questa task, flagghiamo questa incombenza, e procediamo oltre…”, tipica dell’abbraccio mortale tra grandi aziende e grandi società di consulenza?

Come ben sappiamo, la reputazione è l’asset immateriale più importante per un’azienda, tale da condizionarne il valore di mercato fino alla metà della sua capitalizzazione, e una crisi mal gestita non fa altro che distruggerne in modo significativo il valore, con buona pace soprattutto dei piccoli azionisti, vere vittime incolpevoli di questa storia di “cattivo management”: quante volte l’abbiamo ripetuto? Fino alla noia. Eppure, evidentemente, questo concetto così elementare è ancora lontano – i fatti lo confermano – dall’essere compreso e fatto proprio da top management e Consigli di Amministrazione della maggior parte delle società quotate in Italia.

In definitiva, come possa un colosso come Intesa San Paolo arrivare in buona parte impreparato a un appuntamento decisamente critico come quello che sta vivendo, senza aver fatto – ne sono certissimo – neppure un assessment sui temi reputazionalmente più sensibili, al fine di individuare, prevedere e mitigare i rischi, resta per me un mistero davvero insondabile.




Le aziende di pesticidi e OGM hanno creato un social per identificare chi li critica

Le aziende di pesticidi e OGM hanno creato un social per identificare chi li critica

Un’inchiesta ha messo in luce un complesso sistema di monitoraggio e attacco nei confronti dei critici del settore agrochimico e delle biotecnologie, gestito da aziende con legami profondi con i business dei pesticidi e degli OGM. Queste aziende avrebbero creato una sorta di “social network privato”, una piattaforma esclusiva su cui raccogliere e condividere informazioni su figure pubbliche, accademici e attivisti che si oppongono o criticano il loro operato. Tra i bersagli figurano anche esponenti delle Nazioni Unite. Il servizio sarebbe gestito da v-Fluence, una società specializzata in raccolta di informazioni e gestione della comunicazione di crisi. L’azienda, fondata da Jay Byrne, ex dirigente di Monsanto, figura di spicco nel settore agrochimico, fornisce strumenti per monitorare e rispondere alle critiche rivolte all’industria. Le indagini rivelano inoltre che parte del finanziamento di queste operazioni potrebbe provenire dal governo degli Stati Uniti.

I documenti che svelano il fatto sono stati diffusi da Lighthouse Reports, un’importante organizzazione di giornalismo collaborativo con sede in Belgio, che ha condotto e pubblicato un’inchiesta nella quale riferisce che i più grandi produttori di pesticidi e portatori d’interesse del settore chimico hanno profilato centinaia tra i più noti e importanti critici di un settore che a livello globale vale 78 miliardi di dollari. Sul portale Bonus Eventus, erano contenuti i loro profili, completi di indirizzi di residenza e numeri di telefono. Nella lista dei “cattivi” sono presenti circa 3.000 organizzazioni e 500 tra accademici, scienziati, esperti di diritti umani delle Nazioni Unite, ambientalisti, giornalisti, politici e funzionari pubblici. Solo 1.000 privilegiati possono accedere. Nell’elenco dei membri della rete dell’industria agrochimica vi sono i dirigenti di alcune delle più grandi aziende di pesticidi al mondo, insieme a funzionari governativi di diversi paesi.

L’inchiesta è nata da una soffiata su un tentativo di sabotaggio nei confronti di una conferenza scientifica tenutasi a Nairobi, in Kenya, che presentava soluzioni sostenibili per i pesticidi. Le richieste in base al Freedom of Information Act (FOIA) hanno rivelato un’ampia corrispondenza tra funzionari pubblici statunitensi, una ONG keniota, un dirigente del settore pesticidi e la società v-Fluence su come sovvertire l’evento. Un mix di analisi delle tracce di denaro e ricerche sui registri della spesa pubblica ha portato alla luce contratti stipulati tra v-Fluence e la United States Agency for International Development (USAID). Tra il 2013 e il 2019 circa, l’Agenzia statunitense ha incanalato oltre 400.000 dollari alla società privata per servizi tra cui il “monitoraggio rafforzato” dei critici degli “approcci agricoli moderni” e per costruire Bonus Eventus, il social network con profilazione dei critici.

Bonus Eventus, lanciato nel 2014, è nato da un’idea di Jay Byrne, ex dirigente delle comunicazioni dell’azienda agrochimica Monsanto – acquistata dalla tedesca Bayer nel 2016 – e della sua società di gestione della reputazione, v-Fluence. L’inchiesta fa notare come dai documenti del tribunale si sappia che entrambi sono attualmente citati in giudizio negli Stati Uniti, insieme al produttore di pesticidi Syngenta, per aver presumibilmente soppresso informazioni per oltre 20 anni sui rischi per la salute associati a un erbicida, il Paraquat.




Michelle Comi e Gofoundme: una raccolta fondi non troppo filantropica

Michelle Comi e Gofoundme: una raccolta fondi non troppo filantropica

Michelle Comi continua a far rumore. Da quando ha lasciato il proprio impiego all’Istituto per Tumori di Milano, per dedicarsi a una carriera di creator di contenuti per adulti su OnlyFans, Michelle ha sicuramente trovato la sua strada. Lastricata di polemiche social, ovviamente. Questa settimana ha scatenato una valanga di critiche lanciando una raccolta fondi, chiedendo 15.000 euro per rifarsi il seno. “Cambiate il mondo: il mio” dice la disinibita ragazza. La gente si è subito spaccata in due: chi la difendeva, dicendo che aveva il diritto di farlo, e chi la criticava pesantemente.

Le piattaforme di crowdfunding come GoFundMe o altre simili sono nate per scopi tipo aiutare chi sta passando momenti difficili o per sostenere progetti creativi e cause che ne hanno bisogno davvero. Ma ultimamente, soprattutto con casi come quello di Michelle, si vede sempre più gente che le usa per obiettivi personali, come appunto rifarsi il seno o fare viaggi di lusso. E quando vedi campagne di questo tipo, viene naturale chiedersi se il sistema sia diventato una specie di “miniera d’oro” per chi sa sfruttare la sua popolarità.

Il problema più grosso di queste raccolte discutibili è che fanno sembrare poco serie tutte le altre campagne. Se il pubblico comincia a pensare che su queste piattaforme si chiedono soldi per tutto e per nulla, anche chi ha davvero bisogno di aiuto rischia di non riceverlo. Ci sono situazioni in cui le persone devono affrontare spese mediche assurde o perdite a causa di disastri naturali, e se la fiducia nelle raccolte fondi cala, queste cause possono restare inascoltate.

Pensiamoci un attimo: vediamo campagne per salvare vite e poi, d’improvviso, compare tra esse una creator di OnlyFans che chiede soldi per rifarsi il seno. Questo crea una distrazione enorme per i veri problemi, rischiando di far sembrare che qualsiasi altra richiesta di aiuto sia solo un pretesto per spillare soldi.

Uno dei motivi per cui accadono queste cose è che le piattaforme lasciano molta libertà su cosa puoi chiedere. Non ci sono grandi filtri: basta creare la campagna e la decisione di donare è lasciata agli utenti. Da una parte, è una cosa buona perché ognuno è libero di finanziare ciò che vuole, ma dall’altra crea una giungla di richieste bizzarre. Il confine tra ciò che è giusto e ciò che è discutibile diventa super sottile, soprattutto quando a lanciare queste campagne sono influencer o personaggi pubblici, che già partono da una posizione di vantaggio economico.

Alla fine, tutto si riduce a come vengono usate queste piattaforme. Ci si aspetta che siano un mezzo per fare del bene, per cambiare davvero qualcosa nella vita delle persone. Ma se l’uso diventa troppo disinvolto, si perde di vista il vero scopo del crowdfunding. Forse, bisognerebbe pensare a regole più chiare per distinguere le cause che contano davvero dalle richieste più futili. E anche chi ha un seguito sui social dovrebbe fare attenzione a non approfittare della fiducia dei fan, perché alla lunga potrebbe danneggiare non solo la sua reputazione, ma anche l’intera comunità di persone che ha davvero bisogno di aiuto.

Insomma, il caso di Michelle Comi ci fa riflettere su come l’uso “spericolato” delle raccolte fondi possa rovinare la percezione di questi strumenti. Se vogliamo che continuino ad essere utili e credibili, dobbiamo tutti imparare a usarli con più attenzione e rispetto.


UPDATE del 13/10/2024

Aggiornamento: Dopo le numerose segnalazioni ricevute dagli utenti, la piattaforma di raccolta fondi ha deciso di annullare la campagna lanciata da Michelle Comi per rifarsi il seno. Nonostante l’intervento tardivo, i gestori hanno restituito il denaro ai donatori. Questo dimostra come, anche se con qualche ritardo, la piattaforma abbia preso una posizione chiara in seguito alle proteste.

Ora Michelle dovrà tornare a fare affidamento su video e foto su OnlyFans per raccogliere la somma desiderata. Ma, con tutta la visibilità che ha ottenuto da questa storia, non sarà certo un problema per lei attirare nuovi follower e spingere i suoi guadagni ancora più in alto.




La sentenza contro Apple e Google e la riformabilità del sistema digitale

La sentenza contro Apple e Google e la riformabilità del sistema digitale

La forte e irreversibile decisione dell’alta Corte di Giustizia di confermare le pesanti sanzioni per Apple e per Google, parliamo dei due padroni del 98% dei sistemi operativi della telefonia mobile sul pianeta, ci aiuta a ragionare sul merito della petizione di illustri pedagoghi e neuropsichiatri hanno rivolto alla politica per impedire ai giovani almeno fino a 14 anni l’accesso libero ai social e l’uso dei nuovi smartphone.

Il nodo che i due atti pongono alla discussione riguarda, infatti, sia l’immutabilità della società digitale, così come si è formata, e sia le forme di ostruzionismo, se non proprio di proibizionismo, da adottare per limitare i danni delle degenerazioni.

La sentenza della giustizia europea colpisce duramente sia Apple, imponendo la restituzione di aiuti ricevuti illecitamente dal governo irlandese per circa 13 miliardi di euro, e sia Google sanzionato per attività illegittima sul mercato pubblicitario che rappresenta circa 85% del suo fatturato.

Una doppietta, potremmo dire che segna un punto di non ritorno nella società digitale dove le istituzioni pubbliche riguadagnano il centro della scena, introducendo modalità e principi che aprono varchi consistenti per una negoziazione permanente da parte della società civile nei confronti dei giganti della Silicon Valley.

Persino negli Usa il governo federale, insieme a quello di molti singoli stati dell’Unione, sta mettendo sul banco degli accusati grandi corporation, come ancora Google o Amazon, per aver alterato le ragioni del mercato.

A questo punto non si può ignorare un aspetto che fino a ora abbiamo più o meno esorcizzato: la riformabilità del sistema digitale. Meglio ancora, una forma di continuo adattamento dei processi innovativi ai limiti e vincoli della società civile.

Questo ci porta a ragionare sulla struttura dell’intelligenza artificiale che non ci appare più come un’uniforme applicazione rigida da usare o rifiutare, quanto invece come una materia plastica da sagomare e riordinare. L’intelligenza artificiale non va mai citata al singolare ma sempre al plurale, sia per la molteplicità dei singoli prodotti, ma anche per le opportunità di adattamento e riformattazione.

A questo punto il quesito riguarda le modalità di intervento su una tale materia e soprattutto quali siano i soggetti in grado di mettere mano a questi adattamenti.

La petizione sul divieto dei social agli under 14 è un’utile occasione per aprire proprio questa discussione: dobbiamo continuare a procedere su una strada obbligata, in cui i sistemi digitali rimangono sempre e solo eguali a sé stessi, oppure è plausibile modificare ruoli e funzioni delle grandi agenzie sociali, dalla scuola alla famiglia per adeguare questi apparati tecnologici?

La deformazione, in alcuni casi si parla di vera degenerazione patologica, dei comportamenti e addirittura dello stesso funzionamento neurologico, riscontrata in varie tipologie di giovani per un uso sconsiderato dei social è il banco di prova di questi quesiti.

Davvero l’unico modo per preservare questi giovani è vietargli l’accesso a sistemi che ormai si identificano con i nostri linguaggi, diventando vere e proprie protesi della nostra vita, e in tal caso sarebbe utile anche capire con quali mezzi sorvegliare un tessuto cosi esteso e pulviscolare, o invece non si tratta di intervenire per punire e sanzionare eccessi e speculazioni, bonificando la rete e permettendo, con vincoli gestiti esternamente un uso consapevole ed equilibrato di questi vocabolari digitali? È evidente che la scorciatoia del proibizionismo afferma un principio e libera di molte responsabilità le infrastrutture sociali. Ma come nel campo terribile della droga abbiamo visto che si tratta di una metodologia controproducente e comunque fallimentare.

I social sono dannosi in una parte largamente minoritaria della rete, stiamo parlando di spazi inquinati e pericolosi valutati in non più del 2% dell’attività complessiva di Internet. La loro pericolosità sia per le forme di ingaggio e di aggressività, che per quelle di induzione a comportamenti minacciosi o estremi non sono un destino, ma una convenienza delle piattaforme.

Come gli stessi titolari di Facebook, o di X, o di Instagram hanno riconosciuto, direttamente o mediante rivelazioni di propri dipendenti, sono proprio i meccanismi gestiti dai programmatori dei proprietari ad accentuare ed eccitare queste forme di ingaggio. Così come sono gli stessi programmatori a facilitare relazioni e inciampi degli utenti più giovani con influencer o altre forme di malversazione psicologica.

Questo ci deve portare a sollecitare una maggiore vigilanza con forme di dure sanzioni per i trasgressori. Sono le piattaforme che devono cambiare la struttura dei loro comportamenti e linguaggi e non costringere i giovani a limitare le proprie relazioni. Se si possono perseguire le degenerazioni commerciali perché non si può bonificare il sottobosco rivolto ai giovani? Stati e istituzioni possono e debbono estendere il proprio controllo.

Dopodiché tocca ad altri soggetti intervenire. La scuola deve mutare da questo punto di vista le sue funzioni e attività, e diventare un sistema decentrato di controllo e bonifica della rete. Gli insegnanti di ogni ordini e grado devono poter, o direttamente o mediante professionisti di sostegno, avere sistemi che siano in grado di profilare i propri studenti, con una tutela progressiva della privacy inversamente proporzionali all’età dei giovani. Lo stesso dicasi della famiglia: come una volta i genitori erano un filtro per gli amici e i comportamenti devianti dei figli, oggi si deve praticare in famiglia una forma di mutua assistenza che possa orientare con leggerezza i giovanissimi che debuttano in rete.

Insomma non possiamo pensare che stia mutando la struttura genetica della nostra specie, come giustamente viene denunciato dagli esperti, e non prevedere che siano le grandi comunità sociali a ridisegnare i propri assetti organizzativi per rendere la cittadinanza digitale non un accidente ma una forma di sviluppo e potenziamento sociale.