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CI FANNO UN AMAZON COSÌ

UNA DIPENDENTE ITALIANA DI BEZOS SVELA LE CONDIZIONI DI LAVORO: “OGNI GIORNO IL TURNO COMINCIA CON IL CONTROLLARE COSA DOVRÒ FARE E DOVE DOVRÒ ANDARE OGGI. SI CHIAMA STAFFING E AVVIENE IN SALA MENSA, POI UN TELEVISORE CI MOSTRA DOVE DOBBIAMO ANDARE DOPO AVER SVOLTO UN ALTRO BRIEFING CHE INIZIA CON UN SIMPATICO STRETCHING – CI CONTROLLANO, SE SEI LENTO TI VIENE CHIESTO IL MOTIVO. C’È UN CRONOMETRO PER TUTTO, E SE SI VA OLTRE L’ALGORITMO VA IN ALLARME…”

Lettera al “Fatto quotidiano”

Ciao Selvaggia. Lavoro in Amazon da un anno e mezzo, sono una donna con figli e ti voglio raccontare com’ è lavorare lì. Il reparto in cui sto è dedicato allo stoccaggio e prelevamento merci. Si lavora otto ore con una pausa di 30 minuti. Ogni giorno il turno comincia con il controllare cosa dovrò fare e dove dovrò andare oggi. Si chiama staffing e avviene in sala mensa, poi un televisore ci mostra dove dobbiamo andare dopo aver svolto un altro briefing.

AMAZON PIACENZA

Il briefing comincia puntuale a inizio turno con un simpatico stretching che di atletico non ha nulla ma è un segno di velata sottomissione. Al termine si deve camminare velocemente – ma non correre – fino alle postazioni, dove per 4 ore si dovrà prelevare o inserire oggetti negli scaffali in modo ripetitivo, il tutto supportato da scanner, schermo e contenitori per la merce.

A questo punto c’è la pausa, con un altro briefing per analizzare quanto il lavoro sta rendendo, se siamo nel piano produzione della giornata. Infine urlo di gruppo e tutti di nuovo in postazione per altre 3 ore e 30, ripetendo le stesse procedure. C’è una rete di connessioni molto fitta che consente di svolgere tutto ciò, e questi “connettori” si chiamano “indiretti”: sono persone che per otto ore trascinano un carrello e riforniscono queste postazioni di ogni elemento, e stiamo parlando di km e km con scomode scarpe antinfortunistiche, per tutto il giorno, senza considerare i pesi sollevati.

Ti controllano in Amazon? Assolutamente sì. Si è costantemente controllati, sia con la tecnologia, sia a vista. Se sei lento nel tuo lavoro ti viene chiesto il motivo; almeno una volta a turno passa il manager a verificare il “come va” e il “quanto rendi”, nonché varie ed eventuali. Costantemente passano intermediari, chiamati “lead”, e verificano se si lavora, se si socializza e come si socializza, controllano le pause, quante sono e quanto durano. Nessun attacco diretto, solo velate allusioni. Nessuno mai ti dirà che sei andato in bagno troppo spesso ma useranno una frase tipo: “Ti senti bene? Ho notato che ti sei assentato spesso!”.

Il sistema è pensato per un solo scopo: nessuno si deve fermare e se accade, il motivo va vagliato. C’ è un cronometro per tutto, e se si va oltre certi loro schemi l’algoritmo Amazon va in allarme, e quell’operatore deve essere ripreso.

AMAZON PIACENZAmagazzino amazon

Un operatore di magazzino guadagna 1200/1300 netti al mese. Come sono i turni? Massacranti. Si lavora a turni, mattina, notte e pomeriggio, i riposi sono spesso infrasettimanali, raramente nei weekend, a cui si aggiungono il periodo di cosiddetto “picco lavorativo” in cui i turni diventano ancora più serrati e spesso capita di staccare il venerdì sera alle 22,30 essere a lavoro il sabato alle 10,30 e finire alle 18,30 per poi ricominciare domenica alle 6 del mattino. E parlo di giorni consecutivi.

Perché nonostante ciò rimani in Amazon? Perché non trovo altro. Certo, poi in occasione delle festività la sala mensa viene addobbata. Pensate ora ci sono i cuoricini per San Valentino e l’elezione di Miss e Mister Amazon; ci trovi anche il biliardino che considerando la pausa di 30 minuti non sfrutti mai. C’è di tutto compresa la fatica di aver camminato magari per 45 km in otto ore con scarpe dure e pesanti, con la certezza che lo ripeterai domani e ancora e ancora.

La risposta di Selvaggia Lucarelli

Cara E., quello che mi descrivi sembra un incrocio tra ‘Tempi moderni’ di Chaplin e un episodio di Black Mirror. Mi sembra che Jeff Bezos, il proprietario di Amazon nonchè l’uomo più ricco del mondo, farebbe meglio a preoccuparsi della soddisfazione dei propri lavoratori piuttosto che di due foto con l’amante.

selvaggia lucarelli su corona




Mercato animato

Milano non finisce mai di stupire! È partita nei giorni scorsi una nuova iniziativa, Mercato animato, che ha l’obiettivo di valorizzare ulteriormente i mercati coperti grazie ad azioni che riportano queste realtà al centro della vita sociale dei quartieri.
Dai concerti di musica ai percorsi del gusto per scoprire una corretta alimentazione, dai laboratori didattici per avvicinare i bambini alla cultura del riciclo agli eventi di showcooking. Il tutto grazie anche ai consigli di Slow Food e Fondazione Umberto Veronesi.
Mercato animato nasce come risposta al bando lanciato dall’amministrazione comunale a settembre 2018 in cui si mettevano a disposizione 120.000 euro per progetti con finalità sociali. Al bando hanno partecipato 29 progetti e ne sono stati selezionati nove ora attivi in altrettanti mercati coperti. Tutte le proposte arrivate avevano l’obiettivo di realizzare progetti di rigenerazione territoriale in grado di rendere il mercato coperto un luogo inclusivo capace di coinvolgere anche la rete degli attori locali e dei commercianti già presenti.

Cosa c’è di nuovo

Mercato animato è un esempio di alleanza collaborativa e rappresenta la dimostrazione di come si può valorizzare la vocazione commerciale delle strutture e allo stesso tempo avviare processi di ibridazione culturale e di intrattenimento capaci di attrarre giovani, famiglie e bambini.




Samsung annuncia: "Via gli imballaggi in plastica"

Saranno sostituiti con materiali eco-sostenibili


Via gli imballaggi in plastica, saranno sostituiti da materiali ‘eco’ come la carta. Ad annunciare la decisione è Samsung Electronics Co., Ltd. che a partire dalla prima metà del 2019 rimpiazzerà le confezioni di prodotti e accessori, dai telefoni cellulari ai tablet agli elettrodomestici, con materiali eco-sostenibili. Per farlo, è stata costituita una task force aziendale che coinvolge i reparti di progettazione e sviluppo, acquisti, marketing e controllo della qualità per mettere in pratica le più idee innovative di packaging.
“Adotteremo materiali più ecosostenibili anche se ciò dovesse significare un aumento complessivo dei costi”, dichiara Gyeong-bin Jeon, responsabile del Global Customer Satisfaction Center di Samsung. Per i telefoni cellulari, i tablet e i prodotti indossabili, Samsung sostituirà la plastica utilizzata per gli involucri con una nuova tipologia ecologica e gli accessori per avvolgere i sacchetti con materiali eco-compatibili. Verrà modificato anche il design dei caricabatterie dei telefoni, sostituendo l’esterno lucido con una finitura opaca ed eliminando le pellicole di protezione in plastica, riducendone l’uso complessivo.
I sacchetti di plastica utilizzati per proteggere la superficie di elettrodomestici quali TV, frigoriferi, condizionatori d’aria, lavatrici e altri elettrodomestici da cucina saranno sostituiti con sacchetti contenenti materiali riciclati e bioplastiche. Per quanto riguarda la carta, Samsung utilizzerà solo materiali in fibra certificati da enti ambientali internazionali come il Forest Stewardship Council, il Programme for the Endorsement of Forest Certification e Sustainable Forestry Initiative for packaging and manuals by 2020. Entro il 2030, Samsung intende utilizzare 500mila tonnellate di plastica riciclata e raccogliere 7,5 milioni di tonnellate di prodotti scartati (obiettivi entrambi cumulabili dal 2009).




Dalla security alla responsibility: la metamorfosi della sostenibilità digitale

Nello scenario cosiddetto data driven, la sostenibilità aziendale passa anche dalla data responsibility, con cò intendendo la gestione sana, etica e sicura dei miliardi di dati che le imprese possiedono e che possono avere un impatto significativo sulla libertà e i diritti dei singoli e delle comunità.

Recentemente Tim Cook ha parlato di Internet e delle società data driven come di “un complesso industriale” che sta sfuggendo completamente dal controllo sociale ed economico e che rischia di avere impatti inaspettati e devastanti sulle società digitalizzate, arrivando a chiedere per gli USA una legge privacy simile al GDPR.
Da questo punto di vista, gestire in modo sicuro e in ottica di aderenza ai principi della privacy i dati che le aziende posseggono, consente alle aziende di fare molto anche dal punto di vista della responsabilità sociale.

Andrea Lambiase, Dpo di Axitea

Per Andrea Lambiase, Dpo (cioè responsabile della protezione dati) di Axitea, la responsabilità sociale significa anche supporto, trasparenza e condivisione di know-how.
La massa di dati e informazioni quotidianamente trattati dalle aziende e dagli enti pubblici, la continua generazione di conoscenza e analisi che ne scaturisce può opportunamente essere messa, quando possibile e quando utile, a disposizione degli stakeholders economici e sociali che possono – a partire da questo know how – creare valore aggiunto per le comunità di appartenenza.

L’etica dei dati, l’esempio di Datakind

È il concetto di Data Ethics, di utilizzo dei dati per il bene comune, che sta cominciando a farsi largo e che già oggi vede alcune tra le più grandi multinazionali impegnate nella creazione di database condivisi con – ad esempio – informazioni utili per la gestione di un disastro naturale e la segnalazione continua di eventi potenzialmente catastrofici.
Un esempio concreto è la piattaforma DataKind, che si prefigge di usare le tecnologie più avanzate a disposizione delle aziende – Big Data analytics, Artificial Intelligence, machine learning – per migliorare lo stato delle comunità e degli individui che le compongono.
Attraverso un’analisi avanzata e accurata dei volumi di dati oggi disponibili, prendono vita progetti e iniziative di varia tipologia, accomunate dal concetto di bene comune. Gli esempi sono numerosi, distribuiti su tutto il pianeta.
Lambiase cita a mo’ di esempio due progetti abbastanza indicativi, che riguardano la città di New York, dove le immagini riprese dalle numerose telecamere di sorveglianza vengono elaborate tramite app sviluppate ad hoc per supportare iniziative specifiche: i dati relativi alla sicurezza stradale e alla viabilità permettono di indicare preventivamente a pedoni e guidatori gli eventuali rischi relativi alla zona in cui si trovano, come un alto tasso di incidenti o la ricorrenza di eventi criminosi.
Le stesse immagini però, elaborate in modo differente, possono dare indicazioni utili sulla presenza in strada di senzatetto, e correlare queste informazioni con quelle relative alla distribuzione geografica dei ricoveri nei quali potenzialmente accoglierli, soprattutto nel caso di condizioni climatiche sfavorevoli.
Un’ulteriore applicazione riguarda la siccità, piaga ricorrente in diverse aree del mondo. Un progetto specifico esiste in California e, tramite un’analisi incrociata dei consumi idrici di ogni unità abitativa e dei livelli dei depositi d’acqua, permette di prevedere il fabbisogno idrico in un determinato periodo, consentendo di prendere provvedimenti preventivi.

Data responsibility in Italia

In Italia, ammette Lambiase, la situazionqui non è altrettanto avanzata, anche se il tema Data Ethics è stato spesso trattato.
Ci sono iniziative virtuose, spiega, che in particolare coinvolgono banche e grandi aziende e sono legate a territori particolari che vedono l’applicazione di paradigmi tecnologici avanzati in ottica di corporate social responsibility.
Il tutto può e deve partire da una gestione corretta e sociale dei dati, che devono essere raccolti e protetti, come le normative vigenti impongono, ma anche messi a disposizione di chi su questi stessi dati può dare vita a progetti di condivisione ed inclusione, oltre che di supporto sociale.
Data privacy & security, sata responsibility e data sharing attraverso piattaforme aperte e funzionali alla condivisione di buone pratiche, statistiche e analisi predittive di utilità sociale: anche questo posiziona aziende e governi nel futuro della digitalizzazione.




Zamagni: “L’economia etica? È il cambiamento di cui abbiamo bisogno”.

L’economista Stefano Zamagni, intervenuto al convegno annuale della B Corps italiane, analizza la storia dell’economia etica, spiegando perché in questa fase storica è proprio ciò di cui abbiamo bisogno.


Il movimento delle B Corps è forse in questo momento l’impulso più forte, quello capace di spingere in modo definitivo il mondo economico verso un nuovo paradigma fondato sull’etica, sulla consapevolezza e sulla sostenibilità. In Italia in particolar modo.

ECONOMIA ETICA: UNA TRADIZIONE A NOI FAMILIARE

Non a caso il nostro paese è il secondo al mondo ad avere istituito un quadro normativo che regola questo settore, dopo gli Stati Uniti – la prima legge in merito è stata approvata nel 2010 da Maryland e Delaware. Ma è anche il secondo, sempre dopo gli USA, per numero di B Corps presenti sul proprio territorio.
Perché allora lungo tutto il percorso formativo e accademico che affrontano, i nostri giovani non si imbattono praticamente mai nell’economia etica? Perché ancora oggi il discorso delle B Corps in Italia non è ancora arrivato alla base, non circola e soprattutto non è ancora entrato nelle università, a parte alcune lodevoli eccezioni? Perchè le B Corps non sono ancora oggetto del curriculum di studi delle facoltà economiche?
Se lo chiede l’economista e docente Stefano Zamagni, sottolineando un ricorso storico interessante e significativo: “È stata la società civile ad anticipare quello che l’università avrebbe dovuto fare e in passato è stato sempre così. Recentemente sono stato alla Bocconi e gli studenti del corso di management non sapevano nulla di B Corps”.
Eppure questo movimento rappresenta un ritorno all’antico, poiché fino all’inizio del ’900 tutte le imprese avevano una funzione pubblica. “La tradizione aziendalistica italiana – spiega Zamagni – vede l’impresa come un soggetto privato che svolge funzioni di natura pubblica”.
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L’IMPRESA PERDE LA SUA FUNZIONE SOCIALE

Tutto cambia quando un saggio di economia pubblicato negli anni ’30 sancì la scissione fra la proprietà (azionisti) e il controllo (management). Gli interessi non erano più sociali, ma privatistici. “Lì comincia una nuova stagione che vede l’impresa come una merce – the firm as a commodity –, che come tale può essere comprata e venduta a seconda delle convenienze del momento”.
Nel 1976 due economisti americani oggi screditati, Jensen e Meckling, elaborano un modello in base al quale il fine dell’impresa è di massimizzare il profitto. A questa lettura si accoda anche Milton Friedman, che dice che alla fine anche la società ne trae un vantaggio. Questa teoria diventa egemone e viene insegnata nelle università di tutto il mondo.
Ed eccoci arrivati a un altro spartiacque: la grande recessione del 2008. Spiega Zamagni: “La crisi ci ha detto che quel modello è sbagliato. Da allora in America, dove c’è una cultura molto pragmatica, le cose hanno iniziato a cambiare. Dopo tre anni di recessione hanno cominciato a delinearsi le prime B Corps: c’era voluto un disastro economico, ma gli americani avevano capito che il fine primario dell’impresa non è la massimizzazione del profitto”.
Un ulteriore impulso arriva nel 2011 grazie all’intervento di altri due economisti, Porter e Kramer. Secondo loro il sistema capitalistico è sotto assedio e le imprese vengono viste sempre più come cause dei problemi sociali, ambientali ed economici. La legittimazione del business è scesa a livelli senza precedenti. Le imprese devono riconciliare business e società, successo economico progresso sociale. Devono mettere al centro i valori collettivi.
Zamagni prosegue raccontando un aneddoto significativo: “La vicenda di Ford e dei fratelli Dodge insegna: i Dodge erano azionisti di minoranza di Ford e quando quest’ultimo iniziò a praticare il welfare aziendale loro lo portarono in tribunale accusandolo di aver sottratto i profitti che spettavano agli azionisti per finanziare la sua politica aziendale. La corte del Michigan diede ragione ai Dodge creando un precedente fondamentale”.
Cosa insegna questa storia? “Ci dice che è fondamentale istituire un quadro normativo che disciplini l’economia etica”, spiega Zamagni. “Le cooperative ad esempio non hanno questo problema, ma le aziende normali, senza la legge del 2015 che istituisce le società benefit, avrebbero potuto incappare negli stessi inconvenienti con cui si dovette misurare Ford a suo tempo”.
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COSA STA SUCCEDENDO IN ITALIA?

L’idea che sta alla base delle B Corps riprende un pensiero che ha radici antiche e a noi familiari. “La figura dell’impresa moderna è nata in Italia, così come tante novità in ambito economico e finanziario. Ma noi italiani non le abbiamo mai valorizzate, rinunciando a innovare. Siamo creativi, ma non siamo capaci di tradurre l’invenzione in operatività”.
Già nel 1400 esisteva la moderna impresa: Leonardo da Vinci fu il primo teorico e pratico dell’organizzazione d’impresa. Il suo modello all’estero viene chiamato “bottega leonardesca” e rappresenta il nucleo dell’organizzazione d’impresa condiviso anche dalle B Corps. Ecco perché per noi italiani questo movimento è particolarmente significativo.
Ma perché oggi abbiamo particolarmente bisogno che in Italia si diffondano le B Corps? Risponde Zamagni: “Perché stiamo attraversando una fase nota come seconda grande trasformazione di tipo polaniano, ovvero riferita a Karl Polanyi, che nel 1974 parlò della prima grande trasformazione, nell’ambito della quale raccontò le due grandi rivoluzioni industriali”.
Oggi viviamo una stagione altrettanto straordinaria, poiché siamo nel bel mezzo della quarta rivoluzione industriale. E si può dimostrare che in questa transizione in modello B Corps è esattamente ciò di cui abbiamo bisogno.
“È una tesi forte ma perfettamente dimostrabile”, prosegue Zamagni. “Sappiamo che il modello taylorista non funziona più, sostituito da quello olocratico teorizzato nel 2007 da Brian Robertson. Questo modello è il contrario di quello taylorista ed è una prefigurazione a livello giuridico della società benefit. Abbiamo bisogno che il numero di queste società aumenti perché così possiamo estendere l’applicabilità del modello olocratico, che garantisce risultati straordinari come la massimizzazione del profitto, molto più del modello only for profit”.
La storia economica stessa sostiene questa tesi. Fino al 1980 la produttività totale dei fattori dell’Italia era superiore a quella della Germania. Con la terza e quarta rivoluzione industriale siamo andati incontro a un forte declino perché non abbiamo adeguato il modello organizzativo. Secondo Stefano Zamagni dunque dobbiamo modificare l’assetto esistente, ne abbiamo un gran bisogno.
 

 L’IMPRESA COME MOTORE DEL CAMBIAMENTO

“Le valutazioni delle performance delle imprese sono di tre tipi: output, outcome e impatto. Misurano rispettivamente l’efficienza, l’efficacia (quanto l’operatività raggiunge i fini dichiarati) e il cambiamento. Il punto è qui: oltre alla valutazione di output (bilancio di esercizio) e di outcome (misurata nel bilancio sociale), la società benefit si spinge al terzo livello, che consiste nella valutazione dell’impatto sociale, ovvero la misurazione del cambiamento. Misurare questo cambiamento è ciò che distingue le performance delle società benefit, poiché le società convenzionali non possono per natura arrivare alla valutazione d’impatto, di cui noi abbiamo invece un gran bisogno, soprattutto se si parla di degrado ambientale”.
Ecco dunque che, pur continuando a perseguire un legittimo profitto, l’impresa recupera la sua funzione sociale e genera benessere – economico, ma non solo – per tutta la comunità. Ma, come spiegato, solo le B Corps, società benefit e altri modelli imprenditoriali etici hanno questa capacità.
Zamagni conclude citando il monaco americano Tomas Merton, che nell’epilogo del suo Nessun uomo è un’isola dice: “Il tempo galoppa e la vita ci sfugge fra le mani, ma ci può sfuggire come sabbia o come semente. Se ci sfugge come sabbia cadendo al suolo non produce nulla, ma il seme produce sempre qualcosa. A noi la scelta”.