La consapevolezza del proprio scopo

Lettera annuale di LARRY FINK – CEO Blackrock, agli Amministratori Delegati
Un nuovo modello per il governo societario
La tua strategia, il tuo consiglio e il tuo scopo
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Lettera annuale di LARRY FINK – CEO Blackrock, agli Amministratori Delegati
bbiamo tra le mani un grande potere e le scelte che compiamo ogni giorno, anche a tavola, possono davvero fare la differenza: ce lo dimostra il nuovo spot Huawei.
Il loro destino è nelle nostre mani: sembra il titolo di un film, invece è la realtà dei fatti e ce lo dimostra in modo originale e commovente il nuovo spot Huawei (nel video qui in basso), che pubblicizza l’ultimo modello di smartphone prodotto dall’azienda. Protagonisti del brevissimo video sono un teenager e un animaletto tenerissimo, un esserino di una specie ignota che viene ribattezzata “Gnu gnu”. Una scoperta così sensazionale che non può non essere condivisa con gli amici: basta uno smartphone, una fotocamera e una connessione a internet perché il destino della creaturina sia inevitabilmente segnato.
Dalla fama internazionale alla cattività il passo è breve: in pochissimo tempo quello che era un animale libero di vivere nel proprio habitat, si trasforma in un vero e proprio fenomeno mediatico, che porta in un baleno alla nascita di gadget dedicati come magliette e giocattoli per bambini. Impossibile a questo punto non cavalcare l’onda: tutti devono poter ammirare dal vivo il tenero Gnu gnu e l’unico modo per farlo è rinchiuderlo in una gabbia.
Per sua fortuna, questo piccolo essere ha incontrato sulla sua strada una persona di buon senso e quello che sembrava già un destino segnato, torna a essere semplicemente un sogno a occhi aperti: la foto dell’animale viene cancellata e lo Gnu gnu può continuare a vivere tranquillo tra i boschi. Lo stesso, purtroppo, non si può dire di tutti gli animali che, nella realtà, vengono quotidianamente violati per un click: un selfie con un animale esotico, per moltissimi individui nel mondo, vale ben più della vita dell’animale stesso.
Un cucciolo di delfino trovato su una spiaggia in Argentina: invece che riportarlo in mare, la folla si sarebbe accalcata per fotografarlo, causandone così la morte per disidratazione
Ecco quindi animali come squali, delfini, tigri o elefanti – solo per citarne alcuni – uccisi, lasciati morire o torturati (come Boris, un esemplare di Lori lento privato dei denti per permettere ai turisti di fotografarsi con lui) in nome di una fotografia che immortali quell’incontro inaspettato, una sorta di macabro trofeo da mostrare con orgoglio ad amici e parenti durante una cena. Pensiamo inoltre ai tantissimi video che circolano in rete, quelli che nella fretta di un mondo virtuale che corre troppo veloce, intravediamo senza nemmeno capirli pienamente: il più delle volte quello che cataloghiamo come un video simpatico e divertente, nasconde invece sfruttamento e sofferenza per gli animali che ne sono protagonisti.
Un esempio tra tutti è il video, diventato virale qualche tempo fa, che mostrava un topolino intento a “farsi la doccia” (qui in basso): grazie all’analisi di alcuni etologi, si è scoperto che lungi dal divertirsi, il roditore in questione – che non è nemmeno un topo, ma un pacarana (animale notturno che vive nelle foreste pluviali) – stava invece compiendo gesti che indicano un forte disagio, cercando freneticamente di togliersi dal pelo la schiuma che presumibilmente gli provocava prurito e fastidio.
Ecco fino a che punto può spingersi il narcisismo umano, nella folle convinzione che il mondo e le sue creature siano “lì per noi”, a nostra disposizione, in vita solo e soltanto perché l’uomo possa sfruttarle per i propri bisogni o interessi. Una convinzione che sta alla base dello specismo – corrente di pensiero secondo la quale l’essere umano possiede uno status morale superiore rispetto agli altri animali – e che ci legittima, ormai da decenni, a rinchiudere miliardi di animali all’interno di allevamenti intensivi sparsi in tutto il mondo. Ma non è tutto: la spettacolarizzazione della sofferenza animale in ogni sua forma – sia essa l’uccisione in un’arena, la privazione della libertà o lo sfruttamento durante lo “sport” – è ormai quasi un dato di fatto, qualcosa a cui ci siamo talmente tanto assuefatti da considerarlo naturale e insito nella nostra società.
Eppure, una soluzione a tutto questo esiste ed è fatta di empatia e buon senso. Tutti noi, come recita questo spot, abbiamo davvero un grande potere nelle nostre mani e le scelte che compiamo ogni giorno possono fare la differenza.
Abbiamo tra le mani un grande potere e le scelte che compiamo ogni giorno, anche a tavola, possono davvero fare la differenza: ce lo dimostra il nuovo spot Huawei.
Il loro destino è nelle nostre mani: sembra il titolo di un film, invece è la realtà dei fatti e ce lo dimostra in modo originale e commovente il nuovo spot Huawei (nel video qui in basso), che pubblicizza l’ultimo modello di smartphone prodotto dall’azienda. Protagonisti del brevissimo video sono un teenager e un animaletto tenerissimo, un esserino di una specie ignota che viene ribattezzata “Gnu gnu”. Una scoperta così sensazionale che non può non essere condivisa con gli amici: basta uno smartphone, una fotocamera e una connessione a internet perché il destino della creaturina sia inevitabilmente segnato.
Dalla fama internazionale alla cattività il passo è breve: in pochissimo tempo quello che era un animale libero di vivere nel proprio habitat, si trasforma in un vero e proprio fenomeno mediatico, che porta in un baleno alla nascita di gadget dedicati come magliette e giocattoli per bambini. Impossibile a questo punto non cavalcare l’onda: tutti devono poter ammirare dal vivo il tenero Gnu gnu e l’unico modo per farlo è rinchiuderlo in una gabbia.
Per sua fortuna, questo piccolo essere ha incontrato sulla sua strada una persona di buon senso e quello che sembrava già un destino segnato, torna a essere semplicemente un sogno a occhi aperti: la foto dell’animale viene cancellata e lo Gnu gnu può continuare a vivere tranquillo tra i boschi. Lo stesso, purtroppo, non si può dire di tutti gli animali che, nella realtà, vengono quotidianamente violati per un click: un selfie con un animale esotico, per moltissimi individui nel mondo, vale ben più della vita dell’animale stesso.
Un cucciolo di delfino trovato su una spiaggia in Argentina: invece che riportarlo in mare, la folla si sarebbe accalcata per fotografarlo, causandone così la morte per disidratazione
Ecco quindi animali come squali, delfini, tigri o elefanti – solo per citarne alcuni – uccisi, lasciati morire o torturati (come Boris, un esemplare di Lori lento privato dei denti per permettere ai turisti di fotografarsi con lui) in nome di una fotografia che immortali quell’incontro inaspettato, una sorta di macabro trofeo da mostrare con orgoglio ad amici e parenti durante una cena. Pensiamo inoltre ai tantissimi video che circolano in rete, quelli che nella fretta di un mondo virtuale che corre troppo veloce, intravediamo senza nemmeno capirli pienamente: il più delle volte quello che cataloghiamo come un video simpatico e divertente, nasconde invece sfruttamento e sofferenza per gli animali che ne sono protagonisti.
Un esempio tra tutti è il video, diventato virale qualche tempo fa, che mostrava un topolino intento a “farsi la doccia” (qui in basso): grazie all’analisi di alcuni etologi, si è scoperto che lungi dal divertirsi, il roditore in questione – che non è nemmeno un topo, ma un pacarana (animale notturno che vive nelle foreste pluviali) – stava invece compiendo gesti che indicano un forte disagio, cercando freneticamente di togliersi dal pelo la schiuma che presumibilmente gli provocava prurito e fastidio.
Ecco fino a che punto può spingersi il narcisismo umano, nella folle convinzione che il mondo e le sue creature siano “lì per noi”, a nostra disposizione, in vita solo e soltanto perché l’uomo possa sfruttarle per i propri bisogni o interessi. Una convinzione che sta alla base dello specismo – corrente di pensiero secondo la quale l’essere umano possiede uno status morale superiore rispetto agli altri animali – e che ci legittima, ormai da decenni, a rinchiudere miliardi di animali all’interno di allevamenti intensivi sparsi in tutto il mondo. Ma non è tutto: la spettacolarizzazione della sofferenza animale in ogni sua forma – sia essa l’uccisione in un’arena, la privazione della libertà o lo sfruttamento durante lo “sport” – è ormai quasi un dato di fatto, qualcosa a cui ci siamo talmente tanto assuefatti da considerarlo naturale e insito nella nostra società.
Eppure, una soluzione a tutto questo esiste ed è fatta di empatia e buon senso. Tutti noi, come recita questo spot, abbiamo davvero un grande potere nelle nostre mani e le scelte che compiamo ogni giorno possono fare la differenza.
La rivoluzione plastic free è in atto: dalle sfide istituzionali ai progressi della scienza. Da oggi il ministero dell’Ambiente mette al bando la plastica, come aveva annunciato lo stesso ministro Sergio Costa il 5 giugno, in occasione della Giornata internazionale dell’Ambiente. Ma il cambiamento non riguarda solo il dicastero, perché sono centinaia le adesioni. La Commissione Cultura alla Regione Lazio ha presentato a luglio il piano ‘Lazio Plastic Free’. Anche il Consiglio comunale di Milano preme sull’acceleratore per attuare la rivoluzione. E mentre tutto ciò avviene ci sono ricercatori che nei laboratori delle università più prestigiose al mondo sono al lavoro per cercare di trovare una soluzione al problema: ogni anno 8 milioni di tonnellate di rifiuti plastici vengono riversati negli oceani. E poi c’è chi vive cercando di eliminare la plastica dagli oceani. Basti pensare alla storia di Boyan Slat, ad appena 24 anni, a capo di un’impresa storica alla quale partecipano anche italiani.
Da oggi la rivoluzione al ministero
Già nei giorni scorsi, nella sede del ministero dell’Ambiente di via Cristoforo Colombo, a Roma, si è proceduto a installare dispense di acqua alla spina e sostituire i prodotti all’interno dei distributori. Lo stesso ministro, in un post su Facebook, ha ricordato che sono in arrivo due leggi per ridurre la plastica monouso e gli imballaggi. La prima, attesa entro una decina di giorni, dovrebbe chiamarsi ‘SalvAmare’ e anticipa la direttiva europea contro gli oggetti monouso. La seconda legge per cui, ha spiegato Costa, sono già stati trovati i fondi prevede agevolazioni sia per gli imprenditori che riducono gli imballaggi, sia per i consumatori che comprano prodotti più sostenibili. Ma la rivoluzione non si ferma al ministero.
“Da quando abbiamo lanciato la sfida, sono arrivate centinaia di adesioni – ha dichiarato il ministro – Comuni, regioni, università, prefetture, associazioni, catene di supermercati, piccole isole”. A luglio il presidente della Regione Lazio, Nicola Zingaretti, ha presentato il piano ‘Lazio Plastic Free’, progetto in cinque punti per ridurre l’uso della plastica. Le parole chiave sono riduzione, recupero, riciclo, rigenerazione e riuso. Ad agosto la commissione Cultura alla Camera ha aderito alla campagna. Ad annunciarlo è stato Luigi Gallo, deputato del Movimento 5 Stelle e presidente della commissione cultura della Camera dei Deputati: “Siamo la prima commissione paper free e plastic free perché abbiamo la responsabilità di accelerare e accompagnare una rivoluzione culturale”. Il primo passo è stato quello di sostituire la fornitura di bottigliette di plastica per i deputati con quelle in vetro.
A questo proposito si muove anche Milano. La plastica usa e getta non dovrebbe scomparire solo dagli uffici dell’amministrazione e delle sue partecipate, ma il Consiglio comunale si è posto un obiettivo più ambizioso. Come scrive Repubblica, in un ordine del giorno bipartisan appena depositato (primi firmatari sono Carlo Monguzzi del Pd e Patrizia Bedori di M5S, ma il testo è stato siglato anche dagli altri gruppi), l’aula chiede al sindaco e alla giunta che tutta Milano diventi plastic free con un programma che bandisca l’uso della plastica in città, a favore di packaging biodegradabili. Una settimana fa è stata approvata all’unanimità dal Consiglio comunale anche la mozione “Fiumicino Comune Plastic Free”, a prima firma del capogruppo del Movimento 5 Stelle, Ezio Pietrosanti. Così è accaduto ad Ancona, a Follonica (Grosseto) e a Pachino (Palermo), dove il sindaco Roberto Bruno ha firmato un’ordinanza vietando, dal 1 novembre 2018, l’uso e la commercializzazione di contenitori, di stoviglie monouso e altro materiale non biodegradabile.
E c’è chi il suo impegno nella battaglia contro la plastica lo mostra fuori dai laboratori. Sul campo, ossia negli oceani. Questo ha fatto il giovane olandese, Boyan Slat, 24 anni, partito a settembre da San Francisco dopo cinque anni di test per iniziare il suo viaggio verso l’Oceano Pacifico all’assalto della Great Pacific Garbage Patch, l’isola di rifiuti tra Hawaii e California grande tre volte la Francia. Un assalto condotto con l’utilizzo di sistemi di barriere galleggianti. Ocean Cleanup, così si chiama il progetto per cui sono state raccolte donazioni per oltre 30 milioni di dollari, è stato immaginato nel 2013 quando Slat aveva appena 18 anni. Ci hanno lavorato anche due italiani, l’ingegnere Roberto Brambini e il biologo Francesco Ferrari. La struttura è composta da un tubo lungo 600 metri e da un pannello flessibile che raccoglie i frammenti di plastica sotto la superficie dell’acqua. Un enorme Pac-Man.
Ma c’è un altro modo per combattere i rifiuti. Perché accanto a chi si occupa di prevenzione c’è anche chi si impegna per risolvere il problema delle tonnellate di rifiuti che, purtroppo, sono già nell’ambiente: ogni chilometro quadrato di oceano contiene qualcosa come 63mila frammenti plastici che vengono ingeriti dagli animali, finendo nella catena alimentare. A dirlo sono i dati dell’Organizzazione delle Nazioni Unite. Sono diversi, in tutto il mondo, i progetti e gli esperimenti avviati per risolvere il problema. È nato in Svezia il progetto Claim, che punta a eliminare queste microplastiche con una membrana attivata dalla luce solare. Un gruppo di scienziati del Kth Royal Institute of Technology ha realizzato l’innovativo sistema partendo dal presupposto che l’esposizione alla luce solare può degradare la plastica in elementi innocui. Questo processo, chiamato ossidazione fotocatalitica, può tuttavia richiedere anni. Ecco perché gli scienziati hanno cercato un modo per accelerare il tutto, creando una nuova membrana fotocatalitica da aggiungere ai sistemi filtranti delle acque reflue. Il sistema è costituito da nanofili rivestiti in un materiale semiconduttore che può assorbire la luce visibile e utilizzarla per distruggere le particelle di plastica.
La scorsa primavera sono stati invece divulgati i risultati di uno studio condotto da ricercatori della Portsmouth University e dal Laboratorio nazionale per le energie rinnovabili del ministero dell’Energia statunitense, che hanno scoperto un enzima mutante in grado di “mangiare” i rifiuti in plastica. Il risultato è arrivato in maniera accidentale durante gli esperimenti sulla struttura cristallina del PETase, l’enzima che aiuta il microbo giapponese Ideonella sakaiensis a distruggere le plastiche. Il microbo è stato scoperto nel 2016 da un gruppo di studiosi giapponesi nel terreno di una fabbrica per il riciclo di materie prime: si era adattato a mangiare la plastica presente nel suo habitat e aveva sviluppato un enzima specifico. Gli scienziati hanno sfruttato i raggi per creare un modello 3D ad altissima risoluzione dell’enzima, con l’obiettivo di valutarne l’efficienza. Dai dati raccolti è emerso non solo che le prestazioni potevano migliorare, ma che si poteva arrivare a un’efficienza venti volte maggiore rispetto a quella iniziale.
Anche un fungo, l’Aspergillus tubingensis, sarebbe in grado di mangiare i rifiuti di plastica. Lo hanno confermato di recente gli scienziati del Royal Botanic Gardens Kew di Londra che, nel rapporto State of the World’s Fungi 2018, descrivono le sue proprietà. L’organismo è stato isolato per la prima volta nella spazzatura di una discarica di Islamabad, in Pakistan. Studiandolo in laboratorio, gli scienziati dell’Accademia delle Scienze cinese e dell’Università di Agricoltura dello Yunnan (Cina) hanno potuto osservare come l’apparato vegetativo del fungo aveva colonizzato un foglio di materiale plastico in poliuretano poliestere, causando la degradazione della sua superficie. In due mesi di esperimento, il fungo aveva praticamente ridotto la lastra in poltiglia.
E ci sono intelligenze italiane dietro la scoperta di un bruco, comunemente usato come esca dai pescatori, capace di smaltire in maniera del tutto naturale il polietilene, una delle plastiche più utilizzate e diffuse anche nelle buste shopper. Si tratta della larva della tarma della cera, un parassita degli alveari, diventato famoso grazie a una ricerca coordinata dall’università britannica di Cambridge e condotta in collaborazione con l’Istituto spagnolo di Biomedicina e Biotecnologia della Cantabria. La scoperta, tra l’altro, è avvenuta per caso proprio grazie a un’osservazione della biologa e apicultrice Federica Bertocchini che lavorava per lo Csic. Mentre stava rimuovendo i parassiti dalle sue arnie, li aveva messi temporaneamente in una busta di plastica, che in poco tempo si è riempita di buchi. La ricercatrice si è messa subito in contatto con Paolo Bombelli e Christopher Howe, del dipartimento di Biochimica dell’università di Cambridge e insieme hanno programmato un esperimento. Un centinaio di larve sono state poste vicino a una busta di plastica nella quale, già a distanza di 40 minuti, sono comparsi i primi buchi.
Iniziative di corporate social responsibility: cosa fanno le aziende e come le intendono i consumatori, in una panoramica Codacons.
Perché un’azienda moderna non dovrebbe rinunciare a progetti e iniziative di corporate social responsibility? Come, e in che caso, questi possono migliorare la sua stessa immagine e il suo posizionamento presso i consumatori? E, ancora, quanto i consumatori reputano importante la CSRe cosa fare per comunicargliela al meglio? A queste e simili domande prova a rispondere “Alla Scoperta della Sostenibilità”, uno studio quali-quantitativo del Codacons condotto a partire dai bilanci sociali di oltre 150 realtà italiane e dai colloqui con quasi cento CSR manager. L’obiettivo dichiarato è promuovere, appunto, una cultura della sostenibilità e dimostrare come un impegno reciproco di aziende e consumatori possa assicurare un modo sostenibile tanto di produrre quanto di consumare.
Lo studio così analizza innanzitutto le principali iniziative di corporate social responsibility intraprese dalle aziende o, meglio, le loro aree di riferimento. Se si guarda alle iniziative finanziarie, e cioè a quelle che richiedono un impegno economico diretto da parte delle aziende, le più comuni si muovono nei campi delle risorse umane (11.8%), del supporto alla comunità (11.4%) e più in generale dell’etica e della compliance aziendale (8.8%); ancora poco frequenti sono invece i progetti di CSR che interessano campi come i consumi energetici e la ricerca e innovazione (in entrambi i casi poco più del 4%) o la cultura (1.6%).
Ancora più interessante, comunque, è il tentativo del Codacons di incrociare i dati su cosa già le aziende fanno quando si tratta di responsabilità sociale e cosa, invece, i consumatori gradirebbero venisse fatto. Tra progetti e iniziative di corporate social responsibility più apprezzati dai consumatori ci sarebbero, così, quelli che hanno a che vedere con la cultura (10.6%), lo sport e il sostegno alle fasce più deboli di popolazione (in entrambi i casi il 9.1%); mentre il benessere dei dipendenti, che si è visto essere uno dei campi in cui le aziende investono di più quando si tratta di CSR, è in realtà in fondo alle priorità dei clienti.
Generalizzando, lo studio prova a identificare due tipologie di sostenibilità: ci sono progetti e iniziative dette di «sostenibilità egoista», e sono progetti e iniziative che ottimizzano per lo più risultati e benessere aziendale e solo in secondo luogo hanno effetti a largo spettro; quella a cui ci si riferisce invece come «sostenibilità altruista», che include una serie di attività che hanno invece in primis un beneficio sulla società. È sfruttando queste due categorie che il divario, già segnato dallo studio, tra ciò che i consumatori si aspettano le aziende facciano per mostrare il loro contributo alla cosa pubblica e cosa invece queste fanno realmente, appare evidente: allo stato attuale, infatti, i soggetti business sembrano investire soprattutto in iniziative di sostenibilità egoista (in una misura di oltre il 50%), mentre i consumatori sembrerebbero gradire invece soprattutto quelle di tipoaltruista (così ha dichiarato il 56% del campione). Far in modo che questi due modi di intendere la CSR combacino, tramite iniziative e programmi di «sostenibilità mista» per esempio, sembrerebbe indispensabile se l’obiettivo è rendere le aziende e i loro consumatori co-protagonisti di un cambio di paradigma, anche per quanto riguarda il consumo.
Fonte: Codacons
Tanto più che, come già altri studi in materia, quello del Codacons conferma come proprio il tema della sostenibilità, e quindi le iniziative di corporate social responsibility, abbiano un peso concreto e in crescita (di almeno il 12% rispetto a un’edizione precedente dello stesso studio) nelle decisioni d’acquisto. La qualità immateriale di un prodotto, per la cui percezione giocano un ruolo fondamentale la reputazione di un’azienda e inevitabilmente quindi anche tutte le iniziative di stampo sociale in cui questa è coinvolta, sembrerebbe essere, dopo il costo e la qualità materiale, tra i fattori che fanno pendere l’ago della scelta più da una parte rispetto a un’altra. Per più di un consumatore su due la sostenibilità deve essere considerata, di diritto, una matrice di crescita per l’azienda e – verrebbe da aggiungere – non solo, dal momento che buona parte del campione si dice d’accordo nel sostenere che le attività non finanziarie di un brand o di un qualsiasi soggetto business, come quelle legate alla CSR appunto, possono contribuire al benessere diffuso (il 44%) e allo sviluppo sostenibile (il 36%).
Fonte: Codacons
Se l’obiettivo è avvicinare attitudini e prospettive aziendali e consumatori, un peso fondamentale sembra assumerlo comunque come si comunica la CSR. Fin qui i siti web, aziendali o appositamente dedicati ai programmi di responsabilità aziendale sono il canale principale attraverso cui verrebbero presentate a consumatori e stakeholder le iniziative di corporate social responsibility (li scelgono almeno il 49% delle aziende). Il resto lo fanno la spedizione di testi scritti, spesso il documento di bilancio sociale, e il lavoro dell’ufficio stampa. L’ideale a cui puntare, però, secondo il Codacons sarebbe una comunicazione «molecolare» e «orientata»: significa sfruttare ogni canale che si ha a disposizione, dai social al blog aziendale, passando per le newsletter, per imbastire il racconto delle attività non lucrative svolte e dei risultati non finanziari raggiunti.
In questo racconto, tra l’altro, non è escluso che anche influencer «nativi» e micro-influencer possano rappresentare una voce importante: come sempre, quando si tratta di strategie di influencer marketing, è in virtù da un lato della loro expertise nel campo, nel settore in questione e dall’altro della fiducia di cui godono presso la propria audience e la propria community che figure come queste si rivelano i migliori ambasciatori di un brand, anche quando in gioco ci sono appunto il suo impegno e la sua compliance pubblica.