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Facebook s’è rotto, anche oggi per il social ci sono problemi di condivisione

Facebook s’è rotto, anche oggi per il social ci sono problemi di condivisione

Facebook non funziona, problemi per il social non ancora risolti, ieri il down generale, oggi molti non riescono a postare sulle pagine.

l nuovo trend del giorno è Facebook Down, il famoso social network fa le bizze in tutta Italia. Nella giornata di ieri, grandi problemi nella condivisione di post, soprattutto sulle pagine. Dalle 13 di ieri inoltre il social è risultato inaccessibile per tantissimi iscritti.

Facebook Down, ancora problemi per il social

Qualcosa è andato storto nella rete di Facebook nel pomeriggio di ieri, ma certamente anche oggi le cose non sono perfette. C’è ancora chi lamenta un malfunzionamento del social, ma procediamo per ordine. Ieri pomeriggio molti utenti hanno trovato difficoltà ad accedere al proprio account. Grande lentezza, pagine non trovate e altro ancora. Insomma, le classiche problematiche che riscontriamo quando un sito web ha dei problemi. La cosa è rimasta inalterata sua per desk che per smartphone.
Le segnalazioni più disperate sono arrivate soprattutto dalle nostre grandi metropoli, in particolare su Milano, Roma e Napoli. Il problema si è poi via via affievolito con il passare delle ore, anche se non per tutti. Ad ogni modo, al mattino seguente, cioè oggi, tutti si sono svegliati come al solito, con un classico buongiorno su Facebook, a riprova che il problema è rientrato, ma non per tutti. Infatti, le pagine continuano a presentare grossi problemi nella condivisione dei post. Questo sta causando difficoltà importanti alle aziende che appunto utilizzano Facebook per scopi un tantino più importanti del classico post scanzonato degli account semplici.
Insomma, anche per oggi ci sarà da tribolare. Alcuni admin stanno regolarmente programmando sulla propria pagina, altri della stessa azienda però lamentano ancora difficoltà nel farlo. In pratica, una volta avviata la pubblicazione, invece di aprirsi il consueto spazio per i post, si apre una finestra ristretta e priva di accessi, in pratica rimane bloccata e inutilizzabile, unica procedura consentita a quel punto è resettare la pagina e uscire. Si spera che in giornata possa risolversi la faccenda e tutto possa ritornare nella norma.




La svolta del Movimento 5 stelle e l’addio al ‘vecchio’ web

La svolta del Movimento 5 stelle e l’addio al ‘vecchio’ web

Viaggio nella comunicazione online del primo partito italiano

MeetUp e blog sono stati il volano del Movimento 5 stelle. Gli attivisti si davano appuntamento online per incontrarsi e formare gruppi di lavoro. Il blog di Beppe Grillo è stato per anni il punto di riferimento: i post dettavano la linea, con uno stile graffiante e anti-sistema. Ora che sono diventati ‘grandi’ (il M5s è il partito che ha raccolto più consensi alle ultime elezioni) è cambiato radicalmente il modo di comunicare. Sono cambiati gli strumenti e il linguaggio.

Se da un lato non stupiscono più di tanto l’attenzione e la cura riposte nei social, colpisce trovare come primo risultato su Google il sito ufficiale del Movimento. Un sito praticamente abbandonato, anche se, come dimostra Google Trend, sono proprio le parole “movimento 5 stelle” e non “blog 5 stelle” o “Rousseau 5 stelle” le più ricercate online.

Nonostante questo, sul portale dei pentastellati è presente dal 23 settembre, alle ore 23:15, un post dal titolo “Luigi di Maio LA GRONDA” con allegata un’immagine del vicepremier e un testo che recita “BLA BLA BLA PROVA!” (qui il link ancora funzionante). Non è una bufala o un attacco hacker. Come vedremo tra poco, non si tratta di una svista, ma probabilmente del risultato della decisione di dedicare tutte le energie ad altri strumenti di comunicazione, piuttosto che al web tradizionale, cui il Movimento deve la sua fortuna.

Partiamo dalla home page. In apertura del sito un’anteprima che rimanda a una pagina del 2017 in cui il Movimento informa gli elettori di aver aperto 3 punti “SosAntiEquitalia e critica il “Bomba” (l’ex premier Matteo Renzi, ndr). Proseguendo, nella prima pagina ci sono le liste dei candidati plurinominali e uninominali alle elezioni del 4 marzo, il programma del Movimento 5 stelle e altre cinque sezioni. Non va meglio nelle sottopagine corrispondenti, dove le foto non si caricano e le informazioni sono ripetitive o, al contrario, mancano del tutto.

La sezione Voci dal Parlamento, per esempio, altro non è che il sotto-sito dedicato all’attività parlamentare del Movimento 5 stelle, a cura — ci informa un disclaimer in fondo alla pagina — dell’ufficio comunicazione Gruppi Parlamentari M5S. Qui il primo post in homepage parla di intercettazioni e di governo, ma non quello attuale, quello del 2017, e risale infatti al 29 dicembre di quell’anno. Navigando sul sito, però, si trovano contenuti più recenti, come l’intervista di Di Maio al Fatto Quotidiano del 24 settembre 2018 sulla Manovra e gli aggiornamenti pubblicati dalle commissioni parlamentari (l’ultimo risale al 10 maggio).

Dal sito ufficiale passiamo al blog del Movimento 5 stelle, www.ilblogdellestelle.it, fulcro dell’attività online del Movimento. Il portale web è utilizzato per comunicare con gli elettori/attivisti e indicato sui social come collegamento web del Movimento. Ma è solo dal 2016 che questo sito ha iniziato a ospitare contenuti relativi ai pentastellati. Come si può verificare sul sito WayBackMachine, nei primi mesi del 2016 i contenuti erano dedicati ai convegni di Gianroberto Casaleggio e alla sua società per poi cambiare veste grafica nel maggio dello stesso anno e ospitare blog post del Movimento. I Cinquestelle, allora e dal 2005, pubblicavano sul blog di Beppe Grillo. Ma da gennaio 2018 il comico ha deciso di separare i contenuti politici dai suoi blog post, creando un sito a parte.

Sul blog delle stelle, un magazine e non un sito ufficiale, sono stati trasferiti i contenuti dal blog di Grillo, un immenso archivio che risale al gennaio 2005 (qui il primo link). Immenso sì, ma senza attenzione alla veste grafica e alla navigabilità. È sul Blog delle stelle che risiedono anche le informazioni sui MeetUp, gli incontri tra attivisti che hanno fondato il Movimento, ma anche per questi non c’è alcuna cura grafica e aggiornamento. Con una quasi invisibile finestra a tendina è possibile selezionare il comune e scoprire gli eventi in programma, ma per nessuno di essi, né per le grandi città né per i piccoli comuni, è possibile capire quando e come è stato organizzato l’incontro. C’è ancora un’altra fonte dove trovare gli incontri dei pentastellati: MeetUp. Qui i consiglieri regionali e comunali continuano a programmare incontri, ma ogni evento segnalato riguarda attività politica locale e i partecipanti non superano i 10 iscritti.

Screenshot del sito ilblogdellestelle.it nel febbraio 2016 — WayBackMachine

Altra parentesi la merita la piattaforma Rousseau(rousseau.movimento5stelle.it), “il sistema operativo del Movimento 5 stelle”. Tecnicamente, si tratta di un sotto-livello del portale movimento5stelle.it, che tuttavia risulta completamente diverso per grafica e contenuti. Gestita e di proprietà dell’associazione fondata da Casaleggio, la piattaforma Rousseau è il luogo di discussione per proposte di legge e aggiornamenti su tutte le attività del Movimento. Viene anche utilizzata per le votazioni interne del Movimento (ad esempio quella sul cosiddetto “contratto” da firmare con la Lega), anche se ha ha mostrato più volte di essere facile bersaglio di attacchi hacker, con diffusione di dati privati e informazioni degli iscritti.

I social cavallo di battaglia

Sono tuttavia i social media il vero cavallo di battaglia del Movimento 5 stelle. Con oltre un milione di fan sulla pagina ufficiale e più di 3 milioni di fan tra Luigi di Maio e Alessandro Di Battista solo su Facebook, i Cinquestelle comunicano attivamente con aggiornamenti quotidiani su tutte le piattaforme più utilizzate dagli italiani. Qui, però, non c’è alcuna comunicazione istituzionale. Il Movimento sulle sue pagine social è in perenne campagna elettorale. Dagli annunci sui decreti legge e sulle approvazione di norme alle richieste di donazioni, dal rilancio di interviste agli attacchi agli avversari politici, i contenuti social del primo partito italiano non sono istituzionali, ma inviti agli utenti a condividere le posizioni del Movimento.

A video e foto si alternano link che rimandano al Blog delle stelle, dove ogni articolo è scritto da un ‘portavoce’, che approfondisce un tema da discutere o che sta portando avanti nella sua battaglia politica, o è la riproduzione di un’intervista rilasciata a quotidiani nazionali e internazionali.

Sui social c’è anche Rousseau. Mentre il sito web rappresenta (o dovrebbe rappresentare) la parte più istituzionale del Movimento, con i dettagli sull’attività degli eletti e inviti alla partecipazione dei cittadini, le pagine social della piattaforma controllata dalla Casaleggio Associati — con meno di 25 mila utenti tra Facebook, Twitter e Instagram — hanno meno aggiornamenti e su Facebook, dove i fan sono in maggioranza, i contenuti sono principalmente rilanci del Blog delle stelle nello stesso stile propagandistico delle altre pagine del Movimento.

Quelle di non aggiornare il sito ufficiale, utilizzare i social solo per propaganda, affidarsi a una società privata per le comunicazioni istituzionali, sono scelte relativamente recenti del movimento. Scelte che potrebbero sembrare non connesse tra loro, ma che mostrano un evidente cambiamento della struttura del Movimento — sempre più partito — e della sua linea comunicativa. I contenuti istituzionali passano per Casaleggio &Co e qui sono gestiti e diffusi, mentre sui social la strategia naturale — ampiamente adottata da tutti i leader politici — è quella di guadagnare consensi.




Cosa si sa del progetto Dragonfly, con cui Google cerca segretamente di entrare in Cina

Cosa si sa del progetto Dragonfly, con cui Google cerca segretamente di entrare in Cina

Più di 200 dipendenti di Google stanno lavorando a app che identificano gli utenti e bloccano le ricerche di alcune parole chiavi. In un memo tutti i dettagli


Continuano i mal di pancia dentro Google per l’espansione dell’azienda nel mercato cinese. Dopo la lettera pubblicata dal New York Times in cui un gruppo di dipendenti si diceva preoccupato per un possibile uso distorto del loro lavoro in terra cinese, un nuovo memo interno crea dissapori fra la dirigenza e la truppa di Mountain View.
Il memo afferma che, al contrario di quanto detto ad agosto dal ceo Sundar Pichai per raffredare gli animi, il progetto Dragonfly, ovvero le mosse del motore di ricerca per entrare in Cina, non sarebbe in una fase esplorativa, ma avrebbe già una struttura vera e propria e a Mountain View è considerato una priorità.
La diffusione del documento è sfuggita di mano, mandando su tutte le furie le alte sfere di Google, fino a imporne la cancellazione a tutti i dipendenti che ne erano entrati in possesso.
Secondo il sito The Intercept, il documento riportava i dettagli del progetto Dragonfly: il motore di ricerca che garantisce la tracciabilità delle attività online degli utenti e che epura i risultati restituiti dal motore stesso, rimuovendo i contenuti poco graditi al Partito comunista e alle autorità governative in genere, oscurando tutto ciò che può inneggiare alla democrazia, al rispetto dei diritti umani e al diritto di protesta.
Il file identificava in 215 le persone coinvolte nel progetto stesso, uno stanziamento di risorse imponente e, dall’altra parte, certificava che del motore di ricerca è stato già sviluppato un prototipo per dispositivi Android e iOS, applicazione che può essere utilizzata dagli utenti solo previo accesso, quindi con l’obbligo di essere riconoscibili. Le app per dispositivi mobili associano le ricerche online ai numeri di telefono degli utenti, insieme ai loro indirizzi ip e alla cronologia dei link e dei siti visitati.
Tutte informazioni che vengono dirottate verso Taiwan, in un database a disposizione di un’azienda cinese dedita alla revisione e al controllo dei dati e che, in partnership con Google, ha anche il compito di aggiornare e mantenere la blacklist dei contenuti che il motore di ricerca non deve restituire agli utenti. Il prototipo delle app a cui ha lavorato Google prevede l’oscuramento dei risultati che contengono parole come “protesta studentesca”, “diritti umani” e “premio Nobel”.
Informazioni che tendono a smentire quanto detto dal ceo di Google, lasciando emergere il quadro di insieme di un progetto tutt’altro che embrionale.
(Foto: Chesnot/Getty Images)(Foto: Chesnot/Getty Images)
Un’ipotesi che preoccupa il ricercatore e attivista Patrick Poon: “È allarmante sapere che tali informazioni [i dati degli utenti, ndr] verranno archiviate e potenzialmente condivise con le autorità cinesi. Questo metterà a rischio la privacy e la sicurezza delle persone, Google deve essere più trasparente”.
Poon non teme solo gli effetti del progetto Dragonfly ma anche la mancanza di chiarezza con cui Google lo sta conducendo. La questione segretezza però è fondamentale e largamente diffusa, in Google come in molte altre aziende. Nel caso specifico BigG, così come riporta The Intercept, ha un ispettorato interno noto con il nome di stopleaks e che previene la divulgazione di notizie non autorizzate e di cui fanno parte persone provenienti dall’esercito e dalle agenzie governative americane, quindi con un passato di comprovata capacità.
Lo scorso mese di aprile 3mila dipendenti di Google hanno sottoscritto un appello affinché l’azienda rivedesse il progetto Maven, teso alla collaborazione con il Pentagono.
Il mercato cinese però sta diventando imprescindibile per tutte le aziende di qualsiasi provenienza e comparto, tant’è che Google lo scorso giugno ha investito 550 milioni di dollari in un progetto ecommerce in partenariato con il gigante cinese Jingdong Mall, concorrente diretto di Alibaba.




Già due italiani su tre usano le app per la salute

Già due italiani su tre usano le app per la salute

Le più installate sono quelle dedicate a fitness e benessere. Preoccupa però la scarsa chiarezza sulla privacy e sull’utilizzo dei dati sanitari sensibili

Il mercato internazionale è invaso da una marea di app sulla salute: secondo l’ultimo report del centro studi di Iqvia Institute sono più di 318 mila, con un tasso di crescita di oltre 200 al giorno. In Italia, non esistono dati ufficiali ma si parla di almeno 5 mila tra app che offrono servizi e informazioni tra le più svariate nel campo della salute e della medicina in senso stretto, del benessere e del fitness. Difficile trovare un bussola per orientarsi, capire quanto siano affidabili e sapere in che modo vengano utilizzati i dati sanitari (sensibili per loro natura) forniti. Tutte preoccupazioni espresse anche dal campione di oltre 800 italiani (54% uomini e 46% donne; 69% sotto i 45 anni) che ha risposto al sondaggio di Adoc (Associazione difesa orientamento consumatori) sulla diffusione delle app della categoria «salute».

La privacy

Già, ma come bilanciare l’interesse verso queste nuove forme di assistenza e gestione della propria salute con le ansie (giustificate) da privacy? «Bisognerebbe usare le app certificate come dispositivi medici, che sono pochissime ma ci sono — risponde Gianfranco Gensini, presidente della Società Italiana per la salute digitale e la Telemedicina (Digital SIT) —. I meccanismi di certificazione sono ancora poco strutturati, ma quello resta il percorso». Negli Stati Uniti, la Food and Drug administration (l’ente regolatorio per i farmaci e i dispositivi medicali) ha regolamentato il settore, classificando le app in base al rischio per il consumatore. In Europa, invece, non esiste una disciplina specifica. Nel dicembre scorso, però, la Corte di giustizia europea ha sancito in modo chiaro che software e app medicali rientrano fra i dispositivi medici (sono dunque soggetti al marchio CE), se hanno una finalità medica e indipendentemente quindi dall’essere utilizzati o meno sul corpo umano. Della questione si era occupato anche il nostro ministero della Salute (Direzione generale Dispositivi medici), che nel 2015 aveva individuato come priorità la creazione di un registro di notifica delle app di natura sanitaria e di un portale web per le procedure e i controlli di certificazione delle app mediche. Di entrambe le iniziative però, non si è saputo più nulla «Potremmo cercare di realizzarle noi — dice Francesco Gabbrielli, direttore del Centro nazionale telemedicina e nuove tecniche assistenziali all’Istituto Superiore di Sanità — . Abbiamo anche il Centro di innovazione tecnologica che si occupa della valutazione dei device e da tempo lavora anche su questi aspetti normativi dei software. Le professionalità ci sono, il problema però è avere le risorse».

Chi le usa

In base ai risultati dell’indagine Adoc il 69,1% degli italiani ha utilizzato almeno una volta un’app di questo tipo, nell’ultimo anno. Le app per fitness sono risultate le più utilizzate (44,6% delle preferenze), seguite dalle app «benessere» (28,6%) e infine dalle app «salute&medicina» (26,8%). I maggiori utilizzatori di queste app si collocano nella fascia d’età fra i 18 e i 25 anni (78,5%), intervallo in cui si trovano anche i maggiori utilizzatori delle app «fitness» (63,6%). Dopo i 60 anni c’è il minor tasso d’utilizzo, con il 55,5% dei consumatori che dichiara di non aver utilizzato neanche un’app «salute» nell’ultimo anno. Le app «benessere» sono state utilizzate in prevalenza da persone fra i 26 e i 45 anni, mentre le app «salute&medicina» sono le più utilizzate nella fascia 46 – 60 anni. Riguardo al genere, gli uomini usano le app «fitness e benessere» più delle donne, che al contrario utilizzano maggiormente le app «salute&medicina». Il 72,8% degli uomini, nel complesso, ha utilizzato almeno una volta una delle app salute, contro il 63,2% delle donne. Lo smartphone è lo strumento preferito, ma si sta facendo largo anche l’utilizzo di dispositivi esterni, come i braccialetti fitness.

Il welfare digitale

«I consumatori italiani sono molto interessati a monitorare e migliorare il loro stato di salute tramite l’uso di app dedicate — commenta Roberto Tascini, presidente di Adoc —. Siamo all’inizio dell’epoca del “welfare digitale”, al momento ancora auto-centrato, per cui nel settore Salute nei prossimi anni assisteremo alla sempre maggiore presenza di soluzioni di intelligenza artificiale, con un massivo utilizzo di app e nuove tecnologie, con un rapporto sempre più frammentato tra paziente e medico, e con i Big Data (l’enorme mole di dati prodotti anche nel contesto della sanità, ndr) a sorreggere tutto il sistema». A fronte di un atteggiamento di apertura, resta però alta la preoccupazione in merito alla raccolta e all’uso dei dati raccolti attraverso le app: il 21,7% di quanti non hanno utilizzato nemmeno un’app nell’ultimo anno motivano la scelta con il fatto di non voler fornire i propri dati sensibili e personali. Questo anche a causa di informative sulle privacy carenti. Nessuno degli intervistati ritiene infatti totalmente chiara ed esaustiva l’informativa rilasciata dalle app e solo il 7,1% l’ha considerata abbastanza trasparente e comprensibile. Anche a causa delle informative poco chiare il 57,1% dei consumatori si ritiene invece molto o estremamente preoccupato sulle modalità di raccolta e utilizzo dei propri dati personali, contro solo il 17,8% che si considera poco o per niente preoccupato. Per il campione intervistato, però, tutto questo non rappresenta un ostacolo insormontabile al desiderio di monitorare e migliorare il proprio livello di salute anche grazie all’ausilio di nuovi strumenti digitali.




Trieste, come danneggiarsi l’immagine in due semplici mosse

Trieste, come danneggiarsi l’immagine in due semplici mosse

A Trieste si sono verificati di recente un paio di episodi che riguardano la comunicazione. Meritano di essere analizzati perché possono insegnarci qualcosa di importante, se li esaminiamo con calma.

Per questo cercherò di discuterne in modo semplice. E misurando le parole.
Il primo episodio risale allo scorso agosto. Riguarda il manifesto commissionato per celebrare i cinquant’anni della Barcolana, una delle regate veliche più grandi del mondo, orgoglio della città. Il manifesto lo progetta Marina Abramović.
Il manifesto è questo. Che cosa ci vedete, voi?
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Il manifesto è prodotto nella sua versione definitiva nel gennaio 2018.
Gli organizzatori ci vedono l’opera di una grande artista che, nel suo stile di performer, pone sé stessa come preziosa testimone.
Abramović mostra una bandiera (bianca: simbolo di neutralità) con una dichiarazione ecologista nobile e di respiro universale: come esseri umani e abitanti dello stesso pianeta condividiamo tutti una condizione e un destino.
Il manifesto è presentato al pubblico nel luglio 2018.
Gli amministratori cittadini ci vedono una tizia dalla faccia severa, vestita come un soldato nordcoreano, che agita una bandiera in stile realismo socialista. E sulla bandiera (bianca: simbolo di resa) si parla di stare in una barca. Eh, non può che alludere ai barconi dei migranti.
La ritengono “un’opera orribile”. Dicono che “è inaccettabile, di pessimo gusto, immorale che si faccia propaganda politica con una manifestazione, la Barcolana, che appartiene a tutta la città”.
Cosa è successo?
Nel luglio 2018 siamo da mesi in piena polemica sui migranti. E scatta un riflesso automatico: un modo di dire figurato (una metafora) è interpretato in senso letterale. La pressione sui barconi è così forte che arriva a indirizzare la percezione. Come se suscitasse un riflesso pavloviano.
Tutti noi usiamo metafore, e se qualcuno ci dice “sono a terra” non ci aspettiamo certo di vederlo sdraiato sul pavimento
È l’effetto della euristica della disponibilità, una scorciatoia mentale che distorce i nostri giudizi alla luce delle informazioni più recenti ed emotivamente cariche di cui disponiamo. Ma tutti noi usiamo metafore, e se qualcuno ci dice “sono a terra” non ci aspettiamo certo di vederlo sdraiato sul pavimento.
Eppure la metafora dell’essere sulla stessa barca fa parte da sempre del linguaggio comune, tanto da essere registrata nei dizionari. È diffusa anche in inglese e in francese. In Francia c’è da anni un festival ecologista che si chiama Tous dans l’même bateau.
Eppure Abramović è un’artista molto famosa. E le opere d’arte non sono mai letterali.
Ma non c’è verso.
Risultato: i social network si scatenano. Gli amministratori minacciano di non finanziare più la manifestazione. Sono accusati (qui Vittorio Sgarbi) di non capire un piffero e voler censurare l’arte, nonché (sempre Sgarbi) “i valori umani e cristiani”. Alla fine, si decide che il manifesto sarà usato in sede nazionale e internazionale, ma non a Trieste.
E alla fine ci perdono tutti. Ci perdono gli amministratori, che polemizzando hanno centuplicato la visibilità del manifesto, ottenendo un risultato contrario alle loro intenzioni. Ci perdono gli organizzatori, che volevano offrire alla Barcolana e alla città una celebrazione artistica di grande pregio, e si sono trovati a gestire una patata bollente (ehi, non nel senso del tubero. Anche questa è una metafora).
Ma soprattutto ci perde la città di Trieste, perché la polemica sul manifesto finisce per oscurare il fatto importante: il cinquantenario della Barcolana. E per deformare la percezione collettiva della città.
Il secondo episodio è di pochissimi giorni fa.
Sembra analogo al precedente, ma ha alcuni tratti di differenza. Ed è più grave.
I ragazzi del locale liceo Petrarca, insieme al dipartimento di studi umanistici dell’università di Trieste, al museo della comunità ebraica e all’archivio di stato di Trieste, hanno organizzato una mostra sulle leggi razziali del 1938. Sono passati ottant’anni da quando Mussolini le ha promulgate, proprio a Trieste, parlando dal balcone del palazzo del comune.
La mostra è intitolata Razzismo in cattedra. Il comune, con regolare delibera, ha ceduto una sala per ospitarla. Ecco la locandina. Che cosa ci vedete?
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Qui non c’è interpretazione artistica, ma ci sono due documenti della realtà storica e territoriale. Una foto d’epoca con tre ragazze sorridenti, in una strada probabilmente riconoscibile per un triestino. E la prima pagina del quotidiano cittadino che, nel settembre 1938, annuncia “l’eliminazione dalla scuola fascista di insegnanti e alunni ebrei”.
Il terzo elemento è un titolo, neutro nella sua pura descrittività.
Nessuna possibilità di fraintendere il messaggio. E dev’essere proprio questa chiarezza cristallina a far dire al pubblico amministratore: “Quando ho visto quel titolo del Piccolo dell’epoca, così estremamente pesante, e con quella scritta lì sotto sul razzismo mi è sembrato esagerato. Dico io, dobbiamo ancora sollevare quelle cose?”.
Risultato: Enrico Mentana commenta “sì, sindaco, oggi più che mai, e quelle sue parole feriscono. Non solo, ma non smetto di guardare quel manifesto, e non capisco con che cuore, con che animo e con che raziocinio lei lo abbia potuto definire ‘esagerato’. È storia, purtroppo. La nostra”.
Così, la vicenda della semplice locandina della piccola mostra organizzata da una scuola diventa un caso nazionale. La riprendono l’Ansa e i maggiori quotidiani. Finisce sul telegiornale di LA7. E suscita un vespaio in rete. Ancora mentre scrivo, la mostra risulta sospesa, mentre gli amministratori continuano a polemizzare con la dirigente scolastica.