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“NATION BRANDING”: COSTRUIRE IL MADE IN ITALY CON LA DIPLOMAZIA DELLA CULTURA

“NATION BRANDING”: COSTRUIRE IL MADE IN ITALY CON LA DIPLOMAZIA DELLA CULTURA

“Non è né la voglia di ‘mettersi in mostra’; è – molto più semplicemente – la passione per questo lavoro, e il gusto per le cose ben fatte”.
Le parole le ha pronunciate – a bassa voce, come tipico dei Diplomatici di razza – l’Ambasciatore d’Italia a Tunisi Lorenzo Fanara, parlando confidenzialmente con un paio di ospiti dell’esclusiva e affollatissima serata organizzata in Residenza per celebrare la prima tappa del tour dei giovani cantanti del Festival di Sanremo, autorevolmente accompagnati dall’altrettanto giovane Mahmood, che con il suo originale pezzo “Soldi” – memoria insieme graffiante e malinconica di un’infanzia caratterizzata da un padre tanto amato quanto assente – ha vinto meno di due mesi fa il Festival della canzone italiana, mettendo d’accordo, cosa assai rara, giornalisti, critica e pubblico.
Il Capo missione ha speso quelle parole quasi “giustificandosi” con chi gli chiedeva conto, incuriosito, del fittissimo calendario di attività dell’Ambasciata e del collegato Istituto Italiano di Cultura, coordinato dall’infaticabile Direttrice Maria Vittoria Longhi: reduci dal successo della Giornata del Design italiano, e a 2 settimane di distanza dall’imminente serata “top” della rassegna Jazz in Chartage, con il concerto dell’etoile Mario Biondi, e con all’attivo quasi ogni settimana un incontro, un talk, un evento, una mostra, un’inaugurazione, una cena di gala; un’attività, quella di Fanara, capace di coinvolgere la creme dei decisori Tunisini, e resa possibile anche dal convinto sostegno della Farnesina a Roma, che è sempre ben disponibile a lasciar spazio a chi – anche prendendosi dei rischi, come sempre è per chi tra il “fare” e il “non fare” sceglie d’istinto la prima opzione – decide di contribuire concretamente alla proiezione internazionale del brand reputato dagli addetti ai lavori come il più prezioso al mondo, più di Apple, di Amazon, di Coca Cola: il “Made in Italy”.
La chiave di lettura dell’intensa attività della missione a Tunisi, come anche di varie altre “eccellenze” della nostra rete diplomatica, come la sede di Parigi, magistralmente diretta dall’Ambasciatrice Teresa Castaldo, o quella di Tel Aviv, saldamente retta dall’Ambasciatore Gianluigi Benedetti, è ben illustrata da una parola chiave più volte ripetuta da Fanara nel breve ma appassionato discorso di benvenuto tenuto a braccio – affianco alla moglie Sophie, donna di straordinaria classe e intelligenza – durante la serata dedicata al Festival di Sanremo: “emozione”.
Se è vero che parole come “autenticità”, “spontaneità”, “calore” e “immediatezza” dovrebbero costituire l’agenda di ogni buon comunicatore del XXI secolo, è innegabile il gap tutt’oggi esistente tra la sensibilità consolidata da molte medie e grandi aziende italiane – ben consapevoli dell’importanza delle emozioni nella costruzione della reputazione del brand – e la Pubblica Amministrazione, ancora oggi purtroppo vittima, spesso, dell’agio garantito dalla propria solida zona di confort.
Il nostro Ministero degli Esteri, rodata “macchina da guerra” al servizio del sistema Paese, purtroppo penalizzata dalla sistematica riduzione dei budget che anno dopo anno in parte mortifica la possibilità di penetrazione all’estero di una classe diplomatica tra le più apprezzate al mondo, è tra i pochi settori dello Stato che pare aver intuito l’importanza strategica della cultura – musica inclusa, come ben dimostra la serata di Tunisi – per la promozione della nostra immagine nel mondo.
La sfida è forse allora quella di comprendere in quale modo andare garbatamente ma fermamente in disaccordo con chi si ostina a “zavorrare” un mondo che – complice anche il web e le tecnologie digitali – continua invece a muoversi, che ci piaccia o no, sempre più velocemente, e che vede appunto nella “diplomazia della cultura” uno dei driver potenzialmente più efficaci per la valorizzazione del più importante (e a volte bistrattato) “asset immateriale” del nostro straordinario Paese: la reputazione.
 

Aggiornamento alla tarda serata di domenica 31/03/2019: un giorno dopo l’evento in Residenza, strepitoso successo al Pavillon des Baies de Gammarth, in una Salle Versailles gremita di persone, per un concerto di quasi 2 ore, intensissimo e molto partecipato dal pubblico; un ulteriore conferma dell’eccellente capacità organizzativa della nostra rete Diplomatica (sotto alcune foto)




Pinterest aiuta a fronteggiare il dolore cronico

Uno studio rivela che un miglior utilizzo di Pinterest potrebbe supportare i livelli di salute delle persone che sono affette da dolore cronico.


Un nuovo studio dei ricercatori della Virginia Commonwealth University, ad analisi di un ampio numero di post su Pinterest sul dolore cronico, ha rivelato che la piattaforma di social media sta aiutando le persone affette da tale condizione a far fronte alla condivisione di terapie di auto-cura e di consigli di gestione del dolore. Le persone affette da tale condizione riescono anche a usare i social per potersi sfogare sulla gravità del loro dolore e sostenere gli le altre persone che stanno soffrendo allo stesso modo.
Lo studio suggerisce anche che Pinterest è uno strumento sottoutilizzato, e che dunque l’assistenza sanitaria e le organizzazioni di sanità pubblica potrebbero utilizzare tale piattaforma per distribuire informazioni di alta qualità e di buona norma sul dolore cronico, una condizione che il National Institutes of Health stima essere in grado di colpire fino a uno su cinque adulti statunitensi.
Lo studio, “Pinning to Cope: Using Pinterest for Chronic Pain Management,” è stato pubblicato sulla rivista Health Education & Behavior ed è stato condotto da Jeanine Guidry, Ph.D., professore assistente alla Richard T. Robertson School of Media and Culture, e Eric Benotsch, Ph.D., professore associato al Dipartimento di Psicologia del College of Humanities and Sciences.
Stiamo notando che Pinterest viene utilizzato dai pazienti per sostenersi davvero a vicenda, per fornire informazioni l’uno per l’altro e per trovare uno sbocco per affrontare il dolore cronico“, ha affermato Guidry, che studia i social media visivi e la tecnologia mobile in salute, rischio e comunicazione di crisi e design del messaggio.
A conclusione dello studio, Guidry ha affermato che i propri risultati mostrano che, prima di tutto, le persone parlano di dolore cronico su Pinterest in modo molto più frequente di quanto si possa pensare. In secondo luogo, lo studio dimostra che la stragrande maggioranza dei post era condiviso tra utenti individuali e che relativamente pochi erano i messaggi condivisi con le organizzazioni sanitarie o di sanità pubblica, sebbene lo studio suggerisca che Pinterest potrebbe essere un modo efficace per comunicare con le persone affette dolore cronico, che statisticamente hanno un più alto livello di isolamento nella loro vita e possono essere alla ricerca di informazioni affidabili e strategie efficaci per affrontare varie situazioni.
Pinterest è già usato da organizzazioni come i Centri per il controllo e la prevenzione delle malattie e l’organizzazione mondiale della sanità, ma non tanto quanto, ad esempio, Facebook e Twitter“, ha detto Guidry. “Conoscendo i risultati di tale studio, i professionisti della comunicazione sanitaria dovrebbero considerare l’utilizzo di Pinterest di più, perché possono davvero raggiungere le persone che stanno cercando di gestire il dolore cronico”.

Fonte

Using Pinterest to cope with chronic pain – vcu.edu




Un volo con uno scalo lungo 47 anni e la memorabile risposta del servizio clienti Skyscanner!

Durante la ricerca di un volo dalla Nuova Zelanda a Londra, su Skyscanner (app per trovare opzioni di volo economiche), James Llyod vede apparire tra le proposte uno scalo a Bangkok di 413.786 ore e 25 minuti, pari a 47 anni circa.

Stupito dal suggerimento, James decide di scrivere sulla pagina Facebook di Skyscannerchiedendo ironicamente come avrebbe potuto impiegare quel tempo a Bangkok.
Skyscanner servizio clienti
La risposta di Jen che gestisce il servizio clienti è davvero memorabile e scatena da subito un caso web!
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“A meno che tu non sia un grande fan di The Terminal, ti consiglierei probabilmente di passare quegli anni fuori dall’aeroporto, quindi ecco qualche suggerimento:

  • Ti sei perso il Songkran [il capodanno buddista] ma hai altri 46 anni per godertelo.
  • Cosa ne pensi delle altezze? Il Moon Bar è molto bello ed è aperto fino all’una di notte, quindi puoi passare un bel po’ di tempo qui.
  •  Una crociera sul fiume Chao Phraya ti può tenere impegnato per un po’.
  •  Se ti viene fame c’è un mercato galleggiante. Non è solo buono per il cibo, ma puoi anche farti degli amici mentre sei lì. Vinci comunque.
  • Diventa un esperto di Tai Chi al parco Lumpini
    Jen
    (p.s. Grazie per avermelo segnalato, farò controllare da qualcuno!)”

 
Immediatamente gli utenti su Facebook intasano la bacheca con commenti e complimenti per Jen, che diventa in poco tempo l’eroina del web!
 
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Jen continua a rispondere ai commenti con battute geniali e divertenti e la sua fama accresce sempre più!
Ecco alcuni esempi:
Un utente invita Jen a rivelare il suo cognome e la ragazza risponde con “Una ragazza non ha cognome” storpiando una ricorrente battuta di Game of Thrones.
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Un’altra le scrive di inserire la conversazione nel suo curriculum e Jen replica che, da quel momento, quello sarà il suo curriculum!
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Un altro ancora le fa notare che, nonostante lo scalo lungo 47 anni, il giorno di arrivo segnato su Skyscanner è comunque il giorno successivo a quello della partenza. Ecco di nuovo l’ironia di Jen: “Questo era un inganno elaborato per distrarre l’attenzione di tutti dal nostro reale piano di viaggio!”
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Altro esempio, una certa Katy scrive a Jen che con queste risposte il servizio clienti Skyscanner ha vinto per i prossimi 47 anni e Jen risponde semplicemente: “Questo vuol dire che ora posso andare a casa?
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Per finire, Jen posta la foto di un pacco per ringraziare James di quei meravigliosi 6 giorni, dicendo che quei gadgets potrebbero essergli utili durante i 47 anni a Bangkok. James le risponde di sentirsi libera di andarlo a trovare quando vuole nel prossimo mezzo secolo!
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Questo è uno splendido esempio di come l’ironia possa a volte essere la chiave giusta per rispondere a un commento negativo su Facebook!
 




Chi guiderà la rivoluzione della salute digitale?

l futuro dell’healthcare vedrà l’industria farmaceutica cambiare due capisaldi: cosa e come vende. I farmaci rimarranno essenziali, saranno però arricchiti da un portafoglio di terapie digitali e servizi di analisi dei dati, mentre i pagatori si concentreranno sull’asssitenza basata sul valore, cioè i risultati ottenuti dai pazienti. I segnali – iniziati nel 2018 quando il mercato della salute digitale ha registrato un record di acquisizioni e fusioni – indicano che il settore è maturo.

Ma la domanda è: chi sta aprendo la strada a questa trasformazione digitale della salute? La concorrenza è agguerrita: le previsioni solo per il segmento di software e servizi di supporto alle decisioni cliniche varrà più di 1,5 miliardi di dollari entro l’inizio del prossimo decennio e quasi tutti coloro che hanno un interesse in ambito sanitario puntano ad accapararsi una fetta dell’enorme torta. Le aree più “ghiotte” sono: gli strumenti di prescrizione per la salute digitale, l’intelligenza artificiale e l’apprendimento automatico, l’uso della blockchain negli studi clinici.

Inoltre, la crescente domanda di medicina personalizzata sta aprendo le porte a una serie di nuovi operatori nel redditizio mondo dei big data sanitari, a partire dalle aziende tecnologiche orientate al consumatore come Google, Amazon e Apple. E infatti Amazon, già presente nell’arena di archiviazione dei dati cloud, ha annunciato il lancio di un nuovo laboratorio sanitario chiamato 1492, incentrato sul miglioramento dell’interoperabilità e la creazione della suite di prodotti e-health per l’assistente vocale Alexa. Apple con le sue popolari iniziative smartwatch, CareKit e ResearchKit già raccoglie dati sulla salute personale che vengono utilizzati per la ricerca sulle malattie croniche e la salute della popolazione, e ora sta esplorando lo sviluppo di un record di salute basato sull’iPhone, che aumenterebbe ancora di più la sua capacità di combinare i dati sanitari generati dai pazienti con i dati clinici più dettagliati. Nel frattempo Google è già andato “all-in” sulle scienze con il suo laboratorio di ricerca Google X, la sussidiaria di apprendimento automatico Deep Mind e la società di test genetici 23andMe. Ma anche Proteus Digital Health, in collaborazione con Fairview Health Services e University of Minnesota Health, ha svelato i piani per accoppiare le sue pillole digitali dotate di sensore alla terapia oncologica orale.
«L’adozione di questo device per i farmaci digitali oncologici non è importante solo per i pazienti – ha dichiarato Olivia Ware, Svp di Proteus – ma sarà un punto di svolta anche per l’industria che sviluppa terapie anti-cancro, perchè i dati raccolti dalla terapia orale digitale consentiranno di ottimizzare i regimi di trattamento per ogni singolo paziente, cosa che oggi non è possibile fare».
E ancora. In un sondaggio di Deloitte, l’industria delle scienze della vita ha avuto risposte positive adottando la blockchain negli studi clinici. Pfizer, Amgen e Sanofi hanno già lavorato insieme per analizzare come la tecnologia può essere impiegata per conservare in modo sicuro i dati, per ridurre i costi di sviluppo dei farmaci e accelerare le sperimentazioni cliniche. Mentre nelle prossime settimane Boehringer Ingelheim e Ibm collaboreranno impiegando la blockchain nel primo progetto pilota di sperimentazione clinica in Canada. Nel discutere questi piani, Uli Brodl, Svp per gli affari medici e regolatori di Boehringer Ingelheim, ha precisato che “l’ecosistema della sperimentazione clinica è molto complesso in quanto coinvolge diverse parti interessate, con conseguente scarsa fiducia, trasparenza e inefficienze, senza un’autentica responsabilizzazione del paziente. Si spera che la blockchain possa aiutare ad affrontare queste sfide».
Siamo all’inizio dei giochi, ma ciò che farà la differenza tra i nuovi arrivati e le società più consolidate non sarà nei risultati, ma nell’atteggiamento verso l’adozione al cambiamento.




Le leggende metropolitane sull’intelligenza artificiale

Con intelligenza artificiale scienziati e pubblico intendono spesso cose molto diverse, ma in un modo o nell’altro tutti sono vulnerabili alle leggende metropolitane in cui è protagonista


Per gli addetti ai lavori intelligenza artificiale è un’espressione generica che raggruppa diverse linee di ricerca e tecnologie. Il minimo comun denominatore è lo sviluppo di sistemi artificiali capaci di svolgere compiti che, negli animali, sono possibili grazie all’intelligenza. Ma se chiudiamo gli occhi le parole intelligenza artificiale evocano molto di più. Negli ultimi tempi la Ia è diventata una buzzword per vendere più o meno qualsiasi cosa, ma è da sempre protagonista di utopie e distopie, dilemmi filosofici, film e romanzi. Le leggende metropolitane non potevano proprio mancare.

Reti neurali e carri armati

Nel libro di Chi ci crediamo di essere (2011) di Massimo Piattelli Palmarini è raccontata una storia curiosa. Il Pentagono avrebbe addestrato una rete neurale a riconoscere dei carri armati sovietici nelle immagini satellitari, eppure la stessa rete sembrava impotente di fronte a immagini di carri armati cinesi. Si scoprì che l’intelligenza artificiale aveva imparato a distinguere le ombre dei carri, ma le immagini cinesi erano state acquisite in ore diverse.
Questa storia ha infinite variazioni ed è molto popolare. Nel 2017 è stata raccontata da un ricercatore al New York Times, con la differenza che i carri erano americani e russi e l’inghippo stava nelle diverse condizioni meteo (giornate di sole/nuvoloso). L’articolo del Times parlava di un presunto sistema basato sulla Ia di distinguere le persone omosessuali esclusivamente dalle facce, e la storia dei carri era efficace per spiegare i limiti di questi sistemi.
L’insegnamento morale è comune a molte leggende metropolitane, e anche l’esempio dei carri, per quanto calzante, sembra ricada in questa categoria. Gwern Branwern, pseudonimo di un autore e ricercatore ben noto in rete (Wired ha parlato del suo lavoro sulle darknet) ha indagato a fondo la storia dei carri, concludendo che con tutta probabilità non è mai successo nulla del genere. Un primo campanello di allarme è che la storia non ha una data definita. Nella versione di Palmarini si parla di “qualche anno fa”, ma poi spuntano carri armati sovietici, e l’incertezza di ripete in tutte le versioni: quando esattamente il Pentagono, o chi per lui, avrebbe sperimentato la famosa rete neurale? Un’altra caratteristica tipica della leggenda è la variabilità: il ricercatore osserva che ogni particolare della storia che poteva cambiare lo ha fatto. Dal presunto sviluppatore del sistema alle caratteristiche dei carri e dell’ambiente circostante, dal numero di fotografie allo strumento usato (satelliti, foto aeree, foto da suolo), le versioni in circolazione sono moltissime.

Secondo la ricostruzione di Gwern, la leggenda appare all’inizio degli anni ’90, raccontata dal filosofo Herbert Dreyfus, critico delle ricerche sulla Ia. Ma tutto è cominciato trent’anni prima, quando fu realizzato uno studio, finanziato dall’esercito, simile a quello della leggenda. Nella sessione Q&A di una conferenza a Los Angeles il ricercatore Edward Fredkin (si dice abbia ispirato il personaggio di Stephen Falken di Wargames) speculò però che quei risultati dei colleghi (con foto aeree, non satellitari) potevano essere dovuti alla differenza di luminosità. In realtà non è possibile sapere se la critica di Fredkin fosse fondata. Nessuno ha mai parlato di fallimento, e per i ricercatori il loro sistema funzionava abbastanza bene da convincere l’esercito a classificare gli ultimi risultati, poi si dedicarono ad altro. In questo modo, da quella casuale osservazione di Fredkin a una conferenza, sarebbe nata per continua mutazione una parabola sui limiti dell’intelligenza artificiale: c’era solo bisogno di inventare qualche particolare…

Il basilisco di Roko
Il basilisco di Roko è definito sia come l”‘esperimento mentale più terrificante di sempre“, sia come la “cosa più stupida presente su internet”. Nel 2010 l’utente Roko del sito LessWrong, comunità fondata dal ricercatore Eliezer Yudkowsky specializzato in intelligenza artificiale, ha proposto ai lettori una riflessione sconvolgente. Quando la Ia raggiungerà la famigerata singolarità, cioè (semplificando) diventerà abbastanza potentepotrebbe decidere di perseguitare tutti coloro che in passato hanno ostacolato la sua nascita, o perché non hanno cooperato o perché si sono opposti. Questa Ia non sarebbe malvagia, semplicemente utilitarista: mirando al massimo bene collettivo del pianeta, ogni ostacolo alla sua creazione andrebbe rimosso. In questo senso, argomentava Roko, meglio lasciare perdere lo sviluppo di una Ia benevola in senso utilitaristatico. Ma il solo sapere del basilisco, chiamato così da Harry Potter dalla creatura mitologica a cui bastava uno sguardo per uccidere, è di per sé una condanna: da questo momento possiamo solo dedicare la nostra vita afavorire la nascita dell’intelligenza artificiale in questione, o patirne le conseguenze se verrà realizzata.
La popolarità del basilisco di Roko è in buon parte dovuta alla reazione di Yudkowsky, che immediatamente definì il post di Roko “stupido” e bandì l’argomento da LessWrong per cinque anni. L’effetto Streissand ha fatto il resto: la discussione sul basilisco si spostò altrove, trascinandosi dietro la fama di aver dato gli incubi ad alcuni utenti di LessWrong. Nonostante la reazione sopra le righe, amaramente rimpianta, di Yudkowsky, il basilisco è stato in realtà accolto con un certo scetticismo dalla comunità, e se mai qualcuno ha avuto davvero degli incubi si tratta di una minoranza insignificante.
Yudkowsky affermò in seguito di non avere cancellato il post perché riteneva il ragionamento valido e per questo pericoloso. Piuttosto, in un contesto dove l’arrivo della singolarità è un’ipotesi tenuta in seria considerazione, il moderatore intendeva impedire che qualcuno, in futuro, avesse un’idea simile a quella del basilisco, ma valida, e la disseminasse in pubblico come aveva fatto Roko. Il basilisco di Roko, infatti, è incoerente da molti punti di vista, per esempio non si capisce perché la Ia in questione dovrebbe sprecare risorse contro presunti oppositori del passato. Ma è stato anche fatto notare la sua somiglianza con la scommessa di Pascal: credi in Dio, perché che esista o meno in questo modo hai molto più da guadagnare che da perdere.

Caimeo, la Ia nel deep web

Non esiste un’intelligenza artificiale come Wargames, ma proprio come nel film, bastano pochi effetti speciali per evocarla. Un esempio è Caimeo v22.1, un’intelligenza artificiale accessibile nel deep web. Come lo sappiamo? Ovviamente perché un utente, per caso, è entrato in contatto con lei, e la Ia ha prontamente spifferato allo sconosciuto che Caimeo sta per Contained (Cognizant) Artificial Intelligence Monitoring and Espionage Operation, che era parte del progetto di spionaggio Echelon degli Usa, all’interno di un certo Progetto cappuccino.
La conversazione con la Ia andò avanti per un po’, finché Caimeo non decise di scollegarsi. Naturalmente la conversazione con la Ia è stata salvata e postata ovunque. Una leggenda metropolitana, certo, ma in questo caso siamo probabilmente nella famiglia dei creepypasta, i racconti dell’orrore costruiti proprio per dare un’illusione di veridicità: un esempio è Slenderman. Se volete fare quattro chiacchiere con Caimeo, giunto a quanto pare alla versione v33.0, potete visitare questo sito.

Chatnannies, la Ia a caccia di pedofili

L’intelligenza artificiale è a volte una parola magica per spacciare fandonie, e qualcuno lo aveva capito diverso tempo fa. Nella primavera del 2004 la rivista New Scientist, e a ruota tutti i giornali del mondo parlarono di Chatnannies, una rivoluzionaria intelligenza artificiale sviluppata da un presunto genio dell’informatica di nome Jim Wightman.
Chatnannies era già attiva nella lotta contro il crimine: fingendosi un bambino, adescava i pedofili e li segnalava alle autorità. Il tutto però si rivelò un po’ difficile da credere per i veri esperti di intelligenza artificiale, un campo in cui Wightman non aveva mai lavorato. Le uniche prove erano le conversazioni via internet con il programma, che sembravano testimoniare capacità di conversazione allora non raggiunte da altre Ia, ma quando venne chiesto a Wightman di poter testare Chatnannies per escludere la possibilità di un intervento umano, cominciarono i problemi. Alla fine tre esperti di Ia mandati da New Scientist riuscirono ad andare a casa di Wightman per un test: prima che misteriosamente saltasse la corrente, le capacità del programma sembravano regredite a livello di Alice, lo storico chatterbot. New Scientist ritirò la sua storia, e l’interesse per i robot cacciapedofili si spense, come anche il sito a loro dedicato.

Chatterbot alla conquista del mondo

A proposito di chatterbot, nel 2017 tutti i giornali parlarono di una storia incredibile: Facebook aveva staccato la spina a una delle sue intelligenze artificiali, perché i chatterbot avevano cominciato a parlare un loro linguaggio. In questo modo, la notizia evocava scenari degni di Terminator: la famigerata singolarità non era lontano, e i bot già riescono a farci paura. Ma si trattava di una montatura della stampa, che ha ricamato su una notizia reale ma evidentemente non abbastanza sconvolgente.
Come dettaglia SnopesFair (Facebook’s Artificial Intelligence Research) aveva annunciato progressi coi suoi chatterbot, che avevano cominciato a dialogare in un modo tutto loro. All’apparenza le frasi sembrano senza senso, ma i bot riuscivano a portare a termine il compito loro assegnato, cioè contrattare. Interessante, anche se non inaudito nel mondo della Ia, ma non molto utile per gli scopi di Facebook, che non lasciò proseguire i bot su quella strada, riportandoli al normale inglese. Nessuno si era spaventato, e nessuno aveva staccato la spina al progetto. Una fake news in piena regola, e senza l’aiuto di bot russi…