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Economia circolare: facciamo il punto

Pubblicato il documento del Ministero dell’Ambiente dopo la consultazione pubblica alla quale ha partecipato anche Prioritalia con Piera Magnatti, che abbiamo intervistato


Un ripensamento delle strategie di mercato che consenta di salvaguardare le risorse naturali e la competitività dei settori industriali. Quello che l’economia circolare comporta è nientemeno che un cambiamento radicale di mentalità e priorità. Senza scuse né scorciatoie: la circular economy è una necessità, che necessita a sua volta di essere regolamentata e misurata.
In Italia i primi passi sono stati la pubblicazione, nel novembre del 2017, del documento “Verso un modello di economia circolare per l’Italia” a opera del Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare (Mattm) insieme al Ministero dello Sviluppo Economico (Mise).
Successivamente – con l’obiettivo di dare strumenti attuativi al modello adottato e renderlo quanto più funzionale possibile al sistema Italia – la direzione generale per i rifiuti e l’inquinamento del Ministero dell’Ambiente ha redatto – il documento “Economia circolare e uso efficiente delle risorse – indicatori per la misurazione dell’economia circolare” su cui è stata avviata una consultazione pubblica aperta a privati cittadini, imprese, organizzazioni e stakeholder. Tra i soggetti aderenti (pubblici e privati) si è attivata anche Prioritalia, che ha come terza area di intervento “Economia circolare ed educazione alla sostenibilità dello sviluppo”, compilando on line il questionario predisposto dal Ministero.
L’azione terminata il 1° ottobre 2018 ha visto la partecipazione di 87 soggetti, di cui 67 in rappresentanza dell’organizzazione per cui lavorano e 20 come privati cittadini. Per Prioritalia, il veicolo per portare il contributo dei manager nella società costituito in Fondazione da Cida e Manageritalia, ha partecipato Piera Magnatti, già direttore generale di Nomisma ed esperta in campo economico della Commissione europea, membro del Consiglio direttivo di Manageritalia Emilia Romagna.
Il Ministero dell’Ambiente ha pubblicato nei giorni scorsi la versione integrata del documento “Economia circolare ed uso efficiente delle risorse – indicatori per la misurazione dell’economia circolare” valorizzando i contributi frutto della consultazione pubblica.
Abbiamo chiesto a Piera Magnatti di raccontarci il ruolo di Prioritalia, lo stato dell’arte circa l’economia circolare e i prossimi passi.
Cosa intendiamo per economia circolare e come ci tocca come cittadini e soggetti economici?
Vi sono numerose modalità per definire l’economia circolare; secondo quella che preferisco per chiarezza e capacità di visione “l’economia circolare è un’economia in cui i prodotti di oggi sono le risorse di domani”.
Si può proseguire dicendo che è l’economia in cui si tende a mantenere il valore dei materiali e in cui c’è una minimizzazione degli scarti e della pressione sull’ambiente.
L’impatto su noi cittadini e/o soggetti economici è enorme poiché la transizione verso un’economia circolare richiede un cambiamento culturale tale da indurre una modifica strutturale e innovativa nei modelli di produzione, distribuzione e consumo.
Quali sono gli obiettivi della consultazione e del documento successivo?
Il percorso intrapreso dal Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare e dal Ministero dello Sviluppo Economico ha previsto due tappe, accompagnate da altrettanti momenti di consultazione.
La prima tappa ha definito un inquadramento generale dell’economia circolare e il posizionamento strategico del Paese sul tema. Il cambiamento implicito nella transizione verso l’economia circolare richiede, infatti, interventi strutturali per salvaguardare la competitività dei settori industriali e, nello stesso tempo, il patrimonio naturale. Le leve previste nel Documento comprendono:
• una revisione dell’assetto normativo per creare un contesto di riferimento che sia di concreto 
supporto e di stimolo allo sviluppo dell’economia circolare, anche semplificando i processi;
• l’ottimizzazione della governance ambientale;
• la rimozione degli ostacoli nell’attuazione della normativa stessa.
Avendo quindi individuato nella misurazione della circolarità un requisito essenziale per perseguire azioni trasparenti e concrete, la seconda tappa è consistita nella presentazione di una proposta operativa di monitoraggio della “circolarità” a livello macro (sistema paese), meso (regione, distretto ecc.) e micro (singola impresa, organizzazione, amministrazione).
Nella consultazione e nel documento finale si punta anche ad individuare strumenti economici che – attraverso una riforma fiscale ambientale – incentivino l’adozione di modelli sostenibili e quali?
L’approccio dei nostri Ministeri vuole essere concreto e per questo ha immaginato l’introduzione di strumenti volti a favorire la transizione verso un modello di economia circolare senza interferire con gli obiettivi economici e sociali. Dal lato della domanda si immagina in primo luogo uno spostamento del carico fiscale dal reddito ai consumi, introducendo anche un differenziale di tassazione tra consumi “sostenibili” e “non sostenibili”. Inoltre si ritiene necessario favorire una più ampia diffusione di schemi “pay-as-you-throw”, ovvero paga per quello che butti.
Dal lato della produzione, lo stimolo all’innovazione tecnologica attraverso appropriate leve fiscali è certamente il punto di partenza; ad esso si associa la proposta di trasferire una parte del carico fiscale dal fattore lavoro a quello delle risorse naturali, con un duplice risultato: ridurre l’impatto ambientale e migliorare l’efficienza economica.
Si punta anche a stimolare attività di comunicazione e sensibilizzazione dei cittadini sui nuovi modelli di consumo. Quanto contano e come farle?
Si tratta di un obiettivo difficile ma imprescindibile. Difficile perché la modifica dei comportamenti e delle scelte personali dipende da una grande molteplicità di sensibilità, bisogni, esigenze e desideri, priorità, abitudini, storie personali. Imprescindibile perché l’impatto potenziale di queste misure è elevatissimo.
Sul fronte educativo i policy-maker immaginano un piano integrato denominato “Piano nazionale di educazione e comunicazione ambientale”, declinato anche localmente che, partendo dalle scuole dell’obbligo fino ad arrivare alle famiglie, contribuisca a formare una generazione di cittadini critici, consapevoli e informati. in grado di decidere consapevolmente e incidere con le proprie scelte sui meccanismi economico-produttivi e sociali del paese.
Ma è necessario anche agire sulla comunicazione ambientale per combattere la pubblicità ingannevole,
per promuovere la conoscenza e l’uso dei marchi riconosciuti (ad esempio l’Ecolabel) e incentivare nuove modalità di consumo: riparare anziché buttare, condividere piuttosto che possedere.
Parlando di circolarità nel documento si parla anche di obiettivi e di come misurarli?
Sì: nel secondo documento “Indicatori per la misurazione dell’economia circolare” il Tavolo di Lavoro tecnico coordinato dal Ministero dell’Ambiente dal Ministero dello Sviluppo Economico, con il supporto tecnico-scientifico dell’Enea, ha individuato una serie indicatori di misurazione e monitoraggio nell’ottica di perseguire azioni concrete e raggiungere risultati quantificabili.
L’obiettivo finale è tendere a un nuovo modello economico che sia contemporaneamente efficiente, sostenibile e soprattutto trasparente per il mercato e per il consumatore. Quanto siamo lontani?
È questa la sfida: costruire un modello economico che coniughi efficienza, sostenibilità e trasparenza. In Italia non mancano imprese eccellenti in tal senso, e il rapporto ne cita alcune. La difficoltà, la sfida vera, è indurre modifiche realmente strutturali nei modi di produrre, distribuire e consumare. La strada è a mio parere ancora lunga.
Quale è stato il suo ruolo e dal suo impegno volontario cosa s’è portata a casa?
Ho rappresentato Prioritalia nell’ambito della consultazione pubblica che il Ministero dell’Ambiente ha promosso con imprese, organizzazioni e istituzioni al fine di consolidare i documenti sotto il profilo operativo e applicativo e renderli quanto più funzionali al sistema Italia.
Ho portato a casa informazioni qualificate su una nuova e concreta prospettiva per il Paese. Mi occupo da sempre di economia industriale, considero questa sfida come un’opportunità importante per le imprese italiane. Ho portato a casa la volontà di dare una mano affinché il disegno strategico si trasformi in valore per il Paese.
Per far muovere l’economia circolare qual è il ruolo dei manager?
Nessuno può stare alla finestra nella prospettiva delineata per il nostro Paese, tanto meno le imprese e i loro manager. Il passaggio più complesso che ogni manager dovrà gestire – in particolare culturalmente – è il superamento dell’apparente trade-off tra risultati economici e sostenibilità ambientale. I manager dovranno essere pronti a mettere in discussione i modelli di business sino ad oggi perseguiti e a confrontarsi con nuovi modelli d’impresa.
E quello dei cittadini?
I cittadini devono impegnarsi a compiere scelte consapevoli nella direzione del riuso e di abitudini non inquinanti. In quanto consumatori, possono svolgere un ruolo importante privilegiando prodotti e servizi di imprese virtuose in campo ambientale.
Quindi Prioritalia diventa un attore importante per arrivare davvero a un’economia circolare efficace ed efficiente e come?
Prioritalia può svolgere un ruolo chiave all’interno del quadro delineato, come prevede la sua mission, in cui si evidenzia come le competenze manageriali debbano dare un contributo fattivo per lo sviluppo dell’economia circolare e dell’educazione alla sostenibilità. Come? Con iniziative per l’informazione, l’aggiornamento e la condivisione di esperienze e buone prassi, con la diffusione delle opportunità legate all’economia circolare, con l’attivazione di dinamiche di knowledge-sharing. Ma anche attraverso la promozione di progetti di innovazione sociale e ambientale che si traducano in azioni concrete sul territorio e diventino modelli virtuosi da replicare.
I risultati completi della consultazione sono illustrati nel Resoconto della consultazione pubblica del documento “Economia circolare ed uso efficiente delle risorse. Indicatori per la misurazione dell’economia circolare” e sono stati utilizzati per implementare il documento del Mattm disponibile, nella sua versione consolidata, a questo link.




Perché Matteo Salvini ha cambiato idea su Mahmood

Perché Matteo Salvini ha cambiato idea su Mahmood

Matteo Salvini ha cambiato rotta su Mahmood dopo un’iniziale presa di distanza dal ragazzo milanese vincitore dell’ultima edizione del festival di Sanremo. Il Ministro aveva scritto un post in favore di Mahmood ma un sentiment negativo probabilmente gli ha consigliato di fare retromarcia. Ecco alcuni dati che dimostrano come il post di Salvini non era stato accolto benissimo.
In linea con quella che è la sua politica social, all’una e mezza di domenica 10 febbraio il Ministro degli Interni Matteo Salvini era davanti alla tv come altri 10 milioni di italiani per guardare l’esito del Festival di Sanremo e, appena proclamata la vittoria di Mahmood che ha avuto la meglio su Ultimo e su Il Volo, ha voluto dire la sua: “Mahmood…………… mah………… La canzone italiana più bella?!? Io avrei scelto Ultimo, voi che dite??” ha buttato lì in attesa di capire come avrebbe risposto il suo pubblico. Ovviamente nelle ore successive si sarebbe scatenato un filone parallelo a quello musicale che avrebbe tirato in ballo le origini egiziane del cantante milanese, una brace che lo stesso post salviniano – con quella “canzone italiana” (c’erano canzoni straniere in gara?) – aveva in qualche modo alimentato.

Il cambio di rotta su Mahmood

Il post raccoglie in pochissimo tempo decine di migliaia di like, commenti e condivisioni (ad oggi ha oltre 100 mila like), ma nonostante ciò, poche ore dopo il Vicepremier ha scelto di fare marcia indietro e in un’intervista a La Stampa ritratta un po’ quanto scritto, ammette di aver chiamato Mahmood ma soprattutto rimbrotta chi aveva posto l’accento sulle origini del cantante: “È un ragazzo italiano che suo malgrado è stato eletto a simbolo dell’integrazione – spiega – ma lui non si deve integrare, è nato a Milano. Lo hanno messo al centro di una storia che non gli appartiene (…) Che questo ragazzo, per il quale mi sono sentito in torto tanto da chiamarlo, sia stato usato dalla sinistra, ci sta. Chi mi conosce potrebbe osservare un rispettoso silenzio” dice al quotidiano torinese, prima di attaccare anche lui a testa bassa i giornalisti e la Giuria d’onore – spostando l’attenzione con quel filone un po’ “gentista”, lanciato da Ultimo in una surreale conferenza stampa post festival -: “Una giuria senza senso, mancava solo mio cugino e sarebbe stata completa. Come se mi chiamassero ad attribuire il Leone d’Oro. Sanremo deciso da un salotto radical chic” ha dichiarato facendo anche riferimento a un fantomatico 90% di perplessi.

Un sentiment negativo per il post di Salvini

Numeri tirati un po’ a caso. Strano per chi pare che tenga molto in considerazione quelli delle interazioni dai propri social che gli permettono di testare, in proporzione, il sentiment – ovvero lo stato d’animo degli utenti – nei confronti di un problema. La retromarcia fatta su Mahmood, spostando l’attenzione dal cantante ai giornalisti e al “salotto radical chic”, ovviamente non è casuale. Avevamo notato un po’ di commenti negativi nei confronti di Salvini, così abbiamo chiesto a Pier Luca Santoro, consulente di marketing e comunicazione e project manager di DataMediaHub, quale fossero state le reazioni a quel post e se queste fossero sufficienti a spiegare il cambiamento di rotta: “Al momento dell’analisi il post di Salvini su Facebook relativo a Mahmood aveva poco meno di 83mila like, ma ha anche circa 7.500 reaction di rabbia e più o meno altrettante di ilarità. Se questo è già un primo indicatore del sentiment, analizzando le condivisioni si vede come il sentiment di queste sia prevalentemente negativo e/o neutrale. Dunque le condivisioni, neutrali o contrarie, hanno generato l’arrivo sulla fanpage di Salvini di persone che non sono suoi fan, anzi, come si vede nel grafico”:


L’analisi sulle parole

Santoro continua spiegando che: “Costoro, i non fan, oltre alle reaction di rabbia e/o ilarità, hanno altrettanto commentato con sfottò o chiaro rimprovero il leader della Lega, come puoi constatare da una semplice osservazione del post. Elemento che si evince anche dall’analisi del sentiment dove “vinto Mahmood”, “egiziano”, “immigrato”, sono in verde [dunque sentiment positivo] perché citati positivamente, appunto, in scherno o in risposta al post di Salvini, come dimostra quest’altro grafico:


Un cambio di rotta in linea con le idee del Ministro

Ma in che modo è possibile poter cambiare in corsa un parere in questo modo, senza perdere credibilità tra i propri fan? Molto semplice: questo cambio di rotta avviene in coerenza con quella che è la sua linea in tema di immigrazione. La battaglia di Salvini, infatti, è sempre stata mirata non tanto alle seconde generazioni, ma agli immigrati irregolari, ai “barconi” insomma. Per questo motivo il suo cambio non viene visto dalla sua fanbase come un tradimento di un qualche ideale, ma accettato come uno spostamento che rientra nei parametri politici e comunicativi del Ministro.
 




La signora della gentilezza: «La insegno nelle aziende»

La signora della gentilezza: «La insegno nelle aziende»

Cristina, ex consulente: non è solo questione di etichetta, può aumentare la produttività

«Molti pensano che la gentilezza sia cortesia, dire buongiorno o buonasera, ma è molto di più: è una forma di cura e attenzione agli altri che richiede anche molto impegno. E che però aiuta a vivere meglio». Cristina Milani, 50 anni, svizzera originaria del Canton Grigioni, per vent’anni è stata consulente nel mondo della comunicazione, con un lavoro che la portava da New York e Singapore. Oggi ha votato la sua vita alla gentilezza («Per me è una droga» dice con un sorriso): la insegna nelle scuole e nelle aziende, guida la Onlus elvetica Gentletude che si propone di diffondere questo atteggiamento come stile di vita ed è vicepresidente del «World Kindness Movement» che ieri ha celebrato la Giornata Mondiale della Gentilezza.

Le lezioni

«Portiamo le nostre lezioni anche nei luoghi di lavoro, perché la gentilezza, oltre a migliorare la qualità del tempo passato in azienda, rende le interazioni più efficaci — spiega —. Essere gentili aumenta la produzione di serotonina, l’ormone della felicità, quindi facilita i contatti sociali e aumenta la collaborazione».
«Io insegno soprattutto metodi per gestire le proprie emozioni. Essere gentili significa essere attenti agli altri, e questo è possibile solo se si è in contatto con se stessi. Tutti noi abbiamo un fardello che ci portiamo dietro ed è quello che ci può rendere scortesi con gli altri» aggiunge.
Non a caso il primo principio del manifesto della gentilezza è «vivere bene insieme: ascoltare ed essere pazienti». Subito dopo c’è l’abc della cortesia «essere aperti verso tutti: salutare, ringraziare e sorridere» e poi «lasciare scivolare via le sgarberie e abbandonare l’aggressività».

Scelta di vita

Cristina Milani li ha adottato anni fa. «Ogni volta che tornavo da un viaggio, dopo tutti quegli incontri con sconosciuti, vedevo gli amici e finivamo sempre a lamentarci della stessa cosa: il menefreghismo generale, la freddezza dei rapporti. A un certo punto abbiamo deciso che dovevamo provare a fare qualcosa, nel nostro piccolo», racconta.
«Da quando sono gentile anche gli altri sono semper gentili con me — assicura —. Trovo sempre qualcuno che mi dà un dono inaspettato: un gesto, una parola». Non è un atteggiamento che si limita ai rapporti con il prossimo umano: «Ma una necessità che riguarda tutti gli aspetti del nostro stare al mondo: dal rispetto per il pianeta in cui viviamo a quello per gli animali».
Ieri Gentletude ha festeggiato la Giornata mondiale della gentilezza a Milano, con un canto terapeutico. «Ma ognuno può portarne un po’ nel mondo: bastano un abbraccio o un saluto. Poi si sta meglio»




L’esportazione del modello mediatico cinese

L’esportazione del modello mediatico cinese

Il problema della manipolazione è insito nel concetto stesso di comunicazione. Ad ogni atto comunicativo, anche il più semplice, viene sempre applicato il filtro dell’interpretazione del mittente, a cui si aggiungono l’influenza che il mezzo utilizzato ha nella vita delle persone (l’impatto emotivo della comunicazione orale sarà sempre diverso da quello di una comunicazione scritta, così come da quello dell’immagine) e la predisposizione, psicologica ma anche linguistica, di uno specifico destinatario nei confronti del messaggio.

Queste variabili comportano una generale e ricorrente ambiguità nello scambio comunicativo. Non esiste infatti una notizia che non sia, anche inconsciamente, modellata e interpretata secondo specifici criteri.
Durante tutto il secolo scorso, con la nascita, lo sviluppo e l’affermazione dei mezzi di comunicazione di massa, il processo comunicativo è stato sempre più finalizzato alla trasformazione della pubblica opinione in clientela (per quanto riguarda la pubblicità commerciale) o in elettorato (per quanto riguarda la propaganda politica). La manipolazione dell’informazione è anche il primo strumento utilizzato dai regimi totalitari, o tendenti al totalitarismo, per la creazione del consenso.
Un esempio di manipolazione dell’informazione applicata scrupolosamente è la Cina. Dopo decenni di ambiguità e contraddizioni nel campo dei diritti umani, una direttiva del 2015 ha imposto la creazione di nuovi istituti di ricerca per la lotta al pensiero occidentale, mentre il ministero dell’istruzione annunciava la messa al bando dei libri di testo che promuovevano i valori dell’occidente. Il governo cinese si sta inoltre rivelando eccezionalmente incline allo sfruttamento delle nuove tecnologie per il controllo della popolazione e nell’ultimo rapporto sulla libertà di stampa stilato da Reporters sans frontières la Cina si è classificata alla posizione 176 sui totali 180 Paesi presi in considerazione. La Repubblica Popolare Cinese conta attualmente più di 50 persone tra giornalisti e blogger nelle sue prigioni, pochi rispetto a tutti coloro i quali sono indotti all’autocensura al fine di evitare pene detentive o economico-finanziarie. Nel caso cinese, tuttavia, la propaganda non si arresta all’interno dei confini nazionali. La Cina, infatti, acquista spazi di propaganda televisiva anche all’estero, in Paesi come Australia e Stati Uniti, e utilizza le università, secondo l’analista australiano John Garnaut, come veri e propri strumenti di propaganda. Solamente lo scorso anno, su richiesta del governo cinese, la Cambridge University Press ha momentaneamente cancellato 315 articoli dalla rivista China Quarterly. La decisione, nonostante sia stata presto annullata a causa della minaccia di un boicottaggio accademico, è sintomo di come una potenza economica possa potenzialmente manipolare i mezzi di informazione anche in Paesi considerati al di fuori della sua diretta sfera di influenza.
Oltre a tentare l’attuazione di operazioni di censura in accordo con Paesi occidentali come la Gran Bretagna, la Cina sta lentamente esportando, secondo quanto esposto nel rapporto di Rsf, metodi oppressivi di censura e sorveglianza nella sua sfera di influenza, al fine di creare “un nuovo ordine mediatico internazionale”.
Alla Cina si sta sempre più allineando la vicina Cambogia, che nella classifica di Rsf è scesa di 10 posizioni arrivando alla numero 142. La Cambogia riceve benefici dagli scambi di natura economica e finanziaria con il governo di Xi Jinping, mentre l’influenza economica e dunque mediatica statunitense va parallelamente indebolendosi. In vista delle elezioni, dopo l’arresto del principale leader dell’opposizione Kem Sokha, il Cambodia Daily, quotidiano con venticinque anni di attività alle spalle e celebre per le sue inchieste, gravato da ingenti multe, è stato costretto alla chiusura, mentre lo scorso anno l’ultimo quotidiano di opposizione, il Phnom Penh Post, è stato venduto a un investitore della Malesia, Sivakumar Ganapathy, vicino all’attuale premier Hun Sen. Oltre 30 organizzazioni di media indipendenti sono state chiuse.
Il modello cinese, in accordo con Rsf, sta venendo lentamente assimilato anche dai media birmani (il Myanmar è infatti sceso alla posizione 137), tailandesi (140), malesi (145), singaporiani (151). Il Laos (170), in cui già da tempo è applicata la censura sistematica del Lao People’s Revolutionary Party, concede ai media stranieri di stabilire delle sedi in territorio nazionale solo a condizione di essere sottoposti ai controlli degli organi preposti. Solamente l’agenzia di stampa cinese Xinhua e quella vietnamita Nhân Dân hanno acconsentito.
Anche la piccola città-stato di Singapore, che con la Cina continua a intrattenere scambi commerciali, è dotata di una Media Development Authority per il controllo e l’eventuale censura dei prodotti giornalistici. Esistono media formalmente indipendenti, ma costretti all’autocensura dai rischi connessi ai reati di diffamazione o di sedizione. Inoltre, la recente proposta di legge che prevede la possibilità di perquisizione di case e dispositivi elettronici da parte della polizia senza necessità di mandato mette a serio rischio la protezione delle fonti confidenziali.
La manipolazione dell’informazione, dunque, nelle più evidenti forme di censura e sorveglianza, non solo è estremamente diffusa all’interno della Cina, ma sta penetrando sempre più a fondo, sulla base di questo modello, nei Paesi che la circondano, incentivata dai benefici ottenuti dal mantenimento di rapporti amichevoli con quello che è indubbiamente un colosso del mercato e un potente alleato dal punto di vista economico.




“La bestia”, ovvero del come funziona la propaganda di Salvini

“La bestia”, ovvero del come funziona la propaganda di Salvini

Intervista a Alessandro Orlowski, ex hacker e spin doctor digitale, che ci parla della strategia comunicativa della Lega, dell’affaire Cambridge Analytica, del business dei falsi profili twitter, del Gdpr, Facebook e molto altro

Alessandro Orlowski è seduto a un tavolino di un bar di Barcellona. Nato a Parma nel 1967, vive in Spagna da 20 anni. Ex regista di spot e videoclip negli anni ’90 e grande appassionato di informatica, è stato uno dei primi e più influenti hacker italiani. Fin da prima dell’arrivo dei social network, ha lavorato sulle connessioni digitali tra gli individui, per sviluppare campagne virali. Negli anni ha condotto numerose campagne in Rete, come quella per denunciare l’evasione scale del Vaticano o i gruppi estremisti negli Stati Uniti e in Europa. Oggi fa lo spin doctor digitale: ha creato Water on Mars, startup di comunicazione digitale tra le più innovative, e guidato il team social risultato fondamentale per condurre il liberale Kuczynski alla presidenza del Perù. Ci accomodiamo, e cominciamo a parlare con lui di politica nel mondo digitale, per arrivare presto a Matteo Salvini e allo straordinario (e inquietante) lavoro che sta realizzando online.

Alessandro Orlowski: Nato a Parma 50 anni fa, è tra i maggiori esperti
di hacking e comunicazione politica digitale in Italia

Che evoluzione ha avuto negli anni il concetto di “rete social”?
Nasce nei primi anni ’80 con le BBS, le Bulletin Boards System, antesignane dei blog e delle chat. La prima rete sociale, però, è stata Friendster nel 2002, che raggiunse circa 3 milioni di utenti. A seguire l’amatissima (da parte mia) MySpace: narra una leggenda nerd che fu creata in 10 giorni di programmazione. Il primo a usare le reti social per fini elettorali è stato Barack Obama nel 2008.
Oggi in Italia chi è il politico che maneggia meglio questi strumenti?
In tal senso la Lega ha lavorato molto bene, durante l’ultima campagna elettorale. Ha creato un sistema che controlla le reti social di Salvini e analizza quali sono i post e i tweet che ottengono i migliori risultati, e che tipo di persone hanno interagito. In questo modo possono modi care la loro strategia attraverso la propaganda. Un esempio: pubblicano un post su Facebook in cui si parla di immigrazione, e il maggior numero di commenti è “i migranti ci tolgono il lavoro”? Il successivo post rafforzerà questa paura. I dirigenti leghisti hanno chiamato questo software La Bestia.
Quando nasce La Bestia?
Dalle mie informazioni nasce dal team di SistemaIntranet di Mantova, ossia dalla mente di Luca Morisi, socio di maggioranza dell’azienda, e Andrea Paganella. Morisi è lo spin doctor digital della Lega, di fatto il responsabile della comunicazione di Salvini. La Bestia è stata ideata a fine 2014, e finalizzata nel 2016. All’inizio si trattava di un semplice tool di monitoraggio e sentiment. Poi si è raffinato, con l’analisi dei post di Facebook e Twitter e la sinergia con la mailing list.
Come funziona l’analisi dei dati, su cui si basa la strategia?
Diciamo che a livello di dati non buttano via nulla: tutto viene analizzato per stabilire la strategia futura, assieme alla società di sondaggi SWG e a Voices From the Blogs (azienda di Big Data Analysis, ndr). I loro report, su tutti quelli del professore Enzo Risso, sono analizzati attentamente dal team della Lega, composto da Iva Garibaldi, Alessandro Panza, Giancarlo Giorgetti, Alessio Colzani, Armando Siri e altri.
La Bestia differenzia il suo operato a seconda dei social, per rendere immutata l’efficacia di Salvini in base allo strumento?
Per chi si occupa di marketing e propaganda online, è normale adattare la comunicazione ai differenti social. Twitter è l’ufficio stampa, e influenza maggiormente i giornalisti. Su Facebook ti puoi permettere un maggiore storytelling. È interessante vedere come, inserendo nelle mailing list i video di Facebook, la Lega crei una sinergia con la base poco attiva sui social: la raggiunge via mail, e aumenta così visualizzazioni e condivisioni.
Operano legalmente?
Camminano su un lo molto sottile. Il problema riguarda la gestione dei dati. Hanno creato, per esempio, un concorso che si chiama “Vinci Salvini” (poche settimane prima del voto, ndr). Ti dovevi registrare al gioco online e quanti più contenuti pubblicavi a tema Lega, maggiori erano le possibilità di incontrare Salvini. È stato un successo. Il problema è che non sappiamo come siano stati gestiti i dati. A chi venivano affidati? A Salvini? Alla Lega? A una società privata?
C’è qualche legame con lo scandalo Cambridge Analytica in questo utilizzo “disinvolto” dei dati personali?
Difficile rispondere. Circolano voci in merito all’apertura di una sede di Cambridge Analytica a Roma poco prima delle elezioni italiane, progetto abortito in seguito allo scandalo che ha coinvolto la società britannica. Un partito italiano, non si sa quale, avrebbe richiesto i suoi servizi. È noto che la Lega volesse parlare con Steve Bannon (figura chiave dell’alt-right americana, fondamentale nell’elezione di Donald Trump, ndr) in quel periodo, incontro poi avvenuto in seguito.
La destra – più o meno estrema – sta vincendo la battaglia della comunicazione digital? 
Si muovono meglio dei partiti tradizionali, che non sono riusciti a evolversi. Lo dimostra Bannon, e pure Salvini, che a 45 anni è un super millennial: ha vissuto il calcio balilla, la televisione, Space Invaders e le reti social.
Vedi analogie tra la strategia social di Donald Trump e quella di Salvini?
Salvini ha sempre guardato con attenzione a Trump. Entrambi fanno la cosa più semplice: trovare un nemico comune. E gli sta funzionando molto bene. Nel nuovo governo si sono suddivisi le responsabilità: al M5S è toccato il lavoro, con la forte macchina propagandistica gestita dalla Casaleggio Associati, alla Lega la sicurezza e l’orgoglio nazionale, gestiti da Morisi e amici.
Sta pagando, non c’è che dire.
La totale disinformazione e frotte di like su post propagandistici e falsi – per esempio l’annuncio della consegna di 12 motovedette alla Guardia costiera libica (a fine giugno, ndr) – portano a quello che si definisce vanity KPI: l’elettore rimane soddisfatto nel condividere post che hanno migliaia di like, e quindi affermano le loro convinzioni. Consiglio la lettura di The Thrill of Political Hating di Arthur Brooks.
Esiste una sorta di meme war all’italiana? 
Le meme war non esistono. Ci possono essere contenuti in forma di meme per denigrare i competitor e inquinare i motori di ricerca. Ricordiamoci anni fa, quando su Google scrivevi il cognome “Berlusconi” e il motore di ricerca ti suggeriva “mafioso”: fu un esempio di manipolazione dell’algoritmo di Google. Lo stesso sta succedendo in questi giorni: se scrivete la parola “idiot” e fate “ricerca immagini”, compaiono solo foto di Trump.
Come è stata finanziata l’attività delle reti social della Lega?
La Lega voleva creare una fondazione solo per ricevere i soldi delle donazioni, al fine di poter tenere in piedi le reti social senza passare per i conti in rosso del partito. Il partito è gravato da debiti e scandali finanziari (a luglio il tribunale di Genova ha confermato la richiesta di confisca di 49 milioni di euro dalle casse del partito, ndr). Le leggi italiane lasciano ampio margine: permettono di ricevere micro- donazioni, senza doverle rendere pubbliche. È una forma completamente legale. In ogni caso, potresti chiederlo direttamente a Luca Morisi (Morisi non ha risposto ai tentativi di contatto da parte di Rolling Stone, ndr)
Hanno ricevuto finanziamenti dall’estero? 
Recentemente l’Espresso ha raccontato che alcune donazioni al partito provengono da associazioni come Italia-Russia e Lombardia- Russia, vicine alla Lega. D’altra parte, sono stati i russi a inventare il concetto di hybrid war. Il generale Gerasimov ha teorizzato che le guerre moderne non si devono combattere con le armi, ma con la propaganda e l’hacking.
Un sistema come La Bestia alimenta la creazione di notizie false?
Non direi che ci sia un rapporto diretto tra le due cose, ma sicuramente c’è un rapporto tra La Bestia e il bias dei post che pubblicano. Come ha spiegato lo psicologo e premio Nobel Daniel Kahneman, di fronte a una notizia online la nostra mente si avvale di metodi di giudizio molto rapidi che, grazie alla soddisfazione che dà trovare conferma nei nostri pregiudizi, spesso porta a risposte sbagliate e illogiche, ossia biased.
Salvini lavora su questo bias?
Lo fa il suo team, e anche quello del M5S: amplificare notizie semi-veritiere, viralizzandole e facendole diventare cultura condivisa, che viene confermata sia dalla fonte considerata carismaticamente onesta e affidabile, sia dal numero di condivisioni che la rendono in quel modo difficilmente contestabile. Vai tu a convincere del contrario 18mila utenti che hanno condiviso un post di dubbia veridicità! Una delle figure chiave delle fake news della Lega è stato e forse ancora è il napoletano Marco Mignogna, che gestiva il sito di Noi con Salvini, oltre a una ventina di portali pro-Salvini, pro-M5S e pro-Putin (nel novembre 2017 si è occupato del caso il NYT, ndr).
Quanto di ciò che hai detto fin qui vale anche per il Movimento 5 Stelle?
Non c’è dubbio che dietro al M5S ci sia una buona azienda di marketing politico. La loro propaganda è più decentralizzata rispetto a quella della Lega, tutta controllata da Morisi. Creano piccole reti, appoggiandosi agli attivisti “grillini” e risparmiando così denaro. Non pagano per rendere virali i post di Grillo o di Di Battista. Anche se oggi, con il M5S al governo, la strategia è in parte cambiata.
Quanto influisce l’attività di trolling sul dibattito politico?
Dipende dal contesto politico e dal Paese, in alcuni casi può essere molto violenta. Per creare account su Twitter esiste un software acquistabile online, che ti permette di generarne mille in tre ore, ognuno con foto e nome distinto. Parliamo di account verificati con un numero di cellulare: c’è un servizio russo che, per 10 centesimi, te ne fornisce uno appositamente. Con 300 o 400 euro puoi crearti in un pomeriggio un migliaio di account Twitter verificati. A quel punto puoi avviare un tweet bombing, cambiando la percezione di una notizia. È semplice e costa poco.
Ci sono conferme sull’esistenza di una rete di troll leghisti?
Non è facile rispondere, perché ci sono diverse tipologie di reti troll, organiche o artificiali. A volte distinguere le due senza tool specializzati è quasi impossibile. Per esempio, le reti di troll formate da persone reali spesso si auto-organizzano, sapendo benissimo che un utente singolo può avere due o più account social sullo stesso network. È normale vedere un utente pro-Lega o pro-M5S gestire anche cinque account con nomi diversi: cento persone in un gruppo segreto di Facebook o su un canale Telegram, con cinque account ciascuno, fanno 500 troll pronti ad attaccare, e scoraggiare utenti standard a un confronto politico.
Esistono quindi reti costruite ad hoc? 
Una di queste botnet è stata smantellata da un gruppo di hacker italiani sei mesi fa: era collegata a una società romana che gestiva una rete di 3mila account Twitter, collegati a un migliaio di account Facebook. Non mi stupirei se un team gestito da Morisi avesse automatizzato e controllasse qualche centinaio o migliaio di account. Qualcosa di simile era già nelle loro mani, con un sistema di tweet automatici su diversi account (documentato da diverse fonti giornalistiche lo scorso gennaio, ndr). L’unica pecca del loro team è la sicurezza informatica, come si è potuto notare dal leak delle informazioni del loro server, avvenuto all’inizio di quest’anno.
Cosa sappiamo sul “gonfiamento” dei numeri social di Salvini?
Abbiamo notato alcune discrepanze, ma in questo momento di grande successo mediatico di Salvini non sono più rilevanti. Abbiamo scoperto alcune botnet di Twitter nate contemporaneamente che, dopo pochi giorni e nello stesso momento, hanno seguito tutte l’account ufficiale di Salvini. La relazione con il suo account era il fatto che supportavano account di estrema destra in Europa, quindi attribuibili a persone vicine a Voice of Europe e gruppi simili, legati a Steve Bannon, come #Altright o #DefendEurope. La pratica di creare fake account è comune: solo pochi giorni fa Twitter ne ha cancellati alcuni milioni.
C’è un modo per riparare simili storture?
C’è poco da fare. In seguito allo scandalo Cambridge Analytica, Facebook ha colpito tutti, impedendo ai ricercatori di studiare questi fenomeni. Le cose non sono cambiate, anzi. Anche a seguito dell’adozione del GDPR (il regolamento sulla protezione dei dati personali, ndr) nei prossimi anni vedremo come si raffineranno le campagne politiche online: sarebbe utile avere leggi che impongano maggior trasparenza su come funzionano le reti social e, naturalmente, maggiore tutela per i cittadini, in particolare per quanto riguarda i propri big data.