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Dopo Ristora anche Menarini toglie la pubblicità a Libero

Dopo Ristora anche Menarini toglie la pubblicità a Libero

L’azienda farmaceutica, in una mail all’europarlamentare Daniele Viotti, dichiara di voler prendere le distanze dal giornale dopo la prima pagina su gay e Pil: «Anche noi profondamente offesi».

Continua la fuga degli inserzionisti dal quotidiano Libero dopo la prima pagina in cui si associa arbitrariamente la crisi economica e la crescita delle persone che si dichiarano gayMenarini, multinazionale del farmaco che nell’edizione del 24 gennaio compare ancora tra gli inserzionisti del quotidiano milanese diretto da Pietro Senaldi e Vittorio Feltri, ha dichiarato in una mail spedita all’europarlamentareDaniele Viotti l’intenzione di dissociarsi da Libero. «Gentile Onorevole Viotti – si legge nella mail – la ringraziamo per la sua email e per la segnalazione in merito al titolo apparso ieri sul quotidiano “Libero”. Anche noi di Menarini ci sentiamo profondamente offesi da quelle parole perché si discostano totalmente dai valori che ci contraddistinguono come azienda. Il nostro gruppo, presente in 136 paesi nel mondo con 17.000 dipendenti, ha sempre tutelato la libertà individuale. Pertanto rifiutiamo categoricamente ogni tipo di discriminazione fondata su etnia, religione, orientamento sessuale, opinione o condizione personale e sociale. Per questi motivi, agiremo di conseguenza».




Sostenibile, hi-tech e personalizzato: packaging a misura di millennials

Strategie. Dall’identità di marca alla pack experience: ecco come l’«abito» dei prodotti parla dei brand
L’abito non fa il monaco, ma il packaging fa il prodotto. Gli esperti di marketing lo chiamano «Packaging Design» e con questa definizione fanno riferimento a un utilizzo strategico del packaging, da parte delle imprese che realizzano e commercializzano determinati prodotti, come strumento di marketing e comunicazione integrato alle azioni di brand identity. «È la quinta leva del marketing mix –, conferma Edoardo Sabbadin, docente di Economia delle imprese e Branding all’Università di Parma –. L’involucro di un prodotto è il primo elemento di contatto con i consumatori quando entrano in un negozio o fanno acquisti online». È uno strumento chiave di differenziazione tra milioni di prodotti, capace di comunicare in modo immediato il posizionamento all’interno di una determinata categoria merceologica.
Oggi più che in passato, soprattutto nel mondo del largo consumo, quel segmento del mercato in cui fattori come prezzo, origine, trasparenza, qualità, eticità o sostenibilità di un prodotto fanno la differenza. Soprattutto tra i Millennials, la chimera a cui tutte le aziende e i retailer oggi guardano, orientando di conseguenza le proprie scelte. I giovani stanno reinventando l’atteggiamento nei confronti del packaging, spiega Paolo Iabichino, esperto di marketing ed executive creative director di Ogilvy. Innanzitutto con il fenomeno dilagante dell’«unboxing», il disimballaggio dei pacchi, in genere ordinati su Internet, ripreso da video e diffuso attraverso i social. «Le aziende sono sempre più attente a fenomeni di questo genere e quindi a creare “pack experience” che siano oggetto sociale e di condivisione», osserva Iabichino. Un altro aspetto a cui sono sensibili i Millennials, e dunque le imprese, è quello della sostenibilità etica e ambientale. Tema connesso a quello delle nuove tecnologie, che offrono spunti creativi e soluzioni produttive fino a pochi anni fa impensabili o troppo costosi.
Le stampanti digitali, ad esempio, permettono oggi di realizzare milioni di scatole, imballaggi o etichette differenti gli uni dagli altri, ottenendo quella massima personalizzazione o customizzazione del packaging che rende unico l’acquisto, rispondendo così, aggiunge Iabichino, a una delle più importanti istanze dei consumatori. «È come se le scatole sugli scaffali dei negozi diventassero dei piccoli televisori, ciascuno capace di raccontare una piccola storia differente», dice il creativo, ricordando un progetto seguito un paio di anni fa dalla sua stessa agenzia, per realizzare 7 milioni di vasetti di Nutella tutti diversi uno dall’altro.
Tra le imprese dell’hi-tech che si stanno attrezzando in questo senso c’è la statunitense Hewlett-Packard. In italia, la Ghelfi Ondulati di Sondrio ha creato una divisione ad hoc, una sorta di start up interna in cui un gruppo di giovani sta studiando modelli innovativi di scatole e packaging. La stessa Ghelfi è protagonista di un progetto che riflette un’altra tendenza con cui devono confrontarsi i packaging designer: la trasparenza. I consumatori chiedono sempre più informazioni sui prodotti e le nuove tecnologie permettono di rispondere a questa istanza coniugandola con funzionalità ed estetica dell’etichetta. Per il Consorzio della ciliegia di Vignola, Ghelfi ha realizzato scatole di cartone dotate di un QR Code, che permettono di tracciare l’intera storia dei frutti.
Le imprese dell’agroalimentare, della cosmesi e più in generale dei prodotti per la cura della persona e della casa, sono quelle più interessate al tema del packaging design e quelle che, perciò, investono di più in questo segmento del marketing. La ragione è evidente, osserva Valeria Bucchetti, docente di Design della comunicazione al Politecnico di Milano: «Il packaging è centrale nella progettazione complessiva dell’immagine di un’azienda – spiega – soprattutto per quei prodotti che senza imballaggio non avrebbero identità, come creme o liquidi, o che hanno bisogno di un contenitore per garantirne la conservazione, la protezione o l’erogazione».
Chi oggi sta investendo molto di più sul packaging design, rispetto al passato, sono le aziende della grande distribuzione organizzata, osserva Fabio Bignardi, direttore dello studio Doc Design. «Le grandi catene hanno capito che devono differenziare riposizionare le linee a marchio proprio, per offrire ai consumatori la stessa segmentazione che da sempre propone l’industria di marca», dice Bignardi. Quindi distinguere, anche visivamente, le linee premium da quelle tradizionali, quelle bio, quelle gourmet ecc. Inoltre, il linguaggio è cambiato, per la marca industriale come per quella commerciale: «La tendenza è parlare di filosofia – osserva Bignardi–. Il packaging deve comunicare non solo le qualità intrinseche del prodotto, ma anche la sua storia: da dove proviene, in quali condizioni lavorano le persone che lo producono, qual è il suo impatto sull’ambiente…».
 

LE STORIE

 

AGROALIMENTARE Le scatole parlanti

L’azienda di Sondrio Ghelfi Ondulati, che produce e trasforma cartone ondulato, ha realizzato per il Consorzio della ciliegia di Vignola un progetto di packaging “parlante”: grazie a una speciale stampante digitale, Ghelfi ha realizzato scatole di cartone dotate di un QR univoco che identifica ciascun contenitore e consente a ciascun produttore di ciliegie di caricare informazioni sull’origine della frutta, le caratteristiche di lavorazione e quelle organolettiche.
 

DISTRIBUZIONE MODERNA Luxury brand per Despar

Una linea di prodotti di lusso ispirata a uno dei supermercati più belli del Paese, il Teatro Italia di Venezia, da due anni sede di un punto vendita Despar. si chiama infatti proprio Despar Teatro Italia la nuova linea di prodotti appena lanciata da Aspiag Service, la concessionaria Despar per il Triveneto e l’Emilia Romagna. Un luxury brand che al momento comprende prodotti di pasticceria fine e due storici aperitivi (il Bellini e il Rossini) declinati in una bottiglia esclusiva.
 

COSMESI Filosofia sostenibile

Davines, azienda della cosmesi di Parma, ha stilato un insieme di principi guida finalizzati a ridurre al minimo l’impatto ambientale delle confezioni. I punti cardine sui quali si basa la messa a punto dei packaging Davines sono un uso minimo possibile di materia prima; l’impiego di materiale riciclabile; l’ottimizzazione della logistica e controlli qualità per evitare gli sprechi; compensazione delle emissioni derivate dalla produzione delle confezioni




Video, post e podcast: i brand allungano i tempi

Digital content. Non solo meme o snack-video: le marche riscoprono il long-form Benvenuti negli anni del racconto espanso, allungato e discorsivo

«Questo pezzo non potrà avere mai successo. Le radio passano solo tracce di tre minuti, qui siamo ad oltre sei. Impensabile lanciare una roba del genere». Mai profezia si rivelò più sbagliata. Correva l’anno 1975 e a parlare con tono perentorio era il manager della EMI Ray Foster. I musicisti autori dell’opera espansa erano i Queen capitanati da quella che sarebbe diventata negli anni una leggenda mondiale del rock, Freddie Mercury. E il pezzo oggetto del contendere era Bohemian Rhapsody. Lo scontro portò addirittura alla rescissione degli accordi contrattuali tra la band e l’etichetta britannica.
L’episodio romanzato – la figura di Ray Foster è interpretata oggi al cinema da un irriconoscibile Mike Myers ed è ispirata al boss dell’EMI Roy Featherstone – è al centro della pellicola diretta da Bryan Singer, in programmazione sul grande schermo in queste giornate prenatalizie. Si chiama proprio Bohemian Rhapsody e narra l’epopea della rock-band londinese e la storia di quel brano lunghissimo trasmesso in radio per primo dal dj Kenny Everett.
Nulla è impossibile, si potrebbe dire. Anche perché la durata nei consumi segue necessariamente l’evoluzione dei linguaggi, dei pubblici, delle piattaforme. Ieri come oggi. Così in rete e sui social si registra un’attenzione al long-form: contenuti testuali e multimediali che si allungano come tempo di lettura, tempo di visione, tempo di ascolto. Perché oggi le piattaforme sono lette, viste, ascoltate da utenti connessi in mobilità.
Potrebbe sembrare un paradosso rispetto alla soglia di attenzione che si abbassa. Ma in realtà il long è la cifra stilistica oggi preferita dai brand nelle loro campagne. E rivive nei blog, nei video, nei testi condivisi sugli schermi degli smartphone. Con buona pace di meme o snack-video. I long-form sono stati anche sdoganati dal New York Times. «È come se l’espressione long-form nobilitasse da sola il contenuto conferendogli qualcosa di speciale, distinto dalla massa di informazioni volatili», ha scritto Jonathan Mahler.
 

Video poco snack e molto long

Le tracce di questa trasformazione si annidano nei pre-roll delle piattaforme di videosharing, YouTube in testa. Complici un miglioramento delle prestazioni infrastrutturali e un uso più evoluto nel consumo. Una tendenza che arriva dalle piattaforme anglosassoni: in Inghilterra già il 57% degli investimenti video digitali sono orientati verso questo genere di contenuti espansi. «Ormai il modo di fruire video online è cambiato e gli utenti passano sempre più tempo consumando video digitale. La vera sfida oggi è creare contenuti che parlino la stessa lingua delle community e che risultino interessanti», afferma Luca Leoni, amministratore delegato di Show Reel, azienda specializzata nel branded content, trenta professionisti nel team e quaranta creator nella factory interna.
Una narrazione espansa che rafforza la relazione. «La sfida per il 2019 è premiare i contenuti che creano un reale interesse negli utenti, passando dalle impression alla misurazione di ciò che attira davvero l’attenzione. I long-form vanno proprio in questa direzione, ovvero offrire contenuti che non sono prettamente commerciali, ma riescono ad intrattenere, lavorando sulla viewability e raccontando una storia», precisa Leoni. Contenuti studiati su misura per le specificità di ambiente dei diversi social. «Non basta più realizzare un contenuto virale. Bisogna essere capaci di guidare l’attenzione degli utenti, passando dal concetto di generare awareness alla necessità di creare “intimacy” tra i brand, i contenuti e le differenti community».
 

Brand che si espandono

La relazione d’altronde si gioca sul tempo, che diventa elemento di valore. E gli esempi si moltiplicano. Per l’anniversario dell’apertura il luxury store della Rinascente in via del Tritone a Roma ha realizzato il corto “Piccole avventure romane”, disponibile su una specifica landing page e sul canale YouTube. Il video arriva agli otto minuti ed è scritto e diretto dal regista Paolo Sorrentino. Un’operazione in collaborazione con Collateral Films e Indigo Films. Protagonisti e ambasciatori del brand i modelli Malcolm Lindberg e Michela Begal. Progetto omnicanale: così le vetrine dello store sono state personalizzate con stampe fotografiche del backstage della pellicola. Ma c’è anche il sociale che scommette sul long-form: è il caso di Action Aid con una serie di oltre quattro minuti realizzata in Ruanda. In scena un talent show sui generis, incentrato sulle differenti opportunità per i bambini e sull’ingiustizia sociale per quelli delle aree più povere al mondo.
Gli anni della scrittura espansa, allungata, discorsiva, ma anche alleggerita dall’inserto di elementi multimediali. «Per molto tempo c’è stata l’idea che online bisognasse scrivere con formati corti. Invece i testi lunghi hanno sempre avuto senso. Il punto di discrimine sta tra le cose interessanti o meno», afferma Massimo Mantellini, blogger dal 2003 e autore di “Bassa risoluzione” per Einaudi. Fenomeno intergenerazionale, perché abbraccia più pubblici. Millennials compresi
 

TRE ESEMPI IN PRIMO PIANO

CARREFOUR The Show e quei regali da non fare

Le gift card di Carrefour come regalo sicuro per il Natale in arrivo raccontate con un prodotto longform della durata di oltre dieci minuti. Un format video realizzato dal duo The Show con venti differenti candid-camera ambientate in un supermercato. Una carrellata satirica e demenziale sui regali da non fare a Natale
 

ACTION AID Un talent per l’adozione a distanza

Un viaggio in Ruanda per realizzare un talent show sui generis. Così il volto della rete e voce della radio Gianluca Gazzoli è volato in Africa per ActionAid. Al centro del video-storytelling sociale in long-form c’è l’adozione a distanza per aiutare i bambini più svantaggiati in Africa
 

GOOGLE Youtuber come prof per vivere al meglio il web

Aiutare i più giovani a vivere la rete in modo responsabile, grazie anche a docenti d’eccezione. Nasce così la campagna “Vivi uinternet al meglio” promossa da Google in collaborazione con Altroconsumo e Telefono Azzurro. Con Show Reel il coinvolgimento di Daniele Doesn’t Matter e Lea Cuccaroni




Le Mille e una Stories d’azienda Ecco chi sono i «chief storyteller»

Brandtelling. Comunicatore, analista, giornalista: il profilo ibrido dei nuovi cantastorie per comunicare l’innovazione e i valori del marchio e avviare una nuova relazione con i consumatori

Informano, intrattengono, allineano, emozionano. E in fondo rafforzano l’identità, la reputazione, persino il business. Ecco perché le storie sono state sdoganate in azienda. Si tratta di narrazioni fotografiche, frammentate, condivise che fanno la differenza. «Siamo da sempre circondati da storie. Il ruolo del narratore è quello di decriptare la complessità e catturare l’immaginazione proprio attraverso le storie». Così Steve Clayton, chief storyteller di Microsoft al Sole24Ore. Dall’headquarter di Seattle racconta l’azienda guidando un team di venticinque persone. «Ma attenzione. Noi non vendiamo prodotti.  Anche perché oggi il nostro pubblico sempre più sofisticato ignora il marketing tradizionale e si appassiona soltanto alle storie».
 

Identikit dei narratori d’azienda

Connessi, empatici, orientati alla relazione. I nuovi cantastorie d’azienda sono un mosaico di competenze da comunicatori, giornalisti, analisti social, esperti di linguaggi digitali. Profili ibridi specchio di questi tempi liquidi, arruolati sin dagli anni Novanta in Nike e poi in Coca Cola, SAP, IBM, Microsoft, McDonald’s, RedBull e persino alla Nasa. Perché come ha suggerito la testata anglosassone Guardian oggi scienziati e ricercatori devono necessariamente uscire dai laboratori e confrontarsi con gli utenti, diventando narratori.
Queste figure esprimono la mutazione genetica da un modello classico di marketing ad uno inclusivo e allargato. Arrivando a coincidere talvolta con i visionari capitani d’impresa: è questo il caso di Richard Branson per Virgin o di Jack Welch per General Electric. «Oggi quando un consumatore sceglie un brand non partecipa solo al processo di acquisto, ma vive un’esperienza di senso molto più completa e coinvolgente. Ecco l’importanza del brand storytelling. Un fenomeno dovuto all’innovazione tecnologica e anche alla crisi economica. Perché in fondo stiamo ragionando di attività con risorse più limitate rispetto a quelle investite un tempo nella pubblicità tradizionale», afferma Francesco Giorgino, giornalista del TG1 e docente di brand storytelling all’Università Luiss, coautore del volume “BrandTelling” in uscita per Egea. Il manuale è stato scritto con Marco Francesco Mazzù e vede la prefazione di Michele Costabile. Dai video di YouTube alle Stories su Instagram, dai frammenti stilistici della camera company Snapchat ai long-form dei blog aziendali: nascono così nuovi palinsesti social seriali. «Il contatto avviene non più sul prodotto, bensì sui valori. Con una dimensione a medio-lungo termine», precisa Giorgino. È un cambio di baricentro rispetto al passato. Oggi le storie sono per pubblici profilati, coinvolti, raggiunti in mobilità. «In gioco c’è una relazione differente che si sviluppa nel tempo. D’altronde le aziende stanno diventando media company e confezionano contenuti editoriali di informazione o intrattenimento».
 

Le narrazioni del futuro

Siamo di fronte ad una ibridazione di formati che integra online e offline. «Lo storytelling è fondamentale per il business, ma occorre un uso sistemico. Non aiuta solo la reputazione, ma sviluppa il capitale narrativo. Bisogna però attrezzarsi per competere narrativamente con competenze, prassi di lavoro e professionalità specifiche», afferma Andrea Fontana, presidente di Storyfactory. Si tratta di profili professionali in evoluzione. «Gli storyteller vedranno crescere le responsabilità strategiche, occupandosi meno di storytelling e più di storytelling management, ovvero di organizzazione manageriale di esperienze e azioni narrative», precisa Fontana.
E il futuro sarà tanto più efficace se raccontato. Ha fatto il giro del mondo e della rete il recente rapporto McKinsey intitolato “Telling a good innovation story”. Nel documento Julian Birkinshaw della London Business School mette nero su bianco una morfologia della fiaba innovativa. Partendo dal racconto di startup e nuove imprese.
«Il brand storytelling è un’innovazione importante perché segna il trasferimento del focus dal canale al contenuto. E quanto è vero ciò che dice Jordan Bower: il lavoro del chief storyteller è quello di portare alla luce le storie autentiche dell’organizzazione. Non è una questione di stile, ma di sostanza», affermano Carlo Fornaro e Diomira Cennamo, autori di “Professione Brand Reporter” per Hoepli e co-fondatori dell’osservatorio Brand Reporter Lab, presto in uscita con la prima mappatura sul fenomeno.
 

Cantastorie all’italiana

Da noi il processo di inserimento organizzativo è più lento e meno strutturato. «Le aziende italiane non sono ancora media company, cosa che comporterebbe dei cambiamenti organizzativi. Anche se esistono attività di produzione di contenuti di brand non sporadiche», precisano Fornaro e Cennamo.
Tuttavia qualcosa sta cambiando: Oltreoceano il magazine Content Standard ha intervistato alcuni chief storyteller approdati stabilmente nell’organigramma. Tra questi c’è l’italiano Yari Bovalino di Avio Aero, brand italiano del colosso General Electric. «Abbiamo creato questa figura per uscire dal paradigma di comunicazione interna o esterna. Viviamo in un ecosistema talmente complesso e articolato che il dipendente non è più uno stakeholder interno, ma diventa un ambasciatore dell’azienda», afferma Paola Mascaro, VP Communications & Public Affairs General Electric Italia e Avio Aero.
Così la partita si gioca sulle storie delle persone. Efficaci purché siano vere. Perché in una filiera disintermediata solo l’autenticità consente una reale immedesimazione.

LE ESPERIENZE DEI PROTAGONISTI

MICROSOFT Tanti stimoli, le storie catturano attenzione

STEVE CLAYTON – Chief Storyteller della Microsoft

Professione storyteller. In Microsoft un team di professionisti è impegnato a raccontare le storie d’azienda. Coinvolgendo anche i clienti. A guidarli c’è Steve Clayton, chief storyteller. «Creiamo storie all’interno dell’azienda utilizzando diverse piattaforme e strumenti: poster, libri, siti web, video. Tutto ciò per alimentare il cambiamento culturale». C’è poi il fiore all’occhiello: si tratta di Microsoft Stories e del sito Microsoft Life. «Qui vengono condivise storie di clienti e dipendenti. L’obiettivo è contribuire a costruire una storia coerente», precisa Clayton. Un lavoro impegnativo perché l’utente è oggi immerso in una serie di stimoli virtuali. «Siamo in un mondo in cui la nostra attenzione è sempre più sotto attacco e dove il business è più complesso. Ma la narrazione resiste e intercetta interesse suscitando emozioni».
 

AVIO AERO L’immagine dell’azienda nell’ambiente digitale

YARI BOVALINO Chief Storytellel di Avio Aero

È il primo chief storyteller italiano. Viaggia spesso per raccontare al meglio Avio Aero, eccellenza italiana impegnata nella progettazione, produzione e manutenzione di sistemi propulsivi per l’aeronautica civile e militare, oggi appartenente al colosso General Electric Aviation. In Italia l’azienda conta 4.200 dipendenti tra Rivalta di Torino, Brindisi e Pomigliano d’Arco. «Da noi il chief storyteller è un comunicatore con elevate capacità giornalistiche e creative a caccia di contenuti editoriali sull’organizzazione. Le narrazioni che propone sono sfide industriali o tecnologiche raccontate dalle stesse persone che ne sono protagoniste», precisa Yari Bovalino. Una sintesi tra informazione, promozione, intrattenimento con un linguaggio comprensibile. «Le competenze digitali devono essere solide: occorre saper produrre un’immagine contemporanea dell’azienda per tutte le piattaforme».
 

UNIVERSITÀ DI PADOVA L’anima crossmediale della scienza

TELMO PIEVANI – Docente dell’università di Padova

All’università di Padova i comunicatori fanno dirette in live streaming su YouTube e Facebook. La prossima è prevista stasera in occasione della Notte Europea dei Ricercatori, nel palinsesto di Venetonight. Non è la prima volta. La redazione de “Il Bo Live”, giornale dell’Università di Padova, intervista ricercatori, studenti, docenti, cittadini: l’ateneo informa e dialoga, puntando sulla crossmedialità per raccontare la scienza. «È un esperimento per affrontare la sfida più difficile di questi giorni: selezionare le notizie, lavorando scientificamente e adottando linguaggi innovativi», afferma Telmo Pievani, direttore responsabile de Il Bo Live e ordinario di Filosofia delle scienze biologiche. La redazione è composta da 20 persone, tra cui 7 giornalisti. Alla redazione si aggiungono quattro persone per la grafica e il photoediting e tre webmaster.
 




Menti e corpi aumentati nell’epoca elettronica

AI CONFINI DELL’UMANITÀ 
Humachine. Dove ci porterà la simbiosi che sta avvenendo tra esseri umani e macchine

Quello che colpisce quando si visita la mostra “Real Body, oltre il corpo umano” – la nuova edizione ospitata nello Spazio Ventura XV, a Milano – non è solo il percorso tra corpi e organi umani, ma il fatto che ci sia anche una sezione di biomeccanica, che descrivere la simbiosi che si sta sviluppando tra esseri umani e macchine.
«Dalle stampanti 3D all’occhio bionico, dagli esoscheletri alla pelle artificiale fino alla hypercar elettrica guidata con sistemi neuronali realizzata dalla startup italiana Zava che riconosce le abilità e le emozioni del guidatore adattandosi ad esso, le macchine sono ora nei nostri corpi e nelle nostre menti e noi nella loro, e questo offusca il confine tra noi e i nostri servitori meccanici» premette Alex Pontini, ricercatore dell’Università di Padova e responsabile scientifico della sezione di biomeccanica della mostra .
L’anatomia del Ventunesimo secolo contempla dunque umani che si uniscono o assumono i poteri della macchina. Ma il fenomeno funziona anche dall’altra parte, macchine che assumono qualità che consideriamo umane. Prologo di un futuro di Humachine? Se come sembra le innovazioni tecnologiche ci permetteranno di “aumentare “ i nostri corpi e le nostre capacità umane, i confini dell’”umanità” sono tesi a sollevare seri interrogativi etici. Una tecnologia dirompente può infatti offrire un vantaggio imprevisto sugli altri. Cosa accadrebbe un domani se le persone iniziassero a desiderare, come oggi succede con la rinoplastica, nuovi muscoli o protesi cerebrali per diventare più veloci o più intelligenti? Alle disuguaglianze economiche e di genere andrebbero ad aggiungersi anche quelle biologiche? E poi c’è il grande capitolo dell’intelligenza artificiale, che secondo il filosofo Nick Bostrom potrebbe portare all’estinzione dell’Homo sapiens.
«L’idea della scienza che elimina la razza umana è uno scenario più legato alle nostre ossessioni che non a rischi reali – precisa Giorgio Metta, vicedirettore scientifico dell’Istituto italiano di tecnologia (Iit) di Genova -. E l’uomo non diventerà vulnerabile fino a quando le macchine non potranno replicare il cervello umano», cosa che Metta ritiene non sia possibile, contrariamente a quanto sostengono i seguaci di Elon Musk e Singularity come Ray Kurzweil. «Il cervello non è computabile perché la coscienza umana è il risultato di interazioni imprevedibili e non lineari tra miliardi di cellule – spiega -. I nostri cervelli non funzionano in modo algoritmico e non sono macchine digitali». Eppure ci sono una serie di scienziati e filosofi che stanno studiando quali progressi tecnologici pongono “rischi esistenziali” e come sia possibile fermarli. Tra questi Huw Price, che dirige il Centro per lo studio del rischio esistenziale (Cser) all’Università di Cambridge e il fisico Max Tegmark del Mit cofondatore del Future of life institute (Fli). Ma l’intelligenza artificale può essere considerata al pari delle pandemie, della bomba nucleare o del riscaldamento globale? «Se ci atteniamo a quello che sappiamo fare oggi, non ci sono pericoli, perché l’Ai è un pezzetto dell’informatica: si programma la macchina affinchè sia in grado di trovare la soluzione in maniera autonoma rispetto al problema che mi sono posto – spiega Metta – Difficile capire come un “soggetto” di questo tipo possa acquisire capacità non note a chi le ha programmate o motivazioni per fare qualcosa di diverso da quello per cui è stato programmato.
Ciò che creiamo è comunque frutto di un intervento umano, quindi qualunque danno eventuale sarebbe imputabile all’uomo, nella programmazione o nell’addestramento sbagliato dell’Ai. Se costruisco un sistema che è fatto per guidare un’auto e poi lo stesso sistema lo uso dentro un missile, sono io che ho cambiato completamente prospettiva, non l’intelligenza artificiale». La tecnologia quindi è moralmente neutrale. E poi prima di poter fare previsioni sull’Ai è necessario capire come funzioniamo noi, come nascono le motivazioni e cosa sia la coscienza. Impresa lunga e complicata, «ne abbiamo per almeno 100 anni – conclude Metta – nell’arco dei quali abbiamo altri fattori che minacciano la nostra esistenza, sostenibilità in primis, dopodichè forse potremo porci il problema se l’intelligenza artificiale avrà il sopravvento su quella umana».