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Sotto attacco, Robert Mueller ha una nuova strategia di RP: il silenzio

Sotto attacco, Robert Mueller ha una nuova strategia di RP: il silenzio

Robert S. Mueller III ha mantenuto un basso profilo da quando ha assunto l’incarico di procuratore speciale nel maggio 2017

Dalla sua nomina 16 mesi fa come consigliere speciale, Robert S. Mueller III non ha rilasciato alcuna intervista e non ha tenuto conferenze stampa. Il portavoce del suo ufficio è conosciuto a Washington come “Mr. No-Comment“. Anche gli avvistamenti pubblici sono rari: una fotografia del signor Mueller al cancello di un aeroporto, con Donald Trump Jr. sullo sfondo, è subito divenuta virale.
Il silenzio come strategia di pubbliche relazioni è rischioso, specialmente per qualcuno che viene criticato quasi quotidianamente dai sapientoni di Fox News, dagli alleati di Trump come Rudolph W. Giuliani, e dai tweet del presidente stesso. I sostenitori temono che la gragnuola quotidiana cui è sottoposto stia erodendo la fiducia del pubblico nelle indagini del consiglio speciale sull’ingerenza russa nelle elezioni del 2016, prima che Mueller abbia la possibilità di presentare le sue conclusioni.
“Il rischio che si teme sempre è che se i tuoi critici e i tuoi avversari sono gli unici a parlare, allora sono loro a scrivere i titoli dei giornali “, ha detto Kevin Madden, uno esperto in strategia delle comunicazioni che ha servito come portavoce del Dipartimento di giustizia sotto il presidente George W. Bush.
Tuttavia, i veterani del settore affermano che tacere può essere l’unica opzione praticabile del signor Mueller, dato il limitato numero di opzioni disponibili per i pubblici ministeri federali per comunicare con il pubblico. Per legge, i consulenti speciali devono attenersi alle linee guida del Dipartimento di Giustizia che impediscono loro di condividere dettagli sulle indagini in corso: ogni comunicato potrebbe quindi sfiorare il rilievo penale.
I liberali hanno esortato il signor Mueller a combattere contro l’invettiva del presidente Trump, ma i predecessori che hanno cercato di difendersi dalla stampa si sono bruciati. Kenneth W. Starr, il pubblico ministero che ha indagato sulla Casa Bianca di Clinton, ha dato improvvisate conferenze stampa mentre portava via la spazzatura nella sua casa in Virginia – finendo per non incontrare la fiducia e il gradimento di due terzi del pubblico, quando poi il suo lavoro è giunto al termine ed è stato presentato nelle aule di tribunale.
“È spaventoso e doloroso, ma il lavoro di un pubblico ministero non deve necessariamente includere una battaglia contro le forze politiche che stanno gettando fango su di lui”, ha detto Ken Gormley, autore di libri su Mr. Starr e Archibald Cox, il procuratore speciale licenziato dal presidente Richard M. Nixon durante il “Saturday Night Massacre” nel 1973.
“Una volta che sei entrato nel gioco della politica,” ha aggiunto Gormley, “pare che tu sia solo un altro partecipante a quella fanghiglia”. Il signor Mueller, 74 anni, ha poi una ragione speciale per essere cauto, dato un clima politico tale per il quale l’osservazione più sottile può essere trasformata in uno scandalo. Anche se dovesse parlare pubblicamente, dovrebbe fare molta attenzione all’imparzialità dell’approccio del giornalista o intervistatore.
Quindi il signor Mueller, un ex direttore dell’FBI e ufficiale dei Marine Corps, noto per la sua autodisciplina e meticolosità , ha scelto di lasciare che il suo lavoro parlasse per lui. In 16 mesi, ha prodotto accuse contro tre società e 34 persone, tra cui un gruppo di 12 sospetti agenti dei servizi segreti russi; il mese scorso, il suo lavoro ha portato a una condanna, basata su otto capi d’accusa, del precedente direttore della campagna elettorale del presidente Trump, Mr. Paul Manafort.
A giugno, il tasso di approvazione del sig. Mueller toccò il minimo: un sondaggio di Politico ha mostrato che il 36% degli elettori registrati lo ha visto sfavorevolmente, rispetto al 23% dell’anno precedente; da allora, la sua reputazione è migliorata: un sondaggio pubblicato questa settimana dalla Quinnipiac University ha rilevato che il 55% degli elettori ha dichiarato che stava conducendo un’indagine equa, mentre solo il 32% ha dichiarato di non esserlo.
Tuttavia, è improbabile che l’offensiva contro l’inquirente speciale si fermi.
A maggio dell’anno scorso, il giorno dopo che il signor Mueller ha assunto il suo ruolo, Trump ha scritto su Twitter: “Questa è la più grande caccia alle streghe a un politico nella storia americana!” L’uso da parte del Presidente del termine “caccia alle streghe” è recentemente schizzato alle stelle, e di recente ha esortato i suoi seguaci online a “studiare il defunto Joseph McCarthy, perché ora siamo in periodo, con Mueller e la sua banda che fanno sembrare Joseph McCarthy un bambino!”
Sean Hannity di Fox News ha reso la “Mueller Crime Family” un mantra per i suoi quasi quattro milioni di spettatori notturni, il più grande pubblico delle notizie via cavo. Anche il teorico della cospirazione Alex Jones di Infowars si è unito a loro, suggerendo – senza prove – che il procuratore speciale abbia coperto un circolo di pedofili, e ha proposto una caricatura di Mueller con una pistola.
Da quando è entrato a far parte del team legale del presidente in aprile, il signor Giuliani è stato un critico particolarmente acuto, dichiarando a Hannity: “A volte l’insabbiamento è peggiore del crimine. In questo caso, l’indagine è stata molto peggiore del non-crimine.” Peraltro, è stato esplicito sullo scopo di questi attacchi: screditare le indagini agli occhi del pubblico e rendere meno probabile che il Congresso agisca sulle sue conclusioni.
“Quello di cui ci stiamo occupando qui è opinione pubblica”, ha detto il signor Giuliani alla CNN a maggio. “Perché alla fine la decisione consisterà nell’andare o meno a un procedimento di impeachment.”
Nonostante tutto questo, il signor Mueller ha tenuto la lingua a freno, salvo una sola dichiarazione il giorno in cui è stato nominato: “Accetto questa responsabilità, e condurrò il lavoro al meglio delle mie possibilità”.
E se la strategia silenziosa è un gioco d’azzardo, tutto è lì, in quella dichiarazione.
Tipicamente, a Washington, gli addetti stampa trovano i modi migliori per guidare i giornalisti, anche senza offrire necessariamente notizie on-the-record. Un commento informale come “Non ti saluterò” può servire come un cenno ai giornalisti inquisitori; “Eviterei” è un avvertimento che qualcosa è fuori registro. I giornalisti di diversi organi di stampa e televisivi che coprono le vicende di questa indagine, hanno detto che i rappresentanti del sig. Mueller non si sono mantenuti in linea con queste abitudini. I giornalisti sono abituati infatti a ricevere e-mail dal suo ufficio, che contengono poco più di un link all’ultimo documento reso pubblico.
Il portavoce del signor Mueller, Peter Carr, un repubblicano, ed ex ufficio stampa del senatore Orrin G. Hatch dello Utah, lavora da una località sconosciuta e viene raramente citato (ha rifiutato di commentare questo articolo.) Nelle occasioni in cui il signor Carr fa una dichiarazione, di solito riguarda la professionalità del procuratore speciale, piuttosto che elementi dell’indagine stessa. Dopo che Mr. Mueller è stato avvistato all’aeroporto con il figlio di Trump, Carr ha rilasciato un’attenta risposta: “Se è vero che l’altra persona nella foto fosse Donald Trump Jr., il signor Mueller non era a conoscenza della sua presenza e non ha avuto nessuna interazione con lui. ”
Le informazioni emerse sul lavoro del signor Mueller, hanno detto i giornalisti, spesso provengono da persone al di fuori della sua squadra: testimoni o avvocati della difesa che hanno avuto rapporti con gli investigatori. Queste fonti hanno i loro pregiudizi, e i giornalisti hanno detto che il risultato potrebbe essere una frustrante mancanza di chiarezza sull’inchiesta nel suo complesso.
“Sta isolando e proteggendo se stesso nella misura più ampia possibile, ritiene necessario proteggere lui e la sua squadra da qualsiasi accusa esterna che li porti ad essere percepiti come usurpatori di qualche privilegio”, ha dichiarato Randall Samborn, ex direttore delle comunicazioni di Patrick J. Fitzgerald, il procuratore speciale la cui indagine sulle fughe di notizie, a partire dal 2003, ha portato ad accuse contro il capo dello staff del vicepresidente Dick Cheney, I. Lewis Libby Jr.
Mr. Madden, l’ex portavoce del Dipartimento di Giustizia, ha dichiarato che l’opacità comunicativa è intenzionale. “Mueller ha ‘affamato’ i media”, ha detto, in modo che i giornalisti si concentrino sulle prove. “Lui crede che sia ciò che conta di più.”
La guerra partigiana sui procuratori speciali non è una novità. Proprio come i sostenitori di Trump nel governo e nei media hanno offeso il signor Mueller, gli aiutanti di Bill Clinton hanno fatto a pezzi il signor Starr, etichettandolo come uno zelota ossessivo
“Come per le zanzare, le cavallette e la maggior parte dei parassiti succhia sangue, Kenneth Starr è stato generato in acqua stagnante,” scrisse James Carville, uno dei migliori strateghi di Clinton, in un libro di 176 pagine che pubblicò nel 1999 che era dedicato a colpire i consigli speciali . (Il titolo: “…E il cavallo che ha ci ha cavalcato sopra: The People v. Kenneth Starr.”)
A differenza dello stoico Mr. Mueller, il signor Starr non ha potuto resistere al fuoco. Le carte desecretate il mese scorso dagli Archivi nazionali hanno mostrato che ha autorizzato uno dei suoi avvocati a interagire con i giornalisti “per spiegare una posizione legale e per confutare le accuse secondo cui il giudice Starr era “una sorta di fanatico di destra “.
Incoraggiato dagli alleati per difendersi, il signor Starr ha ingaggiato professionisti delle media relations per ammorbidire la sua immagine e accusare la Casa Bianca di Clinton di fare disinformazione. Ciò non è andato a buon fine: il portavoce di Starr, Charles G. Bakaly III, è stato perseguito per spese illegali, sebbene in fin dei conti potè dimostrare di non aver commesso illeciti amministrativi.
Il signor Gormley ha detto che combattere non ha giovato al signor Starr. ”
“É stato percepito da una vasta fetta della popolazione come qualcuno che era impegnato in una caccia alle streghe per far fuori il presidente”, ha detto Gormley. “Con il senno di poi, sarebbe stato corretto fare molte cose in modo diverso.” (raggiunto per questo articolo, il signor Starr ha detto che sarebbe stato disponibile per un colloquio, ma non ha risposto ai messaggi successivi.)
Ovviamente, il signor Starr, come il signor Cox nell’era Nixon, non ha dovuto confrontarsi con un presidente esperto dei social media che maltrattava il suo lavoro ora per ora, o con una rete di notiziari via cavo i cui commentatori erano in palesemente critici sul suo lavoro. Il signor Mueller, il primo procuratore speciale dell’era di Twitter, sta vivendo un caso studio ad alto rischio nel campo delle pubbliche relazioni giudiziarie.
“Più questa indagine si sposta dall’arena legale all’arena politica, più è rischioso per Mueller rimanere in silenzio”, ha detto Alex Conant, uno stratega delle comunicazioni repubblicano.
E Stu Loeser, ex addetto stampa di Michael R. Bloomberg e del senatore Chuck Schumer, ha notato che il signor Mueller si è scontrato con un presidente con un’insolita padronanza dei media.
“I fatti da soli”, ha detto il signor Loeser, “non possono convincere efficacemente tutti gli americani”.




Se la moda sfila con la Csr nel cuore

Se la moda sfila con la Csr nel cuore
La prossima fashion week milanese innalza la bandiera della sostenibilità. Questa volta non sembra greenwashing. Le sfide di Csr della moda sono tangibili. E sono necessarie per comunicare credibilità e posizionamento. Il caso di Brunello Cucinelli


La prossima settimana inizieranno le sfilate donna di Milano. Con una particolarità rispetto al passato. Sulla moda italiana, e con risalto su quella delle passerelle milanesi, sventola la bandiera della sostenibilità. Che, questa volta, appare finalmente materiale, e non un effimero vezzo stilistico. La moda sembra iniziare a coordinare una filiera di prodotto unica al mondo. E sembra capace di dare a Milano (quale simbolo del sistema imprenditoriale italiano) quella medaglia di capitale della sostenibilità che l’Expo non è stato in grado di lasciarle in eredità.
Certo, c’è ancora molta confusione, e spesso e volentieri si trascende con facilità nel greenwashing. Ma sembrano esserci gli elementi solidi per pensare che il made in Italy (fashion, ma anche design) sia a una svolta sostenibile, e che in questo modo possa dare una notevole mano all’intera industria nazionale.
Il primo riscontro è di immagine. Se fino ad appena 12 mesi fa, il concetto di sostenibilità appariva in un comunicato aziendale su dieci proveniente dalla moda, ora la proporzione si è invertita: tutti sottolineano l’impegno in quello che è divenuto un must have. Lo spiega in modo chiaro Carlo Capasa, il presidente di Camera nazionale della moda, in un’intervista a ETicaNewsche sarà pubblicata oggi alle 12. «Il fatto è che si è avviata una corsa. Come avvenuto col fenomeno web. A un certo punto si è capito che non si poteva più starne fuori».
La domanda è: si tratta solo di immagine? Ci si accoda e si sale bendati sul carro di temporanei vincitori verdi?

SUPERATO IL POTERE DELL’IMMAGINE

No, non è così. Lo spiega sempre Capasa, evidenziando come la stessa Camera abbia, sì, puntato su alcuni eventi a grande richiamo di immagine (i Green Carpet Fashion Awards), ma come dietro ci sia un percorso tecnico-industriale assai concreto. La Camera ha messo a punto linee guida per i prodotti e per i processi. E ora questi cominciano a funzionare da standard. E il meccanismo ha attecchito nella filiera, quella di natura artigianale-imprenditoriale, dove i principi di Csr territoriale sono radicati nell’anima, ed è esplosa a valle, nei pensieri e nelle azioni delle case di moda.
La realtà è che la Csr sta ribaltando le priorità strategiche nella moda e nel lusso. Questo comparto è stato un esempio di quanto la comunicazione potesse divenire un fattore chiave nella costruzione di un’industria. Il made in Italy ha trovato la strada per rendere la comunicazione una leva formidabile del super premium price, spesso a prescindere dal reale valore che c’era “in the box”.
Tuttavia, proprio questa comunicazione portata all’eccesso (moltiplicata, continua, ininterrotta, ubiqua, parcellizzata, diffusa … incontenibile), per effetto di web e, soprattutto, social media, ha ridotto il potere della comunicazione stessa. Cioè, l’ha resa meno indipendente e libera, rendendola assai più vincolata alla realtà. Al valore reale del prodotto. A ciò che c’è “in the box”. Non solo. Anche a ciò che sta attorno, e a ciò che avviene lungo l’intero percorso di quel prodotto.
E così sta accadendo qualcosa che in pochi avevano pronosticato. La moda si sta rivelando un simbolo di come la Csr possa diventare il centro di valore di un marchio.
Volendo fare un rapido esame in rapporto ai tre fattori environmental, social e governance (Esg), l’equazione presenta indicazioni chiare.

UNA NUOVA EPOCA DI FILATI

Dal punto di vista ambientale, la filiera sta accelerando verso la produzione di una nuova epoca di filati e di tessuti ecologici, a fronte di una domanda che si prevede esplosiva da parte delle griffe. Al punto che si assiste alla conversione eco-tessile di aziende al confine con la chimica (come Aquafil e Bio.on), o alla nascita di startup che trasformano in filati gli scarti degli agrumi come Orange Fiber.

L’ESCLUSIVITÀ DEL LUSSO INCLUSIVO

Dal punto di vista social, il lusso sta cercando di risolvere il paradosso dell’inclusività. Cioè, mantenersi esclusivo (e farsi pagare come tale) proprio perché inclusivo nella gestione di tutti i propri stakeholder. A cominciare dai dipendenti e dal loro territorio (si guardi all’acquisto e alla valorizzazione di intere filiere, da parte dei colossi del lusso, in Toscana). Per finire con i propri clienti: nei mesi scorsi, più di un brand internazionale ha chiesto pubblicamente “scusa per non averci pensato prima”, riferendosi ai consumatori di standing o taglia differente, per i quali risultava inaccessibile.

UNA GOVERNANCE DEL PRODOTTO

Dal punto di vista della governance, sta diventando cruciale la sfida della tracciabilità. Ossia di riuscire a monitorare l’intero percorso del proprio prodotto, sino alla sua eliminazione. Il tema è ormai bollente per l’industria del fast fashion, costretta a enormi volumi di abiti da eliminare. Ma il caso Burberry ha acceso lo stesso allarme per il lusso. Un paio di mesi fa, il gruppo britannico è stato il primo brand di alta gamma a parlare pubblicamente di “distruzione” dell’invenduto (ed è stato costretto, nei giorni scorsi, ad annunciare che non lo farà più). La cosa, molto probabilmente, riguarda, dietro le quinte, l’intero spettro delle griffe mondiali.

IL SORPASSO DELLA CSR

Ecco il superamento della Csr sulla comunicazione. Non basta più un testimonial o una campagna. Non basta una spruzzata di verde. Le aziende stanno iniziando a capire che, per mantenere i propri consumatori di oggi e conquistare quelli di domani, le tematiche della sostenibilità e della responsabilità sociale, devono legarsi al Dna dell’azienda stessa. Cioè, è l’azienda, le sue persone, le sue policy verso gli stakeholder, che vengono proposti al mercato. Non più, solamente, i suoi prodotti.
La comunicazione, senza questo, non ha più senso. E se questo comincia a capirlo la moda, è un segnale fortissimo per tutti gli altri settori.
PS Il cliente è un giudice sempre più spietato della coerenza del messaggio di un brand. Ma, ancor più spietati, sono gli investitori. È interessante scoprire quanto sia convincente verso la Borsa la sostenibilità sociale e territoriale del brand Brunello Cucinelli. Gli sforzi pluriennali di Csr del gruppo umbro, per quanto portati avanti in modo personale e un po’ mistico, rappresentano un caso unico di moltiplicazione del valore di un’azienda. Secondo un recente report di Mediobanca, in base al parametro prezzo/utili attesi, il titolo Cucinelli vale il 60% in più dei competitor europei. E, addirittura, il 10% in più di una griffe ritenuta un simbolo del lusso come Hermes.




La (nuova) propaganda digitale: come la politica manipola il web

La (nuova) propaganda digitale: come la politica manipola il web
Comprendere e gestire le distorsioni del digitale – dagli effetti della nuova propaganda al proliferare di fake news – per non vanificarne le straordinarie opportunità. Ecco quali sono i rischi della mancanza di consapevolezza e cultura digitale e perché siamo tutti corresponsabili


e elezioni presidenziali Usa, oltre ad aver portato alla casa Bianca Donald Trump, hanno avuto l’effetto di porre al centro del dibattito il tema della propaganda digitale, da molti additata come vero “grande elettore” del tycoon statunitense. In Italia si parla diffusamente di quanto l’attuale maggioranza sia tale anche e soprattutto grazie alla propaganda digitale. Per non parlare del ruolo che il web avrebbe avuto nella nascita di una componente rilevante di questa stessa maggioranza, ovvero il Movimento 5 Stelle.
La propaganda digitale, però, non è una categoria a sé. La propaganda è sempre esistita, dai tempi dei faraoni autoproclamatisi divinità terrene, passando per il “taci il nemico ti ascolta” di epoca fascista, sino a più o meno esistenti armi di distruzione di massa. Quindi il digitale ne è solo un nuovo strumento? In realtà il paradigma va ribaltato: il web è un ecosistema attraverso cui è possibile anche fare propaganda, con modalità ed effetti inediti. E sono proprio questi effetti e modalità a rappresentare il vero scenario da indagare, dal quale discende poi la nuova definizione di propaganda (ma non solo).

Il web e la percezione distorta della realtà

La Rete è una lente convessa in grado di distorcere la percezione della realtà dei propri utenti. Il digitale amplifica una serie di fenomeni psicologici e cognitivi, ben noti alle neuroscienze, creando un ecosistema sociale dove si generano e si alimentano narrazioni, luoghi comuni, paure, credenze. Un ecosistema che interconnette direttamente le persone, escludendo – spesso perché è percepita come inutile, superflua o non credibile – qualsiasi forma d’intermediazione. Un ambiente in cui l’infinita disponibilità e la facilità d’accesso alle informazioni crea la falsa convinzione di poter avere gli strumenti per intervenire su qualsiasi tema, innescando contro-narrazioni collettive prive di verifica o fondamento. Un sistema, in sintesi, in grado di produrre verità autogenerate a volte più forti della verità fattuale, in grado di d’influenzare la percezione della realtà.
Tutto questo rappresenta l’altra faccia della medaglia, l’effetto collaterale del www, non voluto da chi l’ha pensato e progettato e che non esclude il fatto che il web continui a essere una straordinaria opportunità di crescita culturale e sociale, una potente leva di miglioramento della vita di ognuno. Il problema è che quest’altra faccia della medaglia è governabile, influenzabile, le sue/tali dinamiche sono “attivabili” in maniera economica e relativamente semplice e attraverso di esse si può arrivare a influenzare la percezione della realtà degli utenti. Ma andiamo con ordine.

La massificazione delle interpretazioni personali

Il web è un sistema simbolico immersivo nel quale siamo costantemente chiamati a decodificare e interpretare contenuti, immagini, contesti, reazioni, emozioni. Sin qui niente di nuovo, dal punto di vista della semiologia e della psicologia cognitiva: da sempre l’uomo produce e decodifica simboli e messaggi, è la base della comunicazione. La novità sta nel fatto che il web, per sua natura, massifica la nostra personale interpretazione: mentre nel mondo analogico quel che pensavamo su qualcosa o qualcuno poteva essere condiviso con un gruppo di persone limitato nel tempo e nello spazio, oggi la percezione immediata è che ce ne siano migliaia che la pensano come noi. Un meccanismo che tende a rafforzare la convinzione che quel che crediamo sia giusto, proprio perché condiviso da moltitudine di altri individui.

Il proliferare delle echo chambers

Tale dinamica è ulteriormente rafforzata dal Confirmation bias, pregiudizio di conferma – concetto ampiamente noto agli studiosi di neuroscienze – a causa del quale tendiamo a cercare conferme alle nostre tesi, idee. L’interazione di questi due processi porta a chiuderci dentro echo chambers, camere dell’eco, dove interagiamo solo con persone che la pensano come noi, iperconfermando le nostre idee e distorcendo così la percezione della realtà. Echo chambers che sul web hanno dimensione massiva e che rappresentano anche vastissima e reattiva platea per le cose che pensiamo e diciamo. Esprimiamo posizioni, giudizi e troviamo consenso e riconoscimento ampli e pubblici.

La disintermediazione dell’informazione

Accanto a questo agisce la profonda, travolgente perdita di fiducia nei corpi intermedi, ovvero le figure che socialmente dovrebbero rappresentare un punto di riferimento informativo: istituzioni, media, giornalisti, politica, partiti, sindacati, medici, scienziati, aziende, università, scuola. I singoli scandali, casi di corruzione, errori, cattive gestioni, amplificati da narrazioni collettive ipercondivise, divengono giudizi generali, che travolgono credibilità e autorevolezza e minano il ruolo stesso di questi soggetti. Così lo scienziato è sempre al soldo della multinazionale, il politico è corrotto, il giornalista asservito, l’istituzione schiava dei “poteri forti”, ecc. Quel che un tempo era considerato luogo comune diventa giudizio sociale.

Il potere dell’algoritmo e la scarsa attenzione

Viviamo poi immersi nei nostri smartphone, iperconnessi a una serie di piattaforme, soprattutto social, governate da algoritmi che leggono le nostre scelte e tendono a riproporre contenuti informativi e fonti le più simili possibili a quelle che abbiamo precedentemente selezionato, contribuendo così a quella echo chamber autoconfermativa. Algoritmi che sono di proprietà di pochi soggetti – così come le piattaforme su cui operano, d’altronde – e il cui funzionamento è un segreto gelosamente custodito. Abbinata a questo, la nostra scarsa capacità di attenzione e di valutazione di fronte a quantità enormi di informazioni, che ci porta a trattenere solo gli elementi più evidenti di un contenuto (il titolo, l’immagine). Studi recenti fissano a 5,8 secondi il tempo medio speso a usufruire di un contenuto sui social. In sostanza, prestiamo un’attenzione più che superficiale e frettolosa a informazioni selezionate automaticamente da algoritmi che non controlliamo.

Una propaganda semplice ed economica

Tutto questo vuol dire che il web è il male? No. Il digitale rimane un’opportunità straordinaria e una risorsa preziosissima, ma porta con sé alcune distorsioni che vanno comprese e gestite. Da tutto quello detto sopra appare evidente quanto sia “semplice” oggi fare propaganda. Mentre prima erano richiesti apparati di comunicazione giganteschi e costosi, adesso basta intercettare le echo chambers, comprendere le paure, i timori, i dubbi, i bisogni delle persone e alimentarli. Conoscere le dinamiche del web e saperle usare significa riuscire effettivamente a governare la percezione e quindi orientarla. Questo vale per la propaganda politica ma anche per l’informazione, la comunicazione. Basta costruire una notizia falsa ma verosimile, atta a stimolare timori o confermare dubbi, e riuscire (facilmente) a farla condividere per innescare una distorsione della percezione del reale. Molte di queste notizie si autogenerano e autoalimentano all’interno delle conversazioni social, ma altre, molte altre, vengono prodotte o “piegate” ad arte.
Nulla di nuovo, sia chiaro, torniamo a dire. Propaganda, notizie false, costruite per screditare o danneggiare, false o errate convinzioni, luoghi comuni, pregiudizi, sono sempre esistiti. Con l’avvento del digitale hanno assunto però una forza e un potere pervasivo inediti, abbinati a un’estrema “economicità” produttiva – sono sufficienti un pc, una connessione e una buona conoscenza tecnica – e a una velocissima e potente capacità di diffusione, quando autogenerati.
Tutto questo apre due scenari ulteriori. Da una parte, l’ampliamento del numero di quanti siano in grado di usare in maniera malevola queste dinamiche, proprio per la loro “accessibilità” ed “economicità”. Dall’altra, la capacità d’impatto che un’organizzazione strutturata (quella che una volta venivano chiamate le “macchine della propaganda”) può avere in termini di efficacia. Il rischio è un governo della “verità percepita” a scapito della verità fattuale e l’accentramento, nelle mani di pochi, di una nuova forma di potere manipolativo.

Gli utenti inconsapevoli

Il combinato disposto di queste dinamiche è tale solo grazie alla mancanza di consapevolezza degli utenti della Rete, di tutti quanti noi. La mancanza di consapevolezza di quanto possa essere deleteria la condivisione di un contenuto non verificato, l’esporsi con giudizi definitivi su temi di cui non si hanno conoscenze specifiche, il difendere le proprie convinzioni senza ascoltare o approfondire le tesi contrapposte e viceversa attaccarle con violenza e demonizzarle. In un ecosistema completamente trasparente, dal punto di vista della visibilità collettiva di ciò che diciamo e facciamo, siamo tutti corresponsabili, siamo tutti contemporaneamente fonte e medium.
Senza consapevolezza, senza cultura ed educazione al digitale – e considerato l’alto numero di “analfabeti funzionali”, cioè incapaci di comprendere il senso di un testo, che nel nostro Paese sono oltre il 50% – gli utenti diventano “carne da propaganda”, soggetti manipolabili su piccoli e grandi temi. Si dirà: «Ma la realtà non è solo il digitale, esistono altri mezzi, altre forme e dinamiche di persuasione». Vero, però ormai viviamo in un unico ecosistema informativo del quale il digitale è il sistema nervoso profondo, che connette le persone annullando le dimensioni spazio-temporali e amplificando i messaggi. Un sistema pervasivo e potente del quale dobbiamo diventare consapevoli, per far sì che Internet torni a essere esclusivamente quella splendida occasione di crescita collettiva che pure ancora rappresenta.




Una Magna Carta per l'era digitale

Una Magna Carta per l'era digitale

Nel 1215 l’Inghilterra adottò la Magna Carta, per impedire ai monarchi di abusare del loro potere. I monarchi di oggi sono le grandi aziende tecnologiche, e noi, le persone i cui dati personali vengono raccolti e manipolati per scopi sia buoni che cattivi, siamo i loro sudditi.
I benefici sono tanti, ma anche gli abusi. Ora, come allora, abbiamo bisogno di uno statuto che regoli questi nuovi poteri costituiti.
La rivoluzione digitale è la forza dinamica più importante del mondo odierno e influenza ogni cosa, dall’intimità della vita quotidiana fino ai conflitti geopolitici. Il mondo è diventato uno solo, come mai prima d’ora. Al tempo stesso, però, si sta spaccando e dividendo. L’intelligenza artificiale e la Rete sono le forze gemelle che sospingono questi cambiamenti.
L’evoluzione dell’intelligenza artificiale è passata attraverso due fasi distinte, e ora sta entrando in una terza. La prima fase, che si può far partire dai rivoluzionari sforzi di calcolo di Alan Turing durante la seconda guerra mondiale, è stata dominata dallo Stato e dal settore pubblico, con un contributo ad ampio raggio del mondo accademico. La seconda fase è rappresentata dall’emersione della Silicon Valley dopo il tracollo del blocco sovietico nel 1989, un periodo in cui le forze del mercato vennero lasciate agire indisturbate in tutto il mondo. La terza fase, in cui stiamo entrando adesso, dovrà per forza di cose tornare a coinvolgere lo Stato, e più in generale l’ambito pubblico.
Per un certo periodo gli sconvolgimenti positivi delle tecnologie digitali (dall’incremento della connettività fra persone che la pensano allo stesso modo o studiosi di Paesi diversi all’analisi del codice genetico attraverso i big data o alla convenienza dello shopping online) sono stati al centro della scena. Ma gli sconvolgimenti negativi si sono dimostrati profondi: includono minacce al tessuto stesso della democrazia, perché sono emersi movimenti online che sfidano, o addirittura rimpiazzano, i grandi partiti politici. Tutto questo sta avvenendo nel momento in cui si profilano ulteriori sconvolgimenti legati ai progressi dell’intelligenza artificiale, con avanzamenti potenzialmente spettacolari della capacità di apprendimento delle macchine.
Ho riflettuto su queste trasformazioni negli ultimi mesi, nella mia veste di membro della Commissione speciale sull’intelligenza artificiale della Camera dei Lord del Regno Unito. I governi e gli altri organismi pubblici in questo momento devono far fronte a due compiti sovrapposti. Dobbiamo cercare di mettere riparo agli errori del passato. Ma allo stesso tempo dobbiamo garantire che la nuova ondata di innovazione trainata dall’intelligenza artificiale sia gestita in modo più propositivo, invece di lasciare che irrompa incontrollata nelle nostre esistenze. Nel nostro rapporto “AI in the Uk: ready, willing and able?“, la Commissione propone una serie di riforme ad ampio raggio che si richiamano, e attingono, a provvedimenti legislativi all’avanguardia già adottati dalla Ue e da alcuni governi nazionali.
Abbiamo tracciato i contorni di uno statuto generale per l’intelligenza artificiale, che faccia da quadro di riferimenti per gli interventi pratici del governo e di altri organismi pubblici. Gli elementi principali sono: l’intelligenza artificiale dev’essere sviluppata per il bene comune; deve operare sulla base di principi di intelligibilità ed equità; deve rispettare il diritto alla riservatezza; deve fondarsi su cambiamenti di vasta portata del sistema di istruzione; non deve ricevere mai il potere autonomo di danneggiare, distruggere o ingannare gli esseri umani.
Questi principi formano la base di un codice dell’intelligenza artificiale da sviluppare a livello nazionale e internazionale. La Commissione chiede un intervento radicale per contribuire a smantellare il monopolio dei dati da parte delle grandi corporation digitali.
Suggeriamo tutta una serie di politiche su come raggiungere questi obiettivi in modo pratico e gestibile. Per esempio, il governo britannico ha già accettato il principio che bisogna istituire dei “fondi fiduciari”, per una condivisione etica dei dati. Una questione fondamentale, a questo riguardo, è come ristrutturare il Sistema sanitario nazionale. La riservatezza dei pazienti dev’essere conciliata con l’uso dei dati a scopi di ricerca e lo scambio di dati fra medici specialisti. È importante in particolare, a nostro parere, che questi “fondi fiduciari di dati” prevedano una rappresentanza e una consultazione diretta dei cittadini. Quantomeno all’interno del Regno Unito, questi principi e queste proposte dovrebbero assicurare un sostegno largo.
Abbiamo affrontato anche i problemi di ordine geopolitico, dove la regolamentazione interna si interseca con le prassi adottate da altre nazioni. Le fake news non sono solo un problema strutturale profondo dell’era digitale, ma vengono usate direttamente come arma dalla Russia e da altri Paesi.
La Cina possiede il più potente schieramento di supercomputer a livello mondiale e si avvia ad assumere un ruolo guida nell’ulteriore sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Forgiare accordi internazionali sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale è un’impresa di estrema difficoltà, probabilmente, ma anche di primaria importanza. Il rapporto della Commissione si conclude con la proposta di organizzare urgentemente un vertice mondiale di leader politici per elaborare un quadro comune per lo sviluppo etico dell’intelligenza artificiale in tutto il mondo. I vantaggi della rivoluzione digitale sono enormi e hanno trasformato in modo irreversibile le nostre vite, e sotto molti aspetti le hanno trasformate in meglio. Come nelle precedenti rivoluzioni tecnologiche, le società devono trovare un modo per raccogliere i benefici dell’innovazione e al tempo stesso tenere sotto controllo i problemi e i rischi. Uno statuto che protegga i diritti e le libertà dei cittadini — una Magna Carta per l’era digitale — è il punto da cui partire.




Quando il “green” fa male all’ambiente

Quando il “green” fa male all’ambiente
Pellet, diritti di emissione, bioetanolo, stop non pianificato all’atomo: ecco i “paradossi verdi”, quando le strategie ambientali si rivelano controproducenti


Non tutti i beni vengono per giovare. È vero, questo proverbio non esiste. È semplicemente il contrario di «non tutti i mali vengono per nuocere» ma, piaccia o no, è altrettanto valido. Basta vedere la lettera recentemente inviata da un gruppo di scienziati americani alla Commissione Europea. «Apprezziamo gli sforzi fatti dalla Ue con la sua Direttiva sulle energie rinnovabili – scrivono – ma il fatto che questa includa le biomasse lignee fra le risorse energetiche a impatto zero, ha creato una forte domanda di biomassa negli Stati Uniti sud-orientali che sta mettendo a seriamente rischio la biodiversità».

Qualche anno fa, Hans-Werner Sinn ha coniato un altro modo di dire: quando una politica climatica produce anche un aumento del riscaldamento globale – ovvero l’opposto del desiderato – siamo di fronte a un «paradosso verde». L’economista tedesco si riferiva in realtà al caso particolare dei proprietari di fonti energetiche fossili come petrolio o carbone, che possono venire incoraggiati dalle normative sul clima a estrarre ancora più rapidamente le risorse dal sottosuolo, di fatto contribuendo ad aumentare le emissioni.
Allargando un po’ il campo però, di paradossi verdi ce ne sono molti altri. Il più celebre è quel a Bruxelles è stato battezzato carbon leakage, la «fuoriuscita di carbonio»: siccome emettere anidride carbonica in uno stabilimento europeo può essere costoso (alcuni settori industriali devono comprare sul mercato i diritti di emissione, teoricamente per incoraggiare l’adozione di fonti rinnovabili), l’imprenditore può decidere di trasferire gli impianti in un altro Paese dove inquinare non costa nulla. Vantaggi per il clima, zero.
Ma che dire del bioetanolo, già sbandierato da George W. Bush come fulgido esempio di soluzione climatica? Gli Stati Uniti hanno offerto sussidi agli agricoltori e imposto di miscelare la benzina con una percentuale di etanolo prodotto dal mais. Con il risultato che i prezzi di generi alimentari sono saliti, e l’impatto sui gas-serra non c’è stato, mentre i consumi di benzina sono oggi a livelli record. Se nel 2000 anche il suo rivale Al Gore sosteneva la bontà del bioetanolo, oggi tutti i gruppi ambientalisti sono contrarissimi. Era etanolo il 10% dei 540 miliardi di litri di benzina consumati dagli americani nel 2015. Peccato che, secondo un recente studio dell’Università del Wisconsin, i sette milioni di acri convertiti in coltivazioni per l’etanolo abbiano prodotto un aumento delle emissioni equivalente a 20 milioni di automobili in più.
Fra le conseguenze involontarie delle politiche energetiche, può rientrare anche il caso tedesco. Nessuno ha investito in energie rinnovabili con la pervicacia della Germania, che siede oggi su un patrimonio solare e eolico di tutto rispetto. Tuttavia, dopo che sull’onda emotiva di Fukushima ha voltato le spalle al nucleare, si è trovata costretta a bruciare un po’ di più del suo carbone (che è lignite, il peggiore). Così le emissioni hanno ricominciato a salire. È anche il caso del Giappone che, ferito dall’ennesimo disastro nucleare, importa risorse fossili come se piovesse.
In un rapporto intitolato «Le conseguenze involontarie delle politiche climatiche», il celebre contestatore del climate change Andrew Montford elenca i paradossi prodotti dal processo di decarbonizzazione (la transizione dai fossili alle rinnovabili), concludendo che è meglio lasciar perdere. Il documento è stato pubblicato da The Global Warming Policy Foundation, la quale promuove il disaccordo sulle misure per salvare il pianeta dal riscaldamento atmosferico. Il vero problema sta nel criticare il «bene» di questa gigantesca transizione energetica, piuttosto che il «male» di un drastico cambiamento del mondo così come lo conosciamo: secondo uno studio appena pubblicato da University of East Anglia e Wwf, dalle aree biologiche più diverse del pianeta potrebbero sparire a fine secolo il 50% delle specie animali e vegetali.
Sarebbe assurdo dire che le politiche climatiche siano inutili o, peggio, dannose. Semmai, i paradossi verdi servono a ricordarci che il cammino verso la decarbonizzazione è lungo, accidentato e lastricato di imprevisti. Ecco perché va programmato con attenzione, continuamente rivisto e percorso il più velocemente possibile.