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Come cancellarsi da Facebook in modo completo e definitivo

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Come cancellarsi da Facebook in modo completo e definitivo

Disattivare l’utenza è la via più semplice, ma per abbandonare il social network è meglio prima eliminare ogni traccia e collegamento per un addio totale

Come cancellarsi da Facebook in modo totale, completo e soprattutto pulito andando a eliminare qualsiasi informazione abbiamo condiviso sotto qualsiasi forma, senza dimenticare le applicazioni di parti terze e i servizi collegati al social network per antonomasia?
Sappiamo tutti perfettamente che esiste un comando, seppur ben nascosto, per cancellarsi da Facebook. Tuttavia, la disattivazione del profilo può non soddisfare completamente le esigenze di chi vuole, al contrario, avere la sicurezza che tutto sia eliminato come prima dell’iscrizione.
Come a passare la pialla e livellare tutto. Forse un po’ paranoico, ma giusto. Per questo motivo andremo a descrivere una procedura definitiva che richiede certo un po’ di impegno e un po’ di tempo per completare in modo manuale ma rigoroso un totale abbandono di Facebook e di tutto ciò a esso collegato.
Insomma, invece che limitarsi a disattivare l’account, per una maggiore efficacia si possono andare a eliminare tutti gli elementi che abbiamo caricato, nel limite del possibile.

Backup di Facebook

Scarica informazioni Facebook
Il primo passaggio è quello di effettuare un corposo backup di tutto ciò che abbiamo condiviso negli anni su Facebook. Dunque: foto, video, messaggi della chat, elementi che abbiamo condiviso sul nostro profilo e così via. Naturalmente, se non siamo interessati a questo salvataggio è possibile saltare il passaggio.
Bisogna cliccare in alto a destra sul triangolo che punta verso il basso e scegliere Impostazioni > Le tue informazioni su Facebook > Visualizza in corrispondenza della voce Scaricare le tue informazioni. In alternativa, ecco il link diretto.
Si aprirà una pagina che consente di navigare in tutto ciò che abbiamo condiviso e di selezionare non solo i vari elementi, ma anche gli intervalli di date e il formato del file oltre che la qualità dei contenuti multimediali.
Si può cliccare su Crea il file e si dovranno attendere alcune ore perché il pacchetto sia pronto. Si riceverà un’email e si procederà procedere al download.

Cancellare tutte le chat di Facebook Messenger

Cancella messaggi Facebook plugin
Per i messaggi e le conversazioni delle chat di Messenger c’è un comodo plugin per Chrome che con un singolo click va a cancellare tutti i messaggi una volta sola. In alternativa, Messenger Cleaner.

Cancellare foto, video e album da Facebook

Per cancellare le foto, gli album e i video che abbiamo caricato nei vari anni su Facebook è necessario armarsi di un po’ di pazienza e agire in modo manuale. Bisogna accedere al proprio profilo, cliccare su Foto successivamente andare nella pagina Album.
Da qui si dovrà aprire l’album, cliccare sull’ingranaggio delle impostazioni / tre puntini e selezionare Cancella. Lo stesso vale anche per le foto che non sono contenute negli album, cliccando sull’icona matita.

Cancellare tutte le attività su Facebook con uno script

Social Book Post Manager plugin
Per cancellare tutte le attività su Facebook in automatico dunque non soltanto i contenuti multimediali, ma anche gli aggiornamenti di status e qualsiasi elemento abbiamo condiviso è possibile sempre passando attraverso un plugin di Chrome e avviando uno script che va molto lentamente a brasare tutto.
Il plugin in questione si chiama Social Book Post Manager si scarica gratuitamente dallo store del browser di Google, si avvia, si fa accesso a Facebook e successivamente si va all’attività vera e propria.
Si deve andare a cliccare su Activity log nella barra a sinistra e selezionare gli elementi desiderati da cancellare, in questo caso tutti (o tutti quelli che non abbiamo già eliminato precedentemente).
Inoltre, si può scegliere l’intervallo di tempo è la velocità alla quale lo script deve agire, da 16x a 1x. Più la velocità è bassa più l’azione sarà accurata e precisa, ma potrebbe richiedere – a seconda del computer – addirittura settimane.

Rimuovere tutte le connessioni tra Facebook e le app di parti terze

Autorizzazioni app parti terze
Il passo successivo è quello di andare a rimuovere tutte le connessioni tra Facebook e le applicazioni di terze parti. Per fare questo bisogna dare su Impostazioni > App e Siti Web e controllare tutte le applicazioni alle quali, durante gli anni, abbiamo concesso un qualche accesso alla nostra pagina Facebook.
Basta apporre l’apice sulla casella e cliccare su Rimuovi per eliminare tutte le varie connessioni, come vi abbiamo raccontato nella mini guida dedicata.

Cancellare tutti gli amici su Facebook

Friend Remover Pro plugin
Per eliminare gli amici ed evitare di farlo a mano spendendo giorni e giorni c’è un plugin di Chrome che si chiama Friend Remover Pro. Si può scaricare gratuitamente, ma non funziona sempre al meglio.
Il nostro consiglio è quello di rimuovere a gruppi di cento, massimo centoventi amici perché molte volte si inceppa. Inoltre, conviene effettuare in una sola seduta tutta l’eliminazione perché spesso spalmandola su più giorni gli amici non vengono eliminati in modo totale.

Disattivare l’account di Facebook

Disattiva utenza Facebook
Dopo tutte queste procedure siamo pronti a disattivare l’account che dovrebbe essere ormai pressoché scevro di ogni informazione, contenuto, amicizia, collegamento e quant’altro. Bisogna andare su Impostazioni > Gestione account > Disattivare l’account. In alternativa, il link diretto.
Sarà richiesta la password e appariranno alcune finestre con captcha e messaggi che tenteranno in tutti i modi di trattenerci, anche toccandoci sentimentalmente con le foto degli amici con i quali abbiamo condiviso tanti bei momenti virtuali.
Resistito ai canti delle sirene di Facebook e confermato, la disattivazione vera e propria avverrà dopo 14 giorni, intervallo di tempo durante il quale Facebook lascia la porta socchiusa nel caso volessimo ripensarci.




La strategia di Starbucks International non convince, qualche progresso in Italia

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La strategia di Starbucks International non convince, qualche progresso in Italia

A distanza di qualche settimana dall’invio del nostro appello a Starbucks  sottoscritto da ONG  internazionali  e nazionali che ha avuto un ampio eco di stampa, torniamo a fare il punto su come la multinazionale si sta muovendo all’estero, e nel nostro paese, per ridurre l’impatto dei contenitori usa e getta delle sue oltre 28.000 caffetterie presenti in 77 paesi.

STARBUCKS ITALIA
A seguito del nostro appello   ( in english) abbiamo avuto un primo contatto con i responsabili di Starbucks Italia che si appresta ad aprire a breve, dopo la mega  Roastery di piazza Cordusio a Milano, altri 6 o 7 locali nel milanese.
Ci è stato assicurato che le bevande calde saranno servite in tazze di ceramica, salvo esplicita richiesta da parte dei clienti di avere un contenitore da asporto. In questo caso il contenitore sarà monouso, a meno che il cliente non sia provvisto di una propria tazza termica. Ai clienti che porteranno una loro tazza, o acquisteranno quella di Starbucks,  verrà praticato uno sconto di circa 30 centesimi sul prezzo della bevanda.
Per quanto riguarda invece le bevande fredde a base di caffè pare che, al momento, l’Italia debba adeguarsi alle indicazioni internazionali e utilizzare pertanto contenitori in plastica monouso. Seguiranno  maggiori informazioni e un nostro commento complessivo dopo avere visitato le caffetterie.
Abbiamo avuto una gradita presa di contatto da parte della Giunta di Milano che ha espresso interesse per la nostra iniziativa. Milano è l’unica realtà italiana ad avere aderito alla rete internazionale C40 che riunisce 23 città e regioni di tutto il mondo impegnate nella lotta al cambiamento climatico. Sarà difficile però raggiungere gli obiettivi sottoscritti nella dichiarazioneAdvancing towards zero waste  se la giunta non riuscirà ad incidere sulle attività maggiormente responsabili della produzione di rifiuti trainata anche dai nuovi stili di vita. Abitudini in crescita come mangiare spesso fuori casa, consumare cibo pronto acquistato nei supermercati oppure da asporto (magari ordinato online) insieme all’aumento complessivo dell’e-commerce porranno seri ostacoli al raggiungimento di obiettivi del network come: tagliare del 15% la quantità di rifiuti prodotti da ogni cittadino, dimezzare la quantità di rifiuti conferiti in discarica o negli inceneritori, e aumentare fino al 70% il tasso di riciclo. Uno studio di GEO (Green Economy Observatory) dello IEFE-Università Bocconi ha stimato quanti rifiuti da imballaggio potrebbero essere prodotti al 2030. Il modello utilizzato dallo studio ha quantificato in 4 milioni di tonnellate la quantità di rifiuti che sarebbe possibile evitare grazie a politiche di riduzione e innovazione tecnologica. Quest’importante riduzione viene però minimizzata da un aumento nella produzione di rifiuti – che vale più del doppio– dovuto, appunto, alle modalità di consumo e stili di vita .

STARBUCKS INTERNATIONAL

Il 9 luglio il gruppo ha reso nota la decisione di eliminare entro il 2020 le cannucce in plastica principalmente attraverso l’introduzione nuovo bicchiere di plastica dotato di un tappo che permetterà di sorseggiare le bevande senza bisogno della cannuccia. Questo bicchiere diventerà il contenitore standard per tutti gli iced drink , escluso il frappuccino che verrà servito con cannuccia biodegradabile.
Secondo l’amministratore delegato Kevin Johnson questa mossa costituisce  “una tappa significativa” verso l’obiettivo a cui Starbucks aspira di fornire “un caffè sostenibile, servito nei modi più sostenibili”.  Il nuovo tappo che permetterà di eliminare  più di un miliardo di cannucce all’anno dalle caffetterie del gruppo è stato presentato da Johnson come un’opzione più sostenibile della precedente in quanto riciclabile.
Immediata è stata la reazione da parte della compagine ambientalista internazionale che ha fatto notare che questi coperchi negli USA (e non solo) non vengono di fatto raccolti e riciclati e che l’impronta plastica del bicchiere è aumentata. Il peso del nuovo coperchio supera infatti di qualche grammo quello della precedente opzione combinata (tappo + cannuccia). La coalizione  globale Break Free from Plastic ha inviato una lettera al CEO Kevin Thompson ed emesso un comunicato stampa che riprendiamo integralmente a fine post.
Il 17 luglio scorso McDonald’s e Starbucks hanno annunciato di avere unito le forze per arrivare a sviluppare entro i prossimi tre anni “il contenitore del futuro”, completamente riciclabile o compostabile. McDonald’s e Starbucks, che rappresentano due delle prime tre catene di fast food e caffetterie più popolari e diffuse al mondo, distribuiscono insieme il 4% dei 600 miliardi di tazze consumate nel mondo ogni anno. Di cui  McDonald’s nei suoi 37.000 negozi diffusi in oltre 120 paesi, ne utilizza il 3%.
L’iniziativa che vede ora l’adesione di MacDonald’s  si chiama NextGen Cup Challenge ed è stata lanciata da Starbucks ad inizio 2018 con Closed Loop Partners.  Imprenditori e startup possono accedere a finanziamenti per sviluppare soluzioni che possano essere incrementabili in tutti i mercati del mondo.
Oltre a condividere le riserve espresse dal movimento #Breakfreefromplastics, e come già motivato nel nostro appello a Starbucks , riteniamo che sia necessario andare oltre al consumo usa e getta che deve essere confinato alle situazioni emergenziali.
L’esperienza della catena di caffetterie inglese Boston Tea Party che è riuscita a riconvertire al riutilizzabile la sua attività dopo sei mesi di preparazione dimostra che l’operazione è possibile. La catena si è offerta di aiutare altre caffetterie e aziende che vogliono eliminare le tazze usa e getta mettendo a disposizione la propria esperienza. Per motivare i propri clienti a perseverare nella “scelta riutilizzabile”,  per ogni caffè o drink da passeggio venduto in tazza to go (riutilizzabile) vengono donate 9 pence (il costo di una tazza usa e getta monouso) ad una ong  che si occupa di progetti sociali scelta da ogni caffetteria nel quartiere dove sorgono.
La lotta alla plastica deve abbracciare la strategia del riuso altrimenti, come si può evincere dagli impegni che l’industria sta prendendo per ridurre l’inquinamento da plastica, si corre il serio rischio di spostare l’impatto su altre risorse rinnovabili e biodegradabili che sono già  sovrasfruttate. Ce lo ricorda l’Unep che avverte che entro al 2030 avremo bisogno il 40% in più di risorse come energia, acqua, legno e fibre varie e come ogni anno l’Earth Overshoot Day, ovvero la giornata in cui l’utilizzo di risorse da parte della popolazione mondiale supera quanto gli ecosistemi terrestri possono rinnovare in un anno. Quest’anno il “Giorno del Sovrasfruttamento della Terra”  cade il primo agosto come media globale secondo le stime del Global Footprint Network elaborate per  tutti i paesi. L’Italia però è già inriserva dal 24 maggio scorso.   
Le nuove direttive approvate all’interno del pacchetto economia circolare, la strategia sulla plastica e la proposta di direttiva SUP ( Single Use Plastics) contengono misure che andranno ad eliminare o ridurre il consumo di 10 tipologie di articoli usa e getta che alimentano il marine litter, tra cui contenitori per fast food e bevande. Tali misure sono in linea con i principi dell’economia circolare e la gerarchia di gestione dei rifiuti europea che privilegia le misure di prevenzione e riuso. Gli stati membri, come si può leggere nella bozza di direttiva  , dovranno fissare obiettivi nazionali di riduzione, mettendo a disposizione prodotti alternativi presso i punti vendita, o impedendo che vengano forniti gratuitamente. Per le bottiglie di plastica, anch’esse oggetto della direttiva è previsto un obiettivo di intercettazione sfidante : il 90% dell’immesso al consumo al 2025.  I produttori/utilizzatori di questi manufatti SUP dovranno coprire i costi di gestione ( e bonifica) causati dai  rifiuti che derivano dai loro prodotti/utilizzati , come pure i costi delle misure di sensibilizzazione.  L’Europa sta andando spedita nella direzione di attribuire ai produttori di rifiuti i costi di gestione del loro fine vita attraverso un rafforzamento degli schemi di responsabilità estesa del produttore che ad oggi vengono esternalizzati sulle comunità.

CHI DECIDE LE POLITICHE GLOBALI AMBIENTALI ?

Le politiche ambientali che multinazionali come McDonald e Strabucks stanno intraprendendo che non considerano il riuso come una valida alternativa,  ma puntano esclusivamente sulla riciclabilità, sollecita un’ulteriore considerazione rispetto a quanto già espresso nel nostro appello.
E cioè che probabilmente queste politiche vengono decise centralmente da figure che: a) non conoscono sufficientemente le problematiche del fine vita dei contenitori monouso b) non conoscono i sistemi post consumo e le normative dei paesi dove sono presenti, che differiscono enormemente tra loro.
Se così non fosse le multinazionali eviterebbero di prendere decisioni standarizzate da esportare in tutti i paesi come il progetto Next Generation Cup avendo realizzato che il modello globalizzato non è più compatibile con la crisi climatica in atto e con i fondamentali dell’economia circolare, che escludono a priori il perseguimento dell’ “ONE SOLUTION FITS ALL“.
Mentre è assodato che il riciclo sia l’opzione ambientalmente più conveniente rispetto allo smaltimento in inceneritori o discariche, quando si tratta di sviluppare la soluzione o il sistema più adatto per fare arrivare un determinato bene e prodotto agli utenti non è per nulla scontato scontato che l’unica soluzione debba essere il monouso. E a maggior ragione in questo momento storico in cui stiamo facendo i conti con fenomeni irrimediabili e globali come l’inquinamento da plastiche che sta contribuendo, più di quanto non avvenisse in passato,  a mettere in luce agli occhi della pubblica opinione (anche) le responsabilità industriali.
Qualora una valutazione delle possibili opzioni  – riutilizzabili e monouso – si servisse di strumenti come l’LCA per una comparazione degli impatti ambientali delle varie soluzioni, sarebbe però necessario, come convengono i massimi esperti sull’argomento, prendere anche in considerazione le esternalità indirette e negative che di solito non vengono incluse nelle analisi LCA perché difficilmente quantificabili. Ad esempio quali sono i costi ambientali ed economici causati da tutto il ciclo di vita di un bicchiere monouso di plastica o carta che finisce nell’ambiente, e/o viene raccolto e finisce in discarica/inceneritore o ad aumentare il marine litter? Altre valutazioni abbinabili sono quelle che organismi internazionali o enti di consulenza effettuano quando si tratta di quantificare i benefici economici e occupazionali dei modelli economi circolari. Sempre se ci si aspetta dalle aziende la creazione di valore  (anziché disvalore) sul piano sociale e ambientale.

RICICLABILITA’ DEVE COINCIDERE RICICLO

Recentemente due associazioni internazionali di riciclatori di materie plastiche, l’europea Plastics Recycling Europe (PRE) e l’americana The Association of Plastic Recyclers hanno convenuto su cosa si debba intendere per plastica riciclabile a livello globale. “Il termine ‘riciclabile’ viene costantemente utilizzato per definire materiali e prodotti senza che vi sia un riferimento definito e condiviso”, nota Steve Alexander, Presidente di APR. “La riciclabilità di un prodotto va oltre l’essere tecnicamente riciclabile: i consumatori devono poter accedere a un sistema di raccolta e riciclo, un riciclatore deve essere in grado di trattare il materiale e occorre un mercato finale per i materiali rigenerati”. Secondo le due associazioni, per essere considerato riciclabile, un prodotto in plastica deve soddisfare quattro condizioni che si possono leggere qui . Pertanto anche qualora i contenitori monouso utilizzati dalle multinazionali del fast food fossero tecnicamente riciclabili, mancherebbero pur sempre totalmente o parzialmente le condizioni descritte per arrivare al riciclo effettivo. A meno che le multinazionali stesse non gestiscano un loro schema di EPR , applichino un deposito su cauzione in modo che i clienti riportino i contenitori,  prendendosi carico dei costi di riciclo. Dubitiamo fortemente che dovendo sostenere i costi che attualmente esternalizzano sulle comunità le multinazionali sceglierebbero l’utilizzo esclusivo di contenitori usa e getta.

Riciclatori e sostenitori Zero Waste a Starbucks: non è vero che il nuovo coperchio verrà riciclato

Il Comunicato stampa in inglese
Il movimento internazionale #breakfreefromplastics invita il CEO di Starbucks Kevin Thompson a vedere dove finiscono i rifiuti di Starbucks: in gran parte nei paesi del Sud-est asiatico.
Nel tentativo di placare la crescente preoccupazione circa le quantità di contenitori usa e getta superflui utilizzati nelle sue caffetterie Starbucks, ha recentemente annunciato a gran voce che avrebbe gradualmente eliminato le cannucce di plastica sostituendole con nuovi coperchi di plastica “riciclabile”. In realtà il tipo di plastica che Starbucks definisce “riciclabile” viene inviata in discarica negli USA o spedita in paesi come la Malesia o il Vietnam spostando l’inquinamento. “Le affermazioni di Starbucks sulla caratteristica della plastica #5  di essere ampiamente riciclata non è corretta“, afferma Stiv Wilson, direttore delle campagne del progetto The Story of Stuff. “Questa incredibile attenzione ad un singolo prodotto non è necessariamente negativa, ma non è nemmeno buona cosa se non porta a un cambiamento più ampio e sistematico nei modi in cui la plastica: il materiale oggi più onnipresente in commercio, viene prodotta, usata e smaltita attualmente ” ha aggiunto.
Aziende come Starbucks sempre più prese di mira per il contributo all’inquinamento plastico causato dai propri imballaggi, si sono affidate principalmente al riciclaggio visto come la soluzione al problema, nonostante i numerosi punti di debolezza del sistema. Di conseguenza, gli Stati Uniti hanno inviato sempre maggiori quantità di plastica “riciclabile” alla Cina sino a che il paese ha chiuso i battenti. Ora gli Stati Uniti hanno iniziato a inviare i propri rifiuti di plastica ad altri paesi in Asia che, di conseguenza, hanno imposto divieti e restrizioni simili a quelli cinesi.
“Il riciclaggio da solo non risolverà la crisi dell’inquinamento plastico“, ha dichiarato la responsabile campagna plastica di Greenpeace USA Kate Melges. “In effetti, affidarsi a un sistema di riciclaggio che sta fallendo negli Stati Uniti e affrontare i divieti all’estero peggiorerà   il problema. Ad oggi, solo il 9% di tutta la plastica mai creata è stata riciclata. È tempo che le aziende vadano oltre alle appariscenti iniziative di pubbliche relazioni ( flashy PR moves ) e inizino a ridurre in modo significativo la produzione di plastica e ad investire in alternative riutilizzabili“.
In molti dei paesi dove Starbuck è presente ci sono da zero a poche infrastrutture di riciclaggio. Non solamente contenitori, coperchi e cannucce marchiate Starbucks, compaiono tra i rifiuti raccolti nelle operazioni di pulizia delle spiagge ma, secondo l’app Litterati, i prodotti a marchio Starbucks rientrano facilmente tra i primi tre marchi identificati nei rifiuti a livello globale, se non il numero uno.
Con questo in mente, il movimento #breakfreefromplastic invita il CEO di Starbucks Kevin Johnson a visitare le comunità del Sud-Est asiatico più colpite dai rifiuti di plastica creati dalle aziende con sede nel nord del mondo. Vai al testo della lettera. 
“Il tipo di inquinamento plastico che stiamo osservando nel Sud-Est asiatico è prodotto da società globali con sede in Nord America ed Europa“, ha dichiarato il coordinatore globale di Break Free From Plastic Von Hernandez. “Mentre questi paesi sono stati accusati di  essere i maggiori responsabili dell’inquinamento plastico, chi sta davvero spingendo per aumentare la produzione di questi rifiuti sono le aziende situate nel nord del mondo. Queste aziende devono assumersi la responsabilità dei loro rifiuti “.
Il carattere fuorviante degli impegni di riciclaggio presi dall’industria hanno ostacolato il progresso verso soluzioni reali che possono offrire soluzioni all’inquinamento da plastica. Monica Wilson, Research & Policy Director di GAIA, afferma: “Chiediamo a Starbucks di assumersi la responsabilità dei propri prodotti e imballaggi e di smettere di fingere che la marea di plastica immessa sul mercato venga effettivamente riciclata”.




Storia, letteratura e filosofia fra gli scaffali, dopo l’orario di lavoro, nell’azienda che mette le persone al centro

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Quando, nel 2016, il Dipartimento di studi umanistici dell’università di Triesteha pensato di proporre a una azienda un progetto di formazione del tutto innovativo, la scelta è caduta sulla Modulblok di Amaro, in Carnia, specializzata nella logistica di magazzino (fa scaffali antisismici). Qui il direttore di stabilimento, l’ingegner Mario Di Nucci, già da tempo stava lavorando su un radicale cambiamento del processo di produzione, coinvolgendo le maestranze, mettendo al centro la relazione e le persone. “Al centro dei suoi racconti sulla vita di fabbrica c’erano sempre i nomi, le descrizioni e i tratti personali dei suoi colaboratori e operai, assoluti protagonisti di un racconto assolutamente appassionato”, scrive Matteo Cornacchia nel libro “Le humanities in azienda”, nato anche dalla esperienza in Modulblok.
Nella azienda metalmeccanica un gruppo di ricercatori universitari di discipline umanistiche ha tenuto lezioni di storia, letteratura, pedagogia, filosofia e storia del teatro, per un pubblico che univa il management e gli operai. Il tutto dopo il termine dell’orario di lavoro, in pieno reparto produttivo,  fra presse e muletti. Quasi la metà dei dipendenti ha accolto la proposta e si è fermato per iniziare un percorso su se stessi, fra l’Otello di Shakespeare e le maschere di Pirandello.

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Le figure chiave sono due: è quella del direttore dello stabilimento, che teneva un diario fitto di riflessioni sul lavoro e sui profili psicologici delle persone impiegate che ha fatto da base al progetto, e quella di Sara Savio, giovane marketing manager di Modulblok, che spiega:  «Abbiamo voluto dare una chiave di lettura diversa al concetto di welfare aziendale e abbiamo capito appieno l’importanza del percorso mentre lo stavamo vivendo. L’alta adesione ci ha confortati, soprattutto perché l’iniziativa era fuori dall’orario di lavoro. I docenti sono stati bravissimi nel coinvolgere i partecipanti in un dialogo che ha arricchito entrambe le parti. Scegliere nozioni umanistiche ci ha permesso di rompere gli schemi, mentre a chi ha seguito questa lezioni ha consentito di scoprire attitudini e interessi che forse gli allievi nemmeno immaginavano».
L’esperienza che ha visto protagonisti Modulblok e Università di Trieste indaga su come possano le materie umanistiche migliorare la produttività in fabbrica, e come l’arricchimento culturale di una persona, al di là delle competenze sul lavoro, possa essere un “plus” per un’azienda. E il ciclo di sette incontri che ha coinvolto nel 2016, in orario extra lavorativo, un’ottantina di lavoratori (circa la metà del totale) fra i due stabilimenti  è raccontato nel libro  “Le humanities in azienda – per una via umanistica alla formazione” di  Matteo Cornacchia, uno dei docenti universitari entrati in fabbrica e tra i principali “motori” dell’iniziativa: «Il volume è il coronamento di un percorso – racconta il professore -, partito dalla riflessione su quale spazio potessero avere le discipline umanistiche in azienda, finalizzato a “smontare” la credenza che la formazione possa essere soltanto di natura tecnica e utilitaristica».
sara-savioLa pubblicazione guarda a insegnanti e studenti universitari, ma il quinto capitolo, “Modul Life”, è stato declinato sotto forma di racconto narrativo che ha testimoniato l’esperienza vissuta con questi speciali “allievi” dell’impresa friulana. Matteo, docente di pedagogia all’ateneo giuliano, è stato affiancato dalla storica Tullia Catalan, dal linguista Fabio Romanini, dallo storico del teatro Paolo Quazzolo, dal filosofo Paolo Labinaz e dalla studiosa di letteratura inglese Laura Pelaschiar. E in barba alla credenza, sbagliata, che le discipline umanistiche siano inutili e che di cultura non si mangia, il percorso in Modulblok ha arricchito i dipendenti, contribuendo ulteriormente a “fare squadra” tra chi, ogni giorno, si occupa di confezionare le scaffalature per clienti di diverse parti del mondo.
«L’azienda – prosegue Cornacchia – aveva le caratteristiche giuste per costruire un’esperienza adeguata. I riscontri sono stati ottimi”.
E per la seconda edizione del progetto un’ipotesi è concentrarsi sui “Giri di vite”, ovvero biografie di personaggi famosi: “Ma di questo discuteremo con gli interessati, dai quali stiamo già raccogliendo suggerimenti», sottolinea Cornacchia.  Modulblok ha  27 milioni di euro di fatturato, 150 addetti tra le due sedi di Pagnacco e Amaro; nel 2017 ha raccolto ordinativi per 33 milioni di euro. Una realtà che guarda con interesse al benessere dei suoi collaboratori, studiando forme alternative: “Se un grande capitano dell’industria italiana, Adriano Olivetti, aveva messo nella sua azienda una biblioteca e un’emeroteca non sarà certo per caso”, commenta Savio, al lavoro per organizzare ina seconda edizione delle Humanities in azienda.
Il quadro è quello di una azienda dove situazioni non comuni sono la normalità: le domeniche di fabbrica aperta con tutte le famiglie, l’esperienza di team building organizzata in un casolare di montagna, la testimonianza di un medico di guerra alla cena aziendale di fine allo e la formazione sulla sicurezza fatta attraverso il teatro.

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GESTIONE URBANA ACQUA PIOVANA: CITTÀ-SPUGNA CONTRO I CAMBIAMENTI CLIMATICI

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GESTIONE URBANA ACQUA PIOVANA: CITTÀ-SPUGNA CONTRO I CAMBIAMENTI CLIMATICI

INFRASTRUTTURE E TETTI VERDI, SUPERFICI PERMEABILI E FILTRANTI. LE CITTÀ-SPUGNA CINESI SONO UN MODELLO DI GESTIONE URBANA ACQUA PIOVANA

Ultimamente ci stiamo purtroppo abituando ad assistere ai disastri naturali. Fra i fenomeni più frequenti vi sono sicuramente i nubifragi. Solo nell’ultimo anno possiamo fare un elenco di tempeste che hanno portato distruzione laddove si sono abbattute: a fine agosto la bomba d’acqua che ha colpito il sud est asiatico ha paralizzato Mumbai, poi è stata la volta di Houston, negli Usa, e infine anche Berlino ha affrontato uno dei nubifragi più violenti della storia del paese. Se la causa di questo inasprirsi degli eventi calamitosi è ormai (quasi) universalmente rintracciata nell’aggravarsi del fenomeno del cambiamento climatico, rimane da chiedersi quali strategie di gestione urbana dell’acqua piovana dovrebbero essere messe in atto per salvaguardare le città di tutto il mondo.

Città più resilienti

E’ chiaro che il riscaldamento globale debba essere contrastato con misure radicali e attraverso una revisione profonda delle politiche energetiche ma nel frattempo è necessario cautelarsi, cercando di progettare città più resilienti, ovvero in grado di resistere e di reagire agli eventi estremi.

Il maxi-piano cinese per contrastare le alluvioni

Il Paese che probabilmente sta investendo maggiormente, perlomeno a livello teorico, in un modello innovativo e integrato di gestione urbana acqua piovana è la Cina. Più volte colpito da nubifragi molto violenti, come quello del 2012 che ha devastato Pechino, il paese asiatico nel 2015 ha lanciato un maxi-progetto con un obiettivo ambizioso: entro il 2020 l’80% delle aree urbane dovrebbe assorbire e riutilizzare almeno il 70% dell’acqua piovana.

Come è possibile raggiungere questo scopo? Trasformando tutte le grandi città cinesi in ‘sponge cities’, grazie a una serie di interventi e di progetti volti a una maggiore resilienza. Le città-spugna, lo si deduce dal nome, sono quelle città che mettono in atto alcune soluzioni per evitare che l’acqua dirompi, assorbendola e, laddove possibile, recuperandola per destinarla a nuovi usi.

Gestione urbana acqua piovana: interventi in 30 città

A essere coinvolte sono attualmente 30 diverse città, tra cui Shanghai, Wuhan e Xiamen, dove si stanno sperimentando o dove sono stati pianificati interventi che dovrebbero sia aiutare a migliorare la gestione urbana acqua piovana sia a far fronte alle carenze idriche dovute a consumi eccessivi. Gli interventi per trasformare un centro urbano in una città-spugna riguardano soprattutto l’implementazione di infrastrutture verdi e di superfici permeabili e filtranti, capaci di potenziare la capacità di assorbimento e di redistribuzione dell’acqua.

Una città-spugna sperimentale

Lingang New City, un nuovo agglomerato pianificato nel distretto di Pudong, a 65 km Shanghai, sta fungendo da test per lo sviluppo di un modello di sponge-city. I tetti delle abitazioni saranno interamente ricoperti da vegetazione, sono previste zone umide per lo stoccaggio dell’acqua piovana, tutte le pavimentazioni saranno permeabili e vi sarà anche un grande lago al centro della città, che fungerà sia da bacino idrico di raccolta sia come espediente per ridurre la temperatura esterna dell’aria.

gestione urbana acqua piovana

Gli altri interventi

Oltre alla città sperimentale, diverse misure sono in fase di realizzazione anche altrove. Shanghai ha annunciato all’inizio del 2016 la costruzione di 400.000 metri quadrati di giardini pensili. Mentre a Shenzen, una megalopoli di 10 milioni di abitanti che si affaccia sul mare che bagna la regione del Guandong, nella Cina meridionale, si stanno sperimentando alcuni sistemi innovativi per edifici e pavimentazioni.

Qualcosa non sta funzionando?

Il traguardo si sta però avvicinando e c’è da dire che in tutte le città cinesi si sono verificati una serie dirallentamenti nei lavori previsti.

Secondo le informazioni che si possono ricavare dai media locali, da un lato ci si è scontrati con una serie di vincoli burocratici e normativi, dall’altro lato c’è una difficoltà a finanziare tutti i progetti previsti. Il governo cinese finanzia infatti circa il 15-20% dei costi e la parte restante viene divisa fra governi locali e investitori privati. E non è sempre così semplice trovare un finanziamento.

Finora sono stati investiti 12 miliardi di dollari nei vari interventi di gestione urbana acqua piovana che stanno trasformando i centri urbani cinesi in città-spugna, una cifra elevata ma insufficiente per centrare l’obiettivo del maxi-progetto.




Cyber Security e Digital Marketing, serve una stretta collaborazione per proteggere dati sensibili e reputazione aziendale

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Cyber Security e Digital Marketing, serve una stretta collaborazione per proteggere dati sensibili e reputazione aziendale
Il Marketing è spesso considerato l’anello debole della sicurezza informatica. È tempo di ribaltare questa visione e creare uno stretto sodalizio fra gli esperti di Cyber Security e Digital Marketing per la definizione, diffusione e attuazione di strategie mirate a prevenire attacchi e a reagire opportunamente in caso di incidenti.


Cyber Security e Digital Marketing sono ormai due facce di una stessa medaglia. Nell’era del 4.0 e dell’Internet of Things, infatti, i professionisti che lavorano in ambito Marketingsi trovano spesso a dover gestire informazioni sensibili, collocate in ambienti cloud e diversificati, noti per essere maggiormente esposti ad attacchi informatici, interni e/o esterni. Quindi è fondamentale che siano coinvolti nella definizione, diffusione e attuazione delle strategie di Cyber Security, non solo perché facile obiettivo per gli hacker, ma come soggetto attivo nel contrasto al cyber risk.
La digitalizzazione dei processi e dei sistemi informativi aziendali, ha consentito a molte organizzazioni di essere più competitive, ma questo ha significato, al tempo stesso, esporre i dati delle stesse a maggiori rischi. Di conseguenza la Cyber Security è diventata una priorità assoluta per le imprese.
All’interno di questo contesto, il Marketing è ancora percepito come un soggetto a rischio per la sicurezza dei dati di un’organizzazione e le persone che lavorano nelle posizioni di Marketing si sono abituate ad essere qualificate come anello debole dei sistemi di sicurezza informatica.
In realtà, preso atto che anche una sola violazione dei dati può danneggiare considerevolmente un’azienda, a livello di Brand Reputation e, in seconda analisi, di costi economici, nessuno può sentirsi al riparo da questo genere di minacce, qualsiasi sia la sua attività ed il settore in cui opera.
Questa riflessione assume un’ulteriore rilevanza se si considera che i trend digitali come cloud, mobile, IoT e social, ormai imprescindibili anche per le aziende, espongono le stesse a una grande quantità di minacce.
Per di più, l’opportunità di raccogliere una quantità di dati sensibili sempre più ampia, parliamo quindi degli ormai noti Big Data, aumenta ulteriormente la possibilità di violazioni di sistemi informativi aziendali.
Inoltre, gli attacchi hacker come il furto di dati sensibili dei singoli consumatori, la distribuzione di malware o l’e-mail phishing, sono spesso facilitati dall’incuranza e dalla scarsa conoscenza e consapevolezza del personale interno dei rischi informatici.
Pertanto è fondamentale che l’organizzazione, a tutti i livelli, Marketing incluso, sia informata e consapevole sull’importanza della Cyber Security.

Gli esperti di Cyber Security e Digital Marketing devono collaborare di più

Ciò pone la domanda: cosa può fare il team di Marketing in tale scenario?
Data la quantità di informazioni sensibili a cui i Marketer hanno accesso e il crescente ricorso a nuove tecnologie e ambienti digitali per la condivisione interna e/o esterna all’organizzazione di questi dati, il Marketing è spesso obiettivo del crime sul web.
Perciò, in primo luogo, è essenziale educare le persone che lavorano in questo settore alla sicurezza informatica, con percorsi formativi creati ad hoc, per permettergli di identificare le specifiche tipologie di attacco informatico a cui potrebbero essere personalmente sottoposti, e ad usare con cautela ed intelligenza le tecnologie digitali.
Ciò significa anche che il Marketing dovrà comprendere l’importanza di collaborare con il dipartimento IT, per identificare eventuali minacce, rappresentate da nuove tecnologie, piattaforme e applicazioni, e determinare le misure di attenuazione del rischio informatico.
Una volta ridefinito il modo in cui i professionisti del Marketing affrontano il tema della Cyber Security, passando dall’essere facile bersaglio degli hacker, a utenti consapevoli dei rischi connessi al digitale, gli stessi marketer potranno essere d’aiuto all’intera organizzazione nell’arginare il Cyber Crime, diffondendo la cultura della sicurezza informatica tra tutte le funzioni in azienda.
Questo significa attivare campagne di comunicazione interna pensate per veicolare l’importanza della formazione sulla sicurezza informatica, contribuire alla diffusione del know-how aziendale riguardo le best practice in materia di Cyber Security e così via.

I Marketer devono essere pronti a comunicare in caso di attacco informatico

L’obiettivo per i professionisti che lavorano in ambito Marketing è quindi quello di accelerare e diffondere l’adozione di una strategia condivisa sul tema della sicurezza informatica tra tutta la popolazione aziendale.
Ma il ruolo del Marketing potrebbe andare oltre l’attività di diffusione interna delle norme aziendali di Cyber Security. È infatti altrettanto importante che i Marketer siano preparati ad affrontare un eventuale episodio di Cyber Crime e definiscano quindi preventivamente un piano di comunicazione esterna in caso si verificasse un attacco informatico, così da evitare il panico tra clienti, fornitori e partner.
In definitiva, la Cyber Security è fondamentale ad ogni livello dell’organizzazione, così come la diffusione di una cultura del rischio informatico e, al tempo stesso, lo sviluppo di una fiducia digitale.
All’interno di questo scenario, il Marketing, anziché l’anello debole della sicurezza informatica, può costituire la prima linea di difesa contro il cyber risk e contribuire a cambiare la prospettiva dalla quale il personale interno guarda a queste tematiche, permettendogli di comprendere come oggi la Cyber Security ricopra un ruolo abilitante, e non frenante, rispetto al raggiungimento degli obiettivi di business.
*di Matteo Giudici, Presidente & CEO di Mesa Srl, azienda associata AISM, Associazione Italiana Sviluppo Marketing