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Jean Twenge, lo smartphone e i ragazzi iperconnessi e fragili

Jean Twenge, lo smartphone e i ragazzi iperconnessi e fragili
Iperconnessi è il saggio molto denso, chiaro e diretto di una psicologa californiana che descrive l’infelicità e i vari ritardi di maturazione emotivi e cognitivi dei ragazzi americani tra i 13 e i 20 anni (www.jeantwenge.com, Einaudi, 2018, 371 pagine effettive, euro 19).


Una grande percentuale di ragazzi e ragazze nati intorno al 2000, che sono cresciuti con lo smartphone costantemente in mano, passano la maggior parte del tempo connessi, o a fare giochi digitali. E passano troppo tempo in compagnia dei loro genitori, quasi al livello dei ragazzini di dieci anni. Molti ragazzi e ragazze preferiscono addirittura passare quasi tutto il loro tempo in camera da letto durante le vacanze estive, giocando online o guardando dei telefilm scaricati dalla rete.
Questa particolare classe di età viene definita iGeneration ed è caratterizzata da queste qualità: immaturità, iperconnessione, incorporeità (poche relazioni faccia a faccia), instabilità (piccoli e grandi problemi emotivi), isolamento, incertezza (lavorativa e non), inclusività (tolleranza). Le reti sociali di questi adolescenti si allargano quasi solo online e vengono fatte sempre meno feste, poiché ci vuole troppo tempo a programmarle, e se si beve troppo si mette a rischio la reputazione e la sicurezza emotiva e fisica (ci sarà sempre qualcuno pronto a fotografare e a taggare).
La rete ha attirato tutta l’attenzione dei ragazzi e il tempo impegnato nelle relazioni faccia a faccia nel mondo reale si sta riducendo in maniera molto preoccupante. La libertà di movimento legata al possesso della patente di guida e la piena libertà sessuale, vengono posticipate di almeno uno o due anni rispetto alle generazioni precedenti. Naturalmente le loro scarse abilità pratiche e relazionali stanno rallentando e complicando il loro inserimento nel mondo del lavoro. Ad esempio molti ragazzi parlano pochissimo al telefono non sono in grado di gestire una telefonata educata.
In media gran parte degli adolescenti esaminati dalla psicologa californiana controllano “il cellulare più di ottanta volte al giorno” (p. 5), e vengono descritti come molto individualisti, narcisisti e molto preoccupati dalle disuguaglianze di reddito percepite attraverso le innumerevoli allusioni alla dura competizione, fatte dalla scuola, dalla politica, dalla televisione e dalla pubblicità. Per questo motivo molti ragazzi individualisti perdono incredibili quantità di tempo nel guardare le foto e le attività degli amici o addirittura di “conoscenti” mai conosciuti di persona (amici virtuali).
I ragazzi “all’ultimo anno delle superiori passano ogni giorno una media di due ore e un quarto a mandare i messaggi col cellularedue ore su Internet, un’ora e mezza con qualche gioco elettronico e circa mezz’ora in video chat… Totale: sei ore al giorno in compagnia dei nuovi media, e stiamo parlando esclusivamente del loro tempo libero” (p. 75). Per i più giovani il telefono è come una droga o come un innamorato: è la prima cosa vedono la mattina ed è l’ultima che vedono la notte (avere il telefono vicino anche la notte risulta molto rassicurante, p. 74).
I ragazzi iGeneration leggono pochi libri e riviste (nemmeno online). Nel 2015 in USA, i quotidiani sono stati letti dal 10 per cento dei cittadini, rispetto al 70 percento di dieci anni prima (p. 91). Il distacco dalla carta stampata e dalla lettura ha comportato un grosso calo delle competenze universitarie, nei voti di ammissione, nella scrittura e nell’analisi dei testi (p. 93). Anche se esiste l’obbligo a farlo, “quasi tutti i docenti raccontano che i loro studenti non leggono il testo” o i testi indicati. Quindi “agli iGeneration servono libri di testo che prevedano momenti interattivi – video da condividere, questionari – ma anche libri meno lunghi e di registro più colloquiale” (p. 95).
L’aspetto più positivo di questa generazione è la grande creatività nella socializzazione a breve termine e nelle loro capacità di superamento di molti tabù sociali ingiustificati. Ma purtroppo “sono in prima linea nella peggior epidemia di disturbi psichici degli ultimi decenni, che dal 2011 a oggi ha visto salire alle stelle i casi di depressione e suicidio tra gli adolescenti” (p. 5).
Lo stile di vita americano condiziona in maniera impressionante gli stili di vita dei ragazzi di tutte le società più tecnologizzate, quindi dobbiamo renderci conto che stiamo allevando delle nuove generazioni molto forti fisicamente, ma molto deboli psicologicamente. Del resto anche in Giappone e in Cina, i giovani hanno già delle grandi difficoltà nella socializzazione, nelle relazioni sentimentali e nella riproduzione. Quindi in molte nazioni, e a tutti i livelli (anche accademici), nasceranno dei nuovi gruppi sociali composti da persone troppo infantilizzate e rimbambinite.
 
Jean Twenge è nata nel 1971 e insegna Psicologia alla San Diego University in California. Grazie alle sue ricerche sulle generazioni americane ha pubblicato altri due libri: Generation Me e The Narcissism Epidemic. Per approfondimenti: www.youtube.com/watch?v=T6IBlFELDxc (2018).
 
Nota personale – A quanto pare molti americani sono diventati più iperprotettivi degli italiani, forse soprattutto gli abitanti delle grandi città, a causa della piccola e grande criminalità. A mio modesto parere nel migliore dei casi stiamo creando una generazione di grandi ficcanaso digitali. Molti ragazzi diventano dipendenti della caccia ai like e alcuni non smettono mai. Altri “smettono di farsi incantare dal simulacro della caccia ai like, ma di norma accade sono dopo che sono usciti dall’adolescenza”, intorno ai ventuno anni (p. 83). Forse la salute cognitiva di molti adolescenti italiani verrà salvata da una delle lingue più mentalmente libere e precise del mondo (Ama l’italiano, i segreti e le meraviglie della lingua italiana, https://annalisaandreoni.it, 2017).
Nota ludica – I giochi online hanno una distribuzione bimodale: molti adolescenti li usano tantissimo e altri li ignorano. Le ragazze molto appassionate stanno aumentando. Nel 2016 soltanto il 30 per cento dei quattordicenni usava Facebook almeno una volta al mese, mentre l’80 per cento usava Instagram… “il 59 per cento dei giovani fra i diciotto e i ventinove anni usava Instagram” (Pew Research Center, p. 85). Le immagini portano via meno tempo delle parole, ma una singola immagine fuori dal contesto può mentire e può incasinare la vita più di mille parole.
Nota sul bullismo – Oggi le vita sociale dei più giovani si svolge principalmente online “e uno di loro su tre subisce il bullismo senza nemmeno uscire di casa” (p. 126). Diventa quasi impossibile impedire questa forma di bullismo senza uscire dai social. Negli Stati Uniti “dal 2007 il tasso di omicidio tra adolescenti è diminuito, mentre è aumentato il tasso di suicidio”. E per la prima volta da quando si studia il fenomeno, nel 2011 “il tasso di suicidio tra gli adolescenti è stato più alto del tasso di omicidio nella stessa fascia d’età… nel 2014 il tasso di suicidio superava del 32 per cento quello di omicidio”. Però le cause della depressione sono svariate e “negli anni Novanta il tasso di suicidio era ancora più elevato” (p. 127). Comunque il cyberbullismo nel 2016 ha riguardato il 34 per cento degli adolescenti, mentre nel 2007 era il 19 per cento” (Cyberbullying Research Center, p. 125). Per approfondimenti italiani sul bullismo: https://albertorossetti.com (psicoterapeuta).
Nota finale – L’individualismo estremo si riflette nella continua ricerca di sicurezza e nel declino costante dell’impegno civile, nonostante l’aumento del grado di tolleranza nei confronti di quasi tutti i generi di diversità. Poi si riflette nell’instabilità delle relazioni sentimentali. Per ora quasi tutte le problematiche esposte nel libro riguardano più da vicino le classi medie e alte della società americana. Nel giro di pochi anni il ritardo di maturazione emotiva riguarderà probabilmente tutte le classi sociali. Il ritardo di maturazione cognitiva potrebbe danneggiare tutte le fasi della vita. La crisi economica spinge a rinunciare le relazioni stabili e forse anche ai figli. Forse “gli Stati Uniti assomiglieranno sempre più all’Europa, dove i tassi di natalità sono al di sotto del tasso di ricambio generazionale e il matrimonio è un optional” (p. 288). In effetti i matrimoni e i figli comportano molti problemi e rischi individuali: emotivi, economici, lavorativi, abitativi, logistici, di carriera, ecc.
Nota iperfinale – “Quando frequentavo le superiori io, se fossi andato in giro a dire: “Ecco una mia foto, dimmi che ti piaccio”, mi avrebbero dato un pugno. Se una ragazza avesse distribuito a destra e a manca fotografie in cui appariva nuda, la gente avrebbe pensato che le serviva uno psicanalista. Adesso, sono solo i selfie della domenica ” (Paul Roberts, p. 84, ha scritto The Impulse Societyqui trovate una sua conferenza del 2014).
Nota apocalittica – Anche l’incremento dei debiti legati ai prestiti universitari e degli anni da dover passare nel ruolo indesiderato e prolungato di moderni schiavi finanziari, stanno mettendo in crisi la salute psicologica di innumerevoli studenti americani (p. 161 e p. 209). Il debito medio di un laureando nel 1993 era di 9727 dollari, nel 2005 è diventato di 22575, mentre nel 2016 ha raggiunto i 37173 dollari (p. 232). Inoltre l’esagerato bisogno di protezione sta minando il diritto mentale della libertà di ascolto, di confronto e di espressione: in molti atenei americani sono comparsi degli “spazi protetti”, e “se gli studenti si sentono turbati dai discorsi di un relatore invitato a tenere una conferenza nella loro facoltà, si riuniscono in un apposito locale e si consolano a vicenda”. Qualche burocrate sconsiderato ha diffuso l’allucinante idea che bisogna tutelarsi “dalle persone che la pensano in modo diverso” (p. 185). “Un’università non protegge, nelle università si impara e ci si fanno domande”. A volte ci si sente a disagio e si chiama imparare (p. 192). Del resto molti ragazze e ragazzi immaturi si sentono “la prima generazione totalmente impossibilitata a sfuggire ai propri problemi” (Faith Ann Bishop, ventenne, p. 145, testimonianza di resa mentale resa al Time). Ma non basterebbe alzare le chiappe e andare a trovare qualche amico o un parente? Ma noi “Ci lasciamo distrarre dai dettagli più futili e tutto diventa intrattenimento” (Vivian, 22 anni, p. 209). Qui ci sono delle altre riflessioni americane: http://anationofwimps.comhttps://lisa-wade.com/american-hookupwww.peggyorenstein.com/main-st.




Genera

Genera

L’ospite di questa settimana è Marco Busetto, Business Analyst di Genera, una nuova realtà del mondo cooperativo.
Buongiorno Marco e benvenuto sul mio blog. Quando è nata e qual è la missione di Genera?
Genera è un fondo di investimento “a rotazione” che ha iniziato la propria attività in Lombardia nei primi mesi del 2016 con l’obbiettivo di sostenere progetti di sviluppo, diversificazione, riorganizzazione ed innovazione di imprese cooperative o ad alto valore cooperativo. La società investe in capitale di rischio in iniziative imprenditoriali (start-up e imprese consolidate) anche non cooperative ma caratterizzate da un marcato impatto sociale e interesse cooperativo. Lo slancio verso l’innovazione e la sostenibilità rappresentano quindi il fil-rouge che dà coerenza agli investimenti effettuati e agli sforzi che Genera ha prodotto e sta producendo. A partire dal suo lancio Genera ha investito in 7 progetti in diversi settori tra cui, solo per citarne alcuni, la mobilità sostenibile, soluzioni innovative in ambito welfare e il settore degli affitti brevi.
Vi definite una rete di soggetti con un unico obiettivo: promuoviamo i valori della cooperazione per rilanciare un modello di sviluppo sostenibile e con un impatto sociale positivo. Ci spieghi meglio?
Genera nasce in collaborazione con Legacoop Lombardia, è naturale quindi che abbia nel suo DNA i valori cardine della cooperazione. I soci di Genera credono in un modello di lavoro e di sviluppo che metta le persone al centro. Per questo sostengono l’avvio di nuove società cooperative e di progetti imprenditoriali che prestino particolare attenzione al capitale umano e ai valori della responsabilità sociale. Il valore di questi progetti dipende non solo dalla remunerazione del capitale di rischio e dal loro grado di evoluzione tecnologica ma anche dalla qualità e dalla quantità dell’apporto fornito dalle persone che fanno parte dell’impresa.
Come siete organizzati e quali sono i vostri punti di forza?
Genera è una struttura agile basata a Milano e composta da un team dinamico e flessibile. Una parte importante del lavoro è dedicata al processo pre-investimento attraverso il quale vengono selezionati i progetti che meglio rispondono alle linee guida e ai criteri di Genera. La società monitora periodicamente, attraverso una serie di strumenti di supporto all’attività manageriale, l’andamento dei propri investimenti senza però volersi sostituire all’attività degli imprenditori. Uno dei principali punti di forza risiede nella capacità di contribuire all’attivazione di processi virtuosi di integrazione e collaborazione tra istanze imprenditoriali cooperative ed extra-cooperative.
Programmi per il futuro?
Accanto alla funzione di piattaforma abilitante in grado di fornire risorse economiche e manageriali (capitale, assistenza, servizi, ma anche networking e strategia) Genera intende porsi come un aggregatore di domanda e offerta di innovazione cooperativa. In quest’ottica si è deciso di costituire un vero e proprio centro per l’innovazione e per l’open innovation. Un luogo fisico di aggregazione e attrazione capace di accogliere, stabilmente o temporaneamente, cooperative mature e start-up innovative. Questo spazio, chiamato Open Innovation Lab, ospiterà nel corso del 2019 una serie di workshop tematici.




ARABIA SAUDITA: NON DI SOLO CALCIO….

ruolo della donna Arabia Saudita

Il ruolo della donna nella comunicazione pubblicitaria in Arabia Saudita

È trascorso poco più di un mese dal 25 novembre, Giornata Internazionale ONU contro la violenza sulle donne, quando la Lega della Serie A di calcio aveva invitato i calciatori a scendere in campo con un segno rosso sulla faccia e il Presidente della Lega Gaetano Micciché aveva dichiarato: “Il mondo del calcio deve sensibilizzare contro questi fenomeni, perché può avere un ruolo molto rilevante nel dare il suo contributo”, e – peraltro – solo 3 mesi dal giorno in cui Jamal Khashoggi, collaboratore del Washington Post e in passato critico verso il regime di Riad, si era recato nel consolato Saudita di Istanbul per completare alcune pratiche burocratiche, uscendone morto e tagliato a pezzetti, e l’Arabia Saudita entra nuovamente nell’occhio del ciclone – con inevitabili polemiche online e i Social scatenati – a causa della decisione della Lega di giocare la Super Coppa italiana in un paese che, notoriamente, nega vari basilari diritti alle donne.
Che l’Arabia Saudita – alleato fondamentale degli USA e importante acquirente di armi anche dall’Italia, nonché principale protagonista, con l’Iran, della guerra per procura in corso in Yemen, dall’inizio della quale più di 85.000 bambini sono morti di stenti – presentasse ampi “spazi di miglioramento” sul fronte dei diritti umani, non è certamente una novità, come anche cosa nota da tempo è che, paradossalmente, a presiedere il Comitato consultivo del Consiglio ONU dei Diritti Umani sieda proprio Faisal bin Hassan Thad, Ambasciatore dell’Arabia Saudita alle Nazioni Unite: ma in Italia ci si sveglia sempre e solo quando di mezzo c’è una partita di calcio, per riaddormentarsi poi immediatamente dopo lo scoccare del 90° minuto.
In ogni caso, la decisione di giocare la Supercoppa di Lega nel regno arabo ha suscitato numerose polemiche, in quanto la maggior parte dello stadio King Abdullah Sports City Stadium sarà riservato agli uomini, e le donne – secondo quanto riportato dai principali mass-media mainstream – saranno confinate in pochi settori secondari.
In Arabia Saudita alle donne sono da sempre preclusi alcuni basilari diritti umani: la testimonianza offerta da una donna in Tribunale vale la metà di quella dell’uomo (!), le donne non possono viaggiare liberamente, o sottoporsi a un’operazione chirurgica, senza l’approvazione di un parente maschio, e solo da pochi mesi possono prendere la patente; in occasione della partita tra Juventus e Milan, che si giocherà il 16 gennaio nella città di Gedda, i biglietti riservati alle donne saranno un’esigua minoranza, e comunque potranno assistere all’incontro solo da settori periferici del King Abdullah Sports City Stadium. Qualcuno alla Lega sottolinea come si tratti in fondo “di un passo avanti”, in quanto se non altro è la prima volta nella quale le donne saudite allo stadio potranno entrarci: anche per i sauditi pare quindi esserci la speranza, prima o poi, di vedere la fine del tunnel e uscire dal medioevo teocratico.
Allargando il focus, qual è la rappresentazione che viene data della donna nelle case dei Sauditi? Ne ha scritto in un recente articolo il quotidiano liberal tedesco Suddeutsche Zeitung, riportando il testo di uno spot molto diffuso in TV a Riad e dintorni: “Tutte le cose finiscono, tranne l’amore per la famiglia e per il tuo bucato”. E giù con la donna che afferra il cesto e corre in bagno per lavare “la quantità infinita di panni sporchi”, ma con gioia, ovviamente, al servizio del benessere dei figli e soprattutto del marito. Pulire, cucinare, spolverare, cambiare i pannolini, e attendere fremente il rientro a casa del consorte che porta i soldi a casa, e – mi raccomando – sempre con il sorriso sulle labbra: uno spot del genere, andato in onda nel non lontano 2017 per pubblicizzare il detersivo Persil della multinazionale tedesca Henkel, era tipico anche da noi negli anni ’50, e forse anche più recentemente, ma dà l’esatta misura del gap culturale che separa attualmente i due mondi. E non si tratta certamente di un’eccezione, ma anzi, della regola. La nordica e modernissima Ikea, ad esempio, ha rimosso “per rispetto” – o forse per evitare polemiche – tutte le figure femminili dal proprio catalogo per l’Arabia Saudita, mentre nella pubblicità del detersivo Tide della Procter&Gamble, diffuso nel mondo arabo a fine 2016, la madre redarguisce la figlia al grido di: “Non crederai di trovare marito se non sai usare la lavatrice!”, trascinandola contro la sua volontà in bagno per illustrarle l’arte del bucato e i benefici dell’uso del detersivo americano.
Interpellati dal quotidiano tedesco, i responsabili dei vari marchi hanno rilasciato dichiarazioni tra lo sconcertante e il desolante: “Ovviamente nelle nostre iniziative pubblicitarie rispettiamo le tradizioni e la cultura di ogni paese, e d’altra parte le pubblicità non hanno certamente il compito di cambiare la società”, ha dichiarato Elke Schumacher, responsabile comunicazione della Henkel. Peccato, avrà pensato la Schumacher, non essere riusciti a realizzare quello spot sulle lamette per rasoi per la zona del Mali e del Centro Africa, ambientata nella casa dove la madre costringe la figlia urlante alla mutilazione rituale del clitoride: sarebbe stato così tipico e rispettoso delle tradizioni locali! Fatma Abd al Salam, regista e blogger egiziana, madre e moglie, si irrita dinnanzi a questi spot: “Anche i marchi occidentali diffondono nel mondo arabo messaggi misogini, con le donne impegnate solo a soddisfare i bisogni degli altri, invece che dare un’immagine più neutrale e utile per stimolare piccoli cambiamenti, mostrando ad esempio un bambino, maschio, intento ad aiutare la madre a fare il bucato”, immagine che – al netto dei minus habens che squittiscono di continuo urlando al “complotto gender”dovrebbe essere del tutto sdoganata in occidente.
Circa l’opportunismo e schizofrenia delle multinazionali occidentali, bravissime nella redazione di bilanci sociali patinati che difettano sistematicamente dell’essenziale requisito dell’autenticità, avevo già scritto, ma sconcerta il doppiopesismo di aziende che pur aderendo alle linee guida dell’Advertising Standards Authority (“Gli stereotipi di genere andrebbero rimossi in quanto limitano la percezione di se e le possibilità di scelta”) finiscono poi per puntualmente violarli per interessi meramente commerciali.
Considerata l’influenza profonda della pubblicità sull’inconscio delle persone, è proprio così vero che le aziende non devono dare alcun contributo al cambiamento della società, in barba alle tanto decantate policy di responsabilità sociale d’impresa?  Chiunque abbia accesso ai mass media contribuisce di fatto a forgiare la società”, dichiara a tal proposito Massimo Guastini, pubblicitario esperto e Direttore Creativo di Cookies & Partners. “Marketer e pubblicitari sono, nel bene e nel male, operatori culturali a tutti gli effetti, in quanto la comunicazione commerciale diffonde modi di essere, linguaggi, metafore e gerarchie di valori che entrano a far parte dell’immaginario collettivo, orientando opinioni, convinzioni, atteggiamenti e comportamenti quotidiani degli individui. Che la pubblicità non abbia il compito di cambiare la società è quindi una falsa questione: il tema davvero centrale è che la pubblicità non deve rappresentare una specifica forma di ‘inquinamento cognitivo’, e non deve consolidare stereotipi e pregiudizi arcaici che contribuiscano a mantenere disparità e discriminazioni anticostituzionali, punto di vista che trova conforto anche nella ricerca ‘Come la pubblicità racconta le donne e gli uomini, in Italia’”.
Qualcuno sui Social ha poi preso la parola dicendo: “Chi siamo noi per dare lezioni, quando in occidente nella maggior parte dei casi una donna in pubblicità vale in base alla quantità di centimetri di nudo che mette in mostra?”. Vero, tanto che siamo il paese nel quale il Presidente di “Pubblicità Progresso”, Alberto Contri, può affibbiare serenamente online a due professionisti della televisione, omosessuali nel loro privato, l’appellativo di “spregevoli checche”, ed essere ancora comodamente seduto al proprio posto. Con qualche lodevole eccezione, in definitiva, dal punto di vista dei diritti la gara a chi fa peggio, in pubblicità, pare quindi essere sempre aperta.




Instagram, il social della perfezione che ci rende infelici

Per un numero sempre crescente di utenti ed esperti di salute mentale, il problema è proprio l’immagine eccessivamente perfetta che emerge su Instagram, che ci spinge a sentirci inadeguati


UN VIAGGIO strepitoso, una colazione con i fiocchi, un panorama mozzafiato e un selfie impeccabile. Il tutto impacchettato con innumerevoli filtri di bellezza, combinazioni chiaro-scuro per mettere in risalto i particolari e una pioggia di hashtag che fanno registrare in media 4,2 miliardi di like al giorno. È il mondo di Instagram, il social della perfezione, che innumerevoli volte al giorno decidiamo di aprire sui nostri smartphone per scorrere velocemente foto e video e aggiornarci sulle ultime novità delle persone che abbiamo deciso di seguire. Ma parliamoci chiaro: anche un soggetto banale diventa splendido quando la fotografiamo e la postiamo su instagram. Ed è proprio la ricerca di questa perfezione, a metà strada tra realtà e finzione, che ci costringe a una corsa interminabile verso il raggiungimento di stili di vita ideale, impeccabile, in un eterno confronto con gli altri utenti. Alimentando in alcuni di noi sensi di inadeguatezza e bassa autostima.

L’EFFETTO INSTAGRAM

Per un numero sempre crescente di utenti ed esperti di salute mentale il cuore del problema sarebbe proprio la continua ricerca della perfezione a cui ci spinge Instagram. È quanto si legge in un articolo appena pubblicato sul Guardian, secondo cui il social incoraggia a presentare un’immagine accattivante che potrebbe far pensare ad alcuni utenti di non essere all’altezza, che siano tutti perfetti, tranne loro. Un atteggiamento che può trasformarsi in un’autentica minaccia per la nostra salute mentale e il benessere personale. Nel 2017, per esempio, la Royal Society for Public Health (Rsph), ha condotto un sondaggio su 1.500 giovani del Regno Unito tra i 14 e i 24 anni, chiedendo loro quanto le cinque grandi piattaforme di social media (Twitter, Facebook, YouTube, Snapchat e Instagram) influissero sulla loro vita. Secondo le analisi, Instagram è risultato particolarmente negativo per i suoi effetti sulla qualità del sonno, sull’immagine del corpo e sul Fomo (Fears of missing out, ovvero la paura di essere tagliati fuori), e legato a un maggiore rischio di depressione e ansia dovuti alla paura di non sentirsi all’altezza, di non potersi permettere lo stile di vita che osservano sul social.

NASCE PRIMA L’UOVO O LA GALLINA?

Tuttavia, bisogna precisare che gli studi che analizzano il rapporto tra salute mentale e social media si basano su questionari e indagini in cui la persona che fa uso dei social auto-riferisce il proprio stato d’animo. E trattandosi di opinioni soggettive, è impossibile stabilire la causa reale dei malumori. “Da questi report emerge che gli utenti che stanno 2 o più ore sui social sono quelli che riportano più frequentemente ansia, depressione e altri problemi di disagio mentale, ma il problema è che non si sa bene se nasce prima l’uovo o la gallina – ci ha spiegato Bernardo Carpiniello, presidente della Società italiana degli psichiatri e professore ordinario di psichiatria dell’Università di Cagliari – cioè se tutto questo è legato al fatto che i media siano la causa diretta di ansia e depressione, o viceversa, se chi ha questi problemi tenda piuttosto a farne un uso maggiore”. In particolare, precisa Carpiniello, il problema di Instagram è che è un social basato sulle immagini, e questo aumenta la competizione e il confronto con gli altri utenti. “Per fare un esempio – prosegue l’esperto – i giovani postano spesso fotografie di se stessi o in interazione con gli altri. E ciò, soprattutto i giovani che hanno problemi di interazione sociale o problemi di bassa autostima, può innescare un confronto e aumentare il senso di diversità e di frustrazione, la sensazione di essere inadeguati, e tutti i sentimenti di tipo depressivo”.

IL BUONO DI INSTAGRAM

Il social della perfezione, tuttavia, avrebbe anche qualche aspetto positivo. Secondo uno studio della University of Missouri-Columbia, pubblicato a febbraio scorso, la maggior parte degli utenti utilizza Instagram per evadere dai problemi e dalle preoccupazioni della vita quotidiana. “Certamente, l’essere osservatore di immagini positive come metodo di evasione dalla realtà potrebbe essere un sollievo psicologico per alcune persone”, sottolinea Carpiniello. Tuttavia, precisa l’esperto, è una sorta di surrogato che non contribuisce a migliorare molto lo stato soggettivo, in quanto si gode di qualcosa che non si appartiene, ed ha quindi un effetto momentaneo. “È possibile, invece, che per alcuni possa essere un fattore di miglioramento, intendendo Instagram come un modo di esprimere se stessi e la propria creatività”, spiega Carpiniello. “Per un giovane, questa forma di espressione potrebbe essere un potenziatore dell’autostima.

IL TEAM DEL BENESSERE

Piuttosto che ignorare il problema sollevato dalla Rsph, Instagram ha così pensato di affrontarlo con una precisa contromisura: un intero team (non si sa ancora da chi è composto e quali qualifiche abbia) dedicato a far sentire meglio le persone durante il suo utilizzo. Stando agli ultimi aggiornamenti, il Wellbeing (così si chiama il team) si occupa della salute mentale degli utenti, esaminando segnalazioni di post che potrebbero in qualche modo indicare che la necessità di un’assistenza psicologica, e provvedendo poi a contattare l’utente per fornire consigli e aiuto. “Questa è potenzialmente un’idea buona”, conclude Carpiniello, “Essere consapevoli di questi problemi ha portato il social a un tentativo di porre dei rimedi. Ma bisogna assicurarsi che le contromisure si rivelino efficaci: sarebbe interessante sapere se questo rimedio stia veramente aiutando gli utenti o se abbia dato adito ad altri problemi”.




Stroppa: analisi visuale su Instagram, ecco il futuro per le aziende e la politica

Stroppa: analisi visuale su Instagram, ecco il futuro per le aziende e la politica
L’ex hacker, oggi security reasearcher, spiega il software che rivoluziona la comprensione di Internet. E come può essere decisivo anche nella lotta ai populismi o nell’antiterrorismo

Secondo i due più completi report sulle operazioni di disinformazione avvenuti attorno alle elezioni americane – ordinati dalla Commissione intelligence del Senato Usa e svolti dal Computational Propaganda Project dell’Università di Oxford (in collaborazione con la società di analisi Graphika), l’altro coordinato da Renee Di Resta e Jonathan Albright di Columbia University – un fatto è certo: non solo le interferenze russe nel voto che ha portato Donald Trump alla Casa Bianca sono state ingenti, ma sono avvenute (oltre che su Facebook) probabilmente ancora di più su Instagram. Facebook aveva comunicato che la campagna di disinformazione russa aveva raggiunto almeno 126 milioni di persone, e altri 20 milioni su Instagram, Ma i numeri per Instagram sembrano essere stati gravemente sottostimati.

È Instagram, insomma, la nuova frontiera per chi vuole analizzare i dati di Internet. Non solo per quel che riguarda la disinformazione: anche in tantissime altre sfere, l’antiterrorismo, la pubblicità, la profilazione, le analisi dei trend di marketing per le aziende, l’anticontraffazione, lo studio dei comportamenti e delle abitudini. In realtà già da diversi anni le più importanti società di analisi avevano indicato come Instagram avesse superato Facebook nei livelli di engagement: ovvero le persone che fruiscono degli stessi contenuti su Facebook e Instagram, sul secondo generano più interazioni, nonostante Facebook abbia quasi il doppio degli utenti registrati.

Tutto passa da Instagram, insomma. Che oggi vanta un miliardo di utenti attivi ogni mese e che, grazie alla funzione Stories, i contenuti che scompaiono dopo 24 ore, è diventato un diario sempre aggiornato di influencer, brand, politici, aziende e organizzazioni, tanto che alcune campagne di comunicazioni per grandi aziende hanno deciso di creare delle mini-serie destinate soltanto al format delle Stories. In Italia poche persone si occupano principalmente di Instagram e delle analisi complesse dei dati su questo social network: uno di questi, forse il maggiore, è Andrea Stroppa, ex hacker, security researcher, collaboratore del World Economic Forum di Davos, e mente di Ghost Data, un progetto realizzato assieme ad altri esperti provenienti da Russia, Italia e Stati Uniti. Ghost Data è un software che ha focalizzato la sua tecnologia e il suo sviluppo sull’analisi dei dati “a scomparsa”, Ghost (come fantasma), e che grazie a diverse tecniche e tecnologie permette di estrarre informazioni fruibili da dati complessi. Stroppa ha accettato di parlare – per la prima volta così diffusamente -di questa nuova frontiera, big data a analisi di dati soprattutto in relazione al mondo dei video e delle immagini.

Possiamo spiegare perché l’analisi di dati testuali è superata ormai da quella su video e immagini?

«Innanzitutto, quando sentiamo dire “big data” non stiamo parlando di altro che di una grande mole di dati. “Analizzare i dati” però è un’espressione ancora generica, anche in inglese “data analysis” non ci spiega fino infondo il suo significato. Tuttavia questi termini sono sempre più utilizzati, e allora imparare il loro significato è fondamentale per capire dove sta andando il mondo e lo sviluppo tecnologico. In breve lo sviluppo di potenti algoritmi, sistemi informatici sempre più performanti e accessibili permettono di realizzare analisi che prima erano soltanto fantascienza. I video e le immagini consentono di capire con enorme precisione molte più cose dei testi perché al loro interno hanno una immensa vastità di informazioni».

Andiamo con ordine. Fino a oggi cos’è successo? Le analisi dei dati possono avere tanti clienti, istituzioni, partiti, aziende. Ma finora si sono occupate per lo più di testi, e di social network che avevano al centro i testi, come Facebook, o twitter. Questo ha portato con sé una certa limitazione di prospettive, è così?

«Le analisi web sono di certo analisi potentissime e diffuse perché contribuiscono a spiegare o anticipare fenomeni sociali, economici, politici, finanziari, geo-politici, tecnologici. La piattaforma per eccellenza in questi anni, per le analisi fatte sul web, è stata Twitter: l’analisi dei tweet, e la profilazione degli utenti e altre informazioni come la geolocalizzazione, i dispositivi utilizzati, eccetera, hanno permesso a ricercatori, accademici, aziende e organizzazioni di studiare le elezioni politiche, trend, analizzare i mercati finanziari e molto altro. Questo genere di analisi viene svolta da circa dieci anni ormai, e è stata poi allargata ad altre piattaforme con tecniche simili».

L’Italia com’è messa?

« Ci sono non poche realtà che analizzato testi, ma pochissime che analizzano video e immagini. Eppure le piattaforme cambiano, come cambiano gli scenari: ci sono molti più utenti collegati a internet con connessioni veloci, smartphone di ultima generazione capaci di realizzare contenuti multimediali di alta qualità, persone sempre più giovani, ma anche tantissimi ultra cinquantenni in grado di comprendere pienamente i nuovi strumenti tecnologici e tecnologie che permettono di analizzare in pochi minuti migliaia di immagini, video e suoni grazie all’intelligenza artificiale, o più specificatamente alla visual recognition. Google, Amazon, IBM, Microsoft e alcune startup – non tantissime, e decisamente poche in Italia – hanno sviluppato software potentissimi in grado, attraverso modelli, di estrarre informazioni incredibili».

Ecco, ma cosa ci possono dire queste informazioni? Perché è tanto utile capirle, e saperle analizzare?

«Perché ci dicono tante cose che possono diventare asset di conoscenza per aziende, istituzioni e via dicendo. Faccio alcuni esempi anche banali e diversi tra loro: quali sono i loghi più ripresi nelle strade dello shopping? Quali sono le categorie di utenti che condividono contenuti di violenza, droghe, nudo o armi? Quali sono i dati demografici (ci sono persone nere, bianche, di quale età stimata) dei partecipanti a un concerto di musica rock? Quali sono i ristoranti di tendenza tra i giovani a Singapore? Quali canzoni e serie tv guardano a Milano le ragazze universitarie? Quali sono le vacanze preferite dai parigini? Tutto questo rappresenta una nuova generazione di analisi che va oltre la semplice analisi di testi dei tweet, ma entra in una dimensione più potente e complessa, che offre informazioni straordinariamente precise. Non sono più i messaggi di utenti che ci dicono “oggi ho ascoltato Vasco Rossi”, oppure “in quel quartiere c’è molta violenza in strada”, o ancora “la mia marca preferita di scarpe è la Nike”. Sono i software e gli algoritmi che, da soli, interpretano e analizzano i contenuti che le persone condividono spontaneamente. E ovviamente nello stesso video possiamo avere un mix di tutte queste informazioni».

Perché Instagram diventa così centrale, e perché voi analizzate soprattutto video e immagini? Voglio dire, in cosa è più ricco rispetto, poniamo, a twitter?

«Il vero cambiamento è avvenuto con Snapchat, che ha inventato un formato nuovo di contenuti multimediali: i contenuti a tempo. Ovvero immagini e video che scompaiono dopo un tempo massimo di 24 ore. Instagram, di proprietà di Facebook, quasi due anni fa ha intuito che quel modello era vincente e ha creato le Stories. Dopo 24 ore le immagini e video scompaiono: gli utenti si sentono più rilassati nell’usare questo social quasi in modo compulsivo, facendolo ormai quasi coincidere con il quotidiano. Instagram, al di là di ogni considerazione più filosofica che potremmo fare, fa centro e le Stories diventano in meno di due anni la funzionalità più utilizzata, che Facebook inserisce subito su tutti i suoi prodotti. Oggi i trend ci dicono che per chi fa inserzioni, l’interesse commerciale è sempre più rivolto a Instagram, anche a scapito di Facebook. Grazie a questa intuizione Instagram cresce in modo esponenziale e raggiunge un miliardo di utenti attivi al mese. I maggiori analisti tecnologici sia sui media parlano di Instagram come il futuro non solo di Facebook. Ma anche il ceo di Facebook Mark Zuckerberg l’ha confermato, a fine ottobre ha dichiarato che il futuro di Facebook sono i contenuti a tempo, e soprattutto che stanno lavorando a un modo per monetizzare questo formato».

Perché le aziende, e le istituzioni, dovrebbero essere così tanto interessate all’analisi dei dati visuali?

«Perché gli utenti attraverso le Stories raccontano ogni istante della loro vita quotidiana offrendo delle informazioni nuove, uniche, fresche, multimediali, altamente profilabili e genuine. Dove si trovano, cosa acquistano, cosa indossano, cosa hanno mangiato, chi sono le persone che incontrano, come guidano l’automobile, che musica ascoltano, il loro umore, i comportamenti, le abitudini e molte altre informazioni. Un vero tesoro per chi analizza dati e è in grado di estrarre informazioni. Una nuova frontiera delle analisi dei dati».

Sembra che anche l’intelligence possa essere rivoluzionata, da queste analisi: l’antiterrorismo, per esempio. È così?

«Faccio un esempio su un lavoro abbastanza fortunato che ho fatto anni fa. Associated Press a settembre 2017 scrisse, sulla base di un mio report, che l’Islamic State utilizzava la funzione Stories di Instagram per comunicare e condividere messaggi di propaganda. Era la prima volta al mondo che veniva documentato attraverso un report che lo Stato Islamico utilizzava il social dei filtri per eccellenza per comunicare messaggi in tutto il mondo con sostenitori e lupi solitari. Fino ad allora soltanto Twitter e Telegram erano conosciuti dal pubblico come mezzo favorito dal sedicente stato islamico. Molte delle Stories contenevano anche dati di geolocalizzazione, altre degli screenshot degli smartphone. Potete immaginare quanto può essere utile per un analista di intelligence avere dati di geolocalizzazione o vedere che operatore utilizza, quanto campo ha, di quale connessione internet dispone, quale sistema operativo e app sono installate sul cellulare di un simpatizzante o affiliato a un’organizzazione terroristica».

Il vostro team fu contattato anche da esperti di intelligence, in quel caso?

«Sì, è successo».

Cos’è, esattamente, “Ghost Data”?

«È un software in grado di profilare, estrarre e analizzare le Instagram Stories e Live (oltre che ai semplici post di IG) utilizzando differenti tecniche: la network analysis, la data analysis e l’ausilio dell’intelligenza artificiale che prendiamo dai migliori: Amazon Rekognition, IBM Watson, Google Vision, Microsoft Azure e della startup americana Clarifai. Integrando differenti conoscenze e tecniche lo scopo è generare report o costruire cluster di dati che possono realmente aiutare aziende e non rispondere a delle esigenze ben precise».

È mai successo che qualche azienda vi abbia proposto di vendere il progetto, di comprare il vostro software?

«Sì, in generale le aziende del settore assicurativo, per esempio, sono molto interessate a comprendere i comportamenti dei loro clienti o potenziali. Non vogliono sapere nello specifico il comportamento del singolo, vogliono avere una panoramica più chiara su gruppi di persone».

Qual è la situazione in Italia e fuori?

«Per rispondere si può pensare al libro del cinese Kai-Fu Lee dal titolo AI Superpowers: China, Silicon Valley, and the New World Order. L’autore, un esperto del settore e anche un investitore in società di intelligenza artificiale, racconta come la Cina e gli Stati Uniti stanno costruendo sistemi di intelligenza artificiale straordinariamente avanzati e che soprattutto la Cina sta facendo dei passi da gigante soprattutto negli ultimi anni. Gli Stati Uniti ovviamente rispondono con le loro super università o i super laboratori delle aziende tech, come quello di Google, partito però dall’acquisizione di una società inglese alcuni anni fa. In Italia ci sono accademici di altissimo profilo nel settore, ma ho l’impressione ci siano scarse risorse finanziarie – per tuta una serie di ragioni – per avviare progetti che possono competere con i più bravi»