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Gossage. Chi era costui?

Gossage. Chi era costui?

Quando si parla del copywriting e della sua storia il pensiero corre senza indugio a William (Bill) Bernbach, 

il maestro dei maestri, anche se a scrivere le campagne più famose della DDB furono Bob Levenson, Paula Green e altri. Certo Bernbach aveva ampiamente mostrato di saper usare non solo la testa ma anche la penna, essendosi distinto come copywriter alla Grey e in varie attività di consulenza prima di aprire, a trentotto anni, la propria agenzia e di scatenare con quella la creative revolution degli anni sessanta. Ma è utile ricordare, a chi intende specializzarsi nella scrittura pubblicitaria, il talento e il lavoro di molti altri – dai pionieri come John Caples[1] a Jim Durfee, da Jerry Della Femina a Mary Wells, da Ed McCabe a Barbara Nokes, da David Abbott ad Alfredo Marcantonio, per citare qualche nome alla rinfusa.

Detto questo, occorre chiarire che sarebbe improprio – e, ai nostri giorni, poco producente per un copywriter – limitare il proprio ambito di ricerca e di studio ai soli protagonisti della scrittura pubblicitaria. Che è una forma di scrittura applicata e – pur se contraddistinta da stilemi e funzioni che le appartengono in modo specifico – presuppone un insieme di cognizioni e sensibilità non troppo lontane dalla letteratura, dal giornalismo e da altre forme di espressione colta. Analizzare i contributi pubblicitari più riusciti di ogni tempo è istruttivo e necessario, ma non deve essere l’unico dei serbatoi ai quali attingere: in tal modo si rischia l’iperspecializzazione, tra le cui conseguenze ci sono quelle, mortali, dell’autoreferenzialità e dell’imitazionismo.

Il copywriting presenta qualche somiglianza con le cosiddette arti applicate: arti decorative, arti industriali, artigianato artistico. Attività che procedono da ascendenti “nobili” (le arti vere e proprie) per adattarsi a scopi manifestamente commerciali. Il bravo specialista di design industriale, o editoriale, ha una molteplicità di punti di riferimento che vanno dalla pittura all’architettura, dalla tecnologia alle teorie della percezione. Analogamente, il bravo copywriter trarrà profitto da una varietà di campi estranei, ma solo in apparenza, al tipo di professione cui ha scelto di votarsi. Quella che chiamiamo – con un po’ di autocompiacimento – “creatività” altro non è se non il risultato di fusioni a sorpresa tra intuizioni e stimoli d’origine eterogenea; e più aperti si è alla varietà, più umori se ne possono ricavare. Va dunque bene considerare maestri Bernbach, Tony Brignull, Tim Delaney o il vostro capo, ma a condizione di lasciar entrare nel vostro club ideale anche – sparo a caso – Hemingway, Calvino, la saggistica sul Bauhaus e qualche trattato di economia, filosofia, psicologia, musicologia, un po’ di critica d’arte, insomma quello che vi pare: perché un copywriter che si rispetti deve essere diverso da tutti i suoi colleghi (o antagonisti), e questa diversità la si raggiunge attraverso una formazione così articolata da permettere una fuga dall’omologazione.

Lo stesso termine “copywriter” andrebbe preso come una riduzione di orizzonte. Nessuno si sognerebbe di riferirsi a un Bernbach, o a un Ogilvy, definendolo semplicemente così. Non c’è nulla di offensivo, beninteso, nella parola in sé; tutt’altro. Ma i tempi sono cambiati, esigono un surplus di ambizione e competenze. Le nuove generazioni professionali sono costrette a misurarsi con una committenza scaltrita, scettica, persino avara: questa barriera di resistenza può crollare solo se l’interlocutore è in grado di sottrarsi alla subalternità, forte di una superiore credibilità razionale e dialettica sui problemi o le opportunità che è stato invitato, di volta in volta, ad affrontare.

C’era una volta, a San Francisco, l’agenzia di Howard Luck Gossage, sistemata in una ex stazioncina di pompieri.

La frequentavano divi dello spettacolo come Stan Freberg, teorici della comunicazione di massa come Marshall McLuhan, inventori come Richard Buckminster Fuller, scrittori come John Steinbeck e Tom Wolfe. In Italia Gossage non è mai diventato popolare come altri geni dell’advertising; il suo culto è condiviso all’interno di una ristretta cerchia di fan, che amano presentarlo come “il copywriter più eccentrico di tutti i tempi”. Anch’io l’ho sempre presentato così, ogni volta che ho voluto istigare i giovani copywriter a ragionare in modo “eccentrico” – cioè nell’unico modo che, a parer mio, giustifichi l’insano desiderio di occuparsi di pubblicità.
Vero è che l’eccentricità di Gossage si vede e si tocca con mano in ogni cosa che ha detto, scritto e fatto. Intanto non lo si può chiamare copywriter, anche se va considerato, almeno potenzialmente, tra i massimi trainer della categoria. Gossage è stato un pensatore, scrittore, teorico dei media, operatore culturale, sperimentatore, innovatore – un polivalente uomo di genio prestato alla pubblicità. È stato anche polemista sublime: sarcastico e cattivo come pochi; e gli strali più appuntiti li ha scagliati proprio contro la pubblicità. Con ciò dimostrando, nel modo più esplicito possibile, la verità di un paradosso che mi sta a cuore: per fare della pubblicità interessante bisogna odiarla un po’.
Il nostro uomo scriveva solo, o prevalentemente, annunci destinati a giornali e periodici, con poche o senza immagini ma, in compenso, con abbondante testo. Li pensava come articoli d’informazione, e detestava l’idea di fare uscire lo stesso lavoro più d’una volta, o su testate diverse, perché questo nel giornalismo non si fa. Trovava che la ripetizione fosse un controsenso: una mancanza di fiducia verso i propri mezzi, il giornale ospitante e soprattutto il lettore; un’ammissione di stolidità, di fallimento. Non considerava nessuno dei suoi messaggi come rivolto a una massa, ma a un gruppo di persone che avessero qualche interesse in comune:
«Se avete da dire qualcosa di rilevante, non dovete rivolgervi a molte persone (basta parlare alle persone veramente interessate al messaggio), né dovete ripetervi troppe volte. Quante volte bisogna dirvi che sta bruciando la vostra casa? Quante volte dovete leggere un libro o una notizia o guardarvi un film? Se si tratta di una cosa interessante, basta una volta. Se invece si tratta di qualcosa di noioso, una volta è più che sufficiente.»
Tornava sì sullo stesso tema, ma come si torna su una storia a puntate, ampliandolo e sviluppandolo, aggiungendovi delle novità. L’aspetto più notevole di questa attività stava nel fatto che l’efficacia dei suoi testi si poteva misurare. Non solo perché gli annunci finivano spesso con un coupon che ne rendesse, appunto, controllabile la redemption; ma perché li concepiva allo scopo di mobilitare i lettori alla partecipazione compiendo un gesto specifico, tangibile e riscontrabile. Questo lato dell’esperienza di Gossage è attuale in modo indiscutibile. Fosse vissuto nell’era digitale, avrebbe usato i mezzi di cui oggi disponiamo per moltiplicare in modo considerevole gli effetti di quelle campagne: a dir poco profetiche per il modo di rapportarsi al lettore in una condizione quasi one-to-one, sollecitandone e ottenendone forme di partecipazione attiva sperimentate solo nelle azioni di marketing postale.
 

Il caso Aria Rosa.

A quei tempi (siamo negli anni sessanta; Gossage è morto nel 1969, poco più che cinquantenne, di leucemia) le compagnie petrolifere erano tra i maggiori investitori in pubblicità. Anche in Italia. Agip, Shell, Esso, British Petroleum e le altre erano una presenza costante sui giornali, sui muri, alla radio e in televisione, come adesso Barilla, Lavazza e le marche di automobili. Si facevano concorrenza a colpi di additivi, puntando su argomenti come l’economia di esercizio e l’ambiente pulito (le colombe) ma, più spesso, la maggiore potenza sprigionata da manipolazioni chimiche dei carburanti (i falchi), spacciate come esclusive e dotate di presunti effetti mirabolanti. «Metti un tigre nel motore.» «Scappa con Superissima.» Gli additivi servivano soprattutto a incrementare il numero di ottano, prima che la benzina verde, senza piombo, entrasse nell’uso comune.

Era evidente anche allora che a quelle promesse, edificanti o spaccone che fossero, non ci credeva nessuno. Così come nessuno si lasciava impressionare dalle cosiddette campagne d’immagine, cariche di simbolismi aggressivi e talvolta pateticamente erotici. A muovere qualche punto Nielsen in più o in meno non erano le rosse sexy con la pompa in mano o i ruggenti felini nel motore, ma le promozioni a punti, come avviene ancora oggi. Nel remoto 1962, Gossage uscì con un paginone di solo testo per l’American Petrofina di Dallas. C’era scritto, a caratteri cubitali e senza virgole, come per simulare un ironico flusso di coscienza:

«Se state guidando per strada e vi capita di vedere una stazione Fina e questa si trova nel vostro senso di marcia così che non siete costretti a fare una svolta a U in mezzo al traffico e non ci sono sei macchine in attesa davanti alla vostra e vi serve benzina o altro** prego accomodatevi.»*** 
Come negli articoli di giornale, il titolone era sormontato da un occhiello, ovvero un breve testo introduttivo, messo tra parentesi:
[Il nostro motto]* 
L’asterisco rimandava a una minuscola nota a pie’ di pagina:
Sappiamo che come motto non è molto stimolante, ma è realistico e del resto Fina non si aspetta da voi nulla che non sia ragionevole e appropriato.
Era tutta qui la chiave concettuale della campagna, e anche l’etica di Gossage: non spariamo sciocchezze, diciamo le cose come stanno.[2] Di per sé la benzina era ed è nient’altro che una commodity: un bene utile ma uguale a sé stesso, a prescindere dalla marca. Non il prodotto, ma la singola stazione di servizio può eventualmente esibire vantaggi differenziati. Il doppio asterisco, dopo le parole «benzina o altro», rimandava a una nuova nota:
Lubrificanti, per esempio. E altri 1503 articoli di cui la vostra auto potrebbe aver bisogno.
Triplo asterisco alla fine della headline, e relativa nota di chiusura:
Tuttavia, se vi mancasse (come probabilmente vi manca) il tappo di una valvola, e ve ne piacesse uno rosa, saremmo lieti di inviarvene uno gratis e prepagato. Dovete solo compilare il coupon. Se dovesse interessarvi anche una carta di credito Fina, segnate una X nell’apposito quadratino.
Il coupon era così concepito:
Spettabile Fina,
o Per cortesia inviatemi un coperchio di valvola rosa.
o Per cortesia inviatemi il modulo per la richiesta della credit card Fina.

Come si vede, la campagna aveva lo scopo di esortare il lettore a compiere un gesto. Non solo un gesto prevedibile, di immediata utilità commerciale; ma anche un gesto superfluo, di pura e scherzosa partecipazione. Chi scrive lancia un’esca per stabilire una relazione basata sul gioco inaspettato e sul nonsense. Gossage prefigura, con mezzo secolo di anticipo e senza computer, un tipo di comunità molto simile al social network; come quando qualcuno, su Facebook, ci invita a giocare a Papa Pear Saga o a Criminal Case. Mettere una X sul coperchio rosa, o sulla richiesta di credit card, equivale al clic su «Mi piace» dei giorni nostri.

E non si creda che quel tappo rosa sia solo una battuta en passant: perché arriva a conclusione di una saga di stravagante rilievo, fondata su un additivo immaginario chiamato Pink Air, aria rosa. La case history dell’aria rosa è burlesca, dada e, al tempo stesso, spietatamente critica sui meccanismi e i cliché della comunicazione di massa. Lo scherzo era cominciato nel 1961 con un annuncio-notizia, una pagina intitolata, per l’appunto,

PINK AIR!

Anche lì il titolo era preceduto da un occhiello tra parentesi quadre, una costante nei lavori di Gossage:

[Fina rivendica la proprietà dell’additivo del futuro.]

L’intero testo era impostato alla maniera di un servizio giornalistico:

[Fina rivendica la proprietà dell’additivo del futuro.]
ARIA ROSA!
Riportiamo questa notizia apparsa sul Daily Commercial News di San Francisco il 21 marzo 1961:
In un futuro non lontano le stazioni di servizio forniranno ai vostri pneumatici aria colorata, anche in tinte brillanti, secondo R. G. Lund, consulente di marketing.
Lund ha dichiarato che le compagnie petrolifere, in linea con una forte tendenza di mercato, «stanno già aggiungendo additivi ad additivi ai loro prodotti per guadagnarsi il favore degli automobilisti in questo settore ad alta competizione. Hanno arricchito di ingredienti extra ogni parte dell’automobile eccetto l’aria che va nelle gomme. L’additivo per l’aria rappresenterà senza alcun dubbio il punto d’arrivo dell’evoluzione in corso.» Ci vorranno dieci anni, secondo le stime dell’esperto di Portland, Oregon, per mettere a punto la ricerca e risolvere i problemi di produzione. Gli impianti esistenti dovranno subire adeguate riconversioni per soddisfare la domanda di prodotti cromaticamente più attraenti. «Ma alla fine», conclude, «le stazioni saranno in grado di offrire aria in sfumature di verde, blu, viola e persino rosa, come avviene per i prodotti destinati alla decorazione d’interni.»
A buon intenditor poche parole, ammesso che ci sia qualche buon intenditore in ascolto. Fina non è il genere di compagnia che si lascia dire le cose due volte. Il rosa è un colore buono quanto un altro e, in più, ha un nome corto e orecchiabile. Lo diciamo per notificarvi che abbiamo deciso di concentrarci su Aria Rosa®.
E non è tutto. Abbiamo già varato, senza esitare, un programma d’urto: il Piano Quinquennale Fina. Ciò che gli altri hanno bisogno di fare in dieci anni, noi lo faremo in metà tempo. Il 12 maggio 1966 – giorno più, giorno meno – chiedete Aria Rosa nelle migliaia di stazioni Fina! La ragione di tanta fretta sta nel fatto che, come dice quel tale, se si vuole stare in vetta bisogna avere qualcosina di nuovo da offrire, di tanto in tanto. Ma la benzina, l’olio e gli accessori Fina sono già buoni come sono, esattamente uguali ai migliori. Non vorremmo aggiungergli nulla che serva soltanto come pretesto per dirvi che l’abbiamo fatto. (Oh, gli additivi li abbiamo anche noi, ci mancherebbe; solo che non siamo riusciti a trovargli dei nomi o delle sigle efficaci). Ecco perché siamo così felici di avere un additivo nuovo di zecca tutto per noi: Aria Rosa. Se vi capita di sentirlo vantare da qualche altra compagnia, fatecelo sapere e la sistemeremo a dovere. Tenete gli occhi aperti. Nel frattempo ci piacerebbe darvi un’idea più precisa di come sarà l’aria nei vostri pneumatici il 12 maggio 1966. Stiamo già lavorando a una serie di prototipi sperimentali. Quando uscirà il nostro prossimo annuncio dovremmo essere già in grado di inviarvi per posta un campione di Aria Rosa; stiamo solo pensando a come non farlo scappare dalla busta. Ed ecco, prima di lasciarvi, il nostro emblema Fina.[3] Così, la prossima volta che vedete una nostra stazione di servizio, potrete riconoscerla. E se si troverà nel vostro senso di marcia in modo da non costringervi a fare una svolta a U e non ci saranno già sei macchine a fare la fila prima di voi e vi servisse benzina o altro, accomodatevi.

La Fina story continua con episodi come The Pink Inch? e Send for your free sample of Pink Air! Nel primo, Gossage si interroga sui problemi di logistica e distribuzione dell’Aria Rosa:

Sorge spontanea una domanda: come far arrivare l’Aria Rosa in oltre 2000 stazioni Fina entro il 12 maggio 1966?
(Aria Rosa, se ve lo ricordate, è l’additivo Fina del futuro; l’ingrediente segreto per colorare l’aria nei vostri pneumatici. Era l’unico additivo ancora mancante; tutte le altre parti della vostra auto hanno già ricevuto le attenzioni dovute. Perché Fina arrivi prima a questo traguardo abbiamo varato un programma d’urto: il Piano Quinquennale Fina.)

Chi ha memoria storica ricorderà i «piani quinquennali» dell’economia programmata dallo stato, introdotti da Stalin in Unione Sovietica nel 1928 e sopravvissuti, in parte, solo nella Repubblica Popolare Cinese. La stampa occidentale non esitava a commentare con sarcasmo queste pianificazioni, specialmente quando gli obiettivi fallivano o venivano ritoccati – a metà strada – in caso di difficoltà insormontabili. Gossage si diverte a caricare lo scherzo dell’aria a colori paragonandola, indirettamente, ai progetti mancati delle strategie sovietiche. All’epoca degli annunci Fina si era appena concluso, sotto la guida di Nikita Chruščёv, il Sesto Piano Quinquennale (1956-1960), esibito come un grande successo dalla propaganda sovietica. La “campagna delle terre vergini”, finalizzata allo sfruttamento di aree incolte, aveva creato lavoro e spostamenti in massa mobilitando 300.000 aspiranti agricoltori russi e ucraini verso le steppe del Kazakistan e dei monti Altai. La produzione di grano era stata notevolmente incrementata, ma la pianificazione aveva trascurato, oltre all’impatto ambientale sui territori interessati, “dettagli” come la costruzione di silos e la gestione della distribuzione: sicché nel resto dell’Urss il grano continuò a scarseggiare e se ne dovettero importare venti milioni di tonnellate dal Canada. Forse fu proprio questo paradosso a ispirare la parodia di Gossage, che nel testo di The Pink Inch? esamina due soluzioni possibili: utilizzare le stesse autocisterne adibite al trasporto di carburante o, in alternativa, realizzare un sistema capillare di oleodotti o pompe («The Pink Inch Hose Line») riservati esclusivamente all’Aria Rosa.

Lo scherzo rende evidente, come in tutto il lavoro di Gossage, una delle caratteristiche del suo metodo: adottare il linguaggio del mezzo utilizzato (in questo caso il quotidiano) anziché il “pubblicitese”, ovvero quel sottosistema di segni e parole al quale l’advertising ci ha abituato. La pubblicità, secondo Gossage, altro non è se non un derivato del giornalismo: un modo parallelo di fare notizia.

L’altro principio tipico della visione di Gossage è, come si è detto, l’interattività con lacommunity di lettori disposti a giocare con lui. L’annuncio intitolato Send for your free sample of Pink Air! promette un campione di Aria Rosa ai curiosi che vogliano dare un sbirciatina in anteprima al “prodotto” allo studio. In realtà si tratta di doppi palloncini a ossigeno, uno infilato nell’altro: una coppia per ogni bambino in casa; il coupon da compilare e spedire alla Petrofina invita ciascun interlocutore a specificare quanti figli ha.

Il gioco diventa ancora più coinvolgente con la promozione «15 iarde di Asfalto Rosa» (equivalente a circa 14 metri di pavimentazione). Questa volta il lettore è chiamato a partecipare in modo creativo: deve spiegare dove e come intenderebbe utilizzare l’asfalto eventualmente conquistato, e sarà la risposta più originale a decretare il vincitore. Oltre che divertente per la sua bizzarria, l’idea sembra essere straordinariamente congeniale alla web communication dei nostri giorni: se ne possono immaginare senza sforzo gli sviluppi su una pagina Facebook, su Twitter (“spiegare cosa faresti con l’asfalto in 140 caratteri”), su YouTube (tutorial videos per lanciare la promozione, candid camera per registrare le reazioni pubbliche a insoliti interventi urbani realizzati con l’asfalto rosa, video creati spontaneamente dai partecipanti, referendum attraverso i social network per designare il vincitore, etc.)

Traduco i passi salienti dell’annuncio di lancio:


[Apriamo la strada a un’altra tappa fondamentale del Piano Quinquennale Fina]

LA VOSTRA CHANCE DI VINCERE 15 IARDE DI ASFALTO ROSA  Lo sapete anche voi cosa succede nelle aziende quando un reparto si distingue con qualcosa di speciale: è come con i bambini. Quelli del TBA (Tires/Battery Accessories), per esempio, hanno preteso di avere anche loro un Pink Program. Per non essere da meno, si sono inventati il Tappo di Valvola Rosa («l’accessorio che vi aiuta nel difficile periodo di transizione dall’Aria Normale alla Premium Pink»).   Alla Divisione Trasporti, invece, qualcuno ha proposto: «Perché non dipingiamo di rosa un po’ dei nostri automezzi? Almeno la gente saprà che siamo pronti a trasportare Aria Rosa dalle nostre raffinerie Fina, nel caso che la Pink Air Pipeline non sia stata completata entro il Pink Day.» Detto, fatto.  Al Dipartimento Asfalti si sentivano tagliati fuori. Siamo mica dei piccoli incatramatori di provincia; siamo fra i maggiori produttori di asfalto del paese. Roba di qualità: il nostro è un signor asfalto. Modello base, il nero; finché i nostri ragazzi non hanno compiuto una serie di esperimenti rivoluzionari.  Ecco perché adesso disponiamo di 15 iarde di Asfalto Rosa di qualità superiore, da consegnare a chi sia capace di immaginare il modo migliore di utilizzarle. (15 iarde fanno un bel mucchio di asfalto: che sia rosa o di altro colore pesa una trentina di tonnellate. Se lo vincete, ci vorranno due autoribaltabili con ruote gemellate o due semirimorchi per scaricarvelo a domicilio). Una volta spianato occuperà una superficie complessiva di circa 270 iarde quadrate, che è come tingere di rosa la rampa del box, più un campetto da badminton, più il pavimento di un patio. Oppure sette ottavi di un campo da tennis. Vabbè, d’accordo, ve lo pavimentiamo per intero.  Anche se qui nessuno sa come si sentirebbero le mucche in una stalla dal fondo ridipinto interamente di rosa, almeno una cosa possiamo darla per scontata: che l’asfalto ne tratterebbe con delicatezza le estremità, ed è pulito. Riteniamo sia il materiale ideale anche per la copertura di terrazzi e solarium; solo che non abbiamo ancora idea di come portare il rullo compressore a quell’altezza. Quanto a voi, se avete un pezzo che vi piacerebbe rivestire gratis con il Premium Pink Asphalt, non dovete far altro che precisare, nella prima sezione del coupon sottostante, il cosa e il perché. Vince la risposta più interessante.

La chiusura del concorso è annunciata in pretto stile “notizia di cronaca”:

[Fina annuncia tre premi ex aequo, ovvero: ciò che merita di essere fatto, merita pure di essere strafatto]

 MADRE DI CINQUE FIGLI VINCE 15 IARDE DI ASFALTO ROSA

Dal testo si apprende che la vincitrice del Gran Premio, una signora di Nashville madre di cinque maschi, per anni ha infiocchettato di nastri rosa la culla di vimini nella speranza di partorire una bambina. Auspici sprecati. Ma se il vialetto d’ingresso fosse rosa, la vecchia cicogna… chissà.

Premio di consolazione a una scuola di Wichita, in risposta ai solleciti di 86 studenti vogliosi di una pista o un campo da tennis rosa per «avere qualcosa in cui eccellere dopo i disastrosi risultati conseguiti nel football»; e premio speciale a un benzinaio texano della catena Fina, desideroso di migliorare l’aspetto della sua modesta stazioncina di servizio.

[1] Autore, nel 1925, del citatissimo annuncio per una scuola di musica intitolato They Laughed When I Sat Down At the Piano – But When I Started to Play!–
[2] «La maggior parte dei messaggi pubblicitari va sul sicuro e non esprime un’opinione propria. Non c’è collegamento col pubblico, non si sa mai se si è arrivati fino alla gente, se abbiano applaudito, fischiato o se semplicemente non vi abbiano sentito. Fintanto che la pubblicità non si convince che là fuori c’è qualcuno in carne e ossa e fin quando non gli si rivolge la parola (non con accento pubblicitario ma con la propria madrelingua semplice e senza fronzoli), non svilupperemo mai neanche la metà del senso di responsabilità nei confronti del pubblico e di noi stessi di quanto non ne abbia una spogliarellista di terz’ordine.» (Howard L. Gossage)
[3] Il marchio dell’azienda.




Jean Twenge, lo smartphone e i ragazzi iperconnessi e fragili

Jean Twenge, lo smartphone e i ragazzi iperconnessi e fragili
Iperconnessi è il saggio molto denso, chiaro e diretto di una psicologa californiana che descrive l’infelicità e i vari ritardi di maturazione emotivi e cognitivi dei ragazzi americani tra i 13 e i 20 anni (www.jeantwenge.com, Einaudi, 2018, 371 pagine effettive, euro 19).


Una grande percentuale di ragazzi e ragazze nati intorno al 2000, che sono cresciuti con lo smartphone costantemente in mano, passano la maggior parte del tempo connessi, o a fare giochi digitali. E passano troppo tempo in compagnia dei loro genitori, quasi al livello dei ragazzini di dieci anni. Molti ragazzi e ragazze preferiscono addirittura passare quasi tutto il loro tempo in camera da letto durante le vacanze estive, giocando online o guardando dei telefilm scaricati dalla rete.
Questa particolare classe di età viene definita iGeneration ed è caratterizzata da queste qualità: immaturità, iperconnessione, incorporeità (poche relazioni faccia a faccia), instabilità (piccoli e grandi problemi emotivi), isolamento, incertezza (lavorativa e non), inclusività (tolleranza). Le reti sociali di questi adolescenti si allargano quasi solo online e vengono fatte sempre meno feste, poiché ci vuole troppo tempo a programmarle, e se si beve troppo si mette a rischio la reputazione e la sicurezza emotiva e fisica (ci sarà sempre qualcuno pronto a fotografare e a taggare).
La rete ha attirato tutta l’attenzione dei ragazzi e il tempo impegnato nelle relazioni faccia a faccia nel mondo reale si sta riducendo in maniera molto preoccupante. La libertà di movimento legata al possesso della patente di guida e la piena libertà sessuale, vengono posticipate di almeno uno o due anni rispetto alle generazioni precedenti. Naturalmente le loro scarse abilità pratiche e relazionali stanno rallentando e complicando il loro inserimento nel mondo del lavoro. Ad esempio molti ragazzi parlano pochissimo al telefono non sono in grado di gestire una telefonata educata.
In media gran parte degli adolescenti esaminati dalla psicologa californiana controllano “il cellulare più di ottanta volte al giorno” (p. 5), e vengono descritti come molto individualisti, narcisisti e molto preoccupati dalle disuguaglianze di reddito percepite attraverso le innumerevoli allusioni alla dura competizione, fatte dalla scuola, dalla politica, dalla televisione e dalla pubblicità. Per questo motivo molti ragazzi individualisti perdono incredibili quantità di tempo nel guardare le foto e le attività degli amici o addirittura di “conoscenti” mai conosciuti di persona (amici virtuali).
I ragazzi “all’ultimo anno delle superiori passano ogni giorno una media di due ore e un quarto a mandare i messaggi col cellularedue ore su Internet, un’ora e mezza con qualche gioco elettronico e circa mezz’ora in video chat… Totale: sei ore al giorno in compagnia dei nuovi media, e stiamo parlando esclusivamente del loro tempo libero” (p. 75). Per i più giovani il telefono è come una droga o come un innamorato: è la prima cosa vedono la mattina ed è l’ultima che vedono la notte (avere il telefono vicino anche la notte risulta molto rassicurante, p. 74).
I ragazzi iGeneration leggono pochi libri e riviste (nemmeno online). Nel 2015 in USA, i quotidiani sono stati letti dal 10 per cento dei cittadini, rispetto al 70 percento di dieci anni prima (p. 91). Il distacco dalla carta stampata e dalla lettura ha comportato un grosso calo delle competenze universitarie, nei voti di ammissione, nella scrittura e nell’analisi dei testi (p. 93). Anche se esiste l’obbligo a farlo, “quasi tutti i docenti raccontano che i loro studenti non leggono il testo” o i testi indicati. Quindi “agli iGeneration servono libri di testo che prevedano momenti interattivi – video da condividere, questionari – ma anche libri meno lunghi e di registro più colloquiale” (p. 95).
L’aspetto più positivo di questa generazione è la grande creatività nella socializzazione a breve termine e nelle loro capacità di superamento di molti tabù sociali ingiustificati. Ma purtroppo “sono in prima linea nella peggior epidemia di disturbi psichici degli ultimi decenni, che dal 2011 a oggi ha visto salire alle stelle i casi di depressione e suicidio tra gli adolescenti” (p. 5).
Lo stile di vita americano condiziona in maniera impressionante gli stili di vita dei ragazzi di tutte le società più tecnologizzate, quindi dobbiamo renderci conto che stiamo allevando delle nuove generazioni molto forti fisicamente, ma molto deboli psicologicamente. Del resto anche in Giappone e in Cina, i giovani hanno già delle grandi difficoltà nella socializzazione, nelle relazioni sentimentali e nella riproduzione. Quindi in molte nazioni, e a tutti i livelli (anche accademici), nasceranno dei nuovi gruppi sociali composti da persone troppo infantilizzate e rimbambinite.
 
Jean Twenge è nata nel 1971 e insegna Psicologia alla San Diego University in California. Grazie alle sue ricerche sulle generazioni americane ha pubblicato altri due libri: Generation Me e The Narcissism Epidemic. Per approfondimenti: www.youtube.com/watch?v=T6IBlFELDxc (2018).
 
Nota personale – A quanto pare molti americani sono diventati più iperprotettivi degli italiani, forse soprattutto gli abitanti delle grandi città, a causa della piccola e grande criminalità. A mio modesto parere nel migliore dei casi stiamo creando una generazione di grandi ficcanaso digitali. Molti ragazzi diventano dipendenti della caccia ai like e alcuni non smettono mai. Altri “smettono di farsi incantare dal simulacro della caccia ai like, ma di norma accade sono dopo che sono usciti dall’adolescenza”, intorno ai ventuno anni (p. 83). Forse la salute cognitiva di molti adolescenti italiani verrà salvata da una delle lingue più mentalmente libere e precise del mondo (Ama l’italiano, i segreti e le meraviglie della lingua italiana, https://annalisaandreoni.it, 2017).
Nota ludica – I giochi online hanno una distribuzione bimodale: molti adolescenti li usano tantissimo e altri li ignorano. Le ragazze molto appassionate stanno aumentando. Nel 2016 soltanto il 30 per cento dei quattordicenni usava Facebook almeno una volta al mese, mentre l’80 per cento usava Instagram… “il 59 per cento dei giovani fra i diciotto e i ventinove anni usava Instagram” (Pew Research Center, p. 85). Le immagini portano via meno tempo delle parole, ma una singola immagine fuori dal contesto può mentire e può incasinare la vita più di mille parole.
Nota sul bullismo – Oggi le vita sociale dei più giovani si svolge principalmente online “e uno di loro su tre subisce il bullismo senza nemmeno uscire di casa” (p. 126). Diventa quasi impossibile impedire questa forma di bullismo senza uscire dai social. Negli Stati Uniti “dal 2007 il tasso di omicidio tra adolescenti è diminuito, mentre è aumentato il tasso di suicidio”. E per la prima volta da quando si studia il fenomeno, nel 2011 “il tasso di suicidio tra gli adolescenti è stato più alto del tasso di omicidio nella stessa fascia d’età… nel 2014 il tasso di suicidio superava del 32 per cento quello di omicidio”. Però le cause della depressione sono svariate e “negli anni Novanta il tasso di suicidio era ancora più elevato” (p. 127). Comunque il cyberbullismo nel 2016 ha riguardato il 34 per cento degli adolescenti, mentre nel 2007 era il 19 per cento” (Cyberbullying Research Center, p. 125). Per approfondimenti italiani sul bullismo: https://albertorossetti.com (psicoterapeuta).
Nota finale – L’individualismo estremo si riflette nella continua ricerca di sicurezza e nel declino costante dell’impegno civile, nonostante l’aumento del grado di tolleranza nei confronti di quasi tutti i generi di diversità. Poi si riflette nell’instabilità delle relazioni sentimentali. Per ora quasi tutte le problematiche esposte nel libro riguardano più da vicino le classi medie e alte della società americana. Nel giro di pochi anni il ritardo di maturazione emotiva riguarderà probabilmente tutte le classi sociali. Il ritardo di maturazione cognitiva potrebbe danneggiare tutte le fasi della vita. La crisi economica spinge a rinunciare le relazioni stabili e forse anche ai figli. Forse “gli Stati Uniti assomiglieranno sempre più all’Europa, dove i tassi di natalità sono al di sotto del tasso di ricambio generazionale e il matrimonio è un optional” (p. 288). In effetti i matrimoni e i figli comportano molti problemi e rischi individuali: emotivi, economici, lavorativi, abitativi, logistici, di carriera, ecc.
Nota iperfinale – “Quando frequentavo le superiori io, se fossi andato in giro a dire: “Ecco una mia foto, dimmi che ti piaccio”, mi avrebbero dato un pugno. Se una ragazza avesse distribuito a destra e a manca fotografie in cui appariva nuda, la gente avrebbe pensato che le serviva uno psicanalista. Adesso, sono solo i selfie della domenica ” (Paul Roberts, p. 84, ha scritto The Impulse Societyqui trovate una sua conferenza del 2014).
Nota apocalittica – Anche l’incremento dei debiti legati ai prestiti universitari e degli anni da dover passare nel ruolo indesiderato e prolungato di moderni schiavi finanziari, stanno mettendo in crisi la salute psicologica di innumerevoli studenti americani (p. 161 e p. 209). Il debito medio di un laureando nel 1993 era di 9727 dollari, nel 2005 è diventato di 22575, mentre nel 2016 ha raggiunto i 37173 dollari (p. 232). Inoltre l’esagerato bisogno di protezione sta minando il diritto mentale della libertà di ascolto, di confronto e di espressione: in molti atenei americani sono comparsi degli “spazi protetti”, e “se gli studenti si sentono turbati dai discorsi di un relatore invitato a tenere una conferenza nella loro facoltà, si riuniscono in un apposito locale e si consolano a vicenda”. Qualche burocrate sconsiderato ha diffuso l’allucinante idea che bisogna tutelarsi “dalle persone che la pensano in modo diverso” (p. 185). “Un’università non protegge, nelle università si impara e ci si fanno domande”. A volte ci si sente a disagio e si chiama imparare (p. 192). Del resto molti ragazze e ragazzi immaturi si sentono “la prima generazione totalmente impossibilitata a sfuggire ai propri problemi” (Faith Ann Bishop, ventenne, p. 145, testimonianza di resa mentale resa al Time). Ma non basterebbe alzare le chiappe e andare a trovare qualche amico o un parente? Ma noi “Ci lasciamo distrarre dai dettagli più futili e tutto diventa intrattenimento” (Vivian, 22 anni, p. 209). Qui ci sono delle altre riflessioni americane: http://anationofwimps.comhttps://lisa-wade.com/american-hookupwww.peggyorenstein.com/main-st.




Genera

Genera

L’ospite di questa settimana è Marco Busetto, Business Analyst di Genera, una nuova realtà del mondo cooperativo.
Buongiorno Marco e benvenuto sul mio blog. Quando è nata e qual è la missione di Genera?
Genera è un fondo di investimento “a rotazione” che ha iniziato la propria attività in Lombardia nei primi mesi del 2016 con l’obbiettivo di sostenere progetti di sviluppo, diversificazione, riorganizzazione ed innovazione di imprese cooperative o ad alto valore cooperativo. La società investe in capitale di rischio in iniziative imprenditoriali (start-up e imprese consolidate) anche non cooperative ma caratterizzate da un marcato impatto sociale e interesse cooperativo. Lo slancio verso l’innovazione e la sostenibilità rappresentano quindi il fil-rouge che dà coerenza agli investimenti effettuati e agli sforzi che Genera ha prodotto e sta producendo. A partire dal suo lancio Genera ha investito in 7 progetti in diversi settori tra cui, solo per citarne alcuni, la mobilità sostenibile, soluzioni innovative in ambito welfare e il settore degli affitti brevi.
Vi definite una rete di soggetti con un unico obiettivo: promuoviamo i valori della cooperazione per rilanciare un modello di sviluppo sostenibile e con un impatto sociale positivo. Ci spieghi meglio?
Genera nasce in collaborazione con Legacoop Lombardia, è naturale quindi che abbia nel suo DNA i valori cardine della cooperazione. I soci di Genera credono in un modello di lavoro e di sviluppo che metta le persone al centro. Per questo sostengono l’avvio di nuove società cooperative e di progetti imprenditoriali che prestino particolare attenzione al capitale umano e ai valori della responsabilità sociale. Il valore di questi progetti dipende non solo dalla remunerazione del capitale di rischio e dal loro grado di evoluzione tecnologica ma anche dalla qualità e dalla quantità dell’apporto fornito dalle persone che fanno parte dell’impresa.
Come siete organizzati e quali sono i vostri punti di forza?
Genera è una struttura agile basata a Milano e composta da un team dinamico e flessibile. Una parte importante del lavoro è dedicata al processo pre-investimento attraverso il quale vengono selezionati i progetti che meglio rispondono alle linee guida e ai criteri di Genera. La società monitora periodicamente, attraverso una serie di strumenti di supporto all’attività manageriale, l’andamento dei propri investimenti senza però volersi sostituire all’attività degli imprenditori. Uno dei principali punti di forza risiede nella capacità di contribuire all’attivazione di processi virtuosi di integrazione e collaborazione tra istanze imprenditoriali cooperative ed extra-cooperative.
Programmi per il futuro?
Accanto alla funzione di piattaforma abilitante in grado di fornire risorse economiche e manageriali (capitale, assistenza, servizi, ma anche networking e strategia) Genera intende porsi come un aggregatore di domanda e offerta di innovazione cooperativa. In quest’ottica si è deciso di costituire un vero e proprio centro per l’innovazione e per l’open innovation. Un luogo fisico di aggregazione e attrazione capace di accogliere, stabilmente o temporaneamente, cooperative mature e start-up innovative. Questo spazio, chiamato Open Innovation Lab, ospiterà nel corso del 2019 una serie di workshop tematici.




ARABIA SAUDITA: NON DI SOLO CALCIO….

ruolo della donna Arabia Saudita

Il ruolo della donna nella comunicazione pubblicitaria in Arabia Saudita

È trascorso poco più di un mese dal 25 novembre, Giornata Internazionale ONU contro la violenza sulle donne, quando la Lega della Serie A di calcio aveva invitato i calciatori a scendere in campo con un segno rosso sulla faccia e il Presidente della Lega Gaetano Micciché aveva dichiarato: “Il mondo del calcio deve sensibilizzare contro questi fenomeni, perché può avere un ruolo molto rilevante nel dare il suo contributo”, e – peraltro – solo 3 mesi dal giorno in cui Jamal Khashoggi, collaboratore del Washington Post e in passato critico verso il regime di Riad, si era recato nel consolato Saudita di Istanbul per completare alcune pratiche burocratiche, uscendone morto e tagliato a pezzetti, e l’Arabia Saudita entra nuovamente nell’occhio del ciclone – con inevitabili polemiche online e i Social scatenati – a causa della decisione della Lega di giocare la Super Coppa italiana in un paese che, notoriamente, nega vari basilari diritti alle donne.
Che l’Arabia Saudita – alleato fondamentale degli USA e importante acquirente di armi anche dall’Italia, nonché principale protagonista, con l’Iran, della guerra per procura in corso in Yemen, dall’inizio della quale più di 85.000 bambini sono morti di stenti – presentasse ampi “spazi di miglioramento” sul fronte dei diritti umani, non è certamente una novità, come anche cosa nota da tempo è che, paradossalmente, a presiedere il Comitato consultivo del Consiglio ONU dei Diritti Umani sieda proprio Faisal bin Hassan Thad, Ambasciatore dell’Arabia Saudita alle Nazioni Unite: ma in Italia ci si sveglia sempre e solo quando di mezzo c’è una partita di calcio, per riaddormentarsi poi immediatamente dopo lo scoccare del 90° minuto.
In ogni caso, la decisione di giocare la Supercoppa di Lega nel regno arabo ha suscitato numerose polemiche, in quanto la maggior parte dello stadio King Abdullah Sports City Stadium sarà riservato agli uomini, e le donne – secondo quanto riportato dai principali mass-media mainstream – saranno confinate in pochi settori secondari.
In Arabia Saudita alle donne sono da sempre preclusi alcuni basilari diritti umani: la testimonianza offerta da una donna in Tribunale vale la metà di quella dell’uomo (!), le donne non possono viaggiare liberamente, o sottoporsi a un’operazione chirurgica, senza l’approvazione di un parente maschio, e solo da pochi mesi possono prendere la patente; in occasione della partita tra Juventus e Milan, che si giocherà il 16 gennaio nella città di Gedda, i biglietti riservati alle donne saranno un’esigua minoranza, e comunque potranno assistere all’incontro solo da settori periferici del King Abdullah Sports City Stadium. Qualcuno alla Lega sottolinea come si tratti in fondo “di un passo avanti”, in quanto se non altro è la prima volta nella quale le donne saudite allo stadio potranno entrarci: anche per i sauditi pare quindi esserci la speranza, prima o poi, di vedere la fine del tunnel e uscire dal medioevo teocratico.
Allargando il focus, qual è la rappresentazione che viene data della donna nelle case dei Sauditi? Ne ha scritto in un recente articolo il quotidiano liberal tedesco Suddeutsche Zeitung, riportando il testo di uno spot molto diffuso in TV a Riad e dintorni: “Tutte le cose finiscono, tranne l’amore per la famiglia e per il tuo bucato”. E giù con la donna che afferra il cesto e corre in bagno per lavare “la quantità infinita di panni sporchi”, ma con gioia, ovviamente, al servizio del benessere dei figli e soprattutto del marito. Pulire, cucinare, spolverare, cambiare i pannolini, e attendere fremente il rientro a casa del consorte che porta i soldi a casa, e – mi raccomando – sempre con il sorriso sulle labbra: uno spot del genere, andato in onda nel non lontano 2017 per pubblicizzare il detersivo Persil della multinazionale tedesca Henkel, era tipico anche da noi negli anni ’50, e forse anche più recentemente, ma dà l’esatta misura del gap culturale che separa attualmente i due mondi. E non si tratta certamente di un’eccezione, ma anzi, della regola. La nordica e modernissima Ikea, ad esempio, ha rimosso “per rispetto” – o forse per evitare polemiche – tutte le figure femminili dal proprio catalogo per l’Arabia Saudita, mentre nella pubblicità del detersivo Tide della Procter&Gamble, diffuso nel mondo arabo a fine 2016, la madre redarguisce la figlia al grido di: “Non crederai di trovare marito se non sai usare la lavatrice!”, trascinandola contro la sua volontà in bagno per illustrarle l’arte del bucato e i benefici dell’uso del detersivo americano.
Interpellati dal quotidiano tedesco, i responsabili dei vari marchi hanno rilasciato dichiarazioni tra lo sconcertante e il desolante: “Ovviamente nelle nostre iniziative pubblicitarie rispettiamo le tradizioni e la cultura di ogni paese, e d’altra parte le pubblicità non hanno certamente il compito di cambiare la società”, ha dichiarato Elke Schumacher, responsabile comunicazione della Henkel. Peccato, avrà pensato la Schumacher, non essere riusciti a realizzare quello spot sulle lamette per rasoi per la zona del Mali e del Centro Africa, ambientata nella casa dove la madre costringe la figlia urlante alla mutilazione rituale del clitoride: sarebbe stato così tipico e rispettoso delle tradizioni locali! Fatma Abd al Salam, regista e blogger egiziana, madre e moglie, si irrita dinnanzi a questi spot: “Anche i marchi occidentali diffondono nel mondo arabo messaggi misogini, con le donne impegnate solo a soddisfare i bisogni degli altri, invece che dare un’immagine più neutrale e utile per stimolare piccoli cambiamenti, mostrando ad esempio un bambino, maschio, intento ad aiutare la madre a fare il bucato”, immagine che – al netto dei minus habens che squittiscono di continuo urlando al “complotto gender”dovrebbe essere del tutto sdoganata in occidente.
Circa l’opportunismo e schizofrenia delle multinazionali occidentali, bravissime nella redazione di bilanci sociali patinati che difettano sistematicamente dell’essenziale requisito dell’autenticità, avevo già scritto, ma sconcerta il doppiopesismo di aziende che pur aderendo alle linee guida dell’Advertising Standards Authority (“Gli stereotipi di genere andrebbero rimossi in quanto limitano la percezione di se e le possibilità di scelta”) finiscono poi per puntualmente violarli per interessi meramente commerciali.
Considerata l’influenza profonda della pubblicità sull’inconscio delle persone, è proprio così vero che le aziende non devono dare alcun contributo al cambiamento della società, in barba alle tanto decantate policy di responsabilità sociale d’impresa?  Chiunque abbia accesso ai mass media contribuisce di fatto a forgiare la società”, dichiara a tal proposito Massimo Guastini, pubblicitario esperto e Direttore Creativo di Cookies & Partners. “Marketer e pubblicitari sono, nel bene e nel male, operatori culturali a tutti gli effetti, in quanto la comunicazione commerciale diffonde modi di essere, linguaggi, metafore e gerarchie di valori che entrano a far parte dell’immaginario collettivo, orientando opinioni, convinzioni, atteggiamenti e comportamenti quotidiani degli individui. Che la pubblicità non abbia il compito di cambiare la società è quindi una falsa questione: il tema davvero centrale è che la pubblicità non deve rappresentare una specifica forma di ‘inquinamento cognitivo’, e non deve consolidare stereotipi e pregiudizi arcaici che contribuiscano a mantenere disparità e discriminazioni anticostituzionali, punto di vista che trova conforto anche nella ricerca ‘Come la pubblicità racconta le donne e gli uomini, in Italia’”.
Qualcuno sui Social ha poi preso la parola dicendo: “Chi siamo noi per dare lezioni, quando in occidente nella maggior parte dei casi una donna in pubblicità vale in base alla quantità di centimetri di nudo che mette in mostra?”. Vero, tanto che siamo il paese nel quale il Presidente di “Pubblicità Progresso”, Alberto Contri, può affibbiare serenamente online a due professionisti della televisione, omosessuali nel loro privato, l’appellativo di “spregevoli checche”, ed essere ancora comodamente seduto al proprio posto. Con qualche lodevole eccezione, in definitiva, dal punto di vista dei diritti la gara a chi fa peggio, in pubblicità, pare quindi essere sempre aperta.




Instagram, il social della perfezione che ci rende infelici

Per un numero sempre crescente di utenti ed esperti di salute mentale, il problema è proprio l’immagine eccessivamente perfetta che emerge su Instagram, che ci spinge a sentirci inadeguati


UN VIAGGIO strepitoso, una colazione con i fiocchi, un panorama mozzafiato e un selfie impeccabile. Il tutto impacchettato con innumerevoli filtri di bellezza, combinazioni chiaro-scuro per mettere in risalto i particolari e una pioggia di hashtag che fanno registrare in media 4,2 miliardi di like al giorno. È il mondo di Instagram, il social della perfezione, che innumerevoli volte al giorno decidiamo di aprire sui nostri smartphone per scorrere velocemente foto e video e aggiornarci sulle ultime novità delle persone che abbiamo deciso di seguire. Ma parliamoci chiaro: anche un soggetto banale diventa splendido quando la fotografiamo e la postiamo su instagram. Ed è proprio la ricerca di questa perfezione, a metà strada tra realtà e finzione, che ci costringe a una corsa interminabile verso il raggiungimento di stili di vita ideale, impeccabile, in un eterno confronto con gli altri utenti. Alimentando in alcuni di noi sensi di inadeguatezza e bassa autostima.

L’EFFETTO INSTAGRAM

Per un numero sempre crescente di utenti ed esperti di salute mentale il cuore del problema sarebbe proprio la continua ricerca della perfezione a cui ci spinge Instagram. È quanto si legge in un articolo appena pubblicato sul Guardian, secondo cui il social incoraggia a presentare un’immagine accattivante che potrebbe far pensare ad alcuni utenti di non essere all’altezza, che siano tutti perfetti, tranne loro. Un atteggiamento che può trasformarsi in un’autentica minaccia per la nostra salute mentale e il benessere personale. Nel 2017, per esempio, la Royal Society for Public Health (Rsph), ha condotto un sondaggio su 1.500 giovani del Regno Unito tra i 14 e i 24 anni, chiedendo loro quanto le cinque grandi piattaforme di social media (Twitter, Facebook, YouTube, Snapchat e Instagram) influissero sulla loro vita. Secondo le analisi, Instagram è risultato particolarmente negativo per i suoi effetti sulla qualità del sonno, sull’immagine del corpo e sul Fomo (Fears of missing out, ovvero la paura di essere tagliati fuori), e legato a un maggiore rischio di depressione e ansia dovuti alla paura di non sentirsi all’altezza, di non potersi permettere lo stile di vita che osservano sul social.

NASCE PRIMA L’UOVO O LA GALLINA?

Tuttavia, bisogna precisare che gli studi che analizzano il rapporto tra salute mentale e social media si basano su questionari e indagini in cui la persona che fa uso dei social auto-riferisce il proprio stato d’animo. E trattandosi di opinioni soggettive, è impossibile stabilire la causa reale dei malumori. “Da questi report emerge che gli utenti che stanno 2 o più ore sui social sono quelli che riportano più frequentemente ansia, depressione e altri problemi di disagio mentale, ma il problema è che non si sa bene se nasce prima l’uovo o la gallina – ci ha spiegato Bernardo Carpiniello, presidente della Società italiana degli psichiatri e professore ordinario di psichiatria dell’Università di Cagliari – cioè se tutto questo è legato al fatto che i media siano la causa diretta di ansia e depressione, o viceversa, se chi ha questi problemi tenda piuttosto a farne un uso maggiore”. In particolare, precisa Carpiniello, il problema di Instagram è che è un social basato sulle immagini, e questo aumenta la competizione e il confronto con gli altri utenti. “Per fare un esempio – prosegue l’esperto – i giovani postano spesso fotografie di se stessi o in interazione con gli altri. E ciò, soprattutto i giovani che hanno problemi di interazione sociale o problemi di bassa autostima, può innescare un confronto e aumentare il senso di diversità e di frustrazione, la sensazione di essere inadeguati, e tutti i sentimenti di tipo depressivo”.

IL BUONO DI INSTAGRAM

Il social della perfezione, tuttavia, avrebbe anche qualche aspetto positivo. Secondo uno studio della University of Missouri-Columbia, pubblicato a febbraio scorso, la maggior parte degli utenti utilizza Instagram per evadere dai problemi e dalle preoccupazioni della vita quotidiana. “Certamente, l’essere osservatore di immagini positive come metodo di evasione dalla realtà potrebbe essere un sollievo psicologico per alcune persone”, sottolinea Carpiniello. Tuttavia, precisa l’esperto, è una sorta di surrogato che non contribuisce a migliorare molto lo stato soggettivo, in quanto si gode di qualcosa che non si appartiene, ed ha quindi un effetto momentaneo. “È possibile, invece, che per alcuni possa essere un fattore di miglioramento, intendendo Instagram come un modo di esprimere se stessi e la propria creatività”, spiega Carpiniello. “Per un giovane, questa forma di espressione potrebbe essere un potenziatore dell’autostima.

IL TEAM DEL BENESSERE

Piuttosto che ignorare il problema sollevato dalla Rsph, Instagram ha così pensato di affrontarlo con una precisa contromisura: un intero team (non si sa ancora da chi è composto e quali qualifiche abbia) dedicato a far sentire meglio le persone durante il suo utilizzo. Stando agli ultimi aggiornamenti, il Wellbeing (così si chiama il team) si occupa della salute mentale degli utenti, esaminando segnalazioni di post che potrebbero in qualche modo indicare che la necessità di un’assistenza psicologica, e provvedendo poi a contattare l’utente per fornire consigli e aiuto. “Questa è potenzialmente un’idea buona”, conclude Carpiniello, “Essere consapevoli di questi problemi ha portato il social a un tentativo di porre dei rimedi. Ma bisogna assicurarsi che le contromisure si rivelino efficaci: sarebbe interessante sapere se questo rimedio stia veramente aiutando gli utenti o se abbia dato adito ad altri problemi”.