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Vent’anni di Facebook, una rivoluzione dell’io senza rivoluzionari

Vent'anni di Facebook, una rivoluzione dell’io senza rivoluzionari

Vent’anni fa, esattamente il 4 febbraio del 2004, Facebook irrompeva nella nostra vita.

La storia di quell’evento ci è stata raccontata mille volte, la sua evoluzione da catalogo di belle scolastiche a sistema relazionale del mondo. Oggi siamo in un picco di riprovazione sociale per l’intero sistema dei social. Ogni giorno ci si esercita in un tiro al bersaglio al grido del male assoluto. In questi due decenni, che nella nuova dimensione temporale che ci ha imposto la rete sembrano più o meno di avere la durata di un secolo, almeno 5 generazioni sono cresciute nella certezza che ogni individuo del pianeta sia raggiungibile con un click.

Le sei persone che separano ognuno di noi da tutti gli altri si sono vertiginosamente ridotte a due: chi ci cerca e chi viene trovato. Il mondo è sicuramente più corto, ma soprattutto è affiorata una nuova soggettività, quell’irrefrenabile io che si manifesta sui social frantumando ogni primato o gerarchia dei mediatori.

Insieme al ventennale della creatura di Mark Zuckerberg celebriamo in questi giorni anche i 15 anni del magico bottone I Like, che apparve il 9 febbraio 2009 nella bacheca di Facebook. Un’altra tappa di quella rivoluzione dell’Io avrebbe detto Fichte, il filosofo che poco più di due secoli fa forse anticipò con più nitidezza il processo mentale che oggi vediamo dispiegarsi nella rete.

Nell’interpretazione di un altro grande filosofo scomparso non da molto, Aldo Masullo, Fichte ha focalizzato quella relazione basata sul protagonismo di due individui che si riconoscono l’uno nell’altro come forza motrice. Ci spiega Masullo nel saggio “La Comunità come fondamento” (Libreria Scientifica Editrice), infatti, che Fichte afferma che “l’iità non potrebbe individualizzarsi nella forma della prima persona, diventare io, se non si individualizzasse nella seconda persona: non può nascere un io là dove non sia nato un tu”.

In questa dinamica che estrae gli individui dalle masse, dando a loro il primato nella costituzione delle identità collettive, Fichte aggiunge una forza, diciamo oggi un potere, che promuove e organizza questi incontri fra gli infiniti io con gli infiniti tu ed è, ci dice sempre Masullo, l’Aufforderung, ossia l’invito, una spinta esterna che attrae l’individuo verso la libertà.

Una visione che oggi ci appare forse come la più lucida e profonda razionalizzazione di quel magico meccanismo che ha visto in così poco tempo diffondere per l’intero pianeta questa spinta irrefrenabile alla relazione in rete mediante un sistema di contatto e conversazione. Gli aspetti degenerativi di  questo ancora acerbo esercizio di discrezionalità per cui ogni io afferma sé stesso scegliendosi un tu con cui dialogare, sono fin troppo noti ed evidenti. Ma sono anche una frazione infinitesimale della massa quotidiana di quei contatti che danno senso a milioni di vite. Le cosidette bolle d’odio, gli sciami violenti che si abbattono su bersagli momentanei, sono tuoni locali in un universo infinito in cui gran parte dell’umanità, almeno 4 miliardi stabilmente si calcola, appoggia la propria esistenza a un sostegno che trova nelle relazioni che si tessono in rete.

I numeri di questo fenomeno ci impongono di non limitarci nell’analisi alla constatazione degli effetti perversi che questa opportunità di protagonismo innesta in ambiti comunque limitati.

Non possiamo non cogliere che l’avvento con Facebook dei social coincide con il ridisegno di processi sia geopolitici, con un appiattimento del mondo come direbbe il politologo americano Thomas Friedman, in cui ogni equilibrio va rimediato con una platea di interlocutori più vasta, fino ad arrivare anche a forme di ingovernabilità, come i conflitti in corso ci testimoniano, che non possono però farci rimpiangere l’equilibrtio di un mondo sottoposto al dominio di due sole super potenze. Dall’altro, non possiamo non registrate quel fenomeno universale di corrosione e contestazione delle élite di comando che vede a tutte le latitudini del pianeta traballare i governi e precarizzarsi le istituzioni. Un fenomeno che ha del tutto sorpreso e scavalcato le forze della sinistra che nella nuova dinamica fra io e tu non ritrovano la propria dimestichezza nel padroneggiare la precedente società di massa. Mentre le destre si ritrovano più istintivamente ad adattare le forme plebiscitarie che il cosidetto capitalismo della sorveglianza, come dice Shoshanna Zuboff, in inediti regimi autocratici. 

Ma è l’assenza di un attrito sociale che possa contrastare una deriva autoritaria nell’uso della relazioni digitali la causa di questo squilibrio. Nessuna tecnologia è mai stata buona di per sé e certo non lo poteva essere la rete, è il conflitto sociale il soggetto in grado di negoziare l’invito al protagonismo, di cui parlava Fichte con la tentazione peronista che è insita in ogni forma di controllo dall’alto. Così è stato per il fordismo industriale e così ancora oggi non è per il nuovo modello di produzione sociale basato sulla connessione fra l’io e il tu.

Ma Hic Rudus Hic Salta, da qui bisogna passare per civilizzare questo mondo che non potrà mai tornare alle gerarchie del ‘900. L’accesso all’intelligenza artificiale ci dice che i 20 anni di facebook stanno chiudendo una fase, che gli storici definiranno di alfabetizzazione digitale. Siamo già in vista di un nuovo tornante che ci conduce a un nuovo intraprendente io dotato di protesi di raccolta ed elaborazione di dati fino a oggi riservate solo ai grandi apparati statali. Un nuovo guazzabuglio si disegnerà dove comunque si dovrà capire come attivare nell’affollamento di miliardi di io, forme cooperative e collaborative che possano neutralizzare gli istinti predatori che una rete senza conflitto socviale irrimediabilmente evoca.

Ma come ci capitò 20 anni fa quando un impertinente e furbo ragazzetto aprì il vaso di pandora di facebook, dobbiamo avere sempre la certezza, come diceva Henry-Louis Bresson che “il caos rimane un equilibrio che non abbiamo ancora decifrato“.




Lobbying e trasparenza: la necessità di una regolamentazione efficace

Lobbying e trasparenza: la necessità di una regolamentazione efficace

É oramai da diverso tempo che si tenta di regolamentare l’attività della rappresentanza degli interessi e anche in questa legislatura la Commissione Affari Costituzionali della Camera ha avviato una indagine conoscitiva. La nostra associazione è da sempre impegnata a dare il proprio contributo per rappresentare i tanti professionisti del settore e abbiamo provato ad evidenziare, anche in questa occasione, i punti cruciali in merito alla necessità di regolamentare l’attività di lobbying.

Dal nostro punto di vista la rappresentanza di interessi è un’importante espressione della democrazia partecipativa. La condivisione di informazioni legate all’expertise tecnica degli operatori economici corrobora il lavoro alla base del processo decisionale, sottolineando la sua rilevanza nella formazione delle politiche pubbliche.  A nostro avviso è dal libero confronto tra più gruppi di interesse e il decisore pubblico, che si può conseguire un miglioramento nell’efficacia dell’attività di policy-making attraverso la possibilità di assumere scelte collettive adeguatamente informate e ponderate.

Per raggiungere tale obiettivo abbiamo espresso alcune raccomandazioni. Queste includono l’istituzione di un registro nazionale, una maggiore trasparenza nel processo decisionale, la pubblicazione degli incontri tra il decisore e il rappresentante di interessi, un sistema di premialità per gli iscritti al registro come la disponibilità degli schemi degli atti di governo, nonché regole trasparenti per entrambi i soggetti coinvolti (decisore e lobbista).

Peraltro la necessità di regolare tale attività, non è soltanto chiesto dai professionisti del settore. E’ proprio di questi giorni la pubblicazione del report CPI 2023 – Indice di Percezione della Corruzione – redatto da Transparency International, che colloca il nostro Paese al 42° posto su 180 Paesi misurati. Se da un lato si conferma l’impegno dell’Italia nella lotta alla corruzione, dall’altro si evidenziano le necessità di affrontare alcune carenze normative – e tra queste – la mancanza di disciplina in materia di lobbying, per migliorare la posizione del Paese nella lotta alla corruzione.

In conclusione, la regolamentazione dell’attività di lobbying emerge come un passo fondamentale per migliorare la trasparenza e contrastare la corruzione. L’associazione continua a svolgere un ruolo chiave nel promuovere un sistema decisionale più aperto e partecipativo. La sfida ora è tradurre queste raccomandazioni in azioni concrete per il bene della democrazia e della società.




L’insofferenza alle domande: dalle tecniche per schivarle ai rimedi per costruire un dialogo inclusivo.

L’insofferenza alle domande: dalle tecniche per schivarle ai rimedi per costruire un dialogo inclusivo.

Parto da un assunto: quello che le domande siano diventate scomode, non solo quelle che scomode intendono esserle ma anche quelle che vorrebbero solo stimolare riflessione, confronto e dialogo. In molti casi sembriamo addirittura insofferenti, infastiditi, intolleranti alle domande. Con piccoli vantaggi immediati nel rifiutarle o aggirarle, ma conseguenze anche gravi nelle nostre relazioni.

È una tendenza riscontrabile su vari livelli delle interazioni sociali. Partendo dall’alto è ormai un tema ricorrente il cattivo rapporto di evitamento e conflittualità tra la Prima Ministra Meloni e i giornalisti. Talmente palese che è ormai “iconico” (esistono molte foto che evidenziano questo atteggiamento) e “strutturale” (molti articoli trattano il tema sotto vari aspetti. Uno per tutti un autorevole quotidiano americano di destra come il Washington Post, qui in italiano). Le critiche alla Premier hanno riguardato, tra le varie cose: il numero ridotto di conferenze stampa, l’atteggiamento di conflittualità coi giornalisti che pongono domande, il fatto che gli esponenti del suo partito disertino le reti o le trasmissioni non allineate, le querele temerarie (intimidatorie verso giornalisti di diversa opinione o parte politica), ma anche i no comment o le mancate/negate risposte, comportamento peraltro comune a molti politici.

Sono dunque così terribili e temibili le domande della stampa? Pare piuttosto che siamo di fronte a un modello culturale e a un sistema di pensiero che preferiscono:

  • il monologo (ad esempio con la videorubrica “L’agenda di Giorgia” che crea un senso di intimità, autenticità, trasparenza però del tutto fittizio)
  • il dialogo asincrono e asimmetrico dei social (dove si evita il fatto di dover rispondere immediatamente alle domande e alle obiezioni attraverso la disintermediazione e si ha una posizione di totale controllo sul pubblico decidendo chi ammettere a rispondere o chi “bannare” attraverso la moderazione)
  • la polarizzazione (dando per scontato a priori l’antagonismo e anzi, perseguendolo e consolidandolo inseguendo posizioni sempre più estremiste come ci spiega uno studio del Carnegie Endowment for International Peace).

I “QUESTION DODGERS”: I LEADER A STELLE E STRISCE E LE LORO TECNICHE PER AGGIRARE LE DOMANDE

Shane Snow, giornalista, autore di best seller e imprenditore della comunicazione fa una bella ricostruzione in cui riconduce il problema del “dodging questions” (così è definito universalmente in inglese lo schivare o aggirare le domande) e delle sue tecniche nel campo della “disonestà intellettuale“. Snow elenca alcuni casi con delle vignette molto divertenti che rappresentano le tecniche preferite da noti politici o personaggi televisivi statunitensi.

There is only one intellectually honest way to dodge a question. And that’s to actually say that you don’t want to answer the question, or you don’t think the question is worth answering.Sean Snow, “Intellectual Dishonesty

Dirchiaramente che non si vuole rispondere“potrà essere “l’unico modo onesto di evitare una domanda“, come dice Snow, ma è anche spesso interpretabile come una ammissione di responsabilità o genera il dubbio, all’interlocutore, che si abbia qualcosa da nascondere.

Purtroppo non tutte le forme di “dodging” sono altrettanto facilmente rilevabili e, come dimostra una ricerca di Harvardsono frequenti i casi in cui l’interlocutore NON si accorge che la sua domanda è stata evitata o raggirata.

L’EVASIVITÀ: UNA PRATICA “FAMILIARE”

Le tecniche per evitare domande, specialità di molti politici, sono un fatto comune che impariamo sin da bambini nelle relazioni domestiche e scolastiche con genitori, insegnanti, compagni e compagne. E non vale solo per i più piccoli, spesso sono proprio gli adulti a evitare o aggirare le domande dei bambini perché non sono sicuri di come rispondere.

L’”evitamento” (“avoidance coping” in inglese e nel linguaggio scientifico psicologico) è anche un meccanismo di difesa volto a placare l’ansia che, nei casi gravi, costituisce un vero e proprio disturbo della personalità (Avoidant personality disorder (AVPD) o Disturbo Evitante di Personalità). Chiaramente non si può sostenere che il “question dodging” sia indicatore di un disturbo grave, ma vari tratti o sintomi di questo disturbo della personalità sono in realtà sovrapposti alla pratica di evasività o evitamento delle domande. Dalla scarsa autostima al senso di inferiorità, sentimenti di inadeguatezza e timore del rifiuto, una particolare sensibilità alle critiche sono segni del Disturbo Evitante di Personalità, ma anche potenziali cause dell’evitamento delle domande.

Insomma, evitare le domande è sicuramente una malizia al confine con la menzogna, anche se potrebbe avere radici più profonde di natura psicologica.

PR E MEDIA TRAINING: L’ADDESTRAMENTO A EVITARE LE DOMANDE COME “SKILL” DA SVILUPPARE

Se l’evitare le domande è da alcuni considerato un venir meno ai propri doveri politici o manageriali, in molti casi è vista, invece, come una tecnica da coltivare e sviluppare. Nel mondo delle Public Relations è prassi comune organizzare corsi o servizi di “Media Training”. Come suggerisce il nome si tratta di un addestramento a relazionarsi con i media. Rispondere a un’intervista, parlare in video etc etc. Come possiamo immaginare i media training si sono evoluti con i media e con le interazioni a cui sono esposti i leader, manager, funzionari che lo ricevono. Una pietra miliare di ogni media training è come rispondere, evitare, rimbalzare le domande, specialmente quelle “scomode”. Consapevoli del loro ruolo malizioso, alcuni si specializzano addirittura in “Come aggirare le domande senza sembrare evasivi“. Anche le agenzie di PR più blasonate, serie, professionali come Edelman, seppur usando linguaggi meno espliciti, preparano i clienti a sviluppare:

“[…] the ability to limit or adjust undesirable messages that result from a media interview.”Acing Media Interviews Begins with Better Prep (EDELMAN)

Disintermediare e moderare le domande scomode attraverso i Social Media: OPPORTUNITÀ E RISCHI

Ci sono molti studi sulle dinamiche dei social media e sul perché sono uno strumento preferito da molti personaggi pubblici (ma anche del business) per il controllo che forniscono loro sull’audience e sulle interazioni. Di disintermediazione si parla da molti anni ormai e politici e aziende ne hanno fatto un grande uso attratti dall’idea di potersi costruire un loro pubblico, evidentemente amichevole, e di togliere di mezzo soggetti scomodi quali i giornalisti o i critici. La semplice apertura di un proprio profilo sui Social Network è una forma di disintermediazione in cui un’azienda o un politico “conversano” direttamente con il proprio pubblico. L’uso di video, on demand o live, e di formati in cui “l’azienda diventa editore” o “media company” sono altri esempi in cui non solo si organizza produttivamente il lavoro vista la grande mole di contenuti necessaria ai media digitali, ma si cerca questo rapporto diretto ritenuto comodo in quanto si può addomesticare il pubblico.

Disintermediazione e moderazione, però, hanno un prezzo. Un recente studio, condotto da ricercatori e professori dell’Università di Oslo e Lucerna parla addirittura di “mettere la museruola ai social media

La leva individuata dalla ricerca è la moderazione, potere interamente in mano all’emittente e che consente di passare da una conversazione “crowdsourced” (totalmente spontanea, dal basso”) a una “controlled” (cioé filtrata e selezionata o censurata). Un doppio esperimento incrociato mostra come all’aumentare della moderazione peggiorino significativamente, nei confronti dell’organizzazione che la applica: atteggiamento generale, fiducia, soddisfazione e percezione del commitment dell’organizzazione.

La polarizzazione: GLI ESTREMI come posizione “obbligata”

La polarizzazione, cioé la tendenza diffusa in media, politica e società a schierarsi in fazioni opposte e conflittuali, esaspera queste dinamiche. La crescente polarizzazione, sia all’interno di un gruppo e quindi nei processi decisionali delle organizzazioni sia all’interno dei partiti politici assume dinamiche che accelerano le estremizzazioni e radicalizzano attivisti e leader. Di fronte a attivisti e alle “early majority” (gruppi ancora minoritari, ma prime manifestazioni di consenso aggregato) i leader di partito tendonosecondo una ricerca della Cornell University, a radicalizzarsi sulle posizioni di questi soggetti.

Parties and candidates clearly believe that more polarizing candidates are more likely to win elections. This may be a self-fulfilling prophecy […]Polarization, Democracy, and Political Violence in the United States: What the Research Says – Carnegie Endowment for International Peace

Ecco allora che un leader esposto alle tendenze della polarizzazione di fronte a domande su un tema risponderà rifugiandosi nell’estremismo in cui lui e la sua organizzazione sono (già) polarizzati.

LA CASSETTA DEGLI AMBIGUI. TECNICHE E STRUMENTI PER AGGIRARE LE DOMANDE SCOMODE E DIFFICILI

Ci sono innumerevoli elenchi di trucchi per evitare le domande e ne troverete uno linkato. Ma prima vorrei passare in rassegna alcune tecniche analizzate e studiate in un “paper” del 2018 di David Clementson della scuola di Giornalismo dell’University of Georgia.

Lying (Mentire)

Un modo per “gestire”, evitare, eludere domande scomode è certamente quello di mentire, ma, dice l’autore, “non è certo la menzogna possa essere considerata una forma di dodging”. Sarebbe addirittura più grave, certo, ma alcuni studiosi ritengono appunto il “dodging”, l’”evitamento o evasività”, il “raggiro” una forma alternativa alla menzogna, cui si ricorre per non mentire appunto. Non fatte per una forma (magari discutibile) di attenzione verso il ricevente, ma nemmeno del tutto maligno, diciamo delle bugie grigie.

Strategic ambiguity (cerchiobottismo)

Quando si concorda con diverse posizioni o interlocutori nonostante l’incompatibilità delle stesse.

Equivocation (equivocità)

L’uso intenzionale di un linguaggio poco chiaro volto ad evitare di dover dire cose negative in situazioni in cui non si può non rispondere. Famosa la ricerca, ribattezzata in codice “ugly baby project”, del 1990 di Bavelas et al. in cui situazioni come quella di dover complimentare un neonato hanno “conflicting goals”: non mentire o tacere, ma anche non dispiacere l’interlocutore.

Obfuscation (fumosità)

Simile al cerchiobottismo o “strategic ambiguity” la fumosità è descritta come un modo di sostenere cose contraddittorie o di non prendere chiaramente posizione o di creare un compromesso il cui fine è però quello di salvare la posizione del parlante.

Evasion (Evasività)

L’evasività viene qui considerata più intenzionale e quindi più grave dell’equivocità. I fini sono meno nobili e maggiormente avversi per chi fa le domande. Vi sono, infatti, cose da nascondere più gravi che mere questioni di sensibilità

Artful Dodging (scaltrezza o parlantina)

Colui che “sa rispondere a una domanda su un argomento parlando di un argomento completamente diverso senza che l’interlocutore se ne accorga”. L’espressione viene dal nome di un personaggio di Dickens in Oliver Twist, un ragazzino molto abile a manipolare i discorsi con la propria parlantina o capacità retorica: Jack Dawkins detto, appunto, “The Artful Dodger” (in italiano “lo scaltro”), raffigurato nella cover image (Photo by Larry Ellis/Express/Getty Images).

Topic avoidance (Cambiare discorso)

La topic avoidance si concentra più sul definire ciò che NON si dice di ciò che viene detto. Prevede un interrogato abile e consapevole e un interlocutore sensibile e attento ed “il continuo rigetto, esplicito o implicito, o cambio di argomento in una conversazione”.

Paltering (doppiezza)

Simile al cambiare discorso in quanto evita di esplicitare una posizione, ma più grave in quanto nasconde il disaccordo o fatti gravi o posizioni cruciali dietro una verità diversa e irrilevante. Bill Clinton, per esempio, parlando di suoi “extramarital affairs” non li ammetteva mai, ma rispondeva dicendo che “non c’è mai stata alcuna relazione”. Relazione no, rapporti…

Infine, se proprio volete cimentarvi anche voi nel “question dodging”, ecco una guida in 17 punti per… lascio a voi dichiarare le intenzioni. Sappiate, però, che state mettendo a rischio la fiducia degli altri verso di voi e la vostra reputazione.

Come uscirne? Allenarsi alle domande e alla diversità.

Sean Snow ci offre anche un percorso virtuoso in cui costruire le condizioni per evitare di… evitare le domande. Si tratta di coltivare la diversità e far fiorire il:

  • Discorso (cioé lo scambio di opinioni e idee)
  • Dibattito (il confronto in merito a queste idee).

Per farlo dovete assicurarvi di:

A) Avere attorno a voi persone che la pensano diversamente (la “cognitive diversity” preziosa nelle realtà organizzative)

B) Farle collaborare (creare la “cognitive friction”),

C) Essere aperti al cambiamento (usando l’“intellectual humility”).

Sembra facile, ma come ben sappiamo accettare la diversità è la sfida più grande e comincia con l’accettare, o anzi proprio volere accanto a sé, chi la pensa diversamente da noi.




Rating ESG e lotta al greenwashing, il Parlamento europeo discute il nuovo regolamento

Rating ESG e lotta al greenwashing, il Parlamento europeo discute il nuovo regolamento

A Bruxelles si discute la proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio europeo sulla trasparenza e sull’integrità delle attività di rating ambientale, sociale e di governance (ESG), messo recentemente a punto dalla Commissione europea.

“Il consiglio europeo ha approvato il mandato negoziale e dato il via libera per iniziare i negoziati interistituzionali informali senza bisogno di passare dall’assemblea plenaria. Lo scopo è cercare di licenziare il provvedimento già in questa legislatura“, spiega a Teleborsa, Luca Poma, Professore di Reputation Management all’Università LUMSA di Roma, aggiungendo che gli europarlamentari si sono incontrati lo scorso 11 gennaio, oggi, 23 gennaio, e si riuniranno ancora a fine mese. “Dal trilogo uscirà un accordo in prima lettura che potrà essere già ratificato dal parlamento europeo”, aggiunge il Professore.

Pur risultando centrale per agevolare il raggiungimento degli obiettivi del Green Deal europeo e delle Nazioni Unite, il mercato dei rating ESG è attualmente viziato da non conformità, elementi distorsivi e soprattutto rischio di greenwashing, con il risultato che la fiducia degli investitori può risultarne compromessa. Un problema dimostrato anche da una recente ricerca finanziata dall’Europarlamento stesso e presentata a Bruxelles nel giugno scorso, secondo la quale il 70% circa delle aziende che pubblicano bilanci di sostenibilità, convalidati da una Società di certificazione, confermano che il lavoro di quest’ultima si è basato solamente sull’analisi di documenti ed evidenze prodotte dall’azienda stessa, senza quindi venire sottoposti a una vera e propria verifica da parte dei Certificatori, mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG.

Luca Poma, Professore di Reputation Management all’Università LUMSA di Roma

In particolare, i rating ESG sono ormai indispensabili ovunque per partecipare a bandi, appalti e anche solo beauty contest, ma il mercato appare come una giungla, e nella maggior parte dei casi le cosiddette “certificazioni ESG” altro non sono che banali validazioni di auto-dichiarazioni delle aziende stesse, spesso risultanti dalla compilazione di “checklist online” – ovviamente a pagamento – sulle quali non viene effettuato poi alcun controllo di autenticità.

“Non esistendo un quadro normativo specifico a livello europeo per i rating ESG, gli Stati membri, attualmente, operano indipendentemente l’uno dall’altro, generando eccessiva eterogeneità, possibili conflitti e una protezione ineguale degli investitori nei diversi Stati membri”, afferma Poma, che ha avuto modo di analizzare nel dettaglio la bozza di proposta ed avanzare alle autorità preposte alcune osservazioni di merito. “Questo strumento legislativo vuole garantire, attraverso dichiarazioni ESG credibili, autentiche e rilasciate da enti e agenzie autorizzate, una standardizzazione di questo genere di certificazioni, garantendo un approccio omogeneo tra gli Stati membri e una maggiore trasparenza e protezione degli investitori”.

Il valore di un simile intervento legislativo risiede quindi nell’offrire coerenza per un quadro normativo omogeneo che faciliterebbe la comparabilità tra i rating ESG, evitando l’emergere di norme diverse a livello nazionale, e garantendo attraverso un approccio uniforme su tutto il territorio europeo la riduzione delle incertezze per gli operatori del mercato.

Un passo importante nella lotta al greenwashing, ma non mancano le criticità, ha confermato il professore: “Per fare solo tre esempi tra tanti, la bozza per com’è ad oggi concepita prevede che l’ESMA (l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati dell’UE) abbia l’autorità per fare ispezioni solo in caso di segnalazione di violazioni e non di propria iniziativa. Senza ispezioni in loco, verifiche e altri meccanismi di controllo, non vi sarà alcuna certezza che i requisiti previsti dal regolamento siano mantenuti nel tempo dalle agenzie di certificazione. Poi, non è prevista la creazione di una banca dati delle aziende che hanno ricevuto il rating ESG e delle relative agenzie che le hanno certificare. Questo limita fortemente la trasparenza verso i cittadini, che dovrebbe invece essere una delle prerogative principali dell’UE. Infine, dovrebbero essere gli stessi fornitori di rating ESG a adottare le misure necessarie per garantire che i rating ESG forniti non siano influenzati da alcun conflitto di interessi, ma chi poi, dall’esterno, avrà la responsabilità di verificare che queste misure siano effettivamente rispettate? Insomma – ha concluso Poma – c’è molto di buono in questa proposta di regolamento, ma anche molto ancora da migliorare”.

Come combattere il greenwashing?
Sicuramente le nuove direttive Europee (quella sul greenwashing e quella sui rating ESG) daranno un contributo, ma l’arma più potente contro il greenwashing è il comprendere, da parte delle aziende, che costa molto meno (e fa guadagnare più soldi) comunicare in modo schietto e autentico, invece che tentare di manipolare i cittadini con comunicazione ingannevole, sottolinea Poma. Questo lo conferma tutta la letteratura scientifica in materia (teoria) come anche i case study concreti (pratica). Manipolare il mercato alla lunga espone a gravi rischi, pregiudica la reputazione, orienta negativamente i comportamenti di acquisto delle persone, che – deluse – comprano altri prodotti e distrugge valore. Per una volta possiamo dire convintamente che essere onesti costa meno e rende di più.

Come si può migliorare il regolamento europeo?
Il nuovo regolamento UE sugli ESG, spiega Poma, sta venendo discusso in questo periodo in Parlamento, e i rating ESG (Enviromental, Social and Governance) sono state praterie fertili per il greenwashing, se consideriamo che da una ricerca per la quale ho curato il coordinamento scientifico, finanziata proprio dal Parlamento Europeo, è emerso che circa il 70% delle “certificazioni” ESG sono emesse solo sulla base di validazioni di auto-dichiarazioni delle aziende stesse, senza alcuna verifica della veridicità delle loro affermazioni. Il nuovo regolamento mira a fare ordine tra le agenzie e società che rilasciano questi preziosi “bollini”, che sono ormai indispensabili per partecipare a qualunque gara come fornitori di prodotti o servizi in Europa: la bozza per com’è ad oggi concepita prevede che l’ESMA (l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati dell’UE) abbia l’autorità per fare ispezioni solo in caso di segnalazione di violazioni e non di propria iniziativa, e questo è un forte limite. Poi, non è prevista la creazione di una banca dati delle aziende che hanno ricevuto il rating ESG e delle relative agenzie che le hanno certificare, e questo limita fortemente la trasparenza verso i cittadini. Infine, dovrebbero essere gli stessi fornitori di rating ESG ad adottare le misure necessarie per garantire che i rating ESG forniti non siano influenzati da alcun conflitto di interessi, ma chi poi, dall’esterno, avrà la responsabilità di verificare che queste misure siano effettivamente rispettate? Insomma, c’è molto di buono in questa proposta di regolamento, ma anche molto ancora da migliorare, conclude Poma.




Rating ESG e lotta al greenwashing, il Parlamento europeo discute il nuovo regolamento

Rating ESG e lotta al greenwashing, il Parlamento europeo discute il nuovo regolamento

A Bruxelles si discute la proposta di Regolamento del Parlamento europeo e del Consiglio europeo sulla trasparenza e sull’integrità delle attività di rating ambientale, sociale e di governance (ESG), messo recentemente a punto dalla Commissione europea.

“Il consiglio europeo ha approvato il mandato negoziale e dato il via libera per iniziare i negoziati interistituzionali informali senza bisogno di passare dall’assemblea plenaria. Lo scopo è cercare di licenziare il provvedimento già in questa legislatura“, spiega a Teleborsa, Luca Poma, Professore di Reputation Management all’Università LUMSA di Roma, aggiungendo che gli europarlamentari si sono incontrati lo scorso 11 gennaio, oggi, 23 gennaio, e si riuniranno ancora a fine mese. “Dal trilogo uscirà un accordo in prima lettura che potrà essere già ratificato dal parlamento europeo”, aggiunge il Professore.

Pur risultando centrale per agevolare il raggiungimento degli obiettivi del Green Deal europeo e delle Nazioni Unite, il mercato dei rating ESG è attualmente viziato da non conformità, elementi distorsivi e soprattutto rischio di greenwashing, con il risultato che la fiducia degli investitori può risultarne compromessa. Un problema dimostrato anche da una recente ricerca finanziata dall’Europarlamento stesso e presentata a Bruxelles nel giugno scorso, secondo la quale il 70% circa delle aziende che pubblicano bilanci di sostenibilità, convalidati da una Società di certificazione, confermano che il lavoro di quest’ultima si è basato solamente sull’analisi di documenti ed evidenze prodotte dall’azienda stessa, senza quindi venire sottoposti a una vera e propria verifica da parte dei Certificatori, mentre sono solo un quarto (25%) le organizzazioni che affermano di essersi sottoposte a uno specifico audit interno sulla rendicontazione dei criteri ESG.

Luca Poma, Professore di Reputation Management all’Università LUMSA di Roma

In particolare, i rating ESG sono ormai indispensabili ovunque per partecipare a bandi, appalti e anche solo beauty contest, ma il mercato appare come una giungla, e nella maggior parte dei casi le cosiddette “certificazioni ESG” altro non sono che banali validazioni di auto-dichiarazioni delle aziende stesse, spesso risultanti dalla compilazione di “checklist online” – ovviamente a pagamento – sulle quali non viene effettuato poi alcun controllo di autenticità.

“Non esistendo un quadro normativo specifico a livello europeo per i rating ESG, gli Stati membri, attualmente, operano indipendentemente l’uno dall’altro, generando eccessiva eterogeneità, possibili conflitti e una protezione ineguale degli investitori nei diversi Stati membri”, afferma Poma, che ha avuto modo di analizzare nel dettaglio la bozza di proposta ed avanzare alle autorità preposte alcune osservazioni di merito. “Questo strumento legislativo vuole garantire, attraverso dichiarazioni ESG credibili, autentiche e rilasciate da enti e agenzie autorizzate, una standardizzazione di questo genere di certificazioni, garantendo un approccio omogeneo tra gli Stati membri e una maggiore trasparenza e protezione degli investitori”.

Il valore di un simile intervento legislativo risiede quindi nell’offrire coerenza per un quadro normativo omogeneo che faciliterebbe la comparabilità tra i rating ESG, evitando l’emergere di norme diverse a livello nazionale, e garantendo attraverso un approccio uniforme su tutto il territorio europeo la riduzione delle incertezze per gli operatori del mercato.

Un passo importante nella lotta al greenwashing, ma non mancano le criticità, ha confermato il professore: “Per fare solo tre esempi tra tanti, la bozza per com’è ad oggi concepita prevede che l’ESMA (l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati dell’UE) abbia l’autorità per fare ispezioni solo in caso di segnalazione di violazioni e non di propria iniziativa. Senza ispezioni in loco, verifiche e altri meccanismi di controllo, non vi sarà alcuna certezza che i requisiti previsti dal regolamento siano mantenuti nel tempo dalle agenzie di certificazione. Poi, non è prevista la creazione di una banca dati delle aziende che hanno ricevuto il rating ESG e delle relative agenzie che le hanno certificare. Questo limita fortemente la trasparenza verso i cittadini, che dovrebbe invece essere una delle prerogative principali dell’UE. Infine, dovrebbero essere gli stessi fornitori di rating ESG a adottare le misure necessarie per garantire che i rating ESG forniti non siano influenzati da alcun conflitto di interessi, ma chi poi, dall’esterno, avrà la responsabilità di verificare che queste misure siano effettivamente rispettate? Insomma – ha concluso Poma – c’è molto di buono in questa proposta di regolamento, ma anche molto ancora da migliorare”.

Come combattere il greenwashing?
Sicuramente le nuove direttive Europee (quella sul greenwashing e quella sui rating ESG) daranno un contributo, ma l’arma più potente contro il greenwashing è il comprendere, da parte delle aziende, che costa molto meno (e fa guadagnare più soldi) comunicare in modo schietto e autentico, invece che tentare di manipolare i cittadini con comunicazione ingannevole, sottolinea Poma. Questo lo conferma tutta la letteratura scientifica in materia (teoria) come anche i case study concreti (pratica). Manipolare il mercato alla lunga espone a gravi rischi, pregiudica la reputazione, orienta negativamente i comportamenti di acquisto delle persone, che – deluse – comprano altri prodotti e distrugge valore. Per una volta possiamo dire convintamente che essere onesti costa meno e rende di più.

Come si può migliorare il regolamento europeo?
Il nuovo regolamento UE sugli ESG, spiega Poma, sta venendo discusso in questo periodo in Parlamento, e i rating ESG (Enviromental, Social and Governance) sono state praterie fertili per il greenwashing, se consideriamo che da una ricerca per la quale ho curato il coordinamento scientifico, finanziata proprio dal Parlamento Europeo, è emerso che circa il 70% delle “certificazioni” ESG sono emesse solo sulla base di validazioni di auto-dichiarazioni delle aziende stesse, senza alcuna verifica della veridicità delle loro affermazioni. Il nuovo regolamento mira a fare ordine tra le agenzie e società che rilasciano questi preziosi “bollini”, che sono ormai indispensabili per partecipare a qualunque gara come fornitori di prodotti o servizi in Europa: la bozza per com’è ad oggi concepita prevede che l’ESMA (l’Autorità europea degli strumenti finanziari e dei mercati dell’UE) abbia l’autorità per fare ispezioni solo in caso di segnalazione di violazioni e non di propria iniziativa, e questo è un forte limite. Poi, non è prevista la creazione di una banca dati delle aziende che hanno ricevuto il rating ESG e delle relative agenzie che le hanno certificare, e questo limita fortemente la trasparenza verso i cittadini. Infine, dovrebbero essere gli stessi fornitori di rating ESG ad adottare le misure necessarie per garantire che i rating ESG forniti non siano influenzati da alcun conflitto di interessi, ma chi poi, dall’esterno, avrà la responsabilità di verificare che queste misure siano effettivamente rispettate? Insomma, c’è molto di buono in questa proposta di regolamento, ma anche molto ancora da migliorare, conclude Poma.