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La bufala della scuola di Napoli che non può andare a una finale a Boston

Non si è qualificata, e la finale comunque non è a Boston: sembra che la scuola abbia diffuso informazioni false, e i giornali non le abbiano verificate

Nei giorni successivi – in particolare da lunedì 12 novembre – la notizia è stata molto ripresa dalla stampa; e ne ha parlato pubblicamente anche Vittoria Rinaldi, la preside del Righi. Durante un’intervista della trasmissione di Radio Capital condotta da Massimo Giannini, Rinaldi ha risposto così alla domanda: «Però siete già sul podio, professoressa?».

«Si, si, si, sicuramente. Voglio precisare perché non è ancora il ritiro del premio. È lo svolgimento della finalissima».

Durante l’intervista, la preside Rinaldi ha detto anche che servono 6-7mila euro per partecipare alla finale. Intervistato il 13 novembre dal TG5, il professore del Righi Salvatore Pelella ha parlato invece di almeno 15mila euro «per poter stare una settimana a Boston».
Dal 14 novembre, però, qualcuno ha fatto notare tutto quello che non tornava in questa vicenda. I primi a farlo sono stati Luca Allione – uno studente di 18 anni dell’IIS Giulio Natta di Rivoli, in Piemonte, che sta partecipando allo Zero Robotics – e in seguito il Politecnico di Torino, che coordina la sezione europea del torneo Zero Robotics.
Il torneo Zero Robotics si disputa tra studenti delle scuole superiori di tutto il mondo che si sfidano nella programmazione degli SPHERES, dei piccoli satelliti sferici ospitati all’interno della Stazione Spaziale Internazionale. Le finali consistono nel mandare dei codici di programmazione per gli SPHERES alla Stazione Spaziale Internazionale. Come si capisce bene anche dal sito del torneo, i ragazzi del Righi non hanno vinto e nemmeno sono arrivati secondi nella classifica finale: sono solo arrivati secondi in una classifica relativa a una fase preliminare, che si è conclusa. Ora restano altre 84 squadre (molte delle quali italiane) che ripartiranno da zero, con una nuova classifica. In più, spiega il Politecnico di Torino, gli studenti «si sfidano, suddivisi in tre aree geografiche (Europa + Federazione Russa, Americhe, Australia)» e «la finale per le squadre europee si svolgerà ad Alicante (Spagna), non al MIT di Boston». A Boston ci sarà solo la finale dell’area geografica delle Americhe. Le tre finali – che si svolgeranno nello stesso giorno – saranno a inizio 2019. Ipoteticamente una squadra italiana potrebbe quindi fare la finale da Boston anziché da Alicante, ma non è tenuta a farlo.
Sembra quindi che il Righi abbia diffuso – e accettato che venissero diffuse – informazioni sbagliate sul concorso, senza smentirle o ritrattarle quando hanno incontrato grande diffusione sui media (che a loro volta le hanno diffuse senza verificarle, nonostante fosse sufficiente andare sul sito del concorso o contattare le parti in causa) e hanno portato a offerte da più parti per pagare le spese per partecipare alla finale del concorso. Tra i giornali che ne hanno parlato, diffondendo informazioni false, ci sono il Sole 24 Ore e Repubblica; ma anche molti altri sulla stampa, in radio e in tv.
La preside del Righi di Napoli, Vittoria Rinaldi, ha detto al Post che la scuola «non ha ancora ricevuto un soldo» e ha aggiunto «non ho avuto un centesimo e né lo voglio»; ha spiegato che la scuola aveva solo provato a assecondare il desiderio degli studenti di andare a Boston, dando ai giornali la colpa di aver comunicato male il messaggio. In realtà, come mostra per esempio il video qui sotto, è stata proprio la preside a dire erroneamente che la scuola sarà «convocata a Boston per la finalissima», che «i ragazzi dovranno recarsi a Boston per la finale» e che «tutto questo implica dei costi». Inoltre non risulta che nelle varie occasioni pubbliche in cui ha avuto modo di parlare del concorso – a Radio Capital, dal presidente De Luca, eccetera – la preside abbia ritenuto opportuno chiarire che quelle informazioni non erano corrette.

Contattato dal Post, Allione – che frequenta la 5B del Natta di Rivoli, che sta partecipando a Zero Robotics – ha spiegato, insieme al suo compagno Fabio Zorzan e al loro professore Marco Goia, che andare a Boston, alla finale americana, è una semplice opzione, per assistere alla finale americana. Dicono che «pochissime squadre italiane vanno a Boston» per la finale americana e che nemmeno il Natta, la loro scuola, ci è mai andata. La finale consiste nel mandare un codice alla Stazione Spaziale Internazionale; una cosa che, in pratica, si può fare anche senza andare dove è stata organizzata la finale. È sicuramente piacevole andarci, ma non è imprescindibile per partecipare e addirittura vincere.
Dopo gli articoli dei giornali, i servizi dei TG e le trasmissioni radio, comunque, in molti hanno provato a partecipare «alla gara di solidarietà» per il Righi, evidentemente senza fare le necessarie verifiche e senza che qualcuno del Righi spiegasse loro la situazione. Anzi, gli studenti del Righi sono apparsi insieme a chi ha offerto loro le spese per partecipare alla finale a cui non si erano qualificati. Tra chi ha detto di aver offerto soldi ci sono:
1. Il Senato della Repubblica

2. Il Movimento 5 Stelle, con un articolo firmato da Luigi Di Maio che dice anche di aver parlato con la preside della scuola:

Oggi ho letto questa notizia che mi ha colpito molto. Abbiamo le menti migliori del mondo e poi ci mancano i soldi per far sviluppare le loro idee. I tre diciassettenni di Napoli in foto sono Luigi Picarella, Davide Di Pierro e Mauro D’Alò e hanno sbaragliato la concorrenza di oltre 300 scuole nel mondo in una gara di robotica.
Sarebbero dovuti partire per Boston per la finalissima, ma l’Istituto non aveva i soldi per sostenere il loro viaggio. E’ chiaro che dobbiamo dare più soldi alla scuola, all’istruzione, alla ricerca e cercheremo di fare il possibile per mettere maggiori finanziamenti nella manovra. Ma intanto è fondamentale dare un’opportunità a questi tre ragazzi che sono pronti a spaccare il mondo. Così, d’accordo con tutti i parlamentari e i consiglieri regionali campani, abbiamo deciso di raccogliere la somma che serve per dare a questi tre ragazzi geniali la possibilità di realizzare il loro sogno.
Abbiamo parlato con la Preside della scuola e siamo d’accordo nel portare avanti questa iniziativa. Lunedì incontreremo Luigi, Davide e Mauro per fargli i complimenti, dirgli che si meritano di andare alla finalissima e che i soldi per farlo li abbiamo trovati. Meritocrazia, investimenti e sviluppo. L’Italia riparte da qui!

3. Il TG3

 

4. Vincenzo De Luca, presidente della Campania

5. Alcuni privati.
  • Giovanna Manzi, CEO di Best Western Italia, che ne ha parlato a Radio Capitalquando ha telefonato anche la preside. «Abbiamo congiunto domanda e offerta», ha detto Giannini.




STEFANO GABBANA Vs. ELTON JOHN: TRA MEDIOCRITÁ, E POTENZA DELLE EMOZIONI

STEFANO GABBANA Vs. ELTON JOHN: TRA MEDIOCRITÁ E POTENZA DELLE EMOZIONI

È successo di nuovo. E tutti ne parlano. In sintesi, per quei pochi che si sono persi la notizia, la Maison “Dolce & Gabbana” lancia la propria attesa sfilata a Shangai con un videoclip stereotipato e denso di luoghi comuni: lanterne rosse, cinesi che ridacchiano, e una voce fuori campo che sussurra “È troppo grosso per te..?” alla ragazza orientale che tenta di mangiare un cannolo siciliano; partono le (più che comprensibili) polemiche, e l’epic-fail monta al punto che la controllata locale del gruppo è costretta a togliere il video dai Social; Stefano Gabbana viene a quel punto informato della cosa, e con la solita imperturbabile eleganza che da sempre lo contraddistingue, scrive a Michaela Trianova, influencer esperta di moda: “Fosse per me quel video non lo avrei mai tolto, ora dirò a tutti che la Cina è un paese di merda, ignorante, sporco e che puzza di mafia”; la Trianova pubblica gli screenshot, e viene fuori un putiferio di livello mondiale, ampiamente coperto dalla stampa internazionale, senza contare – solo nelle prime 48 ore – i 120 milioni di interazioni non certo lusinghiere su Weiboo, il più importante social network cinese, al punto che, per protesta, i prodotti della maison vengono rimossi da tutti gli store on-line cinesi e da molti negozi veri e propri.
A margine, interessante notare in Italia la differenza di copertura tra i social e la stampa mainstream, e – analizzando più nel dettaglio – tra la stampa mainstream beneficiaria di investimenti pubblicitari del gruppo e quella libera da questo vincolo: diversi addetti ai lavori del settore moda maliziosamente hanno rammentato l’abitudine di Gabbana – che pare essere assai “vendicativo” – di sospendere stizzito gli investimenti pubblicitari a qualunque rivista prenda posizioni distoniche rispetto ai suoi desiderata, come si mormora abbia fatto con diversi periodici in passato.

Errori che costano caro

Tutte facezie, direbbe qualcuno: se non fosse che uscite di testa come quelle per le quali ama distinguersi lo “stilista” mettano periodicamente a rischio la reputazione del marchio, e quindi – dal momento che la reputazione orienta fortemente i comportamenti di acquisto, e di conseguenza il fatturato – facciano ogni volta tremare i polsi agli oltre 5.000 dipendenti della maison, che giustamente temono ripercussioni sui propri posti di lavoro. Impossibile poi non osservare come, al netto dell’ovvia sgradevolezza delle affermazioni del Gabbana dal punto di vista umano, anche dal punto di vista imprenditoriale si debba essere davvero masochisti per insultare i cittadini di un mercato – quello cinese – che sviluppa il 35% del fatturato del gruppo, con 1,3 miliardi di incassi e 50 negozi sparsi per il paese: i media di settore già parlano di “Crollo dell’impero cinese di Dolce & Gabbana”, con possibili ripercussioni negative sul resto delle produzioni “Made in Italy”.
Al netto di ciò, dopo un giorno appare, imperdibile, lo scontato video di scuse di Dolce & Gabbana,

che ha immediatamente scatenato l’ironia della rete…

Uno delle centinaia di fotomontaggi che spopolano sul web in queste ore

Quando si dice “la toppa è peggio del buco”: i due stilisti – riporta RollingStone – “hanno recitato un testo di scuse con la convinzione di un condannato a morte jihadista: un capolavoro d’avanspettacolo”. Gabbana e i suoi addetti alla comunicazione tentano di interpretare – probabilmente senza averne le capacità – una delle regole base della crisis communication: porgere le proprie scuse incondizionate; però lo fanno leggendo un testo di una banalità sconcertante, con affermazioni del tipo “ci scusiamo perché i cinesi sono molti nel mondo” (…fossero stati pochi sarebbe stato giusto insultarli?). Per com’è costruito questo video, neppure il settore comunicazione della maison pare fare gran bella figura: fortissima si sente la mancanza di Cristiana Ruella, che per molti anni diresse con polso fermo e grande capacità la casa di moda milanese, tenendo a bada laddove possibile le intemperanze di Gabbana, e anche risolvendo efficacemente il coinvolgimento dell’azienda in diversi precedenti epic-fail online: troppo brava evidentemente, infatti Gabbana l’ha allontanata a inizi 2017.

Gabbana recidivo

Nelle dichiarazioni successive sui Social, in piena bufera, Gabbana incolpa presunti e sconosciuti hacker informatici che avrebbero piratato i suoi profili pubblicando le frasi offensive (la cybersecurity: da criticità a risorsa…).  No, Stefano Gabbana, temo che nessun hacker abbia “piratato” i tuoi profili social, né d’altra parte tu hai prodotto alcuna prova che ciò sia realmente accaduto: le tue esternazioni riguardanti questa vicenda sono perfettamente in linea con il tuo stile, come quando – nel pieno della bufera per le oche spennate dai sub-fornitori di Moncler per fare piumini, da vive e senza alcun accorgimento per ridurne il dolore (scrissi del caso nel 2014) – twittasti, senza che nessuno ti interpellasse ne ti chiedesse alcunché, “Voi non capite che cos’è il lusso”, scatenando polemiche, non certo solamente da parte degli animalisti; oppure quando twittasti “Comune di Milano, vergognatevi, ignoranti, fate schifo e pietà!” in risposta a un Assessore che si era permesso di commentare l’accusa di evasione fiscale per la quale all’epoca veniste rinviati a giudizio e condannati in primo e secondo grado, a 1 anno e 6 mesi di reclusione (poi, è giusto ricordarlo, assolti in virtù di complesse interpretazioni giuridiche in sede di Cassazione). Le malelingue richiamano l’attenzione sull’orario abituale di vari tweet di Gabbana: tarda sera e notte, quando probabilmente il peso dell’alcool (e forse non solo dell’alcool) si fa sentire, e il personaggio pare perdere il controllo di se, e forse di tutto ciò che lo circonda.
Vi confesso che non avrei voluto scrivere di questo squallore, che conferma una volta di più – semmai ve ne fosse bisogno – la sconcertante impreparazione di parte della classe imprenditoriale italiana sul fronte delle complessità proprie del Reputation management (disciplina che va ben al di la di una comunicazione più o meno ben riuscita), ma era indispensabile farlo per inquadrare il contesto e poter ora parlare di qualcosa che – a differenza dei pensieri confusi di Stefano Gabbana – ha realmente importanza: il potere straordinario delle emozioni, unico driver in grado di veicolare efficacemente i valori di un marchio, come ci dimostra il monumentale video realizzato da Elton John in vista delle feste natalizie in collaborazione con la catena di grande distribuzione inglese di qualità JLP – John Lewis and Partner .

Tutto un altro stile

Nata poco dopo la metà del 1800, JLP si contraddistingue da sempre per la forte attenzione al benessere dei propri dipendenti: fu proprio uno dei visionari fondatori dell’azienda a voler inserire nelle regole di governance del gruppo l’obbligo di ridistribuire una parte assai significativa degli utili a tutti i collaboratori, trattenendo per gli azionisti una quota decisamente minoritaria dei guadagni, e creando così una delle prime “cooperative di fatto” della storia imprenditoriale mondiale; un marchio che macina oggi più di 3 miliardi all’anno di sterline di incassi e da lavoro a quasi 40.000 persone (tutte assai felici, ogni qual volta arriva il dividendo di fine anno).
JLP ha voluto sottolineare nel breve e curatissimo video con protagonista il baronetto del pop mondiale, clip intensissima e davvero emozionante, l’importanza di non regalare oggetti a caso e di “mettere il cuore” negli acquisti: esistono infatti regali e regali, e alcuni di questi possono fare la differenza, condizionando positivamente la storia e la vita di una persona. Il video è un viaggio a ritroso nella carriera del cantante, sulle note di una delle più belle canzoni di tutti i tempi, fino ad arrivare alla sua infanzia, con una conclusione potente e in grado di far venire “voglia di Natale” a chiunque, cuori di pietra inclusi.
https://www.youtube.com/watch?v=mNbSgMEZ_Tw
Dopo aver visto il video, concludiamo ricordando come non troppo tempo fa Stefano Gabbana si sia scontrato duramente proprio con Elton John; Gabbana definì “sintetici” i figli nati mediante procreazione assistita, come quelli del cantante: “Sono uteri in affitto e semi scelti da un catalogo”, profondendosi con l’occasione in un elogio alla famiglia tradizionale (punto di vista rispettabilissimo, non fosse che sia Stefano Gabbana che Domenico Dolce sono gay, circostanza che sarebbe del tutto ininfluente, se non toccasse il tema reputazionalmente assai delicato dell’autenticità e della coerenza).
Guardata in quest’ottica, la cronaca di questi giorni prende i contorni di una nemesi pre-natalizia: Gabbana fa (l’ennesima) figuraccia a livello planetario, ed Elton John ci accompagna verso le feste con una pubblicità emozionante e straordinaria.
Potremmo a questo punto discettare di capacità manageriali; di prerogative tipiche di chi esercita una leadership, aziendale o culturale che sia; di responsabilità sociale d’impresa; di presa di coscienza del proprio ruolo di influencer; o anche solo – banalmente – di stile. Ma penso che ogni ulteriore commento potrebbe risuonare superfluo.
Buoni acquisti Natalizi a tutti; magari non nelle boutique Dolce & Gabbana, bensì nei magazzini JLP.




“Caro cliente ti scrivo”, La rivincita dei blog sui social

Il 36% dei brand Top 500 di Fortune ne ha uno: raccontano prodotti veicolano valori e visione, posizionano verso campagne sociali e intercettano clienti

Uno degli uomini più ricchi al mondo ha deciso di dividere il palco con un campione di feci umane. Raccontando poi il perché in un post a sua firma sul suo blog costantemente aggiornato e navigabile su Billnotes.com. Così l’imprenditore statunitense e filantropo Bill Gates, messo in una storica copertina dall’Economist con il neologismo Billanthropy, è diventato anche blogger. Gates ha raccontato il suo impegno al Reinvented Toilet Expo di Pechino, fiera finanziata dalla fondazione Gates per presentare i venti migliori prototipi di gabinetti del futuro. «Non capita spesso di salire su un palco con un campione di feci umane, ma l’ho fatto per attirare l’attenzione su un problema serio che uccide più di ___mila persone ogni anno: la scarsa igiene», ha scritto Gates, diventando tendenza sui social.
 

L’avanzata del blog storytelling

Professione blogger d’azienda. Così  il manager (e non solo il comunicatore) scommette sul blog, puntando su una scrittura long-form e quindi argomentata, approfondita e con un taglio personale, autentico, empatico.
D’altronde in questi anni liquidi nei quali ogni company diventa media- company – così ha dichiarato al Financial Times Richard Edelman, a capo dell’omonimo colosso di comunicazione – grazie al blog aziendale il brand presenta prodotti e servizi con un taglio laterale, offre il suo punto di vista sul mondo, conversa con la community, ospita interventi, promuove incontri dal vivo. E il fenomeno registra un aumento esponenziale.
Lo segnala anche la ricerca State of Blogging: oggi il 36% delle aziende inserite nella classifica Fortune 500 ha un blog, l’89% ritiene che questi spazi saranno importanti nei  prossimi cinque anni e addirittura il 60% li considera vantaggiosi per il proprio business.
Nel mondo si distinguono i corporate blog Tech Page One di Dell, Real Business di Xerox, Free Press di Intel. E in Italia negli ultimi anni sono nati Eniday di Eni, Nati per Proteggere di AXA, Morning Future di Adecco, New Heroes di Red Bull, Mondo Leasing di Banca Ifis, Changes di Unipol, Non Solo Buono di Fini Modena, On/Off di Edison, Fatti di Bio di Alce Nero.
Una narrazione multimediale che dalle piattaforme abbraccia i social, mantenendo però una propria identità in uno spazio più protetto. «Il blog aziendale può essere al centro della comunicazione online. Una pagina di Facebook, un account Instagram o altri social non riescono a sopperire a questa funzione informativa, essendo dispersivi e basati sulla contingenza. Invece condividendo i contenuti del blog sui social si ottiene l’effetto di aumentare le visite e i contatti in un luogo che ci appartiene: il nostro sito web», afferma Riccardo Scandellari, autore di “Rock’n’Blog” per Mondadori. Focus su storie, interventi, testimonianze, anche in video. «Quando qualcuno cerca un’informazione solitamente usa un motore di ricerca. Se il sito aziendale contiene un blog, quindi informazioni utili, si aumenta enormemente la capacità di essere trovati e contattati. Qualche anno fa si pensava di sostituire il blog con Facebook. Chi l’ha fatto ha commesso un grosso errore strategico», precisa Scandellari.
 

Consigli di scrittura(poco) aziendale

Autenticità, utilità, continuità. E la necessità di catturare l’attenzione offrendo contenuti di valore. «Dieci anni fa si stimava che un americano fosse mediamente esposto a cinquemila pubblicità ogni giorno. Oggi quel numero è aumentato enormemente. Ecco perché le aziende più reattive hanno cominciato ad investire sui contenuti. Il blog diventa uno spazio proprio dove poter offrire informazioni utili, risolvere problemi e dialogare in maniera aperta con il mercato e i suoi potenziali clienti», afferma Dario Vignali, ventisettenne imprenditore digitale, inserito tra i migliori under __ da Forbes e pioniere nel blogging. Perché Vignali ha aperto il primo blog a tredici anni. «Se è vero che le piattaforme social continuano a dominare il mercato èaltrettanto vero che le aziende sistanno accorgendo della necessità di svincolarsi dalle regole spesso penalizzanti dei loro algoritmi». Ma per funzionare un blog deve essere autentico. E deve verticalizzare, intercettando community. «Il futuro è caratterizzato da una verticalizzazione sempre maggiore. Guide, articoli d’aiuto e contenuti d’intrattenimento si sono resi portavoce dell’autorevolezza e dell’affidabilità aziendale agli occhi del cliente», precisa Vignali.
Occorre surfare nella contemporaneità, evitando l’autoreferenzialità.  e è convinto Scandellari: «L’errore classico consiste in una comunicazione fredda da ufficio stampa. I contenuti del blog devono essere utili e caldi, firmati con il nome e il volto dell’autore».




McDonald’s ha fatto una pubblicità che è una parodia di Banksy

McDonald’s sta lanciando in questi giorni una campagna promozionale in Austria, appoggiandosi alla società DDB Austria. Tra le trovate dei creativi viennesi c’è stata anche una grafica (per il momento destinata al digitale) che è una parodia di Banksy. Già soprannominata “McBanksy” è un’immagine che mostra un contenitore di patatine targato McDonald’s incorniciato, con le patatine fritte che escono da sotto la cornice.

Il riferimento, ovviamente, è all’ultima performance di Banksy, che la scorsa settimana ha fatto in modo che una sua opera passasse attraverso un tritacarte nascosto nella cornice, proprio subito dopo essere stata venduta all’asta da Sotheby’s. In particolare la rappresentazione iper-stilizzata delle patatine ricorda immediatamente l’effetto di un foglio di carta passato al tritacarte.
Viste l’efficacia e la rapidità con cui la squadra di creativi l’ha concepita e realizzata, la trovata potrebbe rientrare nella categoria dei cosiddetti “Oreo moment”, cioè campagne lanciate a strettissimo giro, agganciandosi a un fatto di cui tutti stanno parlando, come fece il social media manager del marchio di biscotti, che nel bel mezzo di un blackout lanciò questo tweet.

Va detto inoltre che McDonald’s non è stata l’unica azienda che ha lanciato una campagna ispirata all’ultima performance di Banksy. Come segnala Design Taxi in questa raccolta, anche Ikea Norvegia se n’è uscita con questo:




Il costo delle comunicazioni scadenti

Non riconoscendo l’importanza delle buone comunicazioni, i leader possono incappare in costi elevati per le proprie organizzazioni.

Nel nuovo film, “Horrible Bosses” sicuramente i personaggi negativi sono colpevoli di peccati ben peggiori della mera comunicazione qualitativamente scadente, ma – dopo aver visto il trailer, questa settimana – mi ha fatto riflettere (ancora) sulle implicazioni e sui costi associati a una leadership inefficace. “Horrible Bosses” è pieno di scenari irrealistici e insinuazioni ridicole su come certi dirigenti si comportino oggi. La realtà, però, non è una questione su cui ridere molto. Per mia diretta esperienza, alcuni errori non intenzionali possono essere i più cari per le aziende.
La maggior parte dei leader oggi non inizierebbe mai la propria giornata pensando. “Oggi ignorerò di proposito i miei impiegati.” Detto questo, non riconoscendo l’importanza delle buone comunicazioni, i leader possono incorrere in costi significativi per le proprie organizzazioni. Ho visto di persona quanti danni possano arrecare situazioni come comunicazione insufficiente, problemi di comunicazione o nessuna comunicazione.
Come al solito, i dati ci mostrano quanto sia pesante il costo di una cattiva comunicazione:

  1. 37 miliardi di Dollari: costo totale stimato delle incomprensioni dei dipendenti (includse azioni o errori di omissione da parte di impiegati che hanno frainteso o sono stati male informati sulle politiche aziendali, sui processi aziendali, sulla propria funzione sul posto di lavoro, o una combinazione dei tre fattori) in 400aziende di almeno 100.000 dipendenti, sondate negli Stati Uniti e nel Regno Unito (il costo medio per azienda è 62,4 milioni di dollari l’anno);
  2. 041 Dollari, è il costo per lavoratore – anno dovuto a perdita di produttività derivante da barriere nella  comunicazione.

Al contrario:

  1. Le aziende che hanno come comunicatori altamente efficaci hanno, avuto il 47% in più di rendimento complessivo per gli azionisti negli ultimi cinque anni rispetto ad aziende i cui leader sono i comunicatori meno efficaci;
  2. Best Buy ha rilevato che punteggi più elevati di coinvolgimento dei dipendenti hanno portato a una miglior prestazione dei relativi negozi. La società ha scoperto che per ogni punto percentuale di aumentato del coinvolgimento dei dipendenti, i singoli negozi hanno visto un aumento del reddito operativo di 000 Dollari all’anno.

Questi pochi fatti sono la punta dell’iceberg per ampiezza e profondità di una ricerca che dimostra un ritorno economico tangibile per quelle aziende che comunicano bene con i propri dipendenti e per i problemi che si presentano quando non lo fanno.
Sfortunatamente, le cattive capacità comunicative sono il risultato di una decisione consapevole dei leader di non migliorare. “Non ho tempo per comunicare”, è un mito comune che sento, insieme al pensiero che “la gente non ointraprenderà azioni se non parliamo loro di cose concrete”.
I leader comunicano con o senza intenzione, quindi il mio punto di vista è: potreste essere bravi anche nella comunicazione.
Migliorare la comunicazione implica molto più che diffondere il messaggio correttamente in modo che sia ascoltato (anche se questo da solo può già essere una sfida); significa assicurarsi che il messaggio risuoni e sia compreso dagli ascoltatori in modo tale da spingerli all’azione. È un duro lavoro, ma ne vale la pena. Tutto ciò che un leader ha bisogno di ottenere compiuto oggi è fatto attraverso le persone.
Quindi cosa possono fare i leader per essere migliori comunicatori?

  1. Smetti di inventare scuse. Impegnati a migliorare, per te, il tuo team e la tua azienda. Assegna il tempo, l’energia e le risorse necessarie per far arrivare il tuo messaggio nel contesto giusto e con lo scopo di coinvolgere i tuoi dipendenti.
  2. Prendi uno specchio. Rifletti su ciò che gli altri vedono e leggono ogni volta che interagiscono con te. Capisci dove sei, non dove pensi di essere. Se possibile, ottieni dati su come stai procedendo, con una sondaggi ed analisi a 360°.
  3. Sii concentrato sul pubblico. Sapere da dove viene tuo pubblico aiuta i leader a posizionare i messaggi nel modo giusto in modo che siano significativi e pertinenti. I leader devono anche sfruttare i canali e i mezzi di comunicazione utilizzati dal loro pubblico per assicurarsi che le proprie comunicazioni arrivino effettivamente ai destinatari.
  4. Avere un piano ed essere propositivo. Creare una strategia di comunicazione e tradurla in un piano orientato all’azione. Non aspettarti risultati immediati. Il “Fallo e basta” non funziona nella comunicazione. I leader devono iniziare con una valutazione chiara dei risultati aziendali che vogliono raggiungere, e poi avere un cronoprogramma nel quale disporre le azioni volte al raggiungimento degli obiettivi.
  5. Ascolta e interagisci. Chiedere suggerimenti ai dipendenti e agire sulla base delle suggestioni ricevute, dire grazie, articolare le aspettative, fornire informazioni significative e non far girare messaggi a vuoto. Questi sono i modi in cui dimostri di apprezzare i tuoi dipendenti.
  6. Sii persistente. Ricorda, una buona comunicazione è un’abilità e, come tutte le abilità, ci vuole pratica e analisi dei riscontri step by step per migliorare.

Garantire comunicazioni coerenti e strategiche ti consentirà di allineare i tuoi dipendenti e il loro ruolo, con le tue aspettative e il quadro generale degli obiettivi di business. La posta in gioco sono soldi veri, Il vero denaro è in gioco e solo degli “Horrible Bosses” non se ne prenderebbero cura.
 
L’autore: David Grossman, ABC, APR, Fellow PRSA, è autore di You Can not Not Communicate  e del seguito, You Can Not Not Communicate 2 . È fondatore e CEO di The Grossman Group , una società di consulenza di comunicazione con sede a Chicago.