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Nuove professioni: l’esperto di biomarketing

Sudorazione, palpitazioni, tic motori, smorfie facciali e non solo. Per chi si occupa di marketing la sfida non è solo una questione di dati. Noci, autore di “Biomarketing” (Egea): «Serve una nuova piattaforma che metta al centro le emozioni e le relazioni»

Nell’era dell’e-commerce e dei social network come vetrina, chi si occupa di marketing molto spesso dimentica che ad acquistare sono persone in carne e ossa, non semplici account. Big data, Kpi (Key performance indicator) e Roi (Return of investement) da un decennio a questa parte sono le basi su cui costruire campagne di comunicazione pubblicitaria e di vendita. Il tutto, supportato dai dati derivanti dalle neuroscienze, quell’insieme di discipline che si occupano di studiare il sistema nervoso, il suo funzionamento e la sua risposta agli stimoli esterni. Domande come: qual è il neurone che si attiva quando vediamo l’auto dei nostri sogni? Che catena di sinapsi si mette in moto di fronte a un bel cono di gelato? Che combinazione chimico-neurale ci spinge o meno ad entrare in un negozio? Domande le cui risposte generano un mercato che, secondo un recente studio pubblicato da “Market Research Report Search Engine”, potrebbe raggiungere i 2,2 miliardi di dollari di valore entro il 2025.
Ci dimentichiamo che il punto di partenza è sempre lo stesso: l’uomo, che rimane centrale anche quando è considerato solo come il consumatore del mondo tecnologico.
Giuliano Noci, professore di Strategia & Marketing presso la School of Management del Politecnico di Milano
«Ma ci dimentichiamo che il punto di partenza è sempre lo stesso: l’uomo, che rimane centrale anche quando è considerato solo come il consumatore del mondo tecnologico. Un mondo dove, tuttavia, il 90% delle scelte è di natura emozionale». A dirlo è Giuliano Noci, professore di Strategia & Marketing presso la School of Management del Politecnico di Milano e autore del libro Biomarketing (Egea). Con questo termine, Noci cerca di spostare un po’ più in là la frontiera delle ricerche di mercato: non solo freddi dati che riducono il consumatore a una semplice catena di impulsi, ma un aspetto più generale e ampio sull’inclinazione umana all’acquisto. «Il biomarketing è sostanzialmente una piattaforma che mettendo al centro l’uomo allarga i parametri solitamente considerati per analizzarne il comportamento, focalizzando la propria attenzione sulle sue risposte non verbali», spiega Noci. Sudorazione, palpitazioni, tic motori, ritmo di respirazione sono solo alcuni dei criteri con cui chi si occupa di biomarketing cerca di arricchire il senso del rapporto fra cliente, tecnologia e prodotto.
Per riuscirci, nel suo libro Noci propone quattro punti cardinali con cui seguire la rotta verso la nuova frontiera del marketing. Primo punto: il venir meno della differenza fra spazio fisico e digitale in una dimensione phygital (dall’unione di physical e ditigal). Per il consumatore che vive nell’era digitale esiste un unico piano di interazione con la marca che si attua attraverso diversi canali, ma senza soluzioni di continuità. Seconda indicazione: la rilevazione dei dati è diventata imprescindibile per ogni buona campagna di marketing, ma la carta vincente è la capacità di integrarli e intrecciarli. Il terzo punto cardinale proposto da Noci riguarda il tempo. Detto altrimenti, progettare l’interazione per il consumatore nel tempo (la relazione) e nei tempi giusti (la singola decisione) rappresenta uno degli elementi salienti del fare marketing in un contesto contraddistinto sempre più da entropia informativa e da una pluralità di punti di contatto. Infine, bisogna allargare la prospettiva verso ecosistemi digitali intesi come contesti più ampi e dinamici del classico binomio prodotto-settore a cui siamo abituati.
Le emozioni sono importanti. Perché quello che conta non è più il “che cosa” ma il “come”, le relazioni.
Giuliano Noci, professore di Strategia & Marketing presso la School of Management del Politecnico di Milano
«Le emozioni sono importanti», sintetizza Noci, «e così lo è la marca che ha la funzione di delega fiduciaria di un’azienda. Perché quello che conta non è più il “che cosa” ma il “come”, le relazioni. Prendiamo Amazon,per esempio: con il suo marketplace virtuale è diventata amica del consumatore, la sua comfort zone, e un prodotto che tutti cercano per la relazione che instaura attraverso i servizi che offre». Insomma, quello che conta è il modo in cui un’azienda interagisce con il proprio cliente. Ma quali sono gli strumenti per realizzare tutto questo? «Si tratta di una duplice prospettiva: da un lato, bisogna lavorare sul lungo periodo per costruire una storia che sia utile al consumatore (storydoing, ndr) in una prospettiva di intimità collettiva con la comunità di riferimento; dall’altro, bisogna agire sul breve periodo massimizzando i punti di contatto fra cliente e marca». In altre parole, una volta che un brand ha conquistato il suo posto nella mente del consumatore, la relazione successiva deve passare attraverso dei love times, come li definisce Noci. Ossia, momenti di interazione che spingono la conversione dall’interesse all’acquisto. A tutto questo rispondono gli strumenti del biomarketing.
Ma che posto occupano discipline come questa all’interno del mercato italiano? «C’è ancora un ostacolo culturale da superare», risponde Noci. «La marca mette ancora al centro il prodotto e non il cliente. Un atteggiamento che ha a che fare con la storia delle aziende e la loro produzione di valore. Mentre l’innovazione passa attraverso un ribaltamento della prospettiva». Non solo: «C’è anche una questione di competenze. Nel nostro Paese c’è un ritardo relativo sia alla diffusione delle competenze digitali, sia alla presenza di data scientist. In generale, inoltre, c’è una sottovalutazione delle competenze necessarie al marketing: non si tratta solo di applicare gli strumenti necessari per ottenere una serie di dati, ma di elaborare quest’ultimi per ottenere informazioni sul comportamento delle persone in un contesto».



Social media e sanità

Facebook e Twitter da tempo hanno sono più solo uno svago per adolescenti e studenti universitari,  sono ormai parte integrante della vita quotidiana di milioni di cittadini, e il mondo della sanità non fa eccezione.
Negli USA il 35% della popolazione usa internet come seconda fonte di informazione per questioni di salute, in Italia si avvicinano ai 30 milioni gli utenti di Facebook, che rimane il social più diffuso.
Anche se con enormi divari da regione a regione in Italia cresce il numero di aziende sanitarie pubbliche  che utilizzanoFacebook e Twitter come strumento per comunicare con utenti e cittadini, anche Linkedin avanza.

Negli ultimi anni le aziende private statunitensi e inglesi del settore sanitario hanno aumentato gli investimenti nei social media, in Italia il quadro generale è fortemente frazionato. Purtroppo è un effetto del fatto che il Servizi Sanitario Nazionale è nazionale solo sulla carta, in realtà esistono venti servizi sanitari regionali che si comportano in modo differente e, all’interno stesso dei servizi regionali, vi sono comportamenti differenti in quanto molte regioni sono avare di linee guida nel settore internet.
Eppure bisogna constatare che uno degli elementi che ha profondamente modificato i rapporti tra strutture sanitarie, medici e cittadini nello scenario contemporaneo della cura e della salute è stato proprio il prorompente e inarrestabile sviluppo di Internet e delle tecnologie digitali.
Le tecnologie digitali non sono un vezzo tecnologico, ma un fattore abilitante al miglioramento della qualità dei servizi, al contenimento dei costi, all’affermarsi di nuove pratiche di cura e un  basilare strumento per lo sviluppo di relazioni e comunicazione tra tutti gli attori del sistema sanitario.
E’ con il web 2.0 e con i social media questi processi acquisiscono una crescente visibilità nella scena pubblica, grazie allo sviluppo di spazi online di condivisione di informazioni sulla salute, di scambio di pareri su prestazioni mediche, di interazioni e dialogo  con medici e strutture sanitarie.
Le ricerche hanno messo in luce come sempre più cittadini usano Internet per cercare informazioni di tipo sanitario o che riguardano tematiche legate alla salute e agli stili di vita salutari, a volte anche in modo disordinato e non sempre di esito positivo, si pensi alla pericolosissima disinformazione sulle vaccinazione.
I dati CENSIS  testimoniano una crescita rapidissima,  Questo quadro, come abbiamo accennato comporta anche criticità, come la diffusione di informazioni improprie che possono causare rischi per i cittadini, a volte anche la pubblicità sovrapposta alle informazioni sanitarie serie può confondere l’utenza. A volte l’ansia di utilizzare mezzi di basso costo con abbandono di mezzi tradizionali, può aumentare il digital divide, considerando che la comunicazione sanitaria pubblica si rivolge indiscriminatamente a tutti i cittadini, qualsiasi sia la loro condizione culturale e sociale.
I social media sono anche uno strumento strategico per i sanitari. Gli usi vanno dalla ricerca di informazioni specialistiche alla visibilità delle ricerche scientifiche, dalla formazione professionale al supporto a pazienti con specifiche patologie. È poi strumento pressoché indispensabile  per costruire e mantenere relazioni con le comunità scientifiche e professionali.
Come vediamo i social media hanno possibilità di uso eccezionale nella comunicazione pubblica sanitaria.  Le aziende pubbliche possono, a costi bassissimi, lanciare campagne di comunicazione e sensibilizzazione su specifici temi sanitari o per promuovere stili di vita salutari anche integrandoli con altri mezzi classici. Se utilizzati con regole e attenzione i social media possono aiutare le aziende sanitarie a comunicare con utenti difficili da raggiungere, come adolescenti e immigrati, in questo specifico segneto di utenza è da incrementare l’uso, ancora molto limitato, di applicazioni per smarphone.
Un uso classico  è quello tipico per gli Uffici Relazioni con il Pubblico per raccogliere i feedback degli utenti, monitorare le opinioni dei pazienti e raccogliere i reclami per corregge i disservizi.
Anche nella comunicazione interna vi è spazio si possono aprire spazi di dialogo anche con l’apporto dei circoli ricreativi aziendali, per un dialogo di tipo anche informale.
Per quanto riguarda gli uffici stampa uno spazio sui social può essere gestito come valida alternativa all’house organ, con possibilità di postare interviste, slide, foro e interviste. Alcune esperienze di aziende private si sono rivelate  molto valide.
Il Ministero della Salute suggerisce alle strutture sanitarie italiane, all’interno delle linee guida per la comunicazione on line pubblicate nel 2010, l’impiego di piattaforme partecipative per pianificare attività di comunicazione più efficaci in tema di promozione della salute e per stabilire con i cittadini relazioni più coinvolgenti e di dialogo. Purtroppo spesso le buone indicazioni ministeriali i sistemi sanitari regionali le recepiscono solo in parte o a volte nemmeno le conoscono.
Su questo quadro generale delle strutture sanitarie possiamo addentrarci tramite una ricerca dell’Università di Sassari condotta nel 2013/14 dal prof. Alessandro Lovari (membro del comitato scientifico di Comunicazione Pubblica).
La ricerca ha esplorato e analizzato il processo di colonizzazione dei Social Media da parte delle Aziende Sanitarie Locali italiane (ASL) mettendo in evidenza le strategie comunicative e le problematiche organizzativo/manageriali.
Lo studio si è articolato in tre fasi con diversi metodi, ha mappato della presenza delle Aziende Sanitarie Locali sui più popolari social media (Facebook, Twitter, YouTube). Ha analizzato il contenuto delle pagine per descrivere le tipologie di messaggi pubblicati sulle timeline delle presenze istituzionali su Facebook. E infine ha svolto interviste ai direttori generali e i direttori della comunicazione, per analizzare i problemi di attuazione, le strategie comunicative, le implicazioni gestionali e i vincoli che impediscono un corretto sviluppo dei social media da parte delle ASL.
La ricerca conferma che il trend è in crescita ma emergono differenze regionali non rispondono a logiche territoriali ma alle scelte compiute da organi di indirizzo della comunicazione sanitaria.
Le maggiori difficoltà  sono causate da vari fattori. Premesso che, in generale, nella sanità pubblica sono quasi sempre insufficienti le risorse economiche ed umane investite nella comunicazione, mancano  le risorse umane qualificate e specializzate per gestire le piattaforme, spesso la un profilo Facebook non viene aperto solo perché mancano le risorse umane per gestirlo.
Permane un forte gap culturale di molte Direzioni Generali che hanno paura di ricevere commenti negativi e critiche da parte dei cittadini.
Infine il peggior ostacolo è dovuto alla  resistenza al cambiamento e cultura dell’innovazione, in certe aziende vi è ancora addirittura il divieto di accesso ai social media all’interno delle Asl.
Malauguratamente troppe ASL sono gestite da Direttori Generali che non hanno familiarità con i social media e non sono in grado di comprendere la rivoluzione tecnologica digitale che questi mezzi posso portare alle organizzazioni.
Come spesso ho rilevato si combattono le guerre con i generali della guerra precedente, dei novelli generali Cadorna che mandano le truppe all’attacco, allo scoperto, con la sciabola sguainata, perché non hanno capito cosa è una mitragliatrice
Purtroppo dobbiamo così constatare che l’uso dei social media per la comunicazione sanitaria istituzionale è ancora in una fase sperimentale  per la quantità e qualità. Ancora troppe Asl non sono ancora pronte a cogliere l’opportunità di attivare rapporti diretti  con i cittadini. Non investono ne risorse umani ne materiali.
L’Associazione Comunicazione Pubblica da anni è in prima fila in questa battaglia culturale, sia nella formazione che nella divulgazione. Come prosegue nella battaglia per il riconoscimento dei profili professionali nei contratti della sanità che è necessaria per poter portare i laureati in scienza della comunicazione a ricoprire un ruolo che è più che necessario.
Per concludere è importante ancora sottolineare che le aziende sanitarie pubbliche, insieme ai comuni, sono il più importante e diffuso contatto del cittadino con lo Stato, e che il bilancio delle regioni per il 70% è indirizzato alla spesa sanitaria. Un tale quadro socio-economico richiede assolutamente una comunicazione pubblica forte e moderna, come noi di Comunicazione Pubblica P da sempre sosteniamo.



"Fate bambini per l'Italia!" Lo spot pro-nascite della Chicco divide il web

Il video-appello in tv con amplessi e baci appassionati: “Fatelo ovunque anche senza Mondiali!”


Ricordate lo slogan “Chicco dove c’è un bambino”? Beh adesso, tenetevi forte perché sono migliaia, milioni, trilioni. L’azienda di articoli per l’infanzia ha lanciato una nuova pubblicità tv in onda da qualche giorno inneggiando al baby boom. Chicco va ai Mondiali di calcio e vuole segnare tanti gol. Lo spot si propone come un inno alla vita, peccato che la vita non sia uno spot.
La premessa è la seguente: “Non sarà il 1982 o il 2006 ma anche quest’anno le notti possono essere magiche”. Sì, perché l’Italia è fuori, ma gli uomini lo mettano dentro. Davanti alle facce degli italiani affranti per il flop della Nazionale, una voce fuori campo con tono enfatico ricorda: “Per la prima volta dopo 60 anni l’Italia non gioca il Mondiale. Una tragedia”. Perché? Perché “ogni urlo di allegria, ogni gesto di esultanza, ogni Mondiale vinto finisce sempre con il baby boom. Un’esplosione dell’indice naturale di natalità, una pioggia di neonati che ci ha allagato di ottimismo facendo dell’Italia una nazione straordinaria”. Così le immagini di festa sfumano in un uomo che guarda con cupidigia la sua donna e le salta addosso. E via con l’Italia produttiva e ottimista del dopoguerra. Con tanto di bianco e nero per rievocare i bei tempi che furono. Viene anche un po’ da sorridere quando lo spot mostra donne e uomini soli, tristi e sconsolati e la voce fuori campo sale d’intensità e pathos sottolineando che oggi la situazione è diversa.
Qual è la soluzione a tanta depressione? Ma semplice per dindirindina! “Facciamo un altro baby boom! Abbiamo bisogno di migliaia, milioni, trilioni di bambini che ci aiuteranno a crescere portando l’Italia dove è giusto che sia” (Che significa ‘dove è giusto che sia’? A uno stage non retribuito? A “cercasi 20enne con esperienza nel settore di 5 anni?” A 500 euro mensili?).

Sempre più coinvolto nell’orgasmico spot il narratore esorta a “farlo per l’Italia, facciamolo tutti, l’uno con l’altro, uniamoci e moltiplichiamoci all’infinito”. L’invito che sa di ordine, di nazionalistica chiamata alle armi, diventa sempre più retorico: “Facciamolo per amore o semplicemente per voglia di farlo. Facciamolo dovunque, ovunque, e comunque sia. Facciamolo per l’Italia perché in questo Mondiale, i gol li segniamo noi”. E si vedono uomo e donna fanno sesso in casa, in ufficio, dal barbiere, in un parcheggio, dentro la macchinetta della foto tessera (c’è pure il souvenir, nda). Così impostata, sembra che alla Chicco non frega niente se siete innamorati, se avete un progetto di vita in comune, se avete la disponibilità per mantenere il “gol mondiale” (ma si può paragonare un figlio a un gol?!) dalla culla ai 20 anni sperando che non sia un bamboccione. C’è da riempire seggioloni e vendere biberon. Quindi accoppiatevi come conigli ovunque voi siate, tanto poi passa Pantalone a pagare. Se invece siete coppie omosessuali, vi dovete arrangiare. A voi non spetta neppure ogni 4 anni.
Lo spot è una rivisitazione in chiave commerciale della celeberrima frase pronunciata da John Fitzegerald Kennedy il giorno del suo insediamento alla Casa Bianca nel 1961: “Non chiederti cosa il tuo paese può fare per te, chiediti cosa tu puoi fare per il tuo paese”. Nel caso della Chicco, di patriottico c’è al massimo la stinta bandiera tricolore sulla faccia dei tifosi.
Lo spot ha spaccato i social: chi applaude all’iniziativa, chi ricorda all’azienda l’autogol (per restare in tema) avendo spostato la produzione all’estero (“dite, facciamo crescere l’Italia ma la produzione abbigliamento Chicco dov’è? All’estero!!!”), chi ricorda la storia (“Questo spot sembra uscito dal ventennio”) e chi risponde in modo pragmatico (“Se potessi, farei 2, 3, 10 figli, ma non credo che l’azienda me li crescerebbe o mi darebbe una mano a livello economico. È facile, troppo facile dire “fate figli”, poi come li mantengo?”, comica la risposta della Chicco: “crediamo che i bambini riescano a portare tanta speranza, anche nei momenti più difficili”. La signora darà da mangiare ai pargoli pansperanza e latte di sorrisi). Molti hanno criticato la superficialità con cui è stata derubricata ad atto sessuale l’importante decisione di mettere al mondo un bambino che invece dovrebbe rappresentare la sublimazione dell’amore di coppia. In qualunque modo sia formata. In fin dei conti un figlio non assomiglia a un pacchetto di patatine da mangiare davanti a una partita.




Il segreto della crescita di Facebook

Da poche centinaia di utenti fino ai due miliardi di oggi: l’espansione del social network sembra non avere mai fine.
ochi giorni dopo la sua nascita, Facebook aveva già alcune centinaia di iscritti. Lo scorso giugno, il social network di Mark Zuckerberg ha raggiunto quota due miliardi di utenti attivi al mese. Un risultato raddoppiato nel giro di cinque anni dopo aver solcato, nel 2012, il traguardo di un miliardo. Si tratta di una crescita tanto veloce quanto, soprattutto, costante nel tempo. D’altra parte, come scrive Harry McCracken in un lungo articolo pubblicato su Fast Company, il colosso di Menlo Park si è sempre focalizzato su un unico obiettivo: come convincere sempre più persone a iscriversi al servizio.

Fin dall’inizio, lo sviluppo è stato guidato e indirizzato da un team composto da esperti di web marketing e analisti dei dati. Insomma, l’approccio è il seguente: capire e comprendere quali sono i bisogni degli utenti; se è necessario, anche anticiparli. Il Growth Team è nato nel 2007 e ha supervisionato e indirizzato tutte le innovazioni e i cambiamenti del social network. Dal lancio di Facebook Live al servizio Safety Check, passando per i droni a energia solare in grado di portare internet nelle parti più remote del mondo; fino al pulsante “donate” per le organizzazioni senza scopo di lucro o le campagne di crowdfunding. A guidare il loro operato, l’analisi dei comportamenti delle persone e delle loro abitudini. Informazioni che permettono agli analisti di creare modelli statistici in grado di prevedere i bisogni futuri degli utenti. “La nostra filosofia è quella di porci sempre un obiettivo in più. Quando nel 2007 avevamo toccato quota 70 milioni, ci siamo detti: non ci basta. E così, poco dopo, tutti hanno iniziato a immaginare come poter arrivare a 100 milioni”, ha detto alla stessa Fast Company Alex Schultz, manager del Growth Team fino al 2014.

 

La crescita di Facebook: in dieci anni è passato da meno di 200 milioni a due miliardi di utenti (fonte: Statista)

Il primo grande fattore di sviluppo di Facebook, ovviamente, è stata la lingua. Per potersi espandere, oltre all’inglese, il social network si è reso il prima possibile disponibile anche in francese, spagnolo o tedesco. Ma non solo, anche in somalo o afrikaans. Senza dimenticare dialetti come il sardo o la lingua berbera Tamazight. E se è impossibile rendere alla perfezione le centinaia di idiomi disponibili, sono proprio gli stessi utenti a offrire traduzioni, ad esempio di concetti come ‘tag’ o ‘poke’.

Ma è l’approdo sullo smartphone ad aver favorito l’espansione globale del social network.  Secondo gli ultimi dati, relativi a dicembre 2016, sono più di un miliardo gli utenti attivi ogni giorno che accedono da un dispositivo mobile. Una crescita possibile solo se non si rinuncia a inseguire i potenziali utenti, anche se questi vivono in zone povere in cui la connessione è di scarsa qualità. Ed è per questo motivo che, nel 2011, Facebook ha acquisito Snaptu: una startup israeliana che aveva creato una versione leggera in grado di funzionare anche con telefoni meno potenti. Così è nato Facebook Lite: fruibile anche nelle zone poco coperte da internet. Solo nello scorso febbraio, il social network ha aggiunto 200 milioni di nuovi iscritti provenienti da paesi come il Vietnam, il Bangladesh o la Nigeria.

 

La crescita degli utenti che ogni giorno utilizzano Facebook da mobile nel mondo (fonte: Statista)

Allo stesso tempo, coinvolgere nuovi utenti significa anche disegnare Facebook in modo che possa essere utilizzato intuitivamente da tutti coloro che si iscrivono per la prima volta con uno smartphone. Per questo motivo, negli anni sono cambiate anche piccole cose, più importanti di quanto potrebbero sembrare: nella schermata di login, al posto dello sfondo in blu, ci sono oggi immagini di persone che condividono foto o video; la frase “iscriviti a Facebook” è stata sostituita con “crea un nuovo account”, permettendo inoltre di sostituire la password senza prima scrivere quella errata.

“Nel nostro lavoro teniamo conto di diversi aspetti: se gli utenti possiedono una casella di posta elettronica, se sanno cosa sia, se conoscono il wifi e se sanno che possono trovarlo in alcuni punti e in altri no”, spiega a Fast Company, il responsabile del settore Design Luke Woods. E siccome, soprattutto nei paesi in via di sviluppo, in una famiglia è spesso presente un solo dispositivo per più persone, è diventato possibile passare da un account all’altro, senza ripetere l’accesso al proprio profilo.

 

L’analisi dei dati si sposa con quella dei bisogni reali degli utenti; per esempio quando si trovano in situazioni di pericolo. Safety Check è un servizio che, in caso di attentato terroristico o catastrofe naturale, permette di comunicare ad amici e parenti che si è sani e salvi. E anche questo prodotto è stato pensato e sviluppato in modo da poter convincere sempre più persone a iscriversi a Facebook. “Vogliamo avere un impatto nel mondo e per averlo dobbiamo pensare a servizi che funzionino”,  afferma Naomi Gleit, la vice presidente della divisione dedicata al sociale.

Molto probabilmente, il futuro prossimo di Facebook potrebbe essere scritto nella realtà aumentata. Lo ha spiegato lo stesso Mark Zuckerberg, in un’intervista rilasciata a Recode lo scorso aprile: “Gli oggetti di cui abbiamo bisogno non devono necessariamente essere materiali. Vuoi giocare a un gioco da tavolo? Ti basta muovere le dita ed ecco il gioco. Vuoi guardare la tv? Non hai bisogno dello schermo, ma ti basta acquistare un’app da un dollaro per per poterla vedere”. Il colosso di Palo Alto non ha ancora nei suoi piani la creazione di un modello di occhiali a realtà aumentata, ma sta aprendo la propria piattaforma agli sviluppatori in modo che possano creare nuove funzionalità per gli utenti. Il tutto con l’obiettivo di continuare a crescere, oggi, ma soprattutto domani.




Nell'App Store di Apple c'era un'app che faceva cryptomining

Di solito l’App Store di Apple viene considerato una fonte sicura per le app per i dispositivi macOS, ma pochi giorni fa è emerso che Calendar 2di Qbix, un’app di gestione agende molto popolare, usava i computer degli utenti per fare cryptomining, ossia generare criptovalute (specificamente Monero) a favore dell’azienda senza il consenso degli utenti.

Questa attività rallentava fortemente le macchine e nel caso dei laptop ne scaricava rapidamente la batteria mentre nei computer fissi causava consumi di energia anomali.In teoria il consenso era previsto, con tanto di richiesta su schermo da accettare per sbloccare gratuitamente le funzioni avanzate dell’app, ma alcuni errori di programmazione scavalcavano la richiesta e consumavano molte più risorse del previsto.
Sono arrivate ben presto le lamentele degli utenti e Qbix ha deciso di rimuovere la funzione di cryptomining dalle nuove versioni dell’app. Apple, da parte sua, non ha ancora commentato la vicenda per chiarire se ci sono state violazioni delle sue ferree regole di accettazione delle app nel suo esclusivo Store, ma l’incidente dimostra che i controlli di Apple, pur severi, non sono perfetti.
Il cryptomining, consensuale o meno, sta diventando sempre più impopolare, anche perché può arrivare a danneggiare fisicamente i dispositivi, come per esempio gli smartphone. Se siete programmatori di app o gestori di siti, lasciate perdere.