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La Chiesa Uk chiede diversity nei board

IL CHURCH INVESTORS GROUP SI PREPARA ALLE ASSEMBLEE 2018

Retribuzione dirigenti, gender diversity, lotta al climate change. Il Cig ha posto tre paletti per mantenere l’appoggio alle aziende Uk. Il gruppo, con 17 miliardi di asset in gestione, non voterà i dirigenti di imprese che non compiono progressi nei tre settori


La chiesa inglese ha preso un posizione forte sulla presenza femminile nei board aziendali. Una questione etica, certo, che però il Church Investors Group(Cig) mira a risolvere con il potere del suo patrimonio finanziario. In realtà, il discorso affrontato dal Gruppo, che detiene un totale di asset pari a circa 17 miliardi di sterline, è più ampio e riguarda l’appoggio ai dirigenti aziendali nella prossima stagione di voto a fronte di tre temi: la retribuzione dei dirigenti; le azioni poste in essere nella lotta al climate change; e, come detto, la gender diversity in posizioni apicali.

UNO SCACCO IN ROSA

Proprio quest’ultimo punto ha attirato l’attenzione di diversi commentatori perché si tratterebbe di uno scacco a diverse società quotate nei principali listini europei a partire dal Ftse350. Il Cig, infatti, ha minacciato un voto contrario alla rielezione dei presidenti delle commissioni nei casi in cui il board non sia composto per almeno un terzo da donne. Un voto apertamente contrario a tutto il consiglio direttivo andrà a quelle aziende in cui le dirigenti di sesso femminile sono meno del 25 per cento. E qui, secondo gli ultimi dati pubblicati lo scorso novembre dalla rivista Hampton-Alexander, che mira ad aumentare il numero di donne nei consigli di amministrazione Ftse, c’erano 301 imprese nel Ftse350 alla fine di giugno 2017, in cui la proporzione di donne nel consiglio di amministrazione era inferiore al 33 per cento. Un totale di 170 imprese avrebbe fallito il test della Cig, avendo una rappresentanza femminile in cda inferiore al 25%; tra queste la società energetica BpBarclays, il colosso assicurativo Prudential e quello alimentare Just Eat.
Il Financial Times, poi, sull’onda della discussione generata dal Cig, ha citato anche i dati del 30%Club, l’associazione nata nel 2010 che punta a una gender diversity nei board di almeno il 30% entro il 2020. Ebbene, sono 62 e 42 le società che hanno superato la soglia del 30% nel Ftse 250 e nel Ftse 100. Analizzando, invece, i dati resi disponibili dalla società di ricerca BoardEX, a ottobre 2017 erano soltano 27 le società del Ftse100 che rientrano nella categoria del 33 per cento.

REMUNERAZIONI E CLIMATE CHANGE

Sul fronte delle remunerazioni dei dirigenti, il Gruppo di investitori della chiesa inglese voterà contro i direttivi in cui non ci sarà disclosure sul rapporto tra i redditi più alti e quelli più bassi all’interno della società, e quelli in cui gli amministratori delegati percepiscono pensioni “eccessive”. Se la pensione è superiore al 30% dello stipendio, «ci asterremo dal voto», ha detto il gruppo. Il cambiamento climatico è la terza area chiave: si voterà contro la rielezione della presidenza se una società sta compiendo pochi progressi nella transizione verso un mondo a basse emissioni di carbonio.
La stagione delle riunioni annuali del 2018 inizierà in primavera, e lo scorso anno il Cig non ha sostenuto il 60% delle relazioni sulle retribuzioni presentate dalle società Ftse350. «Le migliori aziende contribuiscono al bene comune attraverso i loro prodotti e servizi e il modo in cui trattano i loro dipendenti», ha affermato Edward Carter, presidente del Cig. «I loro dirigenti capiscono che se non fanno qualcosa sull’equità e sui rischi che questo comporta, sono essi stessi parte del problema e rischiano di perdere la fiducia degli investitori e, in definitiva, la loro licenza di operare».
 
 




Influencer Marketing de Noantri

Che gli influencer e i blogger tecnicamente NON esistano e che gran parte delle campagne di influencer marketing siano pianificate in maniera grossolana, per usare un eufemismo, è una cosa che abbiamo già avuto modo di spiegare relativamente di recente, anche di persona.
Se già ad inizio anno il NYTimes aveva spiegato bene come funzioni “la fabbrica dei follower”, sono di questi giorni le dichiarazioni del CMO di Unilever di “guerra” ai finti influencer che comprano follower per vendersi sul mercato.
A chiudere il cerchio sulla questione arriva ora il “coming out” di Sara Melotti, fotografa e, appunto, influencer [pentita] che svela i retroscena fraudolenti dell’influencer marketing su Instagram. Cose che molti degli addetti ai lavori sanno, o dovrebbero sapere, che messe tutte assieme in fila danno una precisa dimensione del fenomeno.
Nel suo articolo di un paio di giorni fa la Melotti racconta che, oltre al “giochino” follow-unfollow, ancora molto utilizzato, esistono applicazioni e community che spingono in maniera automatizzata, e dunque non organica/naturale, i post dei pseudo-influencer su Instagram.
Ci sono innumerevoli chat di gruppo di engagement con migliaia di membri dove la gente si scambia “mi piace” e commenti per pomparsi l’engagement artificialmente. Ci sono diversi tipi di gruppi: gruppi di nicchia [per esempio di profili di viaggio, o fashion, o fitness etc etc], gruppi virali [dove tutti postano esattamente alla stessa ora cosi da aumentare le possibilita’ di diventare virali] e molti molti altri. Ci sono “giri” di likes e commenti ogni ora.
È possibile comprare sul mercato un profilo con già 100K followers ad una cifra compresa tra i mille e diecimila dollari, così come è possibile acquistare il diventare profilo verificato [quelli con la spunta blu] circa per la stessa cifra.
Esistono poi applicazioni che pompano artificialmente, anche, l’engagement. Uno di questi è Fuelgram, un engagement group automatizzato, praticamente un servizio di bot + un commento pod tutto in uno. Si paga una fee mensile, si da la propria password e si e’ dentro. Fuelgram userà i profili di tutti gli utenti iscritti al servizio per commentare e mettere mi piace alle foto sul tuo profilo e viceversa userà il proprio profilo per fare lo stesso con il loro.
Fuelgroups e Autorounds sono ancora “meglio”: sono gruppi di engagement automatizzati e targhettizati dove “profili grossi”, profili con un elevato numero di follower,  danno/ricevono “mi piace” — tramite bot — appena una foto viene postata.
A questi si aggiunge  Powerlikes, praticamente doping per i posts: sono “mi piace” che vengono da profili con tantissimi followers [da 50K a oltre 500K  – l’engagement proveniente da account grossi e’ quello che può far finire sulla pagina esplora].  I powerlikes “buoni” partono dai $300 ma possono arrivare anche a $1000 al mese. Qui pero’ non è necessario dare la propria password a nessuno, basta pagare la fee mensile e appena si pubblica una foto si riceveranno centinaia di powerlikes che danno “la spinta” al proprio post per diventare virale.
Ed ancora, “servizi di  consulenza” che promettono di far crescere la propria presenza su Instagram in brevissimo tempo con piani “personalizzati” che vanno da 24 a 360 dollari di canone mensile, e naturalmente molto altro è disponibile cercando in  Rete, o ancora meglio su Telegram, con una lista completa di shout-outs a disposizione, ad esempio.
L’influencer marketing de noantri cresce, e prospera come evidente, perchè i brand, in questo caso accomunati ai newsbrand, sono ancora alla ricerca di volume e non di valore. Per evitare l’influencer marketing de noantri valutate, valutiamo, sempre la qualità e non solo la quantità, come avviene prevalentemente, di follower e fan, ricordandosi che popolarità ed influenza sono due concetti che talvolta possono essere anche molto distanti tra loro. Buon lavoro.




Gli italiani bocciano i bilanci di sostenibilità delle imprese

I consumatori italiani bocciano i bilanci di sostenibilità delle imprese ritenendoli, così come redatti oggi, carenti nella confrontabilità, nella promozione e nella condivisione, attribuendogli quindi una efficacia irrilevante al fine di un corretto rapporto di trasparenza con i cittadini e una utilità marginale per l’affermazione della cultura della Sostenibilità diffusa. E’ quanto emerge dalla ricerca ‘Alla scoperta della Sostenibilità – Consumatori protagonisti’ realizzata dalla Markonet, Società specializzata nelle ricerche di mercato, e promossa dal Centro Studi Codacons-Comitas.
Il bilancio di sostenibilità si rivolge a tutti gli stakeholder o portatori di interesse, quindi a tutti coloro con cui l’impresa stessa entra in contatto e viene pubblicato ogni anno in base a delle linee guida condivise a livello internazionale tra cui le emissioni di gas serra, l’impronta idrica, il consumo di energia, le politiche lavorative. La direttiva europea 2014/95/UE, recepita formalmente alla fine del 2016 stabilisce che le imprese dovranno rendere noto ogni anno le loro politiche in termine di sostenibilità, oppure dovranno spiegare il motivo del loro rifiuto a divulgarle.

I risultati ottenuti non hanno visto esaudite le aspettative dei consumatori che vorrebbero invece dal bilancio di sostenibilità un mezzo per conoscere con semplicità e trasparenza anche quella vita aziendale ignorata dal bilancio di esercizio, oltre che una comunicazione semplificata e un equilibrio nel rapporto fiduciario tra impresa e consumatore. Nei progetti di sostenibilità, tra le attività finanziarie rientrano anche le sponsorizzazioni.
Nel 2016 (ultimo anno utile preso in esame) gli investimenti in questo settore sono stati così ripartiti: 1,25 miliardi di euro per le infrastrutture, (normalmente riferiti al territorio in cui opera l’impresa) 1,20 miliardi di euro per salute e benessere (investimenti legati all’operatività dell’impresa monopolizzati alla sfera dei dipendenti), 810 milioni di euro per lo sport (di cui 320 milioni solo per il calcio e 92 milioni per gli altri sport federati), 330 milioni per la solidarietà e fanalino di coda 310 miliardi per la cultura.
Quindi su un Pil (anno 2016) di 1.573,89 miliardi di euro, la percentuale degli investimenti di attività non finanziarie per la sostenibilità è stato per le imprese di 3,90 miliardi cioè lo 0,25% del Pil. Dal rapporto emerge la necessità per le imprese di informare e coinvolgere il consumatore in una relazione interattiva dove la sostenibilità sia dunque un valore condiviso.
Ma le scelte del consumatore rimangono comunque influenzate per il 46% dal prezzo, per il 38% dalla qualità del materiale e solo per il 16% dall’immagine o pubblicità. Il 56% degli intervistati crede fermamente nella sostenibilità come matrice di sviluppo economico, il 44% crede che le attività non finanziarie adottate dalle imprese concorrano al benessere diffuso, il 36% anche allo sviluppo sostenibile.




Noi umani abbiamo un superpotere È l’empatia che ci rende eccezionali

Noi umani abbiamo un superpotereÈ l’empatia che ci rende eccezionali

Elon Musk uomo d’affari sudafricano – celebre per le sue auto elettriche dalla prestazioni eccezionali, i suoi missili e capsule spaziali con cui fa concorrenza alle Soyuz russe, che sogna di fondare una colonia su Marte – ha rilanciato l’ipotesi di un’umanità dotata di superpoteri. Il miracolo avverrebbe grazie a un collegamento cervello-computer che ci permetterebbe di fondere la nostra intelligenza con quella artificiale. Ci attende un futuro da cyborg? In realtà già oggi abbiamo moltissimi “superpoteri” di cui però non ci rendiamo realmente conto. Si tratta di capacità sviluppate in migliaia di anni di evoluzione e che oggi ci rendono la specie egemone sul nostro pianeta. In buona misura ciò di cui siamo capaci dipende dalle caratteristiche del nostro cervello, più potente dei computer nel fare calcoli probabilistici , in grado di adattarsi e superare i suoi limiti intrinseci, capace perfino di leggere nella mente degli altri, una peculiarità alla base della nostra vita sociale. Nessun trucco da prestigiatore, tutto merito dell’empatia: l’uomo ha sviluppato più di tutti gli altri animali la capacità di partecipare ai sentimenti altrui al punto da poter decifrare e perfino anticipare i pensieri e i comportamenti di chi ha di fronte.

Leggere le emozioni altrui

«L’empatia è la base della natura sociale dell’uomo, rende possibile l’apprendimento e le relazioni affettive ed è una caratteristica diversa dalla capacità di mentalizzazione, che pure è tipica dell’uomo – spiega Claudio Mencacci, presidente della Società Italiana di Psichiatria -. Con questa possiamo rappresentare e comprendere gli stati mentali e affettivi dell’altro, ma non ne siamo partecipi; l’empatia invece ci porta a provare le stesse emozioni di chi abbiamo di fronte e quindi anche a superare l’egocentrismo per accogliere l’altro, realizzare interazioni più soddisfacenti, costruire legami sociali. Il nostro istinto ci porterebbe ad avere pregiudizi e a costruire barriere, invece siamo una specie nonostante tutto cooperativa: l’empatia ha consentito l’evoluzione del branco e ci ha permesso di realizzare la società come la conosciamo oggi». Le capacità utili a relazionarci con gli altri, di cui fa parte anche l’empatia, sono chiamate dagli esperti teoria della mente e sono utili a chiunque, ma indispensabili a politici, attori, scrittori. Queste doti non sono determinate soltanto dai geni, ma si possono imparare: neonati di pochi mesi riescono a leggere le emozioni altrui e per esempio, osservando le azioni di una persona, si aspettano che questa vada verso un oggetto ritenuto desiderabile e guardano da quella parte, di fatto prevedendone il comportamento.

Intelligenza emotiva

Crescendo, attraverso le esperienze, l’osservazione del mondo e anche la guida degli adulti, si impara sempre più a mettersi nei panni degli altri e quindi prevederne azioni e reazioni, a tutto vantaggio della possibilità di intessere relazioni proficue. La maggior parte di queste abilità si sviluppa nei primi cinque anni di vita, tanto più quanto più in famiglia e nel contesto sociale di riferimento si parla apertamente di emozioni e stati d’animo così da riconoscerli in se stessi e negli altri; tuttavia è possibile migliorare la capacità di leggere la mente anche da adulti e perfino dopo i 60 anni, con benefici nelle relazioni sociali visto che un maggior grado di empatia si associa a una minor solitudine. «La base biologica di tutto questo sta nei neuroni specchio (scoperti negli anni Ottanta, da Giacomo Rizzolatti dell’Università di Parma, si attivano quando compiamo un’azione ma anche quando vediamo compierla, ndr), che consentono al nostro cervello di vivere una sorta di “simulazione dell’esperienza altrui” essenziale per comprendere davvero chi abbiamo di fronte e interagire con lui – riprende Mencacci -. Questa capacità di leggere la mente è un’intelligenza emotiva che non tutti possiedono in ugual grado, ma che in compenso si può allenare».

Una gabbia di sofferenza

Il mezzo più facile? Leggere libri, a patto che siano di buona qualità: calarsi nelle storie e immedesimarsi nei panni dei personaggi è come guardare la realtà da un punto di vista diverso e costituisce un efficace esercizio per imparare a interpretare emozioni, gesti e comportamenti del prossimo anche nella vita quotidiana, affinando la capacità di leggere nella mente altrui. Purtroppo a volte lo “specchio” attraverso cui interagiamo con l’altro si rompe e l’empatia diventa impossibile. «Succede, per esempio, a chi ha disturbi antisociali della personalità, e a causa della malattia non è capace di partecipare al dolore dell’altro – aggiunge lo psichiatra -. Anche nell’autismo a basso funzionamento gli studi indicano una compromissione delle capacità di empatia e possibili alterazioni del sistema dei neuroni specchio». L’impossibilità di leggere la mente e le emozioni altrui diventa in questi casi una gabbia di sofferenza, la prova evidente di quanto il nostro benessere e le nostre relazioni si fondino su questo “superpotere”.

Una realtà oltre la realtà

Il nostro cervello sembra disegnato per credere in qualcosa che vada oltre quello che vediamo e tocchiamo. Tutto dipenderebbe proprio dalla «teoria della mente». Se possiamo «entrare» nei pensieri altrui, allora diventa possibile immaginare anche l’esistenza di menti senza corpo. E di una realtà oltre la realtà.




INVESTIRE SULLA REPUTAZIONE RENDE IL 10%

Una ricerca condotta da Mediobanca e Cineas ci dice che la tutela della reputazione aziendale ha ritorni non soltanto tangibili, ma anche misurabili e pesanti. L’analisi di Giovanni Landolfi e Giampietro Vecchiato

Siamo abituati a classificare la reputazione aziendale tra gli asset intangibili dell’impresa, come i marchi, i brevetti, il capitale umano. Tuttavia spesso traduciamo intangibile con sfuggente. Soprattutto quando ragioniamo in termini di costi e benefici. Ma una ricerca condotta da Mediobanca e Cineas, il Consorzio universitario del Politecnico di Milano per l’ingegneria delle assicurazioni, ci dice che la tutela della reputazione aziendale ha ritorni non soltanto tangibili, ma anche misurabili e pesanti, dato che possono generare un 10% di ritorno sull’investimento.

Gestire i rischi vale il 30% del Roi

L’Osservatorio sul risk management, condotto da Mediobanca per il Cineas prende in considerazione 277 imprese familiari italiane in rappresentanza di 2.600 medie imprese manifatturiere, con fatturati tra 20 e 355 milioni di euro e da 50 a 499 dipendenti. L’analisi ha l’obiettivo di capire se e come queste aziende gestiscono i rischi, quali rischi prendono in considerazione, con quali priorità e con quali esiti in termini di risultati aziendali. La sorpresa sta qui: le imprese dotate di un sistema strutturato di risk management ottengono profitti di oltre il 30% superiori rispetto alle altre. Quindi, la gestione dei rischi non ha soltanto un valore industriale, volto a salvaguardare gli investimenti e la continuità aziendale, ma può anche generare un ritorno finanziario significativo.
E quali sono i dieci rischi più temuti dalle medie imprese italiane? Al primo posto c’è la sicurezza sul lavoro. Subito dopo, il cyber risk, la difettosità dei prodotti, il rischio reputazionale e quello ambientale. Al sesto posto, le competenze professionali. Quindi, le interruzioni di fornitura, la compliance normativa (legge 231), l’imitazione del prodotto e, al decimo posto, le catastrofi naturali.
“Emerge una correlazione chiara tra la gestione dei rischi e la redditività aziendale”, ha spiegato, presentando i dati, Gabriele Barbaresco, autore della ricerca e direttore dell’Ufficio studi Mediobanca: “anche se non è provata la causalità tra la gestione dei rischi e una redditività migliore. Potrebbe anche essere che le imprese con una migliore redditività abbiano anche una maggiore attenzione alla gestione dei rischi”. Ciò non toglie che un differenziale del 31% in termini di Roi (dati 2017: nel 2016 il dato era addirittura del 38%) rappresenti un valore tutt’altro che trascurabile.

La reputazione come rischio da gestire

Il caso della reputazione poi è peculiare perché non riguarda i processi aziendali né gli obblighi normativi su cui da sempre si concentra l’attenzione delle imprese, e appena due anni fa non rientrava nemmeno nelle prime 20 posizioni: era al 21° posto su 22 aree di rischio principali indicate dalle aziende del campione. “Naturamente, la percezione del rischio da parte degli imprenditori varia sensibilmente in funzione della tipologia di attività dell’azienda”, prosegue Barbaresco. “Nell’alimentare ci si sente più esposti all’imitazione del prodotto, alla difettosità, al rischio reputazionale e alle calamità naturali. Per i beni per la persona e la casa in cima alla lista dei pericoli ci sono le calamità naturali. Il chimico farmaceutico teme il rischio di disastro ambientale e si sente molto meno esposto al cyber risk e al rischio reputazionale. Per il meccanico, a contare di più sono le competenze professionali, mentre nel metallurgico la sicurezza sul lavoro”. Ma è interessante questo secondo passaggio: “A mano a mano che ci si sposta verso la gestione di rischi che esulano dall’obbligatorietà legale, ma che attengono più propriamente all’attivazione di leve competitive, si amplia il differenziale in termini di redditività industriale a vantaggio delle imprese che dedicano a essi presidi efficaci. È il caso delle competenze professionali (+8%), degli aspetti reputazionali (+10%), della sicurezza informatica evoluta e protezione dall’hackeraggio (14%), fino al presidio della qualità del prodotto e quindi della sua non replicabilità (+21%)”.

Cigni neri e conti in rosso

Il punto chiave è che le imprese dotate di strumenti manageriali evoluti ricorrono a modelli di risk management che non si limitano ad analizzare dati probabilistici e serie storiche sugli accadimenti possibili ma si spingono a immaginare rischi non tradizionali o che possono nascere da situazioni non predeterminabili. Un modo per evocare i cosiddetti cigni neri, che Nassim Taleb ci ricorda essere eventi a bassissima probabilità ma con un impatto potenzialmente devastante. Guardiamo alla cosa in termini di esposizione: il 60% delle aziende analizzate da Mediobanca ha un sito aggiornato, ottimizzato e utilizza il web ai fini commerciali. Vuol dire che il nome di queste imprese arriva a un numero di contatti inimmaginabile soltanto dieci anni fa e, in caso di situazioni o incidenti che compromettano la credibilità dell’azienda, tutti questi contatti rischiano di diventare nostri nemici o giudici, di prendere le distanze da noi o di diventare addirittura attivisti per la messa al bando del nostro brand. È possibile difendersi? Certamente, ma non a prezzo di saldo. Il rapporto Aon 2017 sulla gestione del rischio nelle aziende, stima che una società quotata in borsa possa perdere almeno il 20% del proprio valore azionario in caso di danni di immagine consistenti, come scandali, incidenti, cause legali. Mentre la rivista specializzata Reputation Management rileva che l’80% degli utenti di e-commerce dichiara di non fare acquisti presso esercenti con recensioni negative. Se questo è il conto da pagare, è indubbiamente preferibile agire d’anticipo, affrontare quest’area di rischio in ottica strategica e adottare una politica di prevenzione dei rischi reputazionali. Anche perché si tratta di un investimento sicuro. Mediobanca docet.