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Un modello per misurare il valore intangibile del volontariato

Università della Calabria e Csv di Cosenza hanno avviato una ricerca per elaborare un nuovo modello di analisi dell’impatto sociale del non profit. Si partirà dai dati e gli accademici incontreranno direttamente le associazioni

Misurare l’impatto sociale delle associazioni non profit tenendo conto anche degli aspetti “intangibili” del volontariato, fondamentali nella loro azione quotidiana. È l’ambizioso obiettivo del progetto di ricerca avviato dal dipartimento di Scienze politiche e sociali dell’università della Calabria e dal Centro di servizio per il volontariato di Cosenza. La convenzione firmata dai due soggetti, presentata in un convegno il 15 giugno scorso, punta a elaborare e sperimentare un nuovo modello di analisi: “Non deve essere un metodo che acquisiamo da altri mondi in modo asettico, – ha spiegato la professoressa Maria Teresa Nardo, responsabile e coordinatrice scientifica della ricerca. – Deve avere dei punti di contatto con questi mondi, ma va necessariamente calato nel contesto in cui viviamo”.
Secondo Nardo, in questa prima fase di strutturazione c’è la necessità di reperire ancora più informazioni sulle attività svolte dalle associazioni. Dai dati che il Csv ha messo a disposizione dei ricercatori è emerso, infatti, che una organizzazione di volontariato svolge più attività e tutte diverse, probabilmente per rispondere ai bisogni mutevoli e alle urgenze del territorio. Per la professoressa Benedetta Siboni dell’università di Bologna, componente del comitato scientifico della ricerca, è indispensabile, invece, partire dall’analisi della mission delle singole organizzazioni.
Già nel 2013 il centro di servizio aveva realizzato, in collaborazione con lo stesso dipartimento, la ricerca “Il volontariato nei contesti di welfare debole” sulla natura e le caratteristiche del volontariato cosentino e sul ruolo che il Csv aveva assunto nel contesto territoriale in dieci anni di attività. Attraverso questa nuova convenzione il rapporto tra centro e università si rafforza. “Il metodo di lavoro è veramente innovativo, – ha sottolineato Mariacarla Coscarella, direttrice del Csv Cosenza. – Gli accademici non sono chiusi una stanza ad elaborare dati, ma si confrontano con noi in modo costante, ragionando sulle informazioni e incontrando le associazioni tramite i focus group”.
Il presidente di Volontà Solidale Csv Cosenza, Gianni Romeo, ha sollecitato il rettore Gino Mirocle Crisci a realizzare un ponte tra l’università (che vanta 30mila iscritti) e il mondo del volontariato. Positiva la risposta di Crisci: “Noi non siamo solo formazione, ricerca, spin-off e tecnologie, – ha affermato, – ma abbiamo anche la missione di dialogare con la società”. All’incontro era presente il direttore del dipartimento, Francesco Raniolo, l’altra componente del gruppo di ricerca Carmela Guarascio dell’Università della Calabria e Pasqua Rignanese dell’università di Bologna. Ha coordinato i lavori Paolo Ricci dell’università di Napoli “Federico II” e presidente dell’associazione nazionale Gbs (Gruppo di studio per la ricerca scientifica sul bilancio sociale) di Milano. (Lory Biondi)




Chi sono i rivali di Facebook secondo Facebook (e qual è l’app con cui ci studia e li combatte)

In un documento di risposta ai quesiti del Congresso americano Facebook è entrato nel merito del suo presunto monopolio e ha parlato di Onavo

Più di duemila domande e più di duemila risposte, in due documenti da 500 pagine totali.

I quesiti sono del Congresso americano. Le repliche di Facebook, che dopo le audizioni di aprile di Mark Zuckerberg è entrato nel merito delle questioni sollevate a Capitol Hill. Nella colata di spiegazioni più o meno puntuali c’è un particolare inedito e interessante. Quello sulla concorrenza. Sia negli Stati Uniti sia in Europa, dove si è rivolto al Parlamento europeo, Mark Zuckerberg ha glissato sulla richiesta di lumi su una sua presunta posizione di monopolio.

«In media gli americani usano otto diverse app per comunicare con i loro amici e rimanere in contatto con le persone […]. Data la sua ampia offerta, Facebook rivaleggia con numerosi concorrenti per attrarre, coinvolgere e trattenere gli utenti e per attrarre e trattenere gli attori del mercato e gli sviluppatori di applicazioni mobili e Web. Se si vuole condividere una foto o un video si può scegliere fra Facebook, DailyMotion, Snapchat, YouTube, Flickr, Twitter, Vimeo, Google Photo, Pinterest e molti altri servizi. Allo stesso modo, se vuoi scrivere un messaggio, solo per citarne alcuni, puoi fare riferimento a iMessage di Apple, Telegram, Skype, Line, Viber, WeChat, Snapchat e Linkedin, oltre ad affidarti ai tradizionali Sms. Allo stesso modo, le aziende hanno diverse opzioni: dai cartelloni pubblicitari, alla stampa e alle trasmissioni fino alle più recenti piattaforme come Facebook, Spotify, Twitter, Google, YoutTube, Amazon o Snapchat. Facebook rappresenta una piccola parte (solo il 6 per cento) dell’ecosistema da 650 miliardi di dollari e la maggior parte di quanto ottiene arriva dalle piccole e medie imprese, molte delle quali non possono permettersi di acquistare pubblicità su giornali e tv, per raggiungere un pubblico più ampio in modo conveniente».

Quindi: il colosso pigliatutto di Menlo Park, che si è appena buttato anche nel mondo del gaming, mette nello stesso calderone tutte le soluzioni con cui compete nei diversi ambiti in cui fa valere la forza del suo ecosistema. Nella messaggistica, ad esempio, ha spinto il suo Messenger imponendo il download dell’app separata da Facebook nel 2014, nonostante lo strumento venisse utilizzato — quantomeno in prima battuta — per dialogare con gli amici del social network. Al momento ci sono 2,2 miliardi di persone che per comunicare in privato con gli amici in blu devono per forza scaricare Messenger, a meno di andare a cercare appositamente il contatto altrove. E i concorrenti devono vedersela con un mostro a due teste. Ne sa qualcosa Yahoo! Messenger, che il 17 luglio chiuderà i battenti dopo 20 anni di onorato servizio.

Quando parla di pubblicità Facebook si riferisce poi all’intero settore e non entra nel dettaglio di quella digitale, che nel giro di due anni dovrebbe catalizzare il 44,6 per cento degli investimenti delle aziende di tutto il mondo (fonte: Zenith) e di cui al momento Facebook controlla una buona parte insieme a Google. Secondo i dati di eMarketer relativi agli Stati Uniti, solo Amazon sarà in grado di scalfire il duopolio, che nel 2017 si è mangiato il 58,5 per cento della torta e quest’anno dovrebbe scendere al 56,8 per cento.

Nel documento è un’altra l’informazione delicata e importante sul presunto monopolio. Come fa Facebook a (provare a) spazzare via chiunque tenti di farsi avanti con nuove applicazioni o social network? Usa Onavo Protect, come aveva riportato il Wall Street Journal nel 2017 e come ha, di fatto, ammesso Facebook nel documento. Si tratta di una applicazione israeliana acquistata da Zuckerberg nel 2013. La sua funzione primaria è di proteggere la navigazione con una Vpn (virtual private network). Chi la scarica — lo hanno fatto in 33 milioni — e accetta le condizioni di servizio cede a Facebook dati anonimi e aggregati sulle sue abitudini online: nello specifico, quante e quali sono le applicazioni installate e come e con quale frequenza vengono utilizzate. Così Zuckerberg vede chiaramente chi rischia di dargli (molto) fastidio in futuro. E se lo compra, come ha fatto con WhatsApp To be honest, intercettata quando andava per la maggiore fra i liceali americani, o lo copia senza remora alcuna (citofonare Snapchat). Un escamotage che può potenzialmente portare a una sorta di monopolio permanente. Facebook sa prima — o vede accadere in tempo reale — quello che gli analisti di mercato ci raccontano dopo. Ad esempio: il Pew Research Center ha appena sentenziato la passione degli adolescenti americani per YouTube, in una classifica in cui Instagram è secondo e Facebook si ferma ormai al 51 per cento delle citazioni dei 13-17enni. Benissimo: il colosso era già pronto e mercoledì 20 giugno Instagram metterà sul tavolo il suo anti-YouTube.

La descrizione di Onavo quando la si installa
La descrizione di Onavo quando la si installa

Non solo, negli Stati Uniti Onavo sta anche facendo capolino dentro Facebook come opzione legata alla sicurezza. Chi la seleziona dal menù in basso (iOs) o in alto (Android) a destra dell’app del social viene indirizzato alla pagina di download di Onavo, come avviene per Instagram.

Insomma, l’ecosistema usato come grimaldello per incoraggiare a scaricare l’iconcina che ne aiuta gli sviluppi e la prosperità futuri.




Il collasso mediatico sociale e la pelliccetta scagnata

L’ultima volta che avevo parlato di “collasso mediatico sociale” è stata in occasione delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, quando mi sono imbattuto in una foto che ritraeva Hillary Clinton di fronte ad una folla di ammiratori, i quali però davano le spalle alla candidata per farsi dei selfie.

Niente in confronto a quello che è successo in un centro commerciale di Caserta recentemente.
Chiunque abbia avuto una minima esperienza nel Retail avrà sicuramente avuto modo di imbattersi con clienti che presentavano dei reclami per problemi avuti con dei prodotti. In ogni situazione del genere, sempre molto delicata, è compito dell’addetto alle vendite o del responsabile del punto vendita gestire la situazione al meglio, con l’unico obiettivo di far contento il cliente ed ovviamente tutelare il profitto dell’azienda. Ma in questo caso qualcosa è andato storto. In questa situazione, oltre ad una cliente che si è scatenata all’interno del negozio inveendo contro la commessa e lamentandosi che l’abito acquistato poco tempo prima avesse perso colore macchiando una pelliccia che stava indossando durante un matrimonio, sempre all’interno del negozio, un altro cliente ha ripreso tutto e pubblicato immediatamente il video sui social. E da quel momento, un semplice e comune episodio di reclamo, sebbene un po’ colorito nella gestione della comunicazione da parte della cliente, è diventato un vero e proprio caso mediatico, il video è diventato in poche ore un cosiddetto “video virale”.
Quale dei due clienti ha arrecato il maggior danno all’azienda?
Mettiamoci però nei panni dell’azienda che si è vista, in un attimo, balzare agli onori della cronaca e costretta a gestire una crisi, anzi una “nuova” crisi. Ma non dimentichiamoci che spesso le crisi si trasformano in opportunità, se ben gestite. E questo è stato il caso Silvian Heach. Siamo tutti d’accordo che l’azienda non abbia fatto una bellissima figura in questa circostanza e sicuramente sarebbe stato possibile evitare tutto ciò. Ma ecco che cosa è successo nel web nei giorni successivi: Il marchio ha avuto un’impennata impressionante e, analizzando la funzione pubblica di Google Trends, sono stati raggiunti valori mai registrati prima. Gestire “social media crisis”, non è semplice, ma è importante essere preparati e soprattutto consapevoli di quello che è l’ambiente in cui ci si muove. Nel caso specifico, la reazione dell’azienda è stata molto particolare e, forse, molto efficace. Silvian Heach infatti ha deciso di riprendere l’episodio con molta ironia e leggerezza ma, soprattutto, con estrema velocità, pubblicando immediatamente un video in risposta a quanto accaduto di assoluto effetto e sdrammatizzante (qualche testata giornalistica ha definito questa reazione addirittura “geniale”).
La cliente, dal suo canto avrà sicuramente ricevuto un adeguato risarcimento al danno subito, ed un’inaspettata (e sicuramente piacevole) visibilità mediatica.
E tutti vissero felici e contenti…
Ma non sempre queste storie hanno tutte un lieto fine, perché casi del genere sono oggi dietro l’angolo e il rischio di trovarsi impreparati è estremamente alto. Il danno e la perdita di profitto che potrebbero generare questo tipo di crisi, ai tempi dei social media, potrebbe avere un effetto devastante sull’azienda. Dobbiamo evolverci e farci trovare pronti, ma siamo solo all’inizio. Temo che assisteremo ancora ad episodi del genere, siamo nell’era della omnicanalità!




Wikipedia: fontare o non fontare

Wikipedia: fontare o non fontare

Durante la cerimonia dipremiazione del concorso letterario “Racconti Corsari” dell’inizio di febbraio mi sono reso conto che alcuni interventi (tra cui il mio) hanno attinto informazioni e aneddoti dalla rete, e in particolare dalle pagine di Wikipedia. È un percorso quasi naturale, intrapreso da chiunque abbia un dubbio, e reso ancora più immediato dalla diffusione di quella protuberanza del nostro corpo chiamata smartphone. Dovrebbe essere un punto di partenza, nulla più, anche se spesso rappresenta sia l’inizio che la fine del nostro sforzo per appagare la sete di conoscenza: l’esercizio del pensiero critico necessita approfondimenti maggiori rispetto ai risultati di un semplice inserimento di parole chiave su un motore di ricerca o un sito.Sull’utilità di tale processo, tuttavia, non si discute, anche in relazione alla semplicità dell’accesso e alla fruibilità delle informazioni. Sul contenuto, invece, sarebbe il caso di discutere eccome: in passato ho eliminato dall’enciclopedia Wikipedia affermazioni che di enciclopedico avevano davvero poco, inserite da qualche buontempone probabilmente come gesto di rivolta o di critica. Ne cito due su tutte: il romanzo, definito “un genere letterario della narrativa in prosa, caratterizzato da un testo di una certa estensione, tipo anche più di venti pagine, ma anche meno se è scritto piccolo piccolo (se la pagina fa un metro per due e il carattere è piccolo, ne basta una)” o l’imposta di soggiorno di cui buona parte del gettito “inevitabilmente servirà ad alimentare il giro di corruzione, di favoritismo, di nepotismo e il mercato della prostituzione (escort) che affligge le varie istituzioni”. Queste affermazioni sono rimaste disponibili in rete senza che nessuno se ne accorgesse o che aprisse una discussione su quanto fossero “fontate” (orrendo neologismo che non deriva dall’italianizzazione di un termine inglese – font, carattere di stampa – ma da un obbrobrio linguistico tutto italiano che trasforma il sostantivo “fonte” in un verbo, “fontare” appunto, attribuire una fonte).Negli scorsi mesi mi sono trovato a fare i conti (da autore di contenuti) con il moloch di Wikipedia, che riesce a fondere in un connubio non sempre ben intellegibile la libertà diffusa di accesso alle informazioni dell’enciclopedia dal lato dei fruitori, con l’impossibilità (anch’essa diffusa) a vedersi riconosciuto il diritto di avere una pagina dedicata alla propria attività e alle proprie produzioni artistiche.In effetti, negli anni si è assistito a un aumento esagerato delle pagine di Wikipedia, trasformatasi in una specie di Facebook. La reazione era stata la chiusura del recinto dopo la fuga dei buoi, a cui si è accompagnata (possibilità che gli allevatori distratti non hanno) la cancellazione di una moltitudine di pagine non considerate enciclopediche. Questo processo continua, fondato in particolar modo su un oscuro concetto, cangiante nei confini, della “valenza enciclopedica” delle fonti che consentono e sorreggono l’inserimento di una nuova voce.Sotto questo profilo ho alzato bandiera bianca da qualche anno, rinunciando a inserire nuove voci nella enciclopedia libera. L’ultima volta ci ho provato con Fabio Izzo, ai tempi della sua partecipazione al premio Strega grazie alla presentazione di Predrag Matvejevic. La pagina è stata cancellata a breve. Se non sapete chi è Predrag Matvejevic guardate su Wikipedia. Fregandomene dell’adagio “Chi dimentica il proprio passato è destinato a riviverlo”, ho recentemente proposto l’inserimento di una pagina di Wikipedia dedicata a Giovanni Agnoloni. Non è una questione di conoscenza personale o di suggerimenti esterni: il mio interessamento deriva da un approfondimento sul movimento del Connettivismo, di cui Agnoloni è esponente rilevante sia per i romanzi prodotti e la partecipazione alle principali antologie connettiviste, sia quello che può essere considerato come il principale saggio critico sul movimento. La pagina Wikipedia del Connettivismo, tra l’altro, riporta “sia come autori che come saggisti, (…) Giovanni Agnoloni (autore anche dell’articolo riassuntivo sul connettivismo, uscito per Italica Wratislawiensia)”.Sulla pagina si sono succeduti interventi che hanno eliminato alcuni fonti ritenute non enciclopediche. La principale è quella alsito Next eliminata in quanto considerata alla stregua di un blog. Sorvolo su quanto questo intervento sia pertinente: Next non è un blog ma il sito ufficiale e di riferimento del Connettivismo. Non c’è altra fonte più qualificata e in questo caso non può valere la motivazione “Niente blog come fonti”. Ma tant’è.Una parentesi su cui varrebbe la pena soffermarsi, se non fosse del tutto inutile, riguarda la valutazione sulle case editrici per cui ha pubblicato Agnoloni, non considerate all’altezza della valenza enciclopedia richiesta. I piccoli e medi editori italiani ne saranno felici.  Nello specifico quelle di Agnoloni non possono essere considerate “micro case editrici”: sono piccoli editori ma non editori a pagamento e soprattutto non è una caso di self publishing. Il Connettivismo, purtroppo, non è mainstream, ma questo non può sminuirne la valenza letteraria. Può però determinare l’esclusione da Wikipedia.La pagina sconta il peccato originale di essere già stata inserita una volta, due con la mia versione. Dal mio punto di vista poco rileva: la comparazione del contenuto delle due pagine mostra un lavoro di ricerca, recupero di fonti critiche e di approfondimento non paragonabile a quanto in precedenza presente su Wikipedia. Dal mio punto di vista, ovviamente.E questo è un elemento su cui varrebbe la pena interrogarsi: dal mio punto di vista. Alla circostanza che le mie testi, espresse e difese, non abbiano trovato sostenitori, dovrebbe fare da contraltare la presenza di una moltitudine di soggetti interessati a giudicare, nel merito, i contenuti. Qualificati, titolati, che si esprimono con argomentazioni fondate (e non “fontate”) nell’ambito di una discussione critica. Questo è il problema, non solo di Wikipedia ma della nostra società: l’illusione che la disponibilità di dati e informazioni in rete, facilmente fruibili, sia sintomo di democrazia. E che l’illusione di una democrazia che passa per la rete non crei e consolidi, come invece avviene, oligarchie e centri di potere. Ma questo non è colpa di Wikipedia: è una versione aggiornata, nei mezzi e negli strumenti, della storia dell’Umanità.




Internet, dieci regole per far sopravvivere la Rete

Anno del signore 2018: Internet non è più libera. E potrebbe andare in pezzi.
La Russia ha bloccato Telegram. L’Iran conta di fare lo stesso. Gli Usa hanno bocciato la neutralità della Rete; la Francia vuole backdoor governative nei sistemi di messaggistica; Egitto e SudAfrica pianificano leggi censorie; l’Etiopia arresta e fa sparire un blogger autoctono; la Cina chiude gli account femministi sui social; israeliani e palestinesi si zittiscono online a vicenda e in Indonesiaun milione di utenti cade nelle maglie di Cambridge Analytica. Che sta succedendo? Succede che Internet è il nuovo terreno di scontro di un mondo che si fa la guerra con bombe e armi chimiche ma anche usando virus, missili digitali, censura e arresti preventivi nel cyberspace.
Era per impedire tutto questo che le nazioni convocate dall’Onu a Tunisi nel 2005 avevano dato vita all’Internet governance forum, l’incontro mondiale dove tutti gli utenti Internet possono esprimersi, proporre innovazioni e soluzioni condivise ai temi emergenti di un mondo sempre di più globale e interdipendente grazie alla Rete. L’idea dell’allora segretario Kofi Annan era di affrontare con Internet gli obbiettivi del millennio: la lotta alla fame e alla povertà, la pace globale e lo sviluppo del potenziale umano. Da allora questo “parlamento” di Internet si è riunito 12 volte – la prima ad Atene, l’ultima a Ginevra – ma l’enorme potenziale di crescita e democrazia che la Rete porta in dote continua a infrangersi sugli scogli dell’incomprensione, dell’autoritarismoe degli interessi commerciali.
Così accade che in larga parte del mondo – nonostante siano oltre quattro miliardi le persone connesse a Internet – non è ancora possibile per donne, minoranze, attivisti e pacifisti esercitare attraverso di essa il diritto all’informazione e alla libertà d’espressione tanto spesso raccomandate dalle Nazioni unite. E molti altri non possono neppure usare Internet per imparare, lavorare, commerciare o divertirsi online semplicemente perché non ce l’hanno.
Per favorire un processo globale di dialogo e inclusione dal Palazzo di vetro di New York è venuta la richiesta di far incontrare a un unico tavolo cittadini, imprese, governi e associazioni dello stesso Paese per liberare ogni dove il suo potenziale di crescita economica e di rafforzamento della democrazia. I capitoli nazionali dell’Igf da allora si incontrano ogni anno in molti Paesi e in qualche caso sono riusciti a ottenere dei risultati in termini legislativi. L’Italia è uno di questi. Grazie al lavoro fatto negli anni da persone come StefanoRodotà, il Parlamento italiano ha perfino partorito una Carta dei diritti della Rete, una Internet bill of rights che – come tutte le costituzioni repubblicane – stabilisce nella sua prima parte una serie di principi comuni, valori condivisi e diritti non negoziabili: l’accesso alla Rete per tutti, il diritto alla privacy, la libertà d’informazione, il diritto incomprimibile alla libera manifestazione del pensiero.

Ognuno può dare il suo parere fino al 30 aprile e stabilire le priorità di intervento votando tre temi fra i dieci proposti per mantenere la Rete libera, aperta e funzionante: lotta agli abusi verso i bambini, sicurezza informatica, diritto alla formazione, contrasto alle fake news, tutela dei lavoratori della new economy, etica dell’innovazione, proprietà dei dati personali e difesa della proprietà intellettuale, regole giuridiche globali, privacy e libertà d’espressione.
Di sicuro sarebbe utile che la consultazione ribadisse i principi della Carta di internet, a cominciare dalla libertà d’espressione che in tanti, troppi Paesi è a rischio. Sarebbe un buon esempio per tutti.