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Cosa si sa del progetto Dragonfly, con cui Google cerca segretamente di entrare in Cina

Cosa si sa del progetto Dragonfly, con cui Google cerca segretamente di entrare in Cina

Più di 200 dipendenti di Google stanno lavorando a app che identificano gli utenti e bloccano le ricerche di alcune parole chiavi. In un memo tutti i dettagli


Continuano i mal di pancia dentro Google per l’espansione dell’azienda nel mercato cinese. Dopo la lettera pubblicata dal New York Times in cui un gruppo di dipendenti si diceva preoccupato per un possibile uso distorto del loro lavoro in terra cinese, un nuovo memo interno crea dissapori fra la dirigenza e la truppa di Mountain View.
Il memo afferma che, al contrario di quanto detto ad agosto dal ceo Sundar Pichai per raffredare gli animi, il progetto Dragonfly, ovvero le mosse del motore di ricerca per entrare in Cina, non sarebbe in una fase esplorativa, ma avrebbe già una struttura vera e propria e a Mountain View è considerato una priorità.
La diffusione del documento è sfuggita di mano, mandando su tutte le furie le alte sfere di Google, fino a imporne la cancellazione a tutti i dipendenti che ne erano entrati in possesso.
Secondo il sito The Intercept, il documento riportava i dettagli del progetto Dragonfly: il motore di ricerca che garantisce la tracciabilità delle attività online degli utenti e che epura i risultati restituiti dal motore stesso, rimuovendo i contenuti poco graditi al Partito comunista e alle autorità governative in genere, oscurando tutto ciò che può inneggiare alla democrazia, al rispetto dei diritti umani e al diritto di protesta.
Il file identificava in 215 le persone coinvolte nel progetto stesso, uno stanziamento di risorse imponente e, dall’altra parte, certificava che del motore di ricerca è stato già sviluppato un prototipo per dispositivi Android e iOS, applicazione che può essere utilizzata dagli utenti solo previo accesso, quindi con l’obbligo di essere riconoscibili. Le app per dispositivi mobili associano le ricerche online ai numeri di telefono degli utenti, insieme ai loro indirizzi ip e alla cronologia dei link e dei siti visitati.
Tutte informazioni che vengono dirottate verso Taiwan, in un database a disposizione di un’azienda cinese dedita alla revisione e al controllo dei dati e che, in partnership con Google, ha anche il compito di aggiornare e mantenere la blacklist dei contenuti che il motore di ricerca non deve restituire agli utenti. Il prototipo delle app a cui ha lavorato Google prevede l’oscuramento dei risultati che contengono parole come “protesta studentesca”, “diritti umani” e “premio Nobel”.
Informazioni che tendono a smentire quanto detto dal ceo di Google, lasciando emergere il quadro di insieme di un progetto tutt’altro che embrionale.
(Foto: Chesnot/Getty Images)(Foto: Chesnot/Getty Images)
Un’ipotesi che preoccupa il ricercatore e attivista Patrick Poon: “È allarmante sapere che tali informazioni [i dati degli utenti, ndr] verranno archiviate e potenzialmente condivise con le autorità cinesi. Questo metterà a rischio la privacy e la sicurezza delle persone, Google deve essere più trasparente”.
Poon non teme solo gli effetti del progetto Dragonfly ma anche la mancanza di chiarezza con cui Google lo sta conducendo. La questione segretezza però è fondamentale e largamente diffusa, in Google come in molte altre aziende. Nel caso specifico BigG, così come riporta The Intercept, ha un ispettorato interno noto con il nome di stopleaks e che previene la divulgazione di notizie non autorizzate e di cui fanno parte persone provenienti dall’esercito e dalle agenzie governative americane, quindi con un passato di comprovata capacità.
Lo scorso mese di aprile 3mila dipendenti di Google hanno sottoscritto un appello affinché l’azienda rivedesse il progetto Maven, teso alla collaborazione con il Pentagono.
Il mercato cinese però sta diventando imprescindibile per tutte le aziende di qualsiasi provenienza e comparto, tant’è che Google lo scorso giugno ha investito 550 milioni di dollari in un progetto ecommerce in partenariato con il gigante cinese Jingdong Mall, concorrente diretto di Alibaba.




Già due italiani su tre usano le app per la salute

Già due italiani su tre usano le app per la salute

Le più installate sono quelle dedicate a fitness e benessere. Preoccupa però la scarsa chiarezza sulla privacy e sull’utilizzo dei dati sanitari sensibili

Il mercato internazionale è invaso da una marea di app sulla salute: secondo l’ultimo report del centro studi di Iqvia Institute sono più di 318 mila, con un tasso di crescita di oltre 200 al giorno. In Italia, non esistono dati ufficiali ma si parla di almeno 5 mila tra app che offrono servizi e informazioni tra le più svariate nel campo della salute e della medicina in senso stretto, del benessere e del fitness. Difficile trovare un bussola per orientarsi, capire quanto siano affidabili e sapere in che modo vengano utilizzati i dati sanitari (sensibili per loro natura) forniti. Tutte preoccupazioni espresse anche dal campione di oltre 800 italiani (54% uomini e 46% donne; 69% sotto i 45 anni) che ha risposto al sondaggio di Adoc (Associazione difesa orientamento consumatori) sulla diffusione delle app della categoria «salute».

La privacy

Già, ma come bilanciare l’interesse verso queste nuove forme di assistenza e gestione della propria salute con le ansie (giustificate) da privacy? «Bisognerebbe usare le app certificate come dispositivi medici, che sono pochissime ma ci sono — risponde Gianfranco Gensini, presidente della Società Italiana per la salute digitale e la Telemedicina (Digital SIT) —. I meccanismi di certificazione sono ancora poco strutturati, ma quello resta il percorso». Negli Stati Uniti, la Food and Drug administration (l’ente regolatorio per i farmaci e i dispositivi medicali) ha regolamentato il settore, classificando le app in base al rischio per il consumatore. In Europa, invece, non esiste una disciplina specifica. Nel dicembre scorso, però, la Corte di giustizia europea ha sancito in modo chiaro che software e app medicali rientrano fra i dispositivi medici (sono dunque soggetti al marchio CE), se hanno una finalità medica e indipendentemente quindi dall’essere utilizzati o meno sul corpo umano. Della questione si era occupato anche il nostro ministero della Salute (Direzione generale Dispositivi medici), che nel 2015 aveva individuato come priorità la creazione di un registro di notifica delle app di natura sanitaria e di un portale web per le procedure e i controlli di certificazione delle app mediche. Di entrambe le iniziative però, non si è saputo più nulla «Potremmo cercare di realizzarle noi — dice Francesco Gabbrielli, direttore del Centro nazionale telemedicina e nuove tecniche assistenziali all’Istituto Superiore di Sanità — . Abbiamo anche il Centro di innovazione tecnologica che si occupa della valutazione dei device e da tempo lavora anche su questi aspetti normativi dei software. Le professionalità ci sono, il problema però è avere le risorse».

Chi le usa

In base ai risultati dell’indagine Adoc il 69,1% degli italiani ha utilizzato almeno una volta un’app di questo tipo, nell’ultimo anno. Le app per fitness sono risultate le più utilizzate (44,6% delle preferenze), seguite dalle app «benessere» (28,6%) e infine dalle app «salute&medicina» (26,8%). I maggiori utilizzatori di queste app si collocano nella fascia d’età fra i 18 e i 25 anni (78,5%), intervallo in cui si trovano anche i maggiori utilizzatori delle app «fitness» (63,6%). Dopo i 60 anni c’è il minor tasso d’utilizzo, con il 55,5% dei consumatori che dichiara di non aver utilizzato neanche un’app «salute» nell’ultimo anno. Le app «benessere» sono state utilizzate in prevalenza da persone fra i 26 e i 45 anni, mentre le app «salute&medicina» sono le più utilizzate nella fascia 46 – 60 anni. Riguardo al genere, gli uomini usano le app «fitness e benessere» più delle donne, che al contrario utilizzano maggiormente le app «salute&medicina». Il 72,8% degli uomini, nel complesso, ha utilizzato almeno una volta una delle app salute, contro il 63,2% delle donne. Lo smartphone è lo strumento preferito, ma si sta facendo largo anche l’utilizzo di dispositivi esterni, come i braccialetti fitness.

Il welfare digitale

«I consumatori italiani sono molto interessati a monitorare e migliorare il loro stato di salute tramite l’uso di app dedicate — commenta Roberto Tascini, presidente di Adoc —. Siamo all’inizio dell’epoca del “welfare digitale”, al momento ancora auto-centrato, per cui nel settore Salute nei prossimi anni assisteremo alla sempre maggiore presenza di soluzioni di intelligenza artificiale, con un massivo utilizzo di app e nuove tecnologie, con un rapporto sempre più frammentato tra paziente e medico, e con i Big Data (l’enorme mole di dati prodotti anche nel contesto della sanità, ndr) a sorreggere tutto il sistema». A fronte di un atteggiamento di apertura, resta però alta la preoccupazione in merito alla raccolta e all’uso dei dati raccolti attraverso le app: il 21,7% di quanti non hanno utilizzato nemmeno un’app nell’ultimo anno motivano la scelta con il fatto di non voler fornire i propri dati sensibili e personali. Questo anche a causa di informative sulle privacy carenti. Nessuno degli intervistati ritiene infatti totalmente chiara ed esaustiva l’informativa rilasciata dalle app e solo il 7,1% l’ha considerata abbastanza trasparente e comprensibile. Anche a causa delle informative poco chiare il 57,1% dei consumatori si ritiene invece molto o estremamente preoccupato sulle modalità di raccolta e utilizzo dei propri dati personali, contro solo il 17,8% che si considera poco o per niente preoccupato. Per il campione intervistato, però, tutto questo non rappresenta un ostacolo insormontabile al desiderio di monitorare e migliorare il proprio livello di salute anche grazie all’ausilio di nuovi strumenti digitali.




Trieste, come danneggiarsi l’immagine in due semplici mosse

Trieste, come danneggiarsi l’immagine in due semplici mosse

A Trieste si sono verificati di recente un paio di episodi che riguardano la comunicazione. Meritano di essere analizzati perché possono insegnarci qualcosa di importante, se li esaminiamo con calma.

Per questo cercherò di discuterne in modo semplice. E misurando le parole.
Il primo episodio risale allo scorso agosto. Riguarda il manifesto commissionato per celebrare i cinquant’anni della Barcolana, una delle regate veliche più grandi del mondo, orgoglio della città. Il manifesto lo progetta Marina Abramović.
Il manifesto è questo. Che cosa ci vedete, voi?
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Il manifesto è prodotto nella sua versione definitiva nel gennaio 2018.
Gli organizzatori ci vedono l’opera di una grande artista che, nel suo stile di performer, pone sé stessa come preziosa testimone.
Abramović mostra una bandiera (bianca: simbolo di neutralità) con una dichiarazione ecologista nobile e di respiro universale: come esseri umani e abitanti dello stesso pianeta condividiamo tutti una condizione e un destino.
Il manifesto è presentato al pubblico nel luglio 2018.
Gli amministratori cittadini ci vedono una tizia dalla faccia severa, vestita come un soldato nordcoreano, che agita una bandiera in stile realismo socialista. E sulla bandiera (bianca: simbolo di resa) si parla di stare in una barca. Eh, non può che alludere ai barconi dei migranti.
La ritengono “un’opera orribile”. Dicono che “è inaccettabile, di pessimo gusto, immorale che si faccia propaganda politica con una manifestazione, la Barcolana, che appartiene a tutta la città”.
Cosa è successo?
Nel luglio 2018 siamo da mesi in piena polemica sui migranti. E scatta un riflesso automatico: un modo di dire figurato (una metafora) è interpretato in senso letterale. La pressione sui barconi è così forte che arriva a indirizzare la percezione. Come se suscitasse un riflesso pavloviano.
Tutti noi usiamo metafore, e se qualcuno ci dice “sono a terra” non ci aspettiamo certo di vederlo sdraiato sul pavimento
È l’effetto della euristica della disponibilità, una scorciatoia mentale che distorce i nostri giudizi alla luce delle informazioni più recenti ed emotivamente cariche di cui disponiamo. Ma tutti noi usiamo metafore, e se qualcuno ci dice “sono a terra” non ci aspettiamo certo di vederlo sdraiato sul pavimento.
Eppure la metafora dell’essere sulla stessa barca fa parte da sempre del linguaggio comune, tanto da essere registrata nei dizionari. È diffusa anche in inglese e in francese. In Francia c’è da anni un festival ecologista che si chiama Tous dans l’même bateau.
Eppure Abramović è un’artista molto famosa. E le opere d’arte non sono mai letterali.
Ma non c’è verso.
Risultato: i social network si scatenano. Gli amministratori minacciano di non finanziare più la manifestazione. Sono accusati (qui Vittorio Sgarbi) di non capire un piffero e voler censurare l’arte, nonché (sempre Sgarbi) “i valori umani e cristiani”. Alla fine, si decide che il manifesto sarà usato in sede nazionale e internazionale, ma non a Trieste.
E alla fine ci perdono tutti. Ci perdono gli amministratori, che polemizzando hanno centuplicato la visibilità del manifesto, ottenendo un risultato contrario alle loro intenzioni. Ci perdono gli organizzatori, che volevano offrire alla Barcolana e alla città una celebrazione artistica di grande pregio, e si sono trovati a gestire una patata bollente (ehi, non nel senso del tubero. Anche questa è una metafora).
Ma soprattutto ci perde la città di Trieste, perché la polemica sul manifesto finisce per oscurare il fatto importante: il cinquantenario della Barcolana. E per deformare la percezione collettiva della città.
Il secondo episodio è di pochissimi giorni fa.
Sembra analogo al precedente, ma ha alcuni tratti di differenza. Ed è più grave.
I ragazzi del locale liceo Petrarca, insieme al dipartimento di studi umanistici dell’università di Trieste, al museo della comunità ebraica e all’archivio di stato di Trieste, hanno organizzato una mostra sulle leggi razziali del 1938. Sono passati ottant’anni da quando Mussolini le ha promulgate, proprio a Trieste, parlando dal balcone del palazzo del comune.
La mostra è intitolata Razzismo in cattedra. Il comune, con regolare delibera, ha ceduto una sala per ospitarla. Ecco la locandina. Che cosa ci vedete?
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Qui non c’è interpretazione artistica, ma ci sono due documenti della realtà storica e territoriale. Una foto d’epoca con tre ragazze sorridenti, in una strada probabilmente riconoscibile per un triestino. E la prima pagina del quotidiano cittadino che, nel settembre 1938, annuncia “l’eliminazione dalla scuola fascista di insegnanti e alunni ebrei”.
Il terzo elemento è un titolo, neutro nella sua pura descrittività.
Nessuna possibilità di fraintendere il messaggio. E dev’essere proprio questa chiarezza cristallina a far dire al pubblico amministratore: “Quando ho visto quel titolo del Piccolo dell’epoca, così estremamente pesante, e con quella scritta lì sotto sul razzismo mi è sembrato esagerato. Dico io, dobbiamo ancora sollevare quelle cose?”.
Risultato: Enrico Mentana commenta “sì, sindaco, oggi più che mai, e quelle sue parole feriscono. Non solo, ma non smetto di guardare quel manifesto, e non capisco con che cuore, con che animo e con che raziocinio lei lo abbia potuto definire ‘esagerato’. È storia, purtroppo. La nostra”.
Così, la vicenda della semplice locandina della piccola mostra organizzata da una scuola diventa un caso nazionale. La riprendono l’Ansa e i maggiori quotidiani. Finisce sul telegiornale di LA7. E suscita un vespaio in rete. Ancora mentre scrivo, la mostra risulta sospesa, mentre gli amministratori continuano a polemizzare con la dirigente scolastica.



Sardegna: Ichnusa riporta il vuoto a “buon” rendere

Sardegna: Ichnusa riporta il vuoto a “buon” rendere
Una bottiglia che potrà essere riutilizzata per vent’anni, riducendo le emissioni di un terzo e aumentando l’occupazione della fabbrica del 10-15%. Queste le fondamenta del “vuoto a buon rendere”, nuovo progetto ecosostenibile della Ichnusa


Entrando in molti bar della Sardegna è comune notare un usanza. A differenza di molte altre regioni e dei paesi nordici in cui aumentano sempre più i consumi individuali di piccoli formati, qui la birra è ancora prevalentemente un rito di offerta e condivisione collettiva legato ad un particolare standard, quello da 66 centilitri. Non è solo la condivisione però a differenziare i consumatori sardi da quelli “del continente”, così come vengono definiti sull’isola. La Sardegna ha infatti un consumo procapite di birra annuo di circa 61,7 litri, circa 20 litri sotto la media europea ma due volte la media nazionale, e ha sempre vantato un aspetto virtuoso legato alla bevanda di malto che purtroppo negli ultimi anni è andato perdendosi in favore delle leggi di mercato, ovvero il vuoto a rendere.
E’ partendo da questi assunti e dal proprio rinnovato spirito comunitario e di salvaguardia ambientale che l’Ichnusa ha deciso di reintrodurre una tale pratica attraverso una nuova bottiglia, riconoscibile dall’etichetta verde, la quale potrà essere riutilizzata fino a vent’anniriducendo le emissioni di un terzo. Un progetto che ha preso il nome di “vuoto a buon rendere” e che dai sondaggi è già apprezzato da 9 sardi su 10.

“Questo importante investimento sulla nuova linea rappresenta per il Birrificio di Assemini non solo un’ulteriore tappa nel percorso di crescita intrapreso, ma anche un’opportunità – spiega Matteo Borocci, Direttore del Birrificio di Assemini – Il reparto del confezionamento rappresenta, nel nostro birrificio, il reparto con il più alto numero di operatori. L’investimento con la nuova linea per rilanciare il vuoto a rendere favorirà nuove assunzioni, registrando un incremento tra il 10 e 15% dell’intera forza lavoro del birrificio.”
La nuova bottiglia riutilizzabile, oltre ad accrescere l’ecosostenibilità dell’impresa, porterà con se i segni del tempo -come per i vecchi libri che si trascinano dietro le storie e l’identità di chi li ha letti e vissuti – ambendo a ergersi ad esempio di pratica virtuosa anche in campo sociale. Il riutilizzo infatti, a differenza del riciclo, permetterà di ridurre maggiormente gli impatti sociali derivanti dal consumo di combustili fossili e, di conseguenza, anche dei conflitti legati al loro reperimento.
Questo messaggio è stato reso sotto forma artistica e simbolica attraverso la realizzazione di una scultura di più di due metri raffigurante la nuova bottiglia, interamente prodotta a freddo e senza consumi energetici, da scarti di fonti rinnovabili privi di polimeri petrolchimici e plastiche. Un prodotto definito “war free” dalla sua realizzatrice Daniela Ducato, innovatrice sarda e fondatrice di Edilzero, azienda leader nell’ecosostenibilità europea, la quale opera con oltre cento produzioni “bio” per edilizia, bonifiche, geotecnica, ingegneria ambientale e agrotecnica.

Quello di Assemini è il più antico birrificio presente in Sardegna, accoglie 84 dipendenti, si estende su una superficie di oltre 160mila metri quadri ed è circondato da un’area verde di oltre 15 ettari. La sua filiera cresce con la comunità e coinvolge oltre 2000 persone, generando un valore aggiunto diretto e indiretto sul territorio di circa 200 milioni di euro. La sostenibilità è un driver di crescita per l’azienda e una leva per il cambiamento promossa da numerosi progetti Heinekein, che negli ultimi anni hanno permesso al birrificio di Assemini di tagliare del 30% i consumi di energia elettrica e il 20% dell’acqua, portando l’impresa ad investire anche all’esterno della provincia cagliaritana e promuovendo azioni di tutela paesaggistica e ambientale sull’isola dell’Asinara.
Ovviamente la valorizzazione di un tale progetto non è priva di ostacoli. Lo Stato italiano ha rilanciato l’iniziativa del vuoto a rendere nel 2017 con un apposito decreto, mentre il Bel Paese si distingue in Europa per un alto tasso di riciclaggio del vetro, il quale supera il 70%. Tuttavia, non basta reintrodurre una nuova bottiglia all’interno di un quadro nazionale che pare abbastanza propizio, l’azienda pare cosciente del fatto che sia necessario prima di tutto “riabutare” distributori e consumatori a conservare e rendere i vuoti.
Una cosa è pero certa. Per anni abbiamo assistito ad una narrazione che raffigurava l’ecosostenibilità come poco vantaggiosa sul mercato, mentre progetti come questo sono l’ennesima dimostrazione di come tali pratiche possano rivelarsi oltreché un buon investimento sociale, comunitario e ambientale, anche un volano di rinascita economica, competitiva e occupazionale ovunque, soprattutto nei territori che maggiormente risentono la crisi come la Sardegna.




Così i bidoni mangiaplastica puliranno i porti italiani. "Fino a 500 chili di plastica in meno ogni anno"

Così i bidoni mangiaplastica puliranno i porti italiani. "Fino a 500 chili di plastica in meno ogni anno"

I seabin sono cestini che navigano in superficie divorando rifiuti. L’iniziativa “Plasticless”, promossa da LifeGate con Volvo e Whirlpool


GLI spazzini dei porti sono già al lavoro, una piccola squadra di bidoni galleggianti che acchiappano tutta la plastica che incontrano divorandola, dalle buste alle confezioni delle patatine, dai cotton fioc alle fibre microscopiche invisibili a occhio nudo. I “seabin” (letteralmente “bidoni del mare”) sono una (per ora) piccola squadra di operatori ecologici che sta prendendo servizio in alcuni porti italiani grazie all’iniziativa promossa da LifeGate e intrapresa anche da alcune amministrazioni.
Si tratta di un dispositivo molto semplice, nato dall’idea di due surfisti australiani, Andrew Turton e Pete Ceglinski, per proteggere il mare e le onde che amano cavalcare. Hanno dato vita a una startup che ora distribuisce il seabin in tutte le parti del mondo con lo slogan: “Se abbiamo cestini a terra, perché non in mare?”.

La benefit corporation italiana LifeGate ha deciso di lanciare la campagna “Plasticless” e promuovere l’uso di questi bidoni per ripulire i porti italiani. L’iniziativa è partita questa estate: “Quello delle plastiche e delle microplastiche è un tema molto sentito – spiega Enea Roveda, Ceo di LifeGate – e in collaborazione con il Seabin project stiamo mettendo questi cestini nei porti ma lavoriamo anche per poterli usare anche in altri ambiti, attaccati alle boe o alle navi che solcano il mare”.

Come funziona il “seabin”

Per il momento, il cestino è destinato a fare da spazzino in un ambiente chiuso, come un porto appunto dove i rifiuti si accumulano. Lavora 24 ore su 24, sette giorni su sette. Galleggiando l’orlo resta appena sotto la superficie, l’acqua che entra viene filtrata ed espulsa mediante una pompa elettrica mentre i rifiuti restano all’interno del contenitore, anche le fibre più piccole: “Riesce a pompare fino a 25.000 litri d’acqua all’ora e la manutenzione è abbastanza semplice, va svuotato ogni due settimane circa – continua Roveda – e dai dati che abbiamo possiamo stimare che un solo bidone è in grado di raccogliere fino a 500 chili di plastica in un anno”.

Potrebbe sembrare una “goccia nel mare” rispetto alle migliaia di tonnellate disperse negli oceani di tutto il mondo: “Cinquecento chili all’anno sono qualcosa ma non si tratta certo della soluzione definitiva – sottolinea Roveda – ogni giorno 90 tonnellate finiscono solo nei mari italiani. Ma questo progetto nasce con una duplice ottica: innanzi tutto rimuovere la plastica che c’è. E poi sensibilizzare la gente facendo loro capire che anche con azioni banali possiamo fare qualcosa di concreto. L’interesse per questi temi sta prendendo sempre più piede tra le persone”. Per fare la differenza ce ne vorrebbero centinaia, però il primo passo è stato fatto, entro l’autunno, assicura Roveda, una decina dovrebbero essere in acqua e operativi per ingoiare rifiuti.
Alcuni seabin hanno preso servizio già nei mesi scorsi nelle aree portuali di Santa Margherita Ligure (Ge), nell’Area marina protetta di Portofino (Ge), nel Porto delle Grazie a Roccella Ionica (Rc), e Venezia Certosa Marina (Ve).
Il tour e gli sponsor anti-inquinamento
Il partner privato principale dell’iniziativa è Volvo car Italia, che sponsorizza alcuni dei bidoni. Il primo è stato liberato la scorsa settimana nel porto di Marina di Varazze (Savona). Nelle prossime settimane toccherà a Cattolica (in provincia di Rimini), e a un secondo dispositivo per Venezia Certosa Marina (Ve). Altro partner privato è Whirlpool che ha ‘adottato’ due porti in Italia, entrambi nelle Marche: il porto Marina dei Cesari di Fano (Pu) e il Circolo Nautico Sambenedettese di San Benedetto del Tronto (Ap). Qui i dispositivi sono stati rilasciati a mare il 14 settembre.
Entrambe le aziende hanno intrapreso un percorso volto alla riduzione dell’uso delle plastiche. Volvo, oltre a organizzare la Ocean race, ha infatti preso l’impegno di eliminare entro il 2019 tutte le plastiche monouso dai propri uffici, mense ed eventi ed entro il 2025 utilizzare per la costruzione dei nuovi modelli solo plastiche provenienti da materiali riciclati. Whirlpool ha deciso di lavorare con i propri partner industriali e fornitori per assicurare, nell’arco di sette anni, entro il 2025, l’utilizzo di componenti al 100% in plastica riciclata per lavatrici, frigoriferi e lavastoviglie.