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La (nuova) propaganda digitale: come la politica manipola il web

La (nuova) propaganda digitale: come la politica manipola il web
Comprendere e gestire le distorsioni del digitale – dagli effetti della nuova propaganda al proliferare di fake news – per non vanificarne le straordinarie opportunità. Ecco quali sono i rischi della mancanza di consapevolezza e cultura digitale e perché siamo tutti corresponsabili


e elezioni presidenziali Usa, oltre ad aver portato alla casa Bianca Donald Trump, hanno avuto l’effetto di porre al centro del dibattito il tema della propaganda digitale, da molti additata come vero “grande elettore” del tycoon statunitense. In Italia si parla diffusamente di quanto l’attuale maggioranza sia tale anche e soprattutto grazie alla propaganda digitale. Per non parlare del ruolo che il web avrebbe avuto nella nascita di una componente rilevante di questa stessa maggioranza, ovvero il Movimento 5 Stelle.
La propaganda digitale, però, non è una categoria a sé. La propaganda è sempre esistita, dai tempi dei faraoni autoproclamatisi divinità terrene, passando per il “taci il nemico ti ascolta” di epoca fascista, sino a più o meno esistenti armi di distruzione di massa. Quindi il digitale ne è solo un nuovo strumento? In realtà il paradigma va ribaltato: il web è un ecosistema attraverso cui è possibile anche fare propaganda, con modalità ed effetti inediti. E sono proprio questi effetti e modalità a rappresentare il vero scenario da indagare, dal quale discende poi la nuova definizione di propaganda (ma non solo).

Il web e la percezione distorta della realtà

La Rete è una lente convessa in grado di distorcere la percezione della realtà dei propri utenti. Il digitale amplifica una serie di fenomeni psicologici e cognitivi, ben noti alle neuroscienze, creando un ecosistema sociale dove si generano e si alimentano narrazioni, luoghi comuni, paure, credenze. Un ecosistema che interconnette direttamente le persone, escludendo – spesso perché è percepita come inutile, superflua o non credibile – qualsiasi forma d’intermediazione. Un ambiente in cui l’infinita disponibilità e la facilità d’accesso alle informazioni crea la falsa convinzione di poter avere gli strumenti per intervenire su qualsiasi tema, innescando contro-narrazioni collettive prive di verifica o fondamento. Un sistema, in sintesi, in grado di produrre verità autogenerate a volte più forti della verità fattuale, in grado di d’influenzare la percezione della realtà.
Tutto questo rappresenta l’altra faccia della medaglia, l’effetto collaterale del www, non voluto da chi l’ha pensato e progettato e che non esclude il fatto che il web continui a essere una straordinaria opportunità di crescita culturale e sociale, una potente leva di miglioramento della vita di ognuno. Il problema è che quest’altra faccia della medaglia è governabile, influenzabile, le sue/tali dinamiche sono “attivabili” in maniera economica e relativamente semplice e attraverso di esse si può arrivare a influenzare la percezione della realtà degli utenti. Ma andiamo con ordine.

La massificazione delle interpretazioni personali

Il web è un sistema simbolico immersivo nel quale siamo costantemente chiamati a decodificare e interpretare contenuti, immagini, contesti, reazioni, emozioni. Sin qui niente di nuovo, dal punto di vista della semiologia e della psicologia cognitiva: da sempre l’uomo produce e decodifica simboli e messaggi, è la base della comunicazione. La novità sta nel fatto che il web, per sua natura, massifica la nostra personale interpretazione: mentre nel mondo analogico quel che pensavamo su qualcosa o qualcuno poteva essere condiviso con un gruppo di persone limitato nel tempo e nello spazio, oggi la percezione immediata è che ce ne siano migliaia che la pensano come noi. Un meccanismo che tende a rafforzare la convinzione che quel che crediamo sia giusto, proprio perché condiviso da moltitudine di altri individui.

Il proliferare delle echo chambers

Tale dinamica è ulteriormente rafforzata dal Confirmation bias, pregiudizio di conferma – concetto ampiamente noto agli studiosi di neuroscienze – a causa del quale tendiamo a cercare conferme alle nostre tesi, idee. L’interazione di questi due processi porta a chiuderci dentro echo chambers, camere dell’eco, dove interagiamo solo con persone che la pensano come noi, iperconfermando le nostre idee e distorcendo così la percezione della realtà. Echo chambers che sul web hanno dimensione massiva e che rappresentano anche vastissima e reattiva platea per le cose che pensiamo e diciamo. Esprimiamo posizioni, giudizi e troviamo consenso e riconoscimento ampli e pubblici.

La disintermediazione dell’informazione

Accanto a questo agisce la profonda, travolgente perdita di fiducia nei corpi intermedi, ovvero le figure che socialmente dovrebbero rappresentare un punto di riferimento informativo: istituzioni, media, giornalisti, politica, partiti, sindacati, medici, scienziati, aziende, università, scuola. I singoli scandali, casi di corruzione, errori, cattive gestioni, amplificati da narrazioni collettive ipercondivise, divengono giudizi generali, che travolgono credibilità e autorevolezza e minano il ruolo stesso di questi soggetti. Così lo scienziato è sempre al soldo della multinazionale, il politico è corrotto, il giornalista asservito, l’istituzione schiava dei “poteri forti”, ecc. Quel che un tempo era considerato luogo comune diventa giudizio sociale.

Il potere dell’algoritmo e la scarsa attenzione

Viviamo poi immersi nei nostri smartphone, iperconnessi a una serie di piattaforme, soprattutto social, governate da algoritmi che leggono le nostre scelte e tendono a riproporre contenuti informativi e fonti le più simili possibili a quelle che abbiamo precedentemente selezionato, contribuendo così a quella echo chamber autoconfermativa. Algoritmi che sono di proprietà di pochi soggetti – così come le piattaforme su cui operano, d’altronde – e il cui funzionamento è un segreto gelosamente custodito. Abbinata a questo, la nostra scarsa capacità di attenzione e di valutazione di fronte a quantità enormi di informazioni, che ci porta a trattenere solo gli elementi più evidenti di un contenuto (il titolo, l’immagine). Studi recenti fissano a 5,8 secondi il tempo medio speso a usufruire di un contenuto sui social. In sostanza, prestiamo un’attenzione più che superficiale e frettolosa a informazioni selezionate automaticamente da algoritmi che non controlliamo.

Una propaganda semplice ed economica

Tutto questo vuol dire che il web è il male? No. Il digitale rimane un’opportunità straordinaria e una risorsa preziosissima, ma porta con sé alcune distorsioni che vanno comprese e gestite. Da tutto quello detto sopra appare evidente quanto sia “semplice” oggi fare propaganda. Mentre prima erano richiesti apparati di comunicazione giganteschi e costosi, adesso basta intercettare le echo chambers, comprendere le paure, i timori, i dubbi, i bisogni delle persone e alimentarli. Conoscere le dinamiche del web e saperle usare significa riuscire effettivamente a governare la percezione e quindi orientarla. Questo vale per la propaganda politica ma anche per l’informazione, la comunicazione. Basta costruire una notizia falsa ma verosimile, atta a stimolare timori o confermare dubbi, e riuscire (facilmente) a farla condividere per innescare una distorsione della percezione del reale. Molte di queste notizie si autogenerano e autoalimentano all’interno delle conversazioni social, ma altre, molte altre, vengono prodotte o “piegate” ad arte.
Nulla di nuovo, sia chiaro, torniamo a dire. Propaganda, notizie false, costruite per screditare o danneggiare, false o errate convinzioni, luoghi comuni, pregiudizi, sono sempre esistiti. Con l’avvento del digitale hanno assunto però una forza e un potere pervasivo inediti, abbinati a un’estrema “economicità” produttiva – sono sufficienti un pc, una connessione e una buona conoscenza tecnica – e a una velocissima e potente capacità di diffusione, quando autogenerati.
Tutto questo apre due scenari ulteriori. Da una parte, l’ampliamento del numero di quanti siano in grado di usare in maniera malevola queste dinamiche, proprio per la loro “accessibilità” ed “economicità”. Dall’altra, la capacità d’impatto che un’organizzazione strutturata (quella che una volta venivano chiamate le “macchine della propaganda”) può avere in termini di efficacia. Il rischio è un governo della “verità percepita” a scapito della verità fattuale e l’accentramento, nelle mani di pochi, di una nuova forma di potere manipolativo.

Gli utenti inconsapevoli

Il combinato disposto di queste dinamiche è tale solo grazie alla mancanza di consapevolezza degli utenti della Rete, di tutti quanti noi. La mancanza di consapevolezza di quanto possa essere deleteria la condivisione di un contenuto non verificato, l’esporsi con giudizi definitivi su temi di cui non si hanno conoscenze specifiche, il difendere le proprie convinzioni senza ascoltare o approfondire le tesi contrapposte e viceversa attaccarle con violenza e demonizzarle. In un ecosistema completamente trasparente, dal punto di vista della visibilità collettiva di ciò che diciamo e facciamo, siamo tutti corresponsabili, siamo tutti contemporaneamente fonte e medium.
Senza consapevolezza, senza cultura ed educazione al digitale – e considerato l’alto numero di “analfabeti funzionali”, cioè incapaci di comprendere il senso di un testo, che nel nostro Paese sono oltre il 50% – gli utenti diventano “carne da propaganda”, soggetti manipolabili su piccoli e grandi temi. Si dirà: «Ma la realtà non è solo il digitale, esistono altri mezzi, altre forme e dinamiche di persuasione». Vero, però ormai viviamo in un unico ecosistema informativo del quale il digitale è il sistema nervoso profondo, che connette le persone annullando le dimensioni spazio-temporali e amplificando i messaggi. Un sistema pervasivo e potente del quale dobbiamo diventare consapevoli, per far sì che Internet torni a essere esclusivamente quella splendida occasione di crescita collettiva che pure ancora rappresenta.




Una Magna Carta per l'era digitale

Una Magna Carta per l'era digitale

Nel 1215 l’Inghilterra adottò la Magna Carta, per impedire ai monarchi di abusare del loro potere. I monarchi di oggi sono le grandi aziende tecnologiche, e noi, le persone i cui dati personali vengono raccolti e manipolati per scopi sia buoni che cattivi, siamo i loro sudditi.
I benefici sono tanti, ma anche gli abusi. Ora, come allora, abbiamo bisogno di uno statuto che regoli questi nuovi poteri costituiti.
La rivoluzione digitale è la forza dinamica più importante del mondo odierno e influenza ogni cosa, dall’intimità della vita quotidiana fino ai conflitti geopolitici. Il mondo è diventato uno solo, come mai prima d’ora. Al tempo stesso, però, si sta spaccando e dividendo. L’intelligenza artificiale e la Rete sono le forze gemelle che sospingono questi cambiamenti.
L’evoluzione dell’intelligenza artificiale è passata attraverso due fasi distinte, e ora sta entrando in una terza. La prima fase, che si può far partire dai rivoluzionari sforzi di calcolo di Alan Turing durante la seconda guerra mondiale, è stata dominata dallo Stato e dal settore pubblico, con un contributo ad ampio raggio del mondo accademico. La seconda fase è rappresentata dall’emersione della Silicon Valley dopo il tracollo del blocco sovietico nel 1989, un periodo in cui le forze del mercato vennero lasciate agire indisturbate in tutto il mondo. La terza fase, in cui stiamo entrando adesso, dovrà per forza di cose tornare a coinvolgere lo Stato, e più in generale l’ambito pubblico.
Per un certo periodo gli sconvolgimenti positivi delle tecnologie digitali (dall’incremento della connettività fra persone che la pensano allo stesso modo o studiosi di Paesi diversi all’analisi del codice genetico attraverso i big data o alla convenienza dello shopping online) sono stati al centro della scena. Ma gli sconvolgimenti negativi si sono dimostrati profondi: includono minacce al tessuto stesso della democrazia, perché sono emersi movimenti online che sfidano, o addirittura rimpiazzano, i grandi partiti politici. Tutto questo sta avvenendo nel momento in cui si profilano ulteriori sconvolgimenti legati ai progressi dell’intelligenza artificiale, con avanzamenti potenzialmente spettacolari della capacità di apprendimento delle macchine.
Ho riflettuto su queste trasformazioni negli ultimi mesi, nella mia veste di membro della Commissione speciale sull’intelligenza artificiale della Camera dei Lord del Regno Unito. I governi e gli altri organismi pubblici in questo momento devono far fronte a due compiti sovrapposti. Dobbiamo cercare di mettere riparo agli errori del passato. Ma allo stesso tempo dobbiamo garantire che la nuova ondata di innovazione trainata dall’intelligenza artificiale sia gestita in modo più propositivo, invece di lasciare che irrompa incontrollata nelle nostre esistenze. Nel nostro rapporto “AI in the Uk: ready, willing and able?“, la Commissione propone una serie di riforme ad ampio raggio che si richiamano, e attingono, a provvedimenti legislativi all’avanguardia già adottati dalla Ue e da alcuni governi nazionali.
Abbiamo tracciato i contorni di uno statuto generale per l’intelligenza artificiale, che faccia da quadro di riferimenti per gli interventi pratici del governo e di altri organismi pubblici. Gli elementi principali sono: l’intelligenza artificiale dev’essere sviluppata per il bene comune; deve operare sulla base di principi di intelligibilità ed equità; deve rispettare il diritto alla riservatezza; deve fondarsi su cambiamenti di vasta portata del sistema di istruzione; non deve ricevere mai il potere autonomo di danneggiare, distruggere o ingannare gli esseri umani.
Questi principi formano la base di un codice dell’intelligenza artificiale da sviluppare a livello nazionale e internazionale. La Commissione chiede un intervento radicale per contribuire a smantellare il monopolio dei dati da parte delle grandi corporation digitali.
Suggeriamo tutta una serie di politiche su come raggiungere questi obiettivi in modo pratico e gestibile. Per esempio, il governo britannico ha già accettato il principio che bisogna istituire dei “fondi fiduciari”, per una condivisione etica dei dati. Una questione fondamentale, a questo riguardo, è come ristrutturare il Sistema sanitario nazionale. La riservatezza dei pazienti dev’essere conciliata con l’uso dei dati a scopi di ricerca e lo scambio di dati fra medici specialisti. È importante in particolare, a nostro parere, che questi “fondi fiduciari di dati” prevedano una rappresentanza e una consultazione diretta dei cittadini. Quantomeno all’interno del Regno Unito, questi principi e queste proposte dovrebbero assicurare un sostegno largo.
Abbiamo affrontato anche i problemi di ordine geopolitico, dove la regolamentazione interna si interseca con le prassi adottate da altre nazioni. Le fake news non sono solo un problema strutturale profondo dell’era digitale, ma vengono usate direttamente come arma dalla Russia e da altri Paesi.
La Cina possiede il più potente schieramento di supercomputer a livello mondiale e si avvia ad assumere un ruolo guida nell’ulteriore sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Forgiare accordi internazionali sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale è un’impresa di estrema difficoltà, probabilmente, ma anche di primaria importanza. Il rapporto della Commissione si conclude con la proposta di organizzare urgentemente un vertice mondiale di leader politici per elaborare un quadro comune per lo sviluppo etico dell’intelligenza artificiale in tutto il mondo. I vantaggi della rivoluzione digitale sono enormi e hanno trasformato in modo irreversibile le nostre vite, e sotto molti aspetti le hanno trasformate in meglio. Come nelle precedenti rivoluzioni tecnologiche, le società devono trovare un modo per raccogliere i benefici dell’innovazione e al tempo stesso tenere sotto controllo i problemi e i rischi. Uno statuto che protegga i diritti e le libertà dei cittadini — una Magna Carta per l’era digitale — è il punto da cui partire.




Quando il “green” fa male all’ambiente

Quando il “green” fa male all’ambiente
Pellet, diritti di emissione, bioetanolo, stop non pianificato all’atomo: ecco i “paradossi verdi”, quando le strategie ambientali si rivelano controproducenti


Non tutti i beni vengono per giovare. È vero, questo proverbio non esiste. È semplicemente il contrario di «non tutti i mali vengono per nuocere» ma, piaccia o no, è altrettanto valido. Basta vedere la lettera recentemente inviata da un gruppo di scienziati americani alla Commissione Europea. «Apprezziamo gli sforzi fatti dalla Ue con la sua Direttiva sulle energie rinnovabili – scrivono – ma il fatto che questa includa le biomasse lignee fra le risorse energetiche a impatto zero, ha creato una forte domanda di biomassa negli Stati Uniti sud-orientali che sta mettendo a seriamente rischio la biodiversità».

Qualche anno fa, Hans-Werner Sinn ha coniato un altro modo di dire: quando una politica climatica produce anche un aumento del riscaldamento globale – ovvero l’opposto del desiderato – siamo di fronte a un «paradosso verde». L’economista tedesco si riferiva in realtà al caso particolare dei proprietari di fonti energetiche fossili come petrolio o carbone, che possono venire incoraggiati dalle normative sul clima a estrarre ancora più rapidamente le risorse dal sottosuolo, di fatto contribuendo ad aumentare le emissioni.
Allargando un po’ il campo però, di paradossi verdi ce ne sono molti altri. Il più celebre è quel a Bruxelles è stato battezzato carbon leakage, la «fuoriuscita di carbonio»: siccome emettere anidride carbonica in uno stabilimento europeo può essere costoso (alcuni settori industriali devono comprare sul mercato i diritti di emissione, teoricamente per incoraggiare l’adozione di fonti rinnovabili), l’imprenditore può decidere di trasferire gli impianti in un altro Paese dove inquinare non costa nulla. Vantaggi per il clima, zero.
Ma che dire del bioetanolo, già sbandierato da George W. Bush come fulgido esempio di soluzione climatica? Gli Stati Uniti hanno offerto sussidi agli agricoltori e imposto di miscelare la benzina con una percentuale di etanolo prodotto dal mais. Con il risultato che i prezzi di generi alimentari sono saliti, e l’impatto sui gas-serra non c’è stato, mentre i consumi di benzina sono oggi a livelli record. Se nel 2000 anche il suo rivale Al Gore sosteneva la bontà del bioetanolo, oggi tutti i gruppi ambientalisti sono contrarissimi. Era etanolo il 10% dei 540 miliardi di litri di benzina consumati dagli americani nel 2015. Peccato che, secondo un recente studio dell’Università del Wisconsin, i sette milioni di acri convertiti in coltivazioni per l’etanolo abbiano prodotto un aumento delle emissioni equivalente a 20 milioni di automobili in più.
Fra le conseguenze involontarie delle politiche energetiche, può rientrare anche il caso tedesco. Nessuno ha investito in energie rinnovabili con la pervicacia della Germania, che siede oggi su un patrimonio solare e eolico di tutto rispetto. Tuttavia, dopo che sull’onda emotiva di Fukushima ha voltato le spalle al nucleare, si è trovata costretta a bruciare un po’ di più del suo carbone (che è lignite, il peggiore). Così le emissioni hanno ricominciato a salire. È anche il caso del Giappone che, ferito dall’ennesimo disastro nucleare, importa risorse fossili come se piovesse.
In un rapporto intitolato «Le conseguenze involontarie delle politiche climatiche», il celebre contestatore del climate change Andrew Montford elenca i paradossi prodotti dal processo di decarbonizzazione (la transizione dai fossili alle rinnovabili), concludendo che è meglio lasciar perdere. Il documento è stato pubblicato da The Global Warming Policy Foundation, la quale promuove il disaccordo sulle misure per salvare il pianeta dal riscaldamento atmosferico. Il vero problema sta nel criticare il «bene» di questa gigantesca transizione energetica, piuttosto che il «male» di un drastico cambiamento del mondo così come lo conosciamo: secondo uno studio appena pubblicato da University of East Anglia e Wwf, dalle aree biologiche più diverse del pianeta potrebbero sparire a fine secolo il 50% delle specie animali e vegetali.
Sarebbe assurdo dire che le politiche climatiche siano inutili o, peggio, dannose. Semmai, i paradossi verdi servono a ricordarci che il cammino verso la decarbonizzazione è lungo, accidentato e lastricato di imprevisti. Ecco perché va programmato con attenzione, continuamente rivisto e percorso il più velocemente possibile.




Come cancellarsi da Facebook in modo completo e definitivo

Come cancellarsi da Facebook in modo completo e definitivo

Disattivare l’utenza è la via più semplice, ma per abbandonare il social network è meglio prima eliminare ogni traccia e collegamento per un addio totale

Come cancellarsi da Facebook in modo totale, completo e soprattutto pulito andando a eliminare qualsiasi informazione abbiamo condiviso sotto qualsiasi forma, senza dimenticare le applicazioni di parti terze e i servizi collegati al social network per antonomasia?
Sappiamo tutti perfettamente che esiste un comando, seppur ben nascosto, per cancellarsi da Facebook. Tuttavia, la disattivazione del profilo può non soddisfare completamente le esigenze di chi vuole, al contrario, avere la sicurezza che tutto sia eliminato come prima dell’iscrizione.
Come a passare la pialla e livellare tutto. Forse un po’ paranoico, ma giusto. Per questo motivo andremo a descrivere una procedura definitiva che richiede certo un po’ di impegno e un po’ di tempo per completare in modo manuale ma rigoroso un totale abbandono di Facebook e di tutto ciò a esso collegato.
Insomma, invece che limitarsi a disattivare l’account, per una maggiore efficacia si possono andare a eliminare tutti gli elementi che abbiamo caricato, nel limite del possibile.

Backup di Facebook

Scarica informazioni Facebook
Il primo passaggio è quello di effettuare un corposo backup di tutto ciò che abbiamo condiviso negli anni su Facebook. Dunque: foto, video, messaggi della chat, elementi che abbiamo condiviso sul nostro profilo e così via. Naturalmente, se non siamo interessati a questo salvataggio è possibile saltare il passaggio.
Bisogna cliccare in alto a destra sul triangolo che punta verso il basso e scegliere Impostazioni > Le tue informazioni su Facebook > Visualizza in corrispondenza della voce Scaricare le tue informazioni. In alternativa, ecco il link diretto.
Si aprirà una pagina che consente di navigare in tutto ciò che abbiamo condiviso e di selezionare non solo i vari elementi, ma anche gli intervalli di date e il formato del file oltre che la qualità dei contenuti multimediali.
Si può cliccare su Crea il file e si dovranno attendere alcune ore perché il pacchetto sia pronto. Si riceverà un’email e si procederà procedere al download.

Cancellare tutte le chat di Facebook Messenger

Cancella messaggi Facebook plugin
Per i messaggi e le conversazioni delle chat di Messenger c’è un comodo plugin per Chrome che con un singolo click va a cancellare tutti i messaggi una volta sola. In alternativa, Messenger Cleaner.

Cancellare foto, video e album da Facebook

Per cancellare le foto, gli album e i video che abbiamo caricato nei vari anni su Facebook è necessario armarsi di un po’ di pazienza e agire in modo manuale. Bisogna accedere al proprio profilo, cliccare su Foto successivamente andare nella pagina Album.
Da qui si dovrà aprire l’album, cliccare sull’ingranaggio delle impostazioni / tre puntini e selezionare Cancella. Lo stesso vale anche per le foto che non sono contenute negli album, cliccando sull’icona matita.

Cancellare tutte le attività su Facebook con uno script

Social Book Post Manager plugin
Per cancellare tutte le attività su Facebook in automatico dunque non soltanto i contenuti multimediali, ma anche gli aggiornamenti di status e qualsiasi elemento abbiamo condiviso è possibile sempre passando attraverso un plugin di Chrome e avviando uno script che va molto lentamente a brasare tutto.
Il plugin in questione si chiama Social Book Post Manager si scarica gratuitamente dallo store del browser di Google, si avvia, si fa accesso a Facebook e successivamente si va all’attività vera e propria.
Si deve andare a cliccare su Activity log nella barra a sinistra e selezionare gli elementi desiderati da cancellare, in questo caso tutti (o tutti quelli che non abbiamo già eliminato precedentemente).
Inoltre, si può scegliere l’intervallo di tempo è la velocità alla quale lo script deve agire, da 16x a 1x. Più la velocità è bassa più l’azione sarà accurata e precisa, ma potrebbe richiedere – a seconda del computer – addirittura settimane.

Rimuovere tutte le connessioni tra Facebook e le app di parti terze

Autorizzazioni app parti terze
Il passo successivo è quello di andare a rimuovere tutte le connessioni tra Facebook e le applicazioni di terze parti. Per fare questo bisogna dare su Impostazioni > App e Siti Web e controllare tutte le applicazioni alle quali, durante gli anni, abbiamo concesso un qualche accesso alla nostra pagina Facebook.
Basta apporre l’apice sulla casella e cliccare su Rimuovi per eliminare tutte le varie connessioni, come vi abbiamo raccontato nella mini guida dedicata.

Cancellare tutti gli amici su Facebook

Friend Remover Pro plugin
Per eliminare gli amici ed evitare di farlo a mano spendendo giorni e giorni c’è un plugin di Chrome che si chiama Friend Remover Pro. Si può scaricare gratuitamente, ma non funziona sempre al meglio.
Il nostro consiglio è quello di rimuovere a gruppi di cento, massimo centoventi amici perché molte volte si inceppa. Inoltre, conviene effettuare in una sola seduta tutta l’eliminazione perché spesso spalmandola su più giorni gli amici non vengono eliminati in modo totale.

Disattivare l’account di Facebook

Disattiva utenza Facebook
Dopo tutte queste procedure siamo pronti a disattivare l’account che dovrebbe essere ormai pressoché scevro di ogni informazione, contenuto, amicizia, collegamento e quant’altro. Bisogna andare su Impostazioni > Gestione account > Disattivare l’account. In alternativa, il link diretto.
Sarà richiesta la password e appariranno alcune finestre con captcha e messaggi che tenteranno in tutti i modi di trattenerci, anche toccandoci sentimentalmente con le foto degli amici con i quali abbiamo condiviso tanti bei momenti virtuali.
Resistito ai canti delle sirene di Facebook e confermato, la disattivazione vera e propria avverrà dopo 14 giorni, intervallo di tempo durante il quale Facebook lascia la porta socchiusa nel caso volessimo ripensarci.




La strategia di Starbucks International non convince, qualche progresso in Italia

La strategia di Starbucks International non convince, qualche progresso in Italia

A distanza di qualche settimana dall’invio del nostro appello a Starbucks  sottoscritto da ONG  internazionali  e nazionali che ha avuto un ampio eco di stampa, torniamo a fare il punto su come la multinazionale si sta muovendo all’estero, e nel nostro paese, per ridurre l’impatto dei contenitori usa e getta delle sue oltre 28.000 caffetterie presenti in 77 paesi.

STARBUCKS ITALIA
A seguito del nostro appello   ( in english) abbiamo avuto un primo contatto con i responsabili di Starbucks Italia che si appresta ad aprire a breve, dopo la mega  Roastery di piazza Cordusio a Milano, altri 6 o 7 locali nel milanese.
Ci è stato assicurato che le bevande calde saranno servite in tazze di ceramica, salvo esplicita richiesta da parte dei clienti di avere un contenitore da asporto. In questo caso il contenitore sarà monouso, a meno che il cliente non sia provvisto di una propria tazza termica. Ai clienti che porteranno una loro tazza, o acquisteranno quella di Starbucks,  verrà praticato uno sconto di circa 30 centesimi sul prezzo della bevanda.
Per quanto riguarda invece le bevande fredde a base di caffè pare che, al momento, l’Italia debba adeguarsi alle indicazioni internazionali e utilizzare pertanto contenitori in plastica monouso. Seguiranno  maggiori informazioni e un nostro commento complessivo dopo avere visitato le caffetterie.
Abbiamo avuto una gradita presa di contatto da parte della Giunta di Milano che ha espresso interesse per la nostra iniziativa. Milano è l’unica realtà italiana ad avere aderito alla rete internazionale C40 che riunisce 23 città e regioni di tutto il mondo impegnate nella lotta al cambiamento climatico. Sarà difficile però raggiungere gli obiettivi sottoscritti nella dichiarazioneAdvancing towards zero waste  se la giunta non riuscirà ad incidere sulle attività maggiormente responsabili della produzione di rifiuti trainata anche dai nuovi stili di vita. Abitudini in crescita come mangiare spesso fuori casa, consumare cibo pronto acquistato nei supermercati oppure da asporto (magari ordinato online) insieme all’aumento complessivo dell’e-commerce porranno seri ostacoli al raggiungimento di obiettivi del network come: tagliare del 15% la quantità di rifiuti prodotti da ogni cittadino, dimezzare la quantità di rifiuti conferiti in discarica o negli inceneritori, e aumentare fino al 70% il tasso di riciclo. Uno studio di GEO (Green Economy Observatory) dello IEFE-Università Bocconi ha stimato quanti rifiuti da imballaggio potrebbero essere prodotti al 2030. Il modello utilizzato dallo studio ha quantificato in 4 milioni di tonnellate la quantità di rifiuti che sarebbe possibile evitare grazie a politiche di riduzione e innovazione tecnologica. Quest’importante riduzione viene però minimizzata da un aumento nella produzione di rifiuti – che vale più del doppio– dovuto, appunto, alle modalità di consumo e stili di vita .

STARBUCKS INTERNATIONAL

Il 9 luglio il gruppo ha reso nota la decisione di eliminare entro il 2020 le cannucce in plastica principalmente attraverso l’introduzione nuovo bicchiere di plastica dotato di un tappo che permetterà di sorseggiare le bevande senza bisogno della cannuccia. Questo bicchiere diventerà il contenitore standard per tutti gli iced drink , escluso il frappuccino che verrà servito con cannuccia biodegradabile.
Secondo l’amministratore delegato Kevin Johnson questa mossa costituisce  “una tappa significativa” verso l’obiettivo a cui Starbucks aspira di fornire “un caffè sostenibile, servito nei modi più sostenibili”.  Il nuovo tappo che permetterà di eliminare  più di un miliardo di cannucce all’anno dalle caffetterie del gruppo è stato presentato da Johnson come un’opzione più sostenibile della precedente in quanto riciclabile.
Immediata è stata la reazione da parte della compagine ambientalista internazionale che ha fatto notare che questi coperchi negli USA (e non solo) non vengono di fatto raccolti e riciclati e che l’impronta plastica del bicchiere è aumentata. Il peso del nuovo coperchio supera infatti di qualche grammo quello della precedente opzione combinata (tappo + cannuccia). La coalizione  globale Break Free from Plastic ha inviato una lettera al CEO Kevin Thompson ed emesso un comunicato stampa che riprendiamo integralmente a fine post.
Il 17 luglio scorso McDonald’s e Starbucks hanno annunciato di avere unito le forze per arrivare a sviluppare entro i prossimi tre anni “il contenitore del futuro”, completamente riciclabile o compostabile. McDonald’s e Starbucks, che rappresentano due delle prime tre catene di fast food e caffetterie più popolari e diffuse al mondo, distribuiscono insieme il 4% dei 600 miliardi di tazze consumate nel mondo ogni anno. Di cui  McDonald’s nei suoi 37.000 negozi diffusi in oltre 120 paesi, ne utilizza il 3%.
L’iniziativa che vede ora l’adesione di MacDonald’s  si chiama NextGen Cup Challenge ed è stata lanciata da Starbucks ad inizio 2018 con Closed Loop Partners.  Imprenditori e startup possono accedere a finanziamenti per sviluppare soluzioni che possano essere incrementabili in tutti i mercati del mondo.
Oltre a condividere le riserve espresse dal movimento #Breakfreefromplastics, e come già motivato nel nostro appello a Starbucks , riteniamo che sia necessario andare oltre al consumo usa e getta che deve essere confinato alle situazioni emergenziali.
L’esperienza della catena di caffetterie inglese Boston Tea Party che è riuscita a riconvertire al riutilizzabile la sua attività dopo sei mesi di preparazione dimostra che l’operazione è possibile. La catena si è offerta di aiutare altre caffetterie e aziende che vogliono eliminare le tazze usa e getta mettendo a disposizione la propria esperienza. Per motivare i propri clienti a perseverare nella “scelta riutilizzabile”,  per ogni caffè o drink da passeggio venduto in tazza to go (riutilizzabile) vengono donate 9 pence (il costo di una tazza usa e getta monouso) ad una ong  che si occupa di progetti sociali scelta da ogni caffetteria nel quartiere dove sorgono.
La lotta alla plastica deve abbracciare la strategia del riuso altrimenti, come si può evincere dagli impegni che l’industria sta prendendo per ridurre l’inquinamento da plastica, si corre il serio rischio di spostare l’impatto su altre risorse rinnovabili e biodegradabili che sono già  sovrasfruttate. Ce lo ricorda l’Unep che avverte che entro al 2030 avremo bisogno il 40% in più di risorse come energia, acqua, legno e fibre varie e come ogni anno l’Earth Overshoot Day, ovvero la giornata in cui l’utilizzo di risorse da parte della popolazione mondiale supera quanto gli ecosistemi terrestri possono rinnovare in un anno. Quest’anno il “Giorno del Sovrasfruttamento della Terra”  cade il primo agosto come media globale secondo le stime del Global Footprint Network elaborate per  tutti i paesi. L’Italia però è già inriserva dal 24 maggio scorso.   
Le nuove direttive approvate all’interno del pacchetto economia circolare, la strategia sulla plastica e la proposta di direttiva SUP ( Single Use Plastics) contengono misure che andranno ad eliminare o ridurre il consumo di 10 tipologie di articoli usa e getta che alimentano il marine litter, tra cui contenitori per fast food e bevande. Tali misure sono in linea con i principi dell’economia circolare e la gerarchia di gestione dei rifiuti europea che privilegia le misure di prevenzione e riuso. Gli stati membri, come si può leggere nella bozza di direttiva  , dovranno fissare obiettivi nazionali di riduzione, mettendo a disposizione prodotti alternativi presso i punti vendita, o impedendo che vengano forniti gratuitamente. Per le bottiglie di plastica, anch’esse oggetto della direttiva è previsto un obiettivo di intercettazione sfidante : il 90% dell’immesso al consumo al 2025.  I produttori/utilizzatori di questi manufatti SUP dovranno coprire i costi di gestione ( e bonifica) causati dai  rifiuti che derivano dai loro prodotti/utilizzati , come pure i costi delle misure di sensibilizzazione.  L’Europa sta andando spedita nella direzione di attribuire ai produttori di rifiuti i costi di gestione del loro fine vita attraverso un rafforzamento degli schemi di responsabilità estesa del produttore che ad oggi vengono esternalizzati sulle comunità.

CHI DECIDE LE POLITICHE GLOBALI AMBIENTALI ?

Le politiche ambientali che multinazionali come McDonald e Strabucks stanno intraprendendo che non considerano il riuso come una valida alternativa,  ma puntano esclusivamente sulla riciclabilità, sollecita un’ulteriore considerazione rispetto a quanto già espresso nel nostro appello.
E cioè che probabilmente queste politiche vengono decise centralmente da figure che: a) non conoscono sufficientemente le problematiche del fine vita dei contenitori monouso b) non conoscono i sistemi post consumo e le normative dei paesi dove sono presenti, che differiscono enormemente tra loro.
Se così non fosse le multinazionali eviterebbero di prendere decisioni standarizzate da esportare in tutti i paesi come il progetto Next Generation Cup avendo realizzato che il modello globalizzato non è più compatibile con la crisi climatica in atto e con i fondamentali dell’economia circolare, che escludono a priori il perseguimento dell’ “ONE SOLUTION FITS ALL“.
Mentre è assodato che il riciclo sia l’opzione ambientalmente più conveniente rispetto allo smaltimento in inceneritori o discariche, quando si tratta di sviluppare la soluzione o il sistema più adatto per fare arrivare un determinato bene e prodotto agli utenti non è per nulla scontato scontato che l’unica soluzione debba essere il monouso. E a maggior ragione in questo momento storico in cui stiamo facendo i conti con fenomeni irrimediabili e globali come l’inquinamento da plastiche che sta contribuendo, più di quanto non avvenisse in passato,  a mettere in luce agli occhi della pubblica opinione (anche) le responsabilità industriali.
Qualora una valutazione delle possibili opzioni  – riutilizzabili e monouso – si servisse di strumenti come l’LCA per una comparazione degli impatti ambientali delle varie soluzioni, sarebbe però necessario, come convengono i massimi esperti sull’argomento, prendere anche in considerazione le esternalità indirette e negative che di solito non vengono incluse nelle analisi LCA perché difficilmente quantificabili. Ad esempio quali sono i costi ambientali ed economici causati da tutto il ciclo di vita di un bicchiere monouso di plastica o carta che finisce nell’ambiente, e/o viene raccolto e finisce in discarica/inceneritore o ad aumentare il marine litter? Altre valutazioni abbinabili sono quelle che organismi internazionali o enti di consulenza effettuano quando si tratta di quantificare i benefici economici e occupazionali dei modelli economi circolari. Sempre se ci si aspetta dalle aziende la creazione di valore  (anziché disvalore) sul piano sociale e ambientale.

RICICLABILITA’ DEVE COINCIDERE RICICLO

Recentemente due associazioni internazionali di riciclatori di materie plastiche, l’europea Plastics Recycling Europe (PRE) e l’americana The Association of Plastic Recyclers hanno convenuto su cosa si debba intendere per plastica riciclabile a livello globale. “Il termine ‘riciclabile’ viene costantemente utilizzato per definire materiali e prodotti senza che vi sia un riferimento definito e condiviso”, nota Steve Alexander, Presidente di APR. “La riciclabilità di un prodotto va oltre l’essere tecnicamente riciclabile: i consumatori devono poter accedere a un sistema di raccolta e riciclo, un riciclatore deve essere in grado di trattare il materiale e occorre un mercato finale per i materiali rigenerati”. Secondo le due associazioni, per essere considerato riciclabile, un prodotto in plastica deve soddisfare quattro condizioni che si possono leggere qui . Pertanto anche qualora i contenitori monouso utilizzati dalle multinazionali del fast food fossero tecnicamente riciclabili, mancherebbero pur sempre totalmente o parzialmente le condizioni descritte per arrivare al riciclo effettivo. A meno che le multinazionali stesse non gestiscano un loro schema di EPR , applichino un deposito su cauzione in modo che i clienti riportino i contenitori,  prendendosi carico dei costi di riciclo. Dubitiamo fortemente che dovendo sostenere i costi che attualmente esternalizzano sulle comunità le multinazionali sceglierebbero l’utilizzo esclusivo di contenitori usa e getta.

Riciclatori e sostenitori Zero Waste a Starbucks: non è vero che il nuovo coperchio verrà riciclato

Il Comunicato stampa in inglese
Il movimento internazionale #breakfreefromplastics invita il CEO di Starbucks Kevin Thompson a vedere dove finiscono i rifiuti di Starbucks: in gran parte nei paesi del Sud-est asiatico.
Nel tentativo di placare la crescente preoccupazione circa le quantità di contenitori usa e getta superflui utilizzati nelle sue caffetterie Starbucks, ha recentemente annunciato a gran voce che avrebbe gradualmente eliminato le cannucce di plastica sostituendole con nuovi coperchi di plastica “riciclabile”. In realtà il tipo di plastica che Starbucks definisce “riciclabile” viene inviata in discarica negli USA o spedita in paesi come la Malesia o il Vietnam spostando l’inquinamento. “Le affermazioni di Starbucks sulla caratteristica della plastica #5  di essere ampiamente riciclata non è corretta“, afferma Stiv Wilson, direttore delle campagne del progetto The Story of Stuff. “Questa incredibile attenzione ad un singolo prodotto non è necessariamente negativa, ma non è nemmeno buona cosa se non porta a un cambiamento più ampio e sistematico nei modi in cui la plastica: il materiale oggi più onnipresente in commercio, viene prodotta, usata e smaltita attualmente ” ha aggiunto.
Aziende come Starbucks sempre più prese di mira per il contributo all’inquinamento plastico causato dai propri imballaggi, si sono affidate principalmente al riciclaggio visto come la soluzione al problema, nonostante i numerosi punti di debolezza del sistema. Di conseguenza, gli Stati Uniti hanno inviato sempre maggiori quantità di plastica “riciclabile” alla Cina sino a che il paese ha chiuso i battenti. Ora gli Stati Uniti hanno iniziato a inviare i propri rifiuti di plastica ad altri paesi in Asia che, di conseguenza, hanno imposto divieti e restrizioni simili a quelli cinesi.
Il riciclaggio da solo non risolverà la crisi dell’inquinamento plastico“, ha dichiarato la responsabile campagna plastica di Greenpeace USA Kate Melges. “In effetti, affidarsi a un sistema di riciclaggio che sta fallendo negli Stati Uniti e affrontare i divieti all’estero peggiorerà   il problema. Ad oggi, solo il 9% di tutta la plastica mai creata è stata riciclata. È tempo che le aziende vadano oltre alle appariscenti iniziative di pubbliche relazioni ( flashy PR moves ) e inizino a ridurre in modo significativo la produzione di plastica e ad investire in alternative riutilizzabili“.
In molti dei paesi dove Starbuck è presente ci sono da zero a poche infrastrutture di riciclaggio. Non solamente contenitori, coperchi e cannucce marchiate Starbucks, compaiono tra i rifiuti raccolti nelle operazioni di pulizia delle spiagge ma, secondo l’app Litterati, i prodotti a marchio Starbucks rientrano facilmente tra i primi tre marchi identificati nei rifiuti a livello globale, se non il numero uno.
Con questo in mente, il movimento #breakfreefromplastic invita il CEO di Starbucks Kevin Johnson a visitare le comunità del Sud-Est asiatico più colpite dai rifiuti di plastica creati dalle aziende con sede nel nord del mondo. Vai al testo della lettera. 
Il tipo di inquinamento plastico che stiamo osservando nel Sud-Est asiatico è prodotto da società globali con sede in Nord America ed Europa“, ha dichiarato il coordinatore globale di Break Free From Plastic Von Hernandez. “Mentre questi paesi sono stati accusati di  essere i maggiori responsabili dell’inquinamento plastico, chi sta davvero spingendo per aumentare la produzione di questi rifiuti sono le aziende situate nel nord del mondo. Queste aziende devono assumersi la responsabilità dei loro rifiuti “.
Il carattere fuorviante degli impegni di riciclaggio presi dall’industria hanno ostacolato il progresso verso soluzioni reali che possono offrire soluzioni all’inquinamento da plastica. Monica Wilson, Research & Policy Director di GAIA, afferma: “Chiediamo a Starbucks di assumersi la responsabilità dei propri prodotti e imballaggi e di smettere di fingere che la marea di plastica immessa sul mercato venga effettivamente riciclata”.