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Università sudcoreana sviluppa robot-killer, appello di 50 ricercatori di tutto il mondo: "Fermatevi!"

“Profonda preoccupazione” per la creazione del progetto lanciato da Kaist e Hanwha Systems, tra i più grandi produttori di armi nel Paese


Allarme mondiale contro i robot-killer. Un gruppo di ricercatori internazionali nel campo dell’Intelligenza Artificiale ha annunciato che boicotterà un’università sudcoreana, il Korea Advanced Institute of Science and Technology (KAIST) e il suo partner industriale, Hanwha Systems, per un progetto che punta a sviluppare armi autonome che potrebbero diventare “strumenti del terrore”. Robot-killer, appunto.
In una lettera aperta, 50 ricercatori di 30 diversi Paesi minacciano di non partecipare ad alcuna attività accademica di quella che è una delle più prestigiose università statali della Corea del Sud ed esprimono la loro “profonda preoccupazione” per la creazione del progetto “Centro di Convergenza della difesa nazionale e Intelligenza Artificiale”, lanciata dall’università con la società tra i più grandi produttori di armi nel Paese.
L’obiettivo è quello di sviluppare tecnologie di Intelligenza artificiale per attrezzature militari autonome: ma il rischio, scrivono gli scienziati, è “aprire il vaso di Pandora” e schiudere la “terza rivoluzione” nella tecnologia militare. Quelle che verrebbero sviluppate sono armi che “permetterebbero di combattere ad una velocità e su una scala che non ha precedenti” e potrebbero essere utilizzate “da despoti e terroristi contro i civili, eliminando ogni barriera etica”. Nella lettera aperta, si ricorda che l’intelligenza artificiale dovrebbe “migliorare la vita umana, invece di distruggerla”.
Tra le firme, alcune delle menti più brillanti nel campo della Intelligenza Artificiale: il britannico Geoffrey Hinton, il canadese Yoshua Bengio o il tedesco Jurgen Schmidhuber, che boicotteranno l’ateneo fino a quando non darà garanzia “che non svilupperà armi autonome senza significativi controlli umani”.
L’università ha risposto che il progetto “non comprende ricerche su armi autonome incontrollabili” che coinvolgano “violazioni di etica o di dignità umana”. Da parte sua, l’azienda – che tra l’altro produce bombe a grappolo vietate in 120 Paesi – ha dichiarato che l’obiettivo “non è sviluppare armi killer”, ma “controllare in remoto le tecnologie volte a ridurre le perdite”.




Il caso “Cambridge Analytica” è quanto accade quando la propaganda militare viene privatizzata

Titolo originale: Cambridge Analytica is what happens when you privatise military propaganda  di Adam Ramsay per Open Democracy UK – traduzione in italiano a cura di Pietro Visani

Non si può capire lo scandalo che ha avuto come protagonista la “Cambridge Analytica” se non si comprende che cosa fa la casa madre.

“La Guerra del Golfo non ha avuto luogo”. Questa audace affermazione venne fatta dal filosofo francese Jean Baudrillard nel marzo 1991, solo due mesi dopo che le forze della NATO avevano scagliato una pioggia di bombe sull’Iraq, spargendo il sangue di più di centomila persone.
Per comprendere il ruolo della Cambridge Analytica e della sua casa madre, gli Strategic Communication Laboratories, dobbiamo riflettere su cosa Baudrillard intendesse, con la sua affermazione, e su cosa sia accaduto da allora: su come la propaganda militare sia cambiata con il mutare della tecnologia, su come la guerra sia stata privatizzata e su come l’imperialismo stia tornando alle origini.
La tesi di Baudrillard si incentrava sul fatto che l’azione della NATO nel Golfo rappresentava la prima volta in cui l’opinione pubblica dei Paesi occidentali era stata in grado di vedere una guerra dal vivo, nei telegiornali (non a caso la CNN era diventata il primo canale giornalistico H-24 nel 1980). Dal momento che gli operatori televisivi erano inseriti all’interno (“embedded”) dei reparti americani, da cui erano efficacemente censurati, la loro copertura degli eventi assomigliava comprensibilmente assai poco alla realtà dei bombardamenti su Iraq e Kuwait. Ne consegue che gli avvenimenti noti alle opinioni pubbliche occidentali come la “Guerra del Golfo” – simboleggiati dalle riprese effettuate da missili “di precisione” e da filmati di materiali militari pesanti – vengono compresi con maggiore accuratezza se interpretati come un film girato dal Pentagono. Essi vennero in tal modo deliberatamente privati della loro realtà cosparsa di sangue, per cui è una forzatura linguistica sostenere che siano la stessa cosa, e quindi se ne deve davvero trarre la logica conclusione che la “Guerra del Golfo non ha avuto luogo”.
Gli Strategic Communications Laboratories vennero fondati non molto tempo dopo la pubblicazione del celebre saggio di Baudrillard, e la prima riga del loro sito web afferma che lo “SCL Group fornisce dati, analisi e strategie ai governi e alle organizzazioni militari di tutto il mondo”. E aggiunge: “Per più di 25 anni abbiamo condotto programmi di mutamento comportamentale in oltre 60 Paesi e abbiamo ottenuto riconoscimenti ufficiali per il nostro lavoro nel campo della difesa e del cambiamento sociale”.
Com’è ovvio, la propaganda militare non è nulla di nuovo, così come non lo è la misura in cui essa è evoluta insieme ai mutamenti intervenuti in campo tecnologico ed economico. Il film “Quarto potere” (Citizen Kane) ci fornisce una visione cinematografica della prima guerra scoppiata tra testate della stampa scandalistica (o – come la chiamano gli americani – “giornalismo giallo”), vale a dire come lo scontro di tirature tra il “New York Journal” di William Randolph Hearst e il “New York World” di Joseph Pulitzer trascinò alquanto discutibilmente gli USA nella guerra ispano-americana del 1898. Fu durante tale controversia che si sostiene che Hearst abbia detto al suo inviato nell’isola caraibica “lei procuri le immagini, io procurerò la guerra”, come descritto in forma satirica da Evelyn Waugh nel suo romanzo “L’inviato speciale” (Scoop). Tuttavia, dopo che il disastro propagandistico dell’”Offensiva del Tet”, durante la guerra del Vietnam, ebbe ridotto il sostegno dell’opinione pubblica americana alla guerra, i pianificatori militari cominciarono ad escogitare nuovi modi per il controllo dei media.
Come conseguenza di tale approccio, quando – nel 1982 – la Gran Bretagna entrò in guerra con l’Argentina per il controllo delle isole Falklands, essa inaugurò una nuova tecnica per il controllo dei media: l’inserimento dei giornalisti al seguito delle truppe (embedding). E – come ha scritto sul suo blog l’ex-corrispondente di guerra della BBC Caroline Wyatt – “le lezioni tratte dall’inserire i giornalisti al seguito della Royal Navy durante la guerra delle Falklands vennero riprese con entusiasmo dai pianificatori militari, tanto a Washington quanto a Londra, nel 1991, in occasione della Prima Guerra del Golfo”.
Il ministro della Difesa britannico durante la guerra delle Falklands, quando venne inaugurata la pratica dei giornalisti “embedded”, era John Nott (un sostenitore della Brexit). Come mi è stato fatto notare dalla mia collega Caroline Molloy, il genero di Nott è il deputato conservatore Hugo Swire, ex-ministro per l’Irlanda del Nord ed ex-ministro degli Esteri. Il cugino di Swire – di cui egli dovrebbe essere stato compagno di scuola a Eton – è Nigel Oakes, fondatore degli Strategic Communications Laboratories. Non si tratta ovviamente di una cospirazione, ma della rete relazionale che lega i membri della classe dirigente britannica.
Ma torniamo alla nostra storia: al tempo della guerra con l’Iraq del 2003, la tecnologia delle telecomunicazioni era ulteriormente progredita. Come Caroline Wyatt ha spiegato, sempre nel suo blog, “le comunicazioni satellitari oggi sono molto più sofisticate, il che significa che quasi sempre abbiamo a disposizione mezzi che ci consentono di comunicare direttamente con Londra. Questo ci fornisce un decisivo fattore di indipendenza, anche se i resoconti giornalistici debbono ancora essere autorizzati dagli addetti alla sicurezza delle operazioni. Nelle maggior parte delle zone di guerra attuali, il quasi totale controllo esercitato dai militari sugli strumenti giornalistici in uso al tempo della guerra delle Falklands sarebbe semplicemente impensabile”.
Nel febbraio 2004, poi, un nuovo elemento di rottura si manifestò nel campo delle tecnologie di comunicazione, vale a dire la fondazione di Facebook, e ciò portò con sé un nuovo incubo nel campo della propaganda.
Nel momento stesso in cui questa storia si stava sviluppando, tuttavia, anche un ulteriore fattore cruciale stava manifestandosi, il neoliberismo.
Se lo si guarda da un certo punto di vista, il neoliberismo è il successore dell’imperialismo a carattere geografico quale “forma più estrema di capitalismo”. In passato, accadeva che qualcuno dotato di un piccolo patrimonio da investire potesse garantirsi il massimo ritorno economico pagando qualcun altro per navigare oltremare, soggiogare o uccidere persone (in genere persone di colore) e privarle della loro libertà o dei loro averi. Costoro, tuttavia, non poterono continuare ad espandersi a infinito, perché il mondo non è grande abbastanza. Così, alla fine, i ricchi investitori occidentali cominciarono a spostare i loro interessi dall’apertura di nuovi mercati in Paesi lontani alla commercializzazione di nuove parti dell’esistenza individuale a casa propria. Il neoliberismo, quindi, è anche questo processo di commercializzazione, di spostamento delle dinamiche decisionali da “un uomo un voto” a “una sterlina (o un dollaro, uno yen o un euro) un voto”. O ancora, per dirla con Will Davies: “il disincanto della politica da parte dell’economia”.
La prima guerra del Golfo – quella che, a detta di Baudrillard, “non ebbe luogo” – coincise con un momento chiave di questo processo: la rapida commercializzazione (da intendersi più correttamente come “scorporo”) dell’Unione Sovietica in crisi e, di conseguenza, il riuscito accerchiamento del pianeta da parte del capitalismo occidentale. La seconda guerra del Golfo, dal canto suo, è da ricordare per l’accelerazione impressa ad un altro momento cruciale di questa dinamica: lo sconfinamento delle forze del mercato nel più remoto angolo dei poteri statali. A detta del gruppo di pressione “War on Want”, fu nel corso delle invasioni dell’Iraq e dell’Afghanistan che le compagnie militari private “irruppero sulla scena”.
 

La privatizzazione della guerra

In un rapporto pubblicato nel 2016, lo stesso “War on Want” ha descritto il modo in cui il Regno Unito è diventato il centro mondiale dell’industria dei mercenari. È possibile che voi conosciate la G4S come la compagnia che controlla il vostro contatore del gas, ma in realtà essa è soprattutto la più grande società di mercenari esistente al mondo, coinvolta nel fornire “sicurezza” in tutte le zone di guerra esistenti sul pianeta (non perdete le eccellenti inchieste condotte dalle mie colleghe Clare Sambrook e Rebecca Omonira-Oyekanmi sul lavoro svolto da questa compagnia nel Regno Unito).
Nella sola città di Hereford, nei pressi del quartier generale del SAS[1], hanno sede 14 società di mercenari, sempre secondo quanto afferma il rapporto di “War on Want”. Nel momento culminante del conflitto iracheno, circa 80 società private erano coinvolte nell’occupazione di quel Paese. Nel 2003, quando le forze britanniche e statunitensi scatenarono la tattica del “colpisci e terrorizza” (shock and awe) tanto sulla popolazione irachena quanto sulle reti via cavo operanti all’interno dei loro Paesi, il Ministero degli Esteri britannico, stando alle cifre ufficiali fornite dal “Guardian”, spese 12,6 milioni di sterline in contratti concessi alle compagnie di sicurezza private inglesi. Nel 2012, quella cifra era già lievitata a 48,9 milioni di sterline. Nel 2015, la sola compagnia G4S si è aggiudicata un contratto dell’ammontare di 100 milioni di sterline per garantire la sicurezza dell’ambasciata britannica in Afghanistan.

Figura 1: Il Ministero degli Esteri britannico e il suo utilizzo delle società di sicurezza

 
La privatizzazione della guerra ha portato con sé anche quella della propaganda. Nel 2016, il “Bureau of Investigative Journalism” ha rivelato che il Pentagono ha pagato circa mezzo milione di dollari alla società britannica di pubbliche relazioni Bell Pottinger per svolgere attività di propaganda durante l’invasione dell’Iraq del 2003. La Bell Pottinger, celebre per aver creato l’immagine pubblica della signora Thatcher, comprendeva fra i suoi clienti Asma Al Assad, moglie del presidente siriano. Parte dell’attività svolta da questa compagnia consisteva nel realizzare falsi film di propaganda di Al Qaeda. (L’anno scorso, essa è stata costretta a chiudere, poiché ha commesso l’errore di utilizzare le proprie tattiche contro soggetti di razza bianca).
Il giornalista Liam O’Hare ha rivelato che Mark Turnbull, il direttore degli SCL e della Cambridge Analytica che è stato ripreso da una telecamera nascosta accanto ad Alexander Nix nell’inchiesta dell’emittente televisiva Channel4, venne utilizzato dalla Bell Pottinger in Iraq proprio in quel periodo.
 

La sezione “operazioni psicologiche” delle nostre società militari private: un’agenzia di propaganda a pagamento

Come la Bell Pottinger, gli SCL individuarono per tempo le opportunità offerte loro dalla crescente privatizzazione della guerra. Nel suo libro del 2006, Britain’s Power Elites: The Rebirth of the Ruling Class[2], Hywel Williams ha scritto: “pare perciò assolutamente naturale che una società di consulenza nel campo della comunicazione politica, come gli Strategic Communications Laboratories, si sia ora lanciata sul mercato come prima compagnia privata in grado di fornire ai militari servizi nel campo delle ‘operazioni psicologiche’”.
Anche se gran parte di ciò che gli SCL hanno fatto per i militari è coperto dal segreto, sappiamo (grazie ancora ad O’Hare) che vi sono contratti assegnati dai Ministeri della Difesa britannico e statunitense che ammontano a centinaia di migliaia di dollari, come minimo. Inoltre, sono riuscito a scovare un documento della “National Defence Academy” della Lettonia, intitolato “La comunicazione strategica della NATO: si potrebbe fare di più?”, il quale ci dice che gli SCL erano operativi in Afghanistan nel 2010 e ci fornisce alcuni indizi su quanto stavano facendo laggiù: “un’operazione relativa alla raccolta di dati qualitativi più dettagliati era condotta nella provincia di Maiwand da una società britannica, gli ‘Strategic Communications Laboratories’ (SCL), la quale è una realtà pressoché unica, all’interno della comunità internazionale dei contractor, in quanto possiede – e finanzia – una specifica sezione dedicata alla ricerca comportamentale situata nella prestigiosa sede della scienza e della ricerca britanniche, il Royal Institute di Londra”.
In parole povere, l’SCL Group – la casa madre della Cambridge Analytica – è la sezione per le operazioni psicologiche delle nostre forze militari privatizzate, vale a dire un’agenzia di propaganda a pagamento.
Le capacità e le tecniche che essa ha sviluppato nel contesto delle zone di guerra non dovrebbero essere sopravvalutate, ma neppure sottovalutate. Per quanto ci risulta, proprio come il Pentagono era solito utilizzare strumenti semplici, come scegliere dove inserire i giornalisti durante la guerra del Golfo, per diffondere la sua versione degli eventi, così essi acquisirono una certa padronanza dei mezzi di comunicazione moderni: Facebook, i video on line, la raccolta di dati e il microtargeting. Tali mezzi non sono magici (e Anthony Barnett si è ben espresso in merito ai rischi di implicazioni ad essi connessi). Di per sé, non spiegano la Brexit o l’ascesa di Trump (l’anno scorso ho lanciato un appello affinché quanti erano favorevoli alla permanenza del Regno Unito nell’Unione Europea non utilizzassero le nostre inchieste come scusa per non riuscire ad individuare le reali motivazioni del voto in favore della Brexit). Non userei neppure il termine “manipolazione” per descrivere l’impatto prodotto da queste agenzie propagandistiche, ma occorre riconoscere la loro importanza.
Come l’inchiesta segreta condotta da “Channel 4” ha rivelato, questo tipo di attività è stata spesso portata avanti insieme a più tradizionali tattiche denigratorie e – come ha spiegato Chris Wylie – in collaborazione con un altro punto focale di questo mondo: il conglomerato israeliano di compagnie private di intelligence, una componente del fiorente complesso militar-industriale esistente in quel Paese, che l’attivista e scrittore israeliano Jeff Halper sostiene essere una parte fondamentale dell’inclinazione dello Stato ebraico a ricorrere alla “diplomazia parallela”. (Com’è ovvio, non si tratta di una situazione tipica solo del Regno Unito o di Israele. Fino a quando, la scorsa settimana, Cambridge Analytica ha ottenuto una fama internazionale totalmente negativa, la più importante azienda di propaganda a pagamento al mondo era la società Palantir di Peter Theil (così chiamata dal nome della pietra veggente de “Il Signore degli Anelli”). Theil, fondatore di PayPal (insieme a Elon Musk) e dirigente di Facebook, ha scritto nel 2009 un celebre saggio in cui sosteneva che l’emancipazione femminile aveva reso insostenibile la democrazia e che qualcuno doveva quindi inventare la tecnologia per distruggerla. I più importanti clienti della Palantir sono la comunità dei servizi di intelligence statunitensi e il Dipartimento della Difesa USA. Chris Wylie, la “talpa” di Cambridge Analytica, questa settimana ha sostenuto che la sua compagnia ha lavorato con la Palantir. Risulta altresì degno di nota il fatto che uno degli azionisti della Palantir sia il Feldmaresciallo Lord Guthrie, ex-comandante in capo dell’Esercito britannico e consulente dei “Veterans for Britain”, uno dei gruppi che hanno fatto pervenire denaro alla società “Aggregate IQ”, prima del referendum sulla permanenza o meno della Gran Bretagna nell’Unione Europea. Guthrie lavora altresì per la Acanum, una delle più importanti agenzie di intelligence private, la quale, insieme con la Black Cube, un’altra partner della Cambridge Analytica, aveva Meyer Dagram, ex-capo del Mossad, nella lista dei suoi consulenti fino alla morte di lui, avvenuta nel 2016. Ancora una volta, non siamo di fronte a una cospirazione, ma solo ad una conseguenza del fatto che tutte queste persone si conoscono a vicenda. Ma sto divagando).
Torniamo quindi agli SCL: per quale ragione dei propagandisti a pagamento della NATO sono rimasti coinvolti nelle elezioni presidenziali statunitensi e – se dobbiamo credere al crescente insieme di prove raccolte in merito al collegamento esistente tra la Cambridge Analytica e l’AggregateIQ – nella Brexit?
La risposta più ovvia è di sicuro parzialmente vera: avevano la possibilità di fare soldi, in questo modo, e l’hanno colta. Se la guerra viene privatizzata, non si può essere sorpresi se le società militari iniziano ad usare gli strumenti bellici a loro vantaggio. Quando il presidente Eisenhower mise in guardia sull’esistenza del Complesso Militar-Industriale, stava pensando ad armi di tipo materiale, fisico. Tuttavia, proprio come armi semiautomatiche create per impiego militare ma non sottoposte ad alcuna limitazione di legge finiscono per essere usate nelle scuole americane, non ci dovrebbe essere alcun tipo di sorpresa se le armi per la guerra mediatica finiscono per intervenire sul voto degli americani e degli inglesi.
Da un punto di vista più generale, tuttavia, tutta questa storia riproduce esattamente quanto la Brexit ha rappresentato per molte delle persone di potere che hanno spinto in suo favore. Mentre stavamo indagando sulle donazioni segrete che alimentarono la campagna pro-Brexit del Partito Unionista Democratico (DUP) dell’Irlanda del Nord, abbiamo infatti continuato ad imbatterci in questa rete di connessioni. Priti Patel, membro della Camera dei Lord, lavorò per la Bell Pottinger in Bahrain. Richard Cook, l’uomo di punta della donazione segreta al DUP, nel 2013 creò una società insieme all’ex-capo dei servizi segreti sauditi e ad un danese, sospettato di essere una spia e coinvolto nel contrabbando di armi con estremisti induisti. David Banks, che gestiva i “Veterans for Britain”, aveva lavorato in Medio Oriente per quattro anni, nel campo delle pubbliche relazioni – per non parlare del fatto che, in linea generale, i “Veterans for Britain” sono pieni di contatti del genere.
Potrei continuare, ma il mio sospetto è che ciò non accada perché c’è qualche forma di cospirazione che coinvolge un gruppo di ex-spie, ma perché il potere deriva da reti relazionali di persone e perché quella parte della classe dirigente britannica che ha operato all’interno e nei pressi del settore militare, sta muovendo a grandi passi verso il mondo della privatizzazione della guerra. E perché queste persone hanno forti interessi ideologici e materiali nelle forze politiche della destra radicale.
 

“Il più corrotto Paese del mondo”

Un altro punto di vista è il seguente: la Gran Bretagna ha perduto gran parte del suo impero. E la maggior parte della nostra politica attuale riguarda le modalità con cui gruppi diversi lottano per venire a patti con tale dato di fatto. Per una larga quota della classe dominante, ciò concerne il tentativo di reimpossessarsi di un passato glorioso ponendo il Paese al centro dei due punti focali che definiscono l’età moderna.
Il Regno Unito e i suoi territori d’oltremare sono già da tempo diventati, e di gran lunga, la più importante rete di paradisi fiscali e di strutture segrete del mondo, ciò che ha fatto del Regno stesso il centro globale del riciclaggio di denaro e di conseguenza – come ha affermato Roberto Saviano, il maggior esperto di mafia – “il più corrotto Paese al mondo”. E, alla stessa stregua con cui i maggiori Paesi produttori di petrolio hanno le più importanti lobby petrolifere, il Regno Unito può contare su un’importante lobby dedita al riciclaggio del denaro.
Le fastidiose normative UE hanno a lungo frustrato i sogni di questa gente, la quale vuole che la nostra isola muova sempre più verso il largo e diventi in sempre maggiore misura un paradiso fiscale. E così, per alcuni sostenitori della Brexit – la lobby del riciclaggio del denaro – c’è sempre stato un forte incentivo a supportare un voto in favore dell’uscita dall’UE: le indicazioni dell’European Research Group, che risalgono fino a 25 anni fa, lo evidenziano chiaramente.
Tuttavia, ciò che ci viene ricordato dal caso della Cambridge Analytica è che tutto ciò non riguarda solo la lobby del riciclaggio del denaro (né quella agrochimica). Un altro gruppo che nutre un forte interesse nel promuovere tale deregulation, nell’attenuare la trasparenza, nel promuovere l’islamofobia in America e nel mettere le persone le une contro le altre è il nostro fiorente complesso di società di mercenari – uno degli unici altri settori in cui la Gran Bretagna conserva un primato mondiale. Per cui non è affatto sorprendente che il suo braccio propagandistico abbia indirizzato le capacità acquisite in guerra verso la realizzazione degli obiettivi politici che aspira a conseguire.
Nel suo saggio, Baudrillard ha sostenuto che le sue osservazioni in merito ai mutamenti intervenuti nella propaganda militare ci dicono qualcosa in merito all’epoca successiva alla “Guerra Fredda”, che allora era una novità. Solo due anni dopo che Tim Berners Lee inventò il World Wide Web, egli scrisse una frase che – per quanto mi riguarda – ci insegna di più, sulla vicenda della Cambridge Analytica, di gran parte delle affermazioni supponenti che abbiamo ascoltato da allora: “proprio come la ricchezza non viene più misurata in base all’ostentazione della medesima ma alla circolazione segreta dei capitali, così la guerra non viene più misurata in base al fatto di essere scatenata, ma in base al suo ipotetico svolgimento in uno spazio astratto, elettronico e informatico”.
Il caso della Cambridge Analytica è quel che accade quando vengono privatizzate le proprie operazioni di propaganda militare. Ha fatto il proprio ingresso nello spazio creato nel momento in cui i “social media” hanno ucciso il giornalismo. Si tratta di un ulteriore esempio di strumenti sviluppati per sottomettere le persone in altre parti del mondo che vengono usati a carico delle opinioni pubbliche interne di quei Paesi occidentali in cui questi stessi strumenti erano stati costruiti. Esso segna il punto in cui il neocapitalismo liberale raggiunge il suo culmine e si trasforma in “capitalismo di sorveglianza”. E la migliore risposta possibile, giunti a questo punto, consiste nel creare dei media democratici che non possano essere comprati dai propagandisti.
[1] SAS è l’acronimo di Special Air Service, la più famosa forza speciale delle Forze Armate britanniche, considerata la migliore del mondo nel suo genere [N. d. T.].
[2] “Le élites di potere britanniche: la rinascita della classe dominante” [N.d.T.]
 




A Milano la prima scuola a sviluppo sostenibile. Il progetto delle Marcelline

L’Istituto di Piazza Tommaseo presenta un programma di rinnovamento a livello di organizzazione e didattica in linea con le indicazioni dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite


Nascerà a Milano la prima scuola all’insegna dello sviluppo sostenibile. A compiere l’innovativa scelta di adeguare il modello didattico e organizzativo di una comunità educante è l’istituto paritario delle Marcelline in piazza Tommaseo a Milano.
Da mesi suor Sara Brenda, preside dei licei della struttura (che comprende anche la scuola dell’infanzia, la primaria e la secondaria di primo grado) sta lavorando a questo ambizioso progetto che venerdì 19 gennaio verrà presentato alla città. La filosofia di fondo è una:preparare le future generazioni attraverso la sostenibilità. Dietro le parole che in questo caso hanno un senso profondo perché costituiscono le fondamenta dell’iniziativa c’è un serio e concreto processo di rinnovamento dell’organizzazione gestionale della scuola e di quello didattico.

Tre aspetti che stanno cambiando

Partiamo dal primo: il funzionigramma adottato dalla Sustainable Development School restituisce particolare importanza alla cura dei rapporti istituzionali e del territorio così come a quelli con l’Università e i Centri di ricerca, con le aziende. Ma non solo. Il nuovo approccio guarda ai network internazionali, allo sviluppo di nuovi progetti; alle politiche di fundraisng. Ad occuparsi di tutto ciò non è più solo il dirigente della scuola ma anche altre figure che hanno il compito di partecipare a convegni ed ad incontri con le istituzioni, a promuovere la conoscenza di questo progetto all’interno del mondo delle imprese.
Il secondo aspetto, quello didattico: la scuola ha individuato sei macro aree disciplinari nelle quali declinare i 17 Goals indicati dall’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e le progettazioni educative e didattiche delle diverse discipline rendendo così maturo un approccio sostenibile alle materie di studio.
Il tutto ha la regia di una suora che non t’aspetti, che è capace di far calare nella vita di una scuola i valori del cristianesimo e non solo. Fare scuola per le Marcelline d’altro canto fa parte della loro mission e del loro lavoro.

Intervista

Suor Sara Brenda, preside dei licei delle Marcelline è l’anima di questo progetto. L’abbiamo intervistata per capire qualcosa in più.
A chi è rivolta quest’iniziativa?
Riguarda tutto l’istituto; dall’infanzia ai licei. Vogliamo coinvolgere la gestione e la didattica di tutta la scuola. Vorremmo fosse qualcosa di asportabile e ci piacerebbe metterci in rete anche con altre scuole che hanno il nostro stesso obiettivo.
Siete partiti da alcuni punti di riferimento importanti?
I documenti di riferimento sono l’Agenda 2030 delle Nazioni Unite e la Laudato Si di Papa Francesco. Li abbiamo fatti dialogare, sono stati il nostro orizzonte spirituale e la nostra mission.
Ora su cosa state puntando in questa fase?
Stiamo lavorando a un progetto: all’interno del corpo insegnanti abbiamo pensato a qualcuno che apra a ciò che sta fuori dalla scuola, all’università, alla ricerca e sviluppo. Vogliamo individuare figure che possono fare in modo che la scuola diventi un network di scambi. L’educazione non puoi farla dentro quattro mura. Nei licei abbiamo contattato delle aziende che hanno a cuore lo sviluppo sostenibile in modo da far crescere un senso di responsabilità nei confronti delle nuove generazioni. Abbiamo voluto creare un ponte reale tra scuola ed economia.
Anche il modello organizzativo è cambiato?  
La scuola pensata e fatta in questo modo è sempre più una realtà di tutti, siamo riusciti ad uscire dalla gerarchia tradizionale, “fuggendo” dai contesti del consiglio di classe e del collegio docenti. Sentire che si possono costruire relazioni con le realtà del territorio ha stimolato anche i professori e i maestri.
E per quanto riguarda la didattica cosa cambierà in concreto?
A livello metodologico e nella progettazione di attività che tocchino i temi dell’Agenda 2030. Il tema dell’ambiente, dell’uguaglianza di genere, delle nuove economie entreranno a far parte delle nostre lezioni. Abbiamo individuato sei macro aree che possono abbracciare gli orientamenti didattici nelle diverse discipline.
Siete riusciti a far dialogare anche docenti di ordini di scuola diverse?
Gli insegnanti hanno lavorato insieme per aree pur provenendo da gradi diversi e da discipline diverse. L’attenzione alla cura del creato, l’arte e la bellezza, lo sport: su questi temi abbiamo confluito i temi della didattica. Un cambiamento che offre il senso di quello che si fa. Pensiamo anche ad una formazione che potrà toccare corde sensibili dell’attualità.
Quando è previsto lo start?
Abbiamo già dato avvio al lavoro: con i ragazzi stiamo facendo dei test su alcune attività. Il progetto è previsto per il prossimo anno scolastico. Ora stiamo lavorando sulla formazione degli insegnanti. E’ necessaria per un’attività di questo genere. Dobbiamo puntare a coinvolgere tutti i docenti e a fare in modo che siano pronti ad affrontare le tematiche che abbiamo proposto e scelto a sostegno della scuola sostenibile. Non possiamo lasciare nulla al caso ma contare sulla collaborazione di tutti, genitori compresi.




The Sound of City

L’ospite di questa settimana del mio blog è Chiara Luzzana che ha dato vita al progetto The Sound of City.

Ciao Chiara e benvenuta sul mio blog. Come è nata l’idea di The Sound of City?
Grazie a te Rossella, è un grande piacere, nonché onore, essere invitata sulle tue pagine. “The Sound of City ®” nasce dalla mia voglia di esplorazione. Dal mio amore per i viaggi. Nasce dal desiderio, legato poi alla mia professione come Sound Designer, di descrivere ogni cosa attraverso un senso per noi fondamentale: l’udito. Ed ecco quindi che il progetto diventa come un caleidoscopico amplificatore del suono di ciascuna città. L’esperienza non è più visiva, ma uditiva. La missione principale è quella di camminare e riconoscere una Città attraverso il suo aspetto più intimo, quasi inosservato, dell’ascolto.
Nel 2015 hai realizzato la composizione della colonna sonora di Shanghai: come mai ha scelto proprio questa città?
Ho vinto una residenza Artistica a Shanghai, e per diversi anni ho vissuto in questa incredibile Città nella quale 2 volte l’anno faccio ritorno, perché ho il mio secondo studio lì. Inutile dire che me ne sono innamorata perdutamente. Shanghai è ricca di contraddizioni; alterna silenzio a rumore, colori vividi a grigio intenso, complessità e semplicità, asfalto, traffico, contrapposto ad aree verdi, ricche di attività all’aperto.
Shanghai è stata la culla del progetto “The Sound of City ®” perché in essa, nella mia esperienza solitaria, ho imparato a trasformare i rumori, anche della mente, in un’esperienza positiva. Ecco quindi che il frastuono della città, è diventato melodia. La trasformazione, la nascita di qualcosa che nasce “disarmonico”, è la base della mia ricerca come Artista Sonora e Sound Designer.
Possiamo dire che The Sound of City è un “progetto mondiale”?
Non solo è un progetto mondiale, che ha toccato fino ad ora 14 Città, ma è anche un progetto che avrà vita eterna, finché avrò vita per ascoltare ogni luogo del mondo.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nel tuo lavoro? 
Sicuramente viaggiare da sola. Inutile mentire: un viaggio in solitaria per una donna, in Città del mondo per lo più sconosciute, diventa più complicato in termini di “sicurezza personale” rispetto ad un uomo. Ad eccezione di questo aspetto, non ho riscontrato particolari difficoltà, o meglio, ce ne sono come in ogni altro lavoro, ma cerco di prenderle sempre per il lato positivo di esse. Ti faccio un esempio. Registrare una Città, significa portarsi sulle spalle più di 15 chili di attrezzatura, sia audio che video. Questo potrebbe essere un deterrente. Invece diventa lo stimolo per prepararsi durante l’anno, ad avere un rapporto con l’allenamento fisico costante. Oppure ancora, aprire un’attività è spesso un salto nel vuoto, trovare clienti, gestire tutto da soli, ma la libertà che questo approccio lavorativo ti dona in cambio, è impagabile.
Per concludere, quali sono i tuoi programmi per il 2018?
Ho unito le mie più grandi passioni: il viaggio e la musica, trasformandoli in un progetto artistico full-time. Non potrei essere più felice di così. Ho inoltre il mio lavoro come Sound Designer che prosegue attivamente , ed anche quest’ultimo mi permette di viaggiare molto. Un piccolo (grande) obbiettivo per il 2018 è quello di realizzare 10 nuove Città per il progetto “The Sound of City ®”.




Altro che Facebook, ecco le piattaforme social usate dai giovani

Da Snow a Musical.ly, da ThisCrush al classico Instagram, ecco su quali social media e app si stanno spostando gli under 25 per sfuggire ai vecchi

Facebook ha un problema: in quello che rimane tutt’ora il suo mercato più importante, il Nord America, gli utenti attivi quotidianamente sono calatiper la prima volta nella storia del social network. Stando a quanto riportato nell’ultima report trimestrale della società, il numero è passato da 185 a 184 milioni. Un calo contenuto, ma che rappresenta comunque un segnale preoccupante per l’azienda di Menlo Park.
L’aspetto più importante, però, è la fascia demografica in cui è avvenuto il declino: nel 2017, l’utenza tra i 12 e i 17 anni è infatti scesa del 9,9%. Nel complesso, il social network fondato da Mark Zuckerberg sembra perdere terreno tra i giovani al di sotto dei 25 anni, facendo segnare un saldo negativo di 2,8 milioni. La tendenza, secondo alcune ricerche, è confermata anche in Italia.
Ma perché questi problemi? Come noto, il 2017 di Facebook è stato segnato dalle polemiche sulle fake news, sulle interferenze russe nelle elezioni occidentali, sulla filter bubble e non solo.
Questioni che, però, probabilmente ai giovanissimi interessano anche meno che alla fascia più adulta di popolazione. Un aspetto più significativo si può allora ritrovare nel cosiddetto context collapse; un fenomeno segnalato per la prima volta dagli analisti che, nell’aprile 2016, notarono come la condivisione di informazione personali (merce fondamentale per Facebook, che le utilizza per targettizzare la pubblicità) fosse calata del 21%.

Quale ragazzo vorrebbe condividere i propri segreti in un luogo dove c’è anche sua madre?

La ragione di questo declino era, appunto, il “collasso del contesto”: il fatto cioè che tutto quello che postiamo su Facebook – a meno che abbiate diviso i vostri contatti in gruppi separati, cosa che quasi nessuno fa – appare a persone con le quali siamo collegati per ragioni molto diverse; compagni di scuola, amici intimi, vecchie conoscenze che non vediamo da una vita, colleghi, parenti, ecc. ecc. Ciò crea una sorta di blocco negli utenti: sarà il caso di postare la foto dell’ultima festa alla quale ho partecipato, se la vedono anche i miei genitori? Non sarà meglio evitare uno sfogo personale, dal momento che lo leggeranno tutti i miei colleghi?
Non è difficile immaginare che questo problema colpisca principalmente i più giovani, che su Facebook sono spesso in contatto con genitori, parenti e anche insegnanti. E così, ecco che i minorenni scappano da un social network dove forse si sentono sotto osservazione, non liberi di agire spontaneamente e che comunque non percepiscono più come nuovo, per rifugiarsi altrove. In luoghi dove il contesto è più omogeneo perché rappresentato principalmente da loro coetanei.
Il primo approdo è Instagram, che in Italia ha raggiunto quota 14 milioni di iscritti (contro i 30 di Facebook) e nel mondo può contare su 800 milioni di utenti attivi, il 59% dei quali compresi in un’età che va dai 18 ai 29 anni. Il social network dei giovanissimi per definizione, Snapchat, ha recentemente dato qualche segnale di vita – il numero di utenti attivi quotidianamente, nel 2017, è salito del 18% rispetto all’anno precedente – ma nel complesso sembra avere subito pesantemente il colpo subito proprio da Instagram, che ha copiato le Storie e le ha introdotte con enorme successo nella sua piattaforma.
Alcune schermate di Musical.ly
Alcune schermate di Musical.ly
 
Ma ad aver davvero cambiato il panorama dei giovanissimi è un social network che chi ha più di 25 anni potrebbe anche non aver mai sentito nominare: Musical.ly, app recentemente acquistata dalla società cinese Bytedance che consente di produrre video in playback, della durata massima di 15 secondi, durante i quali gli utenti ballano o cantano sulle hit del momento, sfruttando anche vari filtri ed effetti.
I dati di Musical.ly sono impressionanti: 200 milioni di utenti nel mondo, con un’età media attorno ai 15 anni e un 70% di utenza femminile. L’Italia è uno dei paesi in cui la comunità è cresciuta più rapidamente, arrivando a contare 4 milioni di iscritti che trascorrono oltre 30 minuti al giorno sull’applicazione, creando alcuni dei 12 milioni di video prodotto ogni giorno (a livello globale) e soprattutto guardando quelli dei muser più famosi, celebrità da 20 milioni di followers come le gemelle Lisa & Lena (viste dal vivo anche in Italia) o Baby Ariel. Gente che, secondo Forbes, incassa fino a 300mila dollari per un post sponsorizzato.
Anche in Italia non mancano i muser di successo: uno dei più famosi è sicuramente Luciano Spinelli, 17 anni e già noto youtuber, che oggi può fare affidamento anche su 1,7 milioni di follower su Musical.ly. Ancora più seguita è la 15enne Elisa Maino, tra i primi dieci muser al mondo grazie ai suoi 2 milioni di fan.

Elisa Maino su Musical.ly
Elisa Maino su Musical.ly

 
A giocare un ruolo fondamentale per generare gli introiti è però la app gemella di Musical.ly: la piattaforma di live streaming Live.ly, direttamente collegata a quella musicale e attraverso la quale gli utenti possono inviare ai loro muser preferiti da 5 centesimi a 50 dollari – acquistando le apposite emoji – in cambio di un po’ di visibilità (la citazione del nome). Non si tratta di spiccioli: i primi dieci autori di Live.ly (che a differenza della piattaforma madre non è dedicato solo alla musica) guadagnavano già nel 2016, in media, 90mila dollari al mese.
Ma il mondo dei social network è in costante fermento, per cui all’orizzonte sta già arrivando la nuova app fenomeno: Snow, piattaforma creata dalla società sudcoreana Naver – la stessa del servizio di messaggistica Line – che può contare su 200 milioni di utenti, concentrati principalmente nel mercato asiatico.

Snow
Snow

 
Nato come clone di Snapchat, Snow ha recentemente aggiornato il suo prodotto per concentrarsi sui selfie, arricchiti con realtà aumentata, sticker, filtri e quant’altro; dando anche la possibilità di girare brevi video in playback (facendo quindi concorrenza a Musical.ly) e poi condividere il tutto sugli altri social. Per il momento non sono noti i numeri nei mercati occidentali – ancora periferici – ma è molto probabile che, volendo cercare il nuovo fenomeno di internet, dovremo a breve fare i conti con Snow.
Non tutti i social network che stanno prendendo piede sono però così innocui (a dire la verità, anche Musical.ly ha sollevato non pochi timori a causa delle attenzioni indesiderate che i video di ragazzine potrebbero attirare): ThisCrush è un’app che consente di inviare a tutti gli iscritti dei messaggi pubblici – e che quindi compariranno in bacheca – o privati e anche in forma anonima.

La creazione di una CrushTag su ThisCrush
La creazione di una CrushTag su ThisCrush

 
A giudicare dal nome (crush in inglese significa cotta), l’applicazione nasce per esprimere apprezzamenti o innamoramenti adolescenziali senza doversi fare avanti (almeno inizialmente); in breve, però, si è trasformata in un covo di insulti e cyberbullismo, attirando anche l’attenzione dell’Osservatorio Nazionale sul Cybercrime guidato da Luca Pisano, che ha denunciato quanto avviene su questa applicazione su Facebook.
Come già visto prima con Ask.fm poi con Sarahah – che, come prevedibile, aveva il solo scopo di fare incetta di dati personali – la possibilità di agire nascosti dall’anonimato apre le porte a comportamenti pericolosi che non vanno né esagerati, né sottovalutati. D’altra parte, l’epoca dei social è iniziata per davvero da meno di dieci anni: una rivoluzione che anche gli adulti, a giudicare da quanto si vede quotidianamente anche su piattaforme popolate da  vecchi come Facebook o Twitter, devono ancora imparare a governare.