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La lezione di Shell a chi sottovaluta la Csr

DALLA FIGURACCIA BRENT SPAR A UNO DEI PRIMI IMPEGNI ETICI MESSI PER ISCRITTO DA UNA GRANDE AZIENDA: LA LEZIONE DI CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY DI SHELL 

Corporate social responsibility: il caso Shell. Incredibile ma vero, il colosso petrolifero Shell è stata un pioniere della Csr nel mondo aziendale, ancor di più nel settore dei combustili fossili. Shell infatti ha sottoscritto uno dei primi impegni scritti di impegno etico per il rispetto dell’ambiente. Ma come nasce questo impegno? Da una figuraccia, che porta il nome di Brent Spar.

Corporate social responsibility: il caso Shell

L’impegno nella corporate social responsibility di Shell è indissolubilmente legato a questa piattaforma petrolifera, la Brent Spar, che ha chiuso il suo ciclo di vita nel 1995. Chissà quanti ricorderanno le proteste che partirono in quel momento, in seguito alla decisione di Shell di affondare la struttura a 150 miglia al largo delle coste delle coste scozzesi, in un fondale di 2.000 metri. Attenzione, quella era ritenuta la scelta non solo più economica, ma anche più sicura dal punto di vista ambientale.
Gli attivisti di Greenpeace non erano d’accordo e iniziarono a protestare tentando anche l’assalto alla piattaforma, dalla quale vennero respinti con i getti dei cannoni d’acqua. La scena, trasmessa dalle tv di tutto il mondo, fece scalpore. Gli ambientalisti proponevano lo smantellamento sulla terraferma, recuperando i residui petroliferi contenuti nelle cisterne e riciclando le struttura metallica per evitare la dispersione di metalli pesanti e carburante (anche se poi si scoprì che i dati erano pesantemente inesatti). Per contro, la Shell sosteneva che la demolizione a terra sarebbe stata più pericolosa, dannosa per l’ambiente e soprattutto molto più costosa.

Le proteste per la Brent Spar

A maggio del 1995, la piattaforma Brent Spar, scortata da una nave da guerra britannica e da tre navi della compagnia petrolifera, comincia ad essere rimorchiata verso il punto definito per l’affondamento. Ma la protesta era partita in tutto il mondo: in Germania e Paesi Bassi gli automobilisti boicottavano le stazioni di servizio della Shell (si perse fino al 20% del giro d’affari), seguite da molte alte aziende. Persino Helmut Kohl fece pressioni per lo smantellamento. Alla fine gli attivisti di Greenpeace riuscirono a salire a bordo e a incatenarsi alla piattaforma.
Nonostante il governo britannico rimanesse fermo sulla propria decisione, alla fine Shell decise che la propria posizione non era più difendibile e rinunciò al proposito di affondare la Brent Spar. «La posizione della Shell come grande impresa europea è diventata insostenibile. La Spar ha acquisito un significato simbolico del tutto sproporzionato al suo impatto ambientale. Per conseguenza, le società del gruppo Shell hanno dovuto affrontare critiche di dominio pubblico sempre più intense, soprattutto nell’Europa continentale settentrionale. Molti politici e ministri sono stati apertamente ostili e molti hanno fatto appello al boicottaggio da parte dei consumatori. C’è stata violenza contro le stazioni di servizio Shell, accompagnato da minacce nei confronti del personale della Shell», fu la nota emessa dalla società. 

L’impegno per l’ambiente

Proprio dalle proteste per la Brent Spar è nato l’impegno nella corporate social responsibility di Shell che di lì a poco pubblicò il primo rapporto di sostenibilità nella storia della compagnia anglo-olandese. Nel frattempo, la convenzione OSPAR, ratificata nel 1998, prevede che tutte le piattaforme del mare del Nord debbano essere smantellate sull’esempio della Brent Spar (smantellata poi in Norvegia). «La Brent Spar ha modificato il nostro punto di vista. La Spar non costituisce, come molti ritengono, una minaccia ambientale, ma resterà nella storia come un simbolo dell’incapacità dell’industria di relazionarsi con il mondo esterno», commentò Heinz Rothermund, amministratore delegato della Shell UK exploration).
Rothemund riconobbe che la Shell non aveva preso in considerazione l’effetto delle proprie azioni sull’opinione pubblica, cosa che in futuro avrebbe sempre dovuto fare. Alla Shell conclusero che quanto era avvenuto avrebbe potuto ripetersi e che bisognava prendere decisioni in altro modo. Dovette inoltre accettare che molti non erano disposti a credere alle dichiarazioni che faceva sul proprio modo di agire in campo ambientale. «Vogliamo che in futuro le nostre azioni mostrino che gli interessi fondamentali delle imprese e della società sono del tutto compatibili; che non è necessario scegliere tra profitti e principi», concluse Cor Herckstroter, allora presidente del comitato degli amministratori. 

Il principio dell’impegno

Un’altra conseguenza dell’affare Brent Spar fu che Shell sposò il principio dell’impegno, il che significava coinvolgere nelle proprie decisioni organizzazioni diverse ed esterne all’azienda. Tali organizzazioni esterne non hanno un’autorità ufficiale sulle decisioni che la Shell stabilisce di prendere ma esercitano una forte influenza, poiché la Shell ascolta attentamente le loro opinioni.
In un articolo scritto dieci anni dopo la vicenda di Brent Spar, il presidente della Shell UK Jame Smith affermò: «Imparammo che per quanto essenziali scienza e approvazione governativa non sono sufficienti. Dovemmo impegnarci con la società, capire e rispondere alle preoccupazioni e alle aspettative della gente. Dobbiamo consultarci con loro per tempo e senza remore, pronti ad ascoltare e a cambiare. Dobbiamo ammettere gli errori e dimostrare che tentiamo di risistemare le cose e al contempo di imparare».




Whirlpool Emea, malore della presidente Berrozpe. Tensione alle stelle

Dal Blog “La casa di Paola” – La numero uno del gruppo di elettrodomestici si è sentita male mentre era già ricoverata in ospedale. Escalation di tensioni e duri confronti all’interno del gruppo proprietario di Embraco? Sono molte le partite aperte e c’è anche l’avanzata dei cinesi di Midea

Esther Berrozpe, 43 anni, spagnola-basca, sposata con un figlio, presidente di Whirlpool Emea dal 2013, prima donna in questa carica, è stata colta da malore nella giornata di mercoledì 7 mentre era già ricoverata in ospedale per accertamenti sanitari.
La notizia, già grave di per sé per il ruolo rivestito da Berrozpe, alla guida dell’area europea (Est e Ovest) della multinazionale e per la giovane età della Berrozpe stessa, ha mandato in panico manager e dipendenti, perché arriva in un momento che definire critico per le attività del gruppo in Europa, è dire poco. I dipendenti della multinazionale, già provata da forti contrasti tra i manager, tra il vertice americano e quello europeo, dalla crisi delle vendite in un mercato dove i competitor invece crescono, dalla minaccia dell’arrivo dei cinesi di Midea, sono in grande tensione da diverso tempo.
L’ultima delle cause di questo clima pesante che si respira a partire da Rho, la sede europea di recente inaugurata, riguarda la gestione dell’affare Embraco, dipendente sì dal management brasiliano ma facente parte del gruppo al 100 per cento. E solo l’intervento del governo italiano e del ministro Carlo Calenda in particolare, ha ottenuto l’intervento diretto del presidente mondiale di Whirlpool, lo svizzero-tedesco Mark Bitzer  – che peraltro ignorava in precedenza la reale gravità della situazione – ed ha parzialmente sbloccato l’impasse economica della vicenda (cassa integrazione, stipendi e altro).
Ma il malore di Berrozpe – anche in assenza di conferme che non verranno mai – ha una storia lunga alle spalle come abbiamo anticipato. Se ne  è andato, dopo una sorda, dura serie di contrasti, un carismatico e roccioso general manager di Whirlpool Italia, Lorenzo Paolini (i ricchi margini che aveva sempre messo in tasca agli azionisti rapaci sono diminuiti, non cessati, e questo oggi si paga). Il rapporto annuale sull’andamento del gruppo in Europa, arrivato mercoledì, segnala una forte controtendenza con perdite pesanti di quote storiche. Un esempio per tutti: la non gestione della comunicazione dei pesantissimi effetti delle cosiddette lavastoviglie assassine di Hotpoint, in Inghilterra e poi, a Londra, della tragedia della torre incendiata a causa – secondo la stampa britannica – di un incendio di un frigo Indesit. E la conseguente perdita di quote notevoli di quel 40% del mercato inglese sui cui contava da sempre la multinazionale. E la caduta del mercato russo, eredità dell’acquisizione di Indesit, ma colpito dalle sanzioni e da altro….
Ma ad  agitare l’intero gruppo è l’attesa di una news come smentita o come conferma delle mire pressanti della cinese Midea per appropriarsi del gigantesco ramo europeo di Whirlpool, che per gli azionisti non regala i profitti di prima. Attesa vana. Sembrerà incredibile ma una parte consistente dei problemi che si riflettono su vendite e immagine dell’azienda dipende – come è noto – dalla strategia di una comunicazione di crisi. “Ci vogliono anni – diceva Warren Buffett – per costruire una reputazione e 5 minuti per distruggerla”. E le criticità che Whirlpool ha dovuto affrontare  sono state e sono davvero troppe. Il malore di Esther Berrozpe probabilmente lo dimostra.




Gas serra: la moda emette quanto l’Europa

NUOVO STUDIO CHIARISCE IMPATTO AMBIENTALE DI FASHION E CALZATURE

Un nuovo studio di ClimateWorks Foundation e Quantis chiarisce l’impatto ambientale dei settori fashion e calzaturiero a livello globale: complessivamente sono responsabili dell’8% di tutte le emissioni di gas serra prodotte in tutto il mondo

L’industria dell’abbigliamento e quella delle calzature sono responsabiliinsieme dell’8% delle emissioni di gas serra nel mondo. Tanto quanto l’intera Unione europea. Il solo settore abbigliamento vale ben il 6,7 per cento. Oltre il 50% di queste emissioni è prodotto in tre fasi dell’attività: produzione di fibra (15%), preparazione del filato (28%) e, soprattutto, tintura e rifinitura (36%).
Sono alcuni dei risultati che emergono dal report “Measuring Fashion: Insights from the Environmental Impact of the Global Apparel and Footwear Industries study”, diffuso il 27 febbraio dalla ClimateWorks Foundation (una ong che si occupa di mobilizzare la filantropia per risolvere la crisi climatica) insieme al provider di servizi sulla sostenibilità Quantis.

IL PRIMO STUDIO DEL SUO GENERE

ClimateWorks Foundation e Quantis assicurano che si tratta di una ricerca innovativa. Innanzi tutto perché, dicono, è la prima in grado «di stimare gli impatti ambientali a livello globale delle industrie dell’abbigliamento e del calzaturiero». Andando oltre le stime parziali o gli annunci delle aziende.
In particolare, l’analisi considera il valore della catena del settore attraverso sette passi che vanno dalla produzione della fibra e l’estrazione del materiale fino al fine-vita del prodotto. Inoltre, include cinque diversi indicatori ambientali: cambiamento climatico, risorse, prelievo di acqua, qualità dell’ecosistema, salute umana.
Secondo gli studiosi, gli aspetti innovativi del documento sono tre: 1. si basa su dati specifici d’impatto di questa industria, così come indicati nel World Apparel Lifecycle Database, il che lo rende «completo, robusto e aggiornato»; 2. utilizza un approccio multi-indicatore per valutare diverse aree d’impatto, come il consumo di acqua e gli effetti sull’ecosistema, considerati insieme alle emissioni di gas serra, per assicurare una stima bilanciata sotto molteplici fronti; 3. fornisce una visione dell’evoluzione degli impatti nel tempo.
«C’è una pressione crescente sui brand della moda – ha detto Annabelle Stamm, Quantis senior sustainability consultant – perché dimostrino la propria sostenibilità. Sono state tentate molte simulazioni a proposito della reale performance ambientale dell’industria e della sua catena di valore, dove si trovano i suoi hotspot e quali soluzioni potenziali ci potrebbero essere»Evidentemente, secondo Quantis, si è trattato di simulazioni non complete. «Sapevamo che l’impatto del fashion (sull’ambiente, ndr) era maggiore, ma non avevamo metriche scientifiche su cosa questo significasse davvero. Questo studio ci permette di rispondere ad alcune di queste domande, rompere alcune delle nostre convinzioni collettive e fornire linee guida a chi è impegnato ad agire».

L’ANDAMENTO NEL TEMPO

Tornando ai dati emersi da questo studio, si scopre che senza un cambiamento radicale della situazione il settore peggiorerà di molto nei prossimi anni da un punto di vista dell’impatto ambientale prodotto. Secondo i ricercatori, infatti, se non interverranno cambiamenti, in uno scenario  di “business-as-usual”, l’impatto ambientale del settore dell’abbigliamento potrà arrivare a produrre il 49% dei gas serra emessi complessivamente sul nostro Pianeta entro il 2030, ossia quanto emesso ogni anno negli Stati Uniti d’America.
In estrema sintesi, per mettere in moto un cambio di rotta, lo studio identifica tre leve: “ripensare l’energia”; “disruption per ridurre”; e “design per il futuro”. E, in ogni caso, il report conclude chiedendosi: «Sarà sufficiente il passaggio verso un’economia circolare?».

LA PARTECIPAZIONE DELL’INDUSTRIA DELLA MODA

Lo studio, fanno sapere i ricercatori, si è avvalso anche dell’aiuto di uno “Steering Committee” di leader dell’industria ed esperti che hanno fornito feedback e input, poi utilizzati nella finalizzazione del lavoro.
A questo comitato, in particolare, hanno partecipato: Jason Kibbey, ceo della Sustainable Apparel Coalition; Debera Johnson, direttore esecutivo di Brooklyn Fashion e design accelerator di Pratt Center for Sustainable Design Strategies; Megan McGill, program manager di C&A Foundation; La Rhea Pepper, managing director a Textile Exchange; Linda Greer, senior scientist di Nrdc. 




Roberto, l'italiano scelto da Obama: "Un sogno essere nella sua top 500"

Pontecorvo oggi al summit dei leader innovatori per il progetto di salvare il Tevere. “Ho mandato una email, quando mi è arrivata la risposta non ci potevo credere”
Per il suo debutto, oggi a Chicago, la Fondazione Obama ha reclutato “i giovani leader innovatori civici di tutto il mondo perché si riuniscano, scambino idee ed esplorino soluzioni creative a problemi comuni”.
Tra gli invitati c’è anche un ragazzo italiano di 27 anni, Roberto Pontecorvo. È stato selezionato tra più di ventimila domande.
Complimenti, Roberto. Come si è guadagnato l’invito?
“Sono arrivato ieri a Chicago e sono ancora emozionatissimo. Tutto è nato nel 2013 da un’idea di sviluppo territoriale per il mio paese, Praiano, in costiera amalfitana. Lo abbiamo trasformato in un museo a cielo aperto, chi viene ha un’App e una guida per 150 opere esposte. Il risultato è andato oltre le aspettative. Così ne abbiamo tratto uno modello di sviluppo territoriale nazionale ed è nato Agenda Tevere”.
Cos’è Agenda Tevere?
“Un progetto che coinvolge nella gestione integrata del Tevere tante personalità e le 17 associazioni attive sul fiume. La condivisione ha dato risultati incredibili, stiamo ottenendo un ufficio di scopo in Comune per realizzarlo. In poco tempo è cambiato tutto, e mi sono trovato a dare interviste”.
E a partire per Chicago?
“Cercavano leader civici mondiali in riferimento a un progetto o un’esperienza vissuta su un territorio. Io ho parlato della mia, in maniera molto umile. Sono andato sul sito Obama.org , lo seguivo da quando è nata la Fondazione. Ho fatto domanda pensando al classico “figurati se mi prendono”. E invece è andata bene. La risposta è arrivata per mail il 30 settembre alle due del mattino: stavo guardando una serie tv, non ho più chiuso occhio”
Cosa diceva, la mail?
“Che erano lieti di informarmi… Non ci credevo: ho mandato un paio di email. Non sono scaramantico, ma stavolta da buon napoletano non ho resistito. Non ne ho parlato con nessuno, mi dicevo: fin che non sto lì non ci credo. Mi sono pure ammalato, ho dovuto prendere gastro protettori per reggere lo stress”.
Come si diventa “imprenditore sociale” e “innovatore”?
“Ho una laurea triennale in Relazioni internazionali a Forlì, poi un anno di Erasmus a Lione, un master in Studi europei a Siena, ricerca a Cracovia e a Bruxelles. Ora sto completando la magistrale a Siena: Manca la tesi, sull’impatto del progetto di Agenda Tevere: aspetto le conclusioni”.
Il successo a Praiano l’ha ottenuto giovanissimo. Come?
“L’intuizione è venuta al giornalista Claudio Gatti. Mi ha presentato l’idea, l’ho appoggiata e abbiamo costituito l’associazione Agenda Praiano. Abbiamo raccolto ventimila euro tra imprenditori locali e persone che avevano a cuore il paese; chi non poteva ha dedicato ore e mano d’opera. Abbiamo vinto un bando regionale da 250mila euro. Praiano, paese di pescatori e agricoltori, è riuscito a compiere un autentico miracolo gestendo un progetto in maniera trasparente, pulita e condivisa. Con gli stessi soldi, dalle mie parti al massimo si organizza una sagra, nulla di duraturo”.
La magia è metter d’accordo tutti?
“Sì, fare politica senza essere in politica, essere trasversali e non di parte. Se questo progetto fosse stato avanzato da una delle due liste civiche avrebbe subito trovato l’opposizione dell’altra”.
Vedrà Obama? Emozionato?
“Saremo 500, ma solo assorbire un po’ della sua energia sarà incredibile. E poi avremo conversazioni con Michelle, col principe Harry…”.
Cosa porterà a casa con sé?
“Lo scambio di idee. Abbiamo esperienze disparate che convergono: ci sono rappresentanti delle tribù indigene che lottano per i propri diritti, altri vengono da città difficili in Africa o in Messico”.
Cosa consiglierebbe ai ragazzi della sua età?
“Non sono bravo a lanciare messaggi, ma ho imparato a crederci.
Non ho nessuno alle spalle e non ho raccomandazioni. Non chiedevano referenti o recensioni, solo quello che avevamo fatto. Si basano sul progetto, poco sulla persona. L’Italia invece non sa dare il giusto valore all’aspetto artistico e culturale. Bisogna ripartire da lì”.




Way of the Future: l’intelligenza artificiale diventa una religione

Anthony Levandowsk, ex ingegnere e manager di Google e Uber, ha fondato una chiesa per “sviluppare e promuovere la realizzazione di una divinità basata sull’AI”. Perché Dio, a ben vedere, potrebbe essere una macchina

Dopo sette milioni e mezzo di anni, il supercomputer Pensiero Profondo fornisce la risposta alla «domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto»: 42. E se il concetto di divinità artificiale è stato trattato con ironia da Douglas Adams nel romanzo Guida galattica per autostoppisti, l’intento di Anthony Levandowski e della sua associazione religiosa senza scopo di lucro “Way of the Future”, sembrerebbe molto diverso.
Fondato dall’ex ingegnere e manager di Google e Uber, si tratta di un culto nato con l’obiettivo di «sviluppare e promuovere la realizzazione di una divinità basata sull’intelligenza artificiale», si può leggere nel suo statuto. Nata nel 2015, l’esistenza dell’associazione è stata rivelata in un articolo pubblicato su Wired .
Insomma, una religione che non può non rifarsi ai principi della singolarità tecnologica, la teoria in cui si ipotizza il probabile punto di non ritorno della tecnologia: capace di superare l’intelligenza in carne e ossa fino a livelli non comprensibili e prevedibili dagli esseri umani. E se da un lato Elon Musk eStephen Hawkins pensano che le macchine potrebbero diventare una minaccia concreta in grado di mettere a repentaglio l’umanità stessa, Lewandoski è decisamente dalla parte delle menti artificiali. Non è un caso che uno dei creatori delle incarnazioni più terrene e concrete dell’intelligenza artificiale: le auto autonome, abbia deciso di fondare una religione di questo tipo.
L’ingegnere è il fondatore di Otto, società specializzata nel settore dei veicoli che si guidano da soli. Ma prima aveva lavorato al progetto Waymo per Google. Dopo l’acquisizione della stessa Otto da parte di Uber, Lewandoski è stato accusato da Mountain View di aver sottratto e portato con se 14 mila file di segreti industriali. Tra cui la tecnologia LIDAR: un sistema in grado di misurare la distanza del veicolo da un oggetto puntando un raggio laser contro l’ostacolo. In poche parole, gli occhi del veicolo autonomo. In seguito alla causa legale, Uber ha deciso di licenziare l’uomo che nel frattempo era diventato il responsabile del dipartimento auto autonome della società di San Francisco.