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Digital Services Act: quali norme per la protezione dei minori online

Digital Services Act: quali norme per la protezione dei minori online

Per singolare coincidenza sabato 17 febbraio si sono verificate due “ricorrenze” che rientrano a pieno titolo nella tecnologia solidale.

Da un lato, dal 17 febbraio tutte le piattaforme digitali e non solo le grandi dovranno rispettare il Digital Services Act (DSA). Sono esentate solamente le aziende sotto i 50 dipendenti e i 10 milioni di euro di fatturato. 

Dall’altro, Parole O_Stili compie sette anni. “In effetti – mi dice Rosy Russo, presidente dell’associazione – la coincidenza tra l’entrata in vigore “totale” di questa normativa dell’Unione Europea che mira a regolare le piattaforme online e a proteggere i cittadini, a partire dai minori, e la presentazione del nostro Manifesto della comunicazione non ostile è singolare. La prendo come un buon auspicio per continuare con il nostro impegno per ridurre, arginare e combattere i linguaggi negativi online.”.

Digital Services Act: le principali misure

A questo proposito è utile ribadire quali sono le principali misure del DSA per proteggere i minori online e garantire un ambiente più sicuro e appropriato per il loro sviluppo e benessere coinvolgendo e responsabilizzando le piattaforme:

• Limitazioni sull’uso dei dati personali dei minori e verifica dell’età.

• Protezione da e misure più rigorose per rimuovere contenuti nocivi, come la pornografia infantile o l’incitamento all’odio o il cyberbullismo.

• Potenziamento degli strumenti per il controllo da parte dei genitori della attività online dei figli.

• Viene vietata la pubblicità mirata nei confronti dei bambini.

Sono naturalmente iniziative del tutto condivisibili. La domanda è se tutto questo basterà. Che ne pensi, Rosy?

“Come tu dicevi durante la tua attività parlamentare, una legge vale non solo per il suo contenuto, ma anche perché fa cultura, propone una visione di società e individua delle priorità. In questo senso il Digital Services Act è importante perché indica il principio che le piattaforme non possono disinteressarsi di quanto avviene online nei confronti dei più piccoli. Questa attenzione noi l’abbiamo iniziata molto prima di questa norma, promuovendo “dal basso” il Manifesto della comunicazione non ostile e andando nelle scuole a incontrare insegnanti e studenti. Un impegno che proseguiremo con ancora più convinzione e forza, adesso che anche le istituzioni hanno iniziato a impegnarsi concretamente.”

Le istituzioni europee lo hanno fatto coinvolgendo le piattaforme su una maggiore responsabilità. “In effetti il DSA – ci dice Stefano Pasta, docente e componente del CREMIT Centro di Ricerca sull’Educazione ai Media, all’Innovazione e alla Tecnologia dell’Università Cattolica, autore di “Razzismi 2.0. Analisi socio-educativa dell’odio online – riconosce che nel web sociale non siamo tutti uguali, sia in termini di opportunità sia dunque di responsabilità: quindi rispetto ai comportamenti scorretti nel digitale ritiene che i grandi colossi del Web non solo ospitino gli utenti, ma debbano monitorare quanto pubblicano.“.

L’aver posto dei limiti legislativi può aiutare questa azione? 

Digital Services Act: le piattaforme devono vigilare sui discorsi d’odio

“Certamente sì, perché il DSA ci aiuta ad affermare che le piattaforme devono vigilare di più sull’evitare i discorsi d’odio e, se non ci riescono o non vogliono, possono essere sanzionate. La norma, anche nel digitale, serve a tutelare i diritti umani e a regolare lo spazio pubblico, a scegliere come vogliamo vivere insieme: è questo un principio giuridico cardine del diritto europeo, diverso dal liberismo giuridico statunitense che è il substrato culturale in cui sono cresciute le grandi società del web. Il DSA, in fondo, ci ricorda il sogno per cui sono nate le istituzioni europee.”.

È la strada giusta?

“È la strada  giusta per il contrasto dell’hate speech. La priorità rimane promuovere l’educazione degli “spettautori” – fruitori e produttori di contenuti digitali al tempo stesso – al pensiero critico e alla responsabilità, intesa come capacità di valutare la conseguenza delle proprie azioni nel digitale. 

Concorda con questa interpretazione anche Stefania Garassini, giornalista, docente alla Cattolica di Milano e tra i promotori di Patti digitali, iniziativa di coinvolgimento delle famiglie e degli enti locali per un uso corretto delle nuove tecnologie da parte dei bambini e delle bambine: “La norma è giusta, anche se viene sostanzialmente ribadita la neutralità delle piattaforme, quindi la responsabilità sui contenuti resta limitata. I servizi online non vengono considerati come editori e quindi si tratta per la maggior parte di un controllo che avviene dopo la  pubblicazione, con tutti i rischi del caso. Proprio la natura editoriale delle piattaforme è invece al centro della proposta di legge usa KOSA (Kids Online Safety Act). È un tema cruciale, ma credo che quella di responsabilizzare maggiormente le piattaforme sui contenuti sia l’unica strada per rendere davvero Internet più sicura per i minori”. 

Tuttavia una norma, neanche quella scritta meglio, può sostituire l’attenzione dei genitori e l’educazione al buon uso degli strumenti digitali…

“Assolutamente. Però l’impegno sul campo di realtà come la nostra e di altre che agiscono nel nostro stesso ambito è sicuramente più sostenuto da una norma che afferma comunque una responsabilità da parte delle piattaforme. Anche perché purtroppo aumenta la precocità nell’uso degli strumenti digitali da parte dei bambini.” 

I dati su minori e uso del digitale

In effetti i dati di “Tempi digitali”, la XIV edizione dell’Atlante dell’infanzia a rischio in Italia, pubblicata da Save the Children lo scorso novembre, mostrano che in Italia si è abbassata l’età in cui si possiede o utilizza uno smartphone: il 78,3 per cento di bambini tra gli 11 e i 13 anni utilizza internet tutti i giorni e lo fa soprattutto attraverso lo smartphone. 

A questi dati si uniscono quelli della indagine “Alfabetizzazione mediatica e digitale a tutela dei minori: comportamenti, opportunità e paure dei navigatori under 16” presentata il 15 febbraio a Milano e realizzata dall’Alta scuola in media, comunicazione e spettacolo dell’Università Cattolica e dal Ministero delle imprese e del made in Italy. Il 40% degli intervistati più piccoli parla di esperienze negative online. Il 53% degli adolescenti tra gli 11 e i13 anni, dice di esperienze negative “gravi e ripetute”.

Questi dati e gli altri contenuti in questa ricerca confermano che oltre e accanto alle leggi e ai regolamenti delle piattaforme, il primo punto resta sempre uno: non possiamo lasciare da soli online figli e nipoti. A ben pensarci è paradossale il fatto che non facciamo andare e tornare da scuola da soli i nostri figli alle elementari (e spesso anche alle medie) anche se la scuola è vicina a casa e poi lasciamo che vadano da soli per le strade del web, che non sono meno insidiose di quelle delle nostre città, perché la rete e le strade sono sempre “abitate” da esseri umani, quindi da persone che possono essere bene e male intenzionate. 

Stando così le cose, per noi genitori, per gli educatori, per i nonni, per tutti coloro che hanno a cuore il destino dei più piccoli, vale oggi più che mai la regola delle 3 A, quella che applichiamo a casa Palmieri: accompagna, argina, accogli. Valeva quando il mondo era “solo” analogico. Vale ancor di più ora che è diventato digitale.




New York fa causa a TikTok, Facebook e YouTube

New York fa causa a TikTok, Facebook e YouTube

La città di New York ha fatto causa a TikTok, Facebook e YouTube per danni alla salute mentale di bambini e ragazzi.
    Secondo la causa Meta, Snap, ByteDance e Google hanno consapevolmente costruito e commercializzato le loro piattaforme per “attrarre, catturare e creare dipendenza nei giovani”.
    L’iniziativa richiama il procedimento intentato nel 2022 in California.

Il sindaco di New York, Eric Adams, aveva anticipato la causa a fine gennaio.

“Negli ultimi dieci anni abbiamo visto quanto il mondo online possa esporre i nostri figli a un flusso continuo di contenuti dannosi e alimentare la crisi nazionale della salute mentale dei giovani”, ha affermato il primo cittadino in una nota. Oltre alla città di New York, tra i querelanti ci sono anche il distretto scolastico e le istituzioni sanitarie, secondo le quali le società proprietarie hanno “consapevolmente progettato, sviluppato, prodotto, gestito, promosso, distribuito e commercializzato le loro piattaforme per attrarre e creare dipendenza, con una supervisione minima da parte dei genitori”.




Ricoh Italia ottiene la certificazioneper la parità di genere UNI/PdR 125:2022

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Nell’ambito del proprio impegno costante a favore della Diversity & Inclusion e delle tematiche di sostenibilità, Ricoh Italia ha conseguito la Certificazione UNI/PdR 125:2022 per la parità di genere, rilasciata da RINA, dimostrando la propria capacità di realizzare un ambiente di lavoro in cui la diversità e la molteplicità di esperienze vengono accolte e integrate.

Si tratta di una certificazione su base volontaria che viene assegnata dopo un processo di valutazione basato su parametri riguardanti cultura e strategia aziendale, opportunità di formazione, crescita e inclusione delle donne, equità remunerativa, oltre a iniziative a tutela della genitorialità e della conciliazione vita-lavoro.

“In Ricoh vogliamo creare le migliori condizioni affinché ogni persona si senta valorizzata e possa esprimere al meglio il proprio potenziale, senza incontrare ostacoli legati al genere o a qualsiasi altro tipo di discriminazione o di stereotipo” commenta Davide Oriani, CEO di Ricoh Italia. “Sono molte le iniziative che abbiamo intrapreso, ad esempio per sostenere la genitorialità oppure per promuovere una cultura dell’inclusione grazie a momenti di formazione e sensibilizzazione, alcuni dei quali organizzati insieme a Fondazione Pangea con cui abbiamo avviato una collaborazione. La centralità e il coinvolgimento degli individui fanno parte del DNA della nostra azienda, fin dalle origini. La certificazione ottenuta è il risultato di un percorso sostenibile che ha caratterizzato la nostra storia e che contraddistingue tutt’oggi la nostra identità”.

Alessandro Sanvito – Direttore Risorse Umane e CSR di Ricoh Italia – aggiunge: “Questa certificazione si colloca nell’ambito del percorso ambizioso di Ricoh Italia di accreditarsi sempre di più come azienda che valorizza la sostenibilità sia ambientale che, come in questo caso, sociale. La bussola che ci guida ora e sempre più in futuro è quella degli SDG (Sustainable Development Goals), gli obiettivi di sviluppo sostenibile definiti dalle Nazione Unite”.

Elisabetta Bertoldi, HR Manager di Ricoh Italia, conclude: “Con il percorso di Certificazione abbiamo voluto metterci alla prova sulla parità di genere. Il risultato dimostra che stiamo lavorando nella giusta direzione e ovviamente non ci fermiamo qui. La UNI/PdR 125:2022 rappresenta un punto di partenza e non di arrivo: prosegue fin da subito il nostro impegno per sviluppare nuove iniziative e progetti volti a realizzare un futuro sempre più inclusivo e rispettoso dell’empowerment di ogni persona”.

Ricoh

Ricoh è fornitore di servizi digitali integrati e di soluzioni di stampa che accelerano la trasformazione digitale degli ambienti di lavoro e migliorano le performance del business.
Con sede principale a Tokyo, il Gruppo Ricoh è presente in circa 200 Paesi aiutando le aziende a lavorare in modo più efficiente e produttivo, grazie a soluzioni innovative, a competenze professionali e a capacità organizzative maturate in oltre 85 anni di storia. Nell’anno fiscale terminato a marzo 2023 ha realizzato un fatturato complessivo di 2.134 miliardi di yen (circa 16 miliardi di dollari).
Il commitment di Ricoh è far sì che le persone si sentano realizzate mediante il proprio lavoro (Fulfillment through Work) grazie anche ad una nuova visione del workplace. Così è possibile valorizzare le potenzialità e la creatività degli individui per realizzare un futuro sostenibile.
Per ulteriori informazioni, visitare il sito www.ricoh.it




Formazione di sostenibilità, una leva strategica per le imprese

Formazione di sostenibilità, una leva strategica per le imprese

  • Sempre più aziende stanno investendo in formazione Esg.
  • Le ragioni per investire in istruzione sui temi di sostenibilità.
  • LifeGate EDU nasce per rispondere all’esigenza di diffondere la cultura della sostenibilità in azienda.

Nell’attuale contesto competitivo, che evolve verso un modello economico in cui gli interessi delle persone, del pianeta e dei profitti devono convergere nelle strategie d’impresa, sempre più aziende si stanno rendendo conto che, per stare al passo, è necessario integrare la sostenibilità profondamente in tutte le aree dell’organizzazione.

I dipendenti, al centro di questa trasformazione, necessitano di un’adeguata formazione per diventare parte attiva del cambiamento.
In questo scenario, gruppi leader come il colosso del lusso LVMH stanno facendo passi significativi. In occasione del summit ChangeNow, LVMH ha infatti svelato l’obiettivo di formare tutti i suoi dipendenti sui temi ambientali entro il 2026, con una partnership strategica con l’associazione Vallée de la Millière. Questa collaborazione prevede un investimento di 5 milioni di euro in cinque anni per promuovere la biodiversità e l’educazione ecologica.

Le multinazionali hanno fatto grandi investimenti in formazione
Gli esempi di investimento in formazione di sostenibilità per i dipendenti sono numerosi © iStockphoto

Anche nel settore bancario, si registra un impegno simile, con BBVA che ha formato 102mila dipendenti sulla sostenibilità tra il 2021 e il 2022. La banca sta ora puntando sulla specializzazione di 15mila professionisti, avvalendosi della collaborazione con istituzioni di alto livello come le università di OxfordCambridge e Yale.Leggi anche

I vantaggi di investire nell’istruzione sui temi di sostenibilità

La formazione sui temi di sostenibilità è una risposta strategica alle esigenze di riqualificazione delle competenze dei dipendenti, come sottolineato dal World Economic Forum. Nonostante le sfide nell’allineare gli obiettivi formativi con l’evoluzione delle norme e delle aspettative del mercato, i benefici di tali programmi sono significativi.
• Comprensione dei principi Esg: l’investimento in formazione consente una solida comprensione dei principi Esg (ambientali, sociali e di governance), cruciale per allineare le strategie aziendali con gli obiettivi di sostenibilità globali.
• Migliore gestione del rischio: la formazione di sostenibilità aumenta la capacità di gestire i rischi legati ai cambiamenti climatici, alla conformità normativa e ad altri fattori Esg, costruendo una maggiore resilienza aziendale.
• Migliore capacità di identificazione di opportunità: Il cambio di mindset generato dall’introduzione di una “cultura della sostenibilità” permetterà ai dipendenti di guardare i problemi con una lente del tutto nuova e riconoscere opportunità in settori emergenti come l’energia rinnovabile e le tecnologie sostenibili.
• Relazioni più forti con i portatori di interesse: la capacità dei professionisti e la consapevolezza di misurare e comunicare i propri impatti sul piano economico, sociale ed ambientale saranno determinanti per costruire trasparenza e fiducia durature con l’intera platea delle parti interessate.
• Allineamento ai requisiti normativi: formarsi in ambito sostenibile consente di avere un quadro dettagliato di quelli che sono gli sviluppi sul fronte normativo a livello nazionale e internazionale e di sviluppare le competenze necessarie per affrontare i complessi requisiti di conformità ed evitare possibili sanzioni.
• Coinvolgimento e produttività dei Dipendenti: la formazione aumenta l’engagement e la motivazione dei dipendenti, contribuendo a un ambiente di lavoro più innovativo e produttivo.
• Miglioramento del perimetro reputazionale: la formazione continua sui temi di sostenibilità consente alle aziende di rispondere efficacemente alle aspettative dei portatori di interesse e tutelarsi dai possibili rischi migliorando la propria reputazione.
• Conformità normativa e requisiti di reporting: è sempre più alta la percentuale di aziende tenute a divulgare le informazioni ESG in modo trasparente e puntuale. È fondamentale che le aziende rimangano al passo con questi requisiti per dimostrare la conformità e soddisfare le aspettative degli enti regolatori e stakeholder.

La formazione può essere svolta in presenza o da remoto © iStockphoto

L’investimento nella formazione sulla sostenibilità rappresenta quindi un passo decisivo per le aziende che mirano a un futuro innovativo e responsabile. Non solo arricchisce le competenze dei dipendenti, ma contribuisce a costruire una cultura aziendale più forte e consapevole, rendendo la sostenibilità una componente essenziale del successo nel mercato attuale.

LifeGate Education crea cultura in azienda grazie alla formazione online

LifeGate Education porta online l’esperienza formativa di LifeGate: in oltre vent’anni ha affiancato centinaia di aziende nel loro percorso sostenibile. Oggi, è possibile diffondere presso tutti i dipendenti la formazione base di sostenibilità attraverso il corso online Sustainability Essentials, composto da cinque moduli personalizzabili di video lezioni tenute dai professionisti LifeGate e dagli esperti piú autorevoli nel mondo della sostenibilità. Un’occasione per tutte le imprese per coinvolgere tutto l’organico sugli obiettivi Esg e per rendere più attrattiva la propria azienda, soprattutto agli occhi dei giovani talenti.
Per saperne di più, informazioni qui.




Direttiva Ue sui fornitori: rinviato il voto sugli obblighi per le imprese

Direttiva Ue sui fornitori: rinviato il voto sugli obblighi per le imprese

Rinviato il voto chiave sul Supply chain act europeo, che avrebbe messo a rischio la competitività dell’industria europea in uno scenario congiunturale e geopolitico complesso. Decisivo il dietrofront di Germania, Austria, Finlandia e Italia, dopo l’appello lanciato dalle associazioni confindustriali nazionali e da quella continentale BusinessEurope. La richiesta dei rappresentanti industriali era chiara e concorde, in particolare in Germania e Italia: bloccare il testo della proposta di direttiva europea sulla Corporate responsibility due diligence (Csddd) perché una normativa così concepita – e giudicata macchinosa, di difficile applicazione e invasiva – avrebbe fatto aumentare il costo degli approvvigionamenti industriali con conseguenti difficoltà per le imprese e nuove tensioni inflazionistiche. I negoziati ora si riaprono, su nuove basi, a un passo dal voto decisivo che era stato fissato al 9 febbraio.
Le imprese europee avevano lanciato l’allarme perché la Csddd avrebbe imposto obblighi di verifica lungo tutta la catena di fornitura comportando un aumento dei costi di approvvigionamento e monitoraggio. L’appello dell’associazione delle confindustrie europee BusinessEurope non è passato inascoltato.

Il dietrofront della Germania

In Germania si è consumata negli ultimi giorni una battaglia politica, con schieramenti contrapposti di partiti, per bloccare in extremis un testo giudicato troppo punitivo per le aziende, nella congiuntura attuale. Anche in Italia, Confindustria aveva chiesto ufficialmente al Governo di astenersi (quindi di esprimere una posizione negativa) sulla proposta di direttiva al voto finale.
Per una volta, forse la prima di una serie (visto il rallentamento economico in atto), la Germania ha abbandonato la linea ecologica che ha contraddistinto il suo supporto alla Commissione von der Leyen a trazione green, confluendo di fatto sulle posizioni italiane. Posizioni, quelle del Governo Meloni, critiche da diversi mesi sulla pioggia di regolamenti e direttive green (come quelle sulle auto e sul packaging) varate tutte insieme, con scarse misure di supporto per agevolare una transizione giusta e senza la necessaria neutralità tecnologica per consentire ai singoli Stati di raggiungere i risultati concordati nel modo più adatto al loro sistema economico e tecnologico. Finora l’Italia era sola in Europa in questa battaglia, giudicata “di retrovia” e inadeguata di fronte all’emergenza dei cambiamenti climatici in atto. Ora la Germania e altri Paesi nordici, con la svolta di oggi al Consiglio europeo e al meeting Coreper in Belgio, hanno rotto il fronte europeo, ponendo fine all’isolamento italiano.
È bastato infatti che la Germania annunciasse – al pari dell’Austria, della Finlandia e dell’Italia – che si sarebbe astenuta al momento della votazione per avviare frenetiche negoziazioni in extremis per salvare la votazione del 9 febbraio sulla direttiva Csdd. Ma i rilievi tedeschi sono stati giudicati «extensive», secondo i rumors dal Belgio, e il voto è stato rinviato, per dare più tempo ai negoziati di svolgersi. Secondo un’anticipazione di Radiocor Il Sole-24 Ore, che ha battuto sul tempo tutte le agenzie europee, Germania, Austria e Finlandia avevano già preannunciato l’astensione, che ai fini della votazione sarebbe stata conteggiata come un voto negativo. A questi tre Paesi si sarebbe aggiunta l’Italia, sempre con l’astensione. Se gli ambasciatori avessero votato, sarebbe emersa platealmente la minoranza di blocco impedendo, appunto, che si raggiungesse la maggioranza necessaria. La posizione dei quattro Paesi riflette quella assunta dalla maggior parte del mondo industriale che ritiene l’impatto di quelle regole sull’attività delle aziende troppo onerosa.

L’appello delle imprese

Positiva la reazione di Confindustria alla notizia lanciata da Radiocor Il Sole-24 Ore. «Per le regole della maggioranza qualificata serviva l’astensione anche dell’Italia per fermare il testo attuale, macchinoso e ingestibile, di una direttiva critica per le imprese e per la competitività europea – spiega Stefano Pan, delegato del presidente di Confindustria per l’Europa e vicepresidente di BusinessEurope -. Per questo abbiamo chiesto al Governo italiano di astenersi in fase di votazione, in modo da consentire il riavvio dei negoziati».
Del resto, lo stesso allarme delle imprese tedesche è stato recepito dalla Germania, che ha optato per il dietrofront dalla battaglia ecologista a seguito di un vivace dibattito interno, che ha diviso i partiti e ottenuto vasta eco, in un Paese alle prese con scioperi e preoccupazione montante per la tenuta industriale.
«Il dibattito sulla direttiva europea è stato in evidenza per giorni nei telegiornali in Germania e ha avuto vasta eco per la sua portata simbolica – racconta Pan -. Le imprese tedesche, al pari di quelle italiane e di altri Paesi, sono molto preoccupate dal varo di una normativa estremamente complessa e invasiva per la sua portata globale. Speriamo quindi che si riaprano i negoziati per scongiurare un aumento dei costi incontrollato degli approvvigionamenti, in una fase economica delicata e in uno scenario geopolitico critico».

Perché la direttiva Csdd preoccupa

Al centro delle polemiche c’è una delle direttive chiave per completare la strategia anti-climate change europea realizzata con il pacchetto di normative Fit for 55 e con il Green new deal. La direttiva Csddd – detta anche Csdd, Cs3D o più simbolicamente Eu Supply chain act – prevederà infatti dovere di diligenza (due diligence) delle imprese ai fini della sostenibilità sociale, mirando a promuovere un comportamento sostenibile e responsabile lungo tutta la filiera del valore. Le imprese, in sostanza, dovranno evitare che le loro operazioni abbiano effetti negativi sui diritti umani, come il lavoro minorile e lo sfruttamento dei lavoratori, e sull’ambiente, ad esempio l’inquinamento e la perdita di biodiversità.
Tutto condivisibile, in linea di principio.
«Ma in uno studio appena realizzato, BusinessEurope calcola che il controllo di tutti i fornitori (e dei loro fornitori) comporterà un aumento dei costi considerevole, per monitorare tutta la filiera, controllare continuamente la supply chain e fornire garanzie di compliance – spiega Pan -. Nel caso di una media impresa, lo studio calcola che i costi possono arrivare fino a quattro milioni di euro; per non parlare dei costi di una possibile disruption della catena di fornitura, che potrebbe avvenire se tante imprese cambiassero fornitori in un momento geopolitico ed economico così complesso. Pensiamo ad esempio ai nostri settori della concia delle pelli e dell’edilizia: il rischio di nuovi shock lungo la supply chain ci preoccupa».

Che cosa prevede il Supply chain act

La proposta di direttiva, la cui approvazione fin qui è stata data per certa dopo un dibattito e un iter normativo durato due anni, prevede un dovere di diligenza molto forte per le imprese, sotto il profilo sociale e ambientale. Le aziende sopra i 40 milioni di fatturato saranno tenute, nelle loro operazioni, nelle controllate e nelle catene del valore, a individuare, far cessare, evitare, attenuare e dar conto degli effetti negativi sui diritti umani e sull’ambiente. Inoltre, determinate grandi imprese devono disporre di un piano per garantire che la loro strategia commerciale sia compatibile con la limitazione del riscaldamento globale a 1,5 °C, in linea con l’accordo di Parigi.
Gli amministratori sarebbero incentivati (con benefici non meglio specificati) a contribuire agli obiettivi di sostenibilità e mitigazione dei cambiamenti climatici. Ma avranno anche forti responsabilità. In particolare saranno tenuti a integrare il dovere di diligenza nella strategia aziendale, istituire i relativi processi e vigilare sulla loro attuazione. Inoltre, nell’adempimento del loro obbligo di agire nel migliore interesse dell’impresa, gli amministratori dovranno tenere conto delle conseguenze delle loro decisioni sui diritti umani, sui cambiamenti climatici e sull’ambiente. Lungo tutta la filiera e anche per contratti di fornitura già firmati e vincolanti su base pluriennale.

A chi si applica la Csdd

L’applicazione della direttiva sarebbe comunque graduale, in base alla dimensione dell’impresa. Le imprese con più di mille dipendenti dovranno adeguarsi entro il 2027; quelle con più di 500 dipendenti e fatturato annuo netto di 150 milioni entro il 2028; entro il 2029 quelle con oltre 250 dipendenti, fatturato netto annuo sopra i 40 milioni e che operano in settori ad alto rischio. Le società extra-UE dovranno conformarsi se la loro soglia di fatturato annuo è raggiunta dalle entrate nella Ue.
Nell’ultima bozza, rilasciata a fine gennaio, si erano attenuate le misure a carico degli amministratori e alcuni gruppi di pressione avevano parlato di “direttiva annacquata”. Alle Pmi impattate dalle norme proposte verrebbero garantite misure di sostegno, in linea generale. Ma le modifiche apportate non sono bastate a BusinessEurope e ad altre associazioni europee.
Altro nodo critico sono i controlli e le sanzioni. Gli Stati membri dovrebbero designare un’autorità incaricata di vigilare e imporre sanzioni, comprese ammende e ingiunzioni di conformità. A livello europeo la Commissione dovrebbe istituire una rete europea di autorità di vigilanza per riunire i rappresentanti degli organismi nazionali al fine di garantire un approccio coordinato. Le autorità amministrative istituite ad hoc da ogni Stato potrebbero infliggere sanzioni pari almeno al 5% del fatturato mondiale: una soglia giudicata «vessatoria» dalle confindustrie europee. Va detto, comunque, che l’applicazione della direttiva e le sanzioni per gli inadempienti sarebbero comunque fissate dagli Stati membri in sede di recepimento. E questo potrebbe ammorbidire l’efficacia della norma, almeno nei Paesi con un giudizio critico.

L’impatto su subfornitori e multinazionali

Di certo, l’effetto annuncio della normativa e la corsa a fornitori certificati farebbe comunque lievitare i costi degli approvvigionamenti, con effetti anche su Pmi e microimprese. Non solo: le multinazionali rischiano cause legali su vasta scala in caso di inadempienza, perché la bozza di direttiva prevede la possibilità per i cittadini di fare class action con richieste di ingenti risarcimenti danni. Una misura, questa, contenuta nella bozza finale e contestata in particolare dalla Svezia, dove le class action non sono ancora a pieno regime nell’ordinamento giuridico nazionale.
Guardando il bicchiere non solo mezzo vuoto, ma anche mezzo pieno, c’è in verità qualche vantaggio che, nel medio-lungo periodo, potrebbe arrivare alle Pmi italiane . «È presumibile che i fornitori nei Paesi in via di sviluppo che non offrono garanzie di rispetto della direttiva europea saranno gradualmente sostituiti da fornitori che offrono maggiori garanzie; in questo scenario le imprese italiane potrebbero sostituirli e guadagnare contratti di fornitura importanti con le multinazionali soggette a compliance della Csddd, in quanto di solito percepite come più affidabili e soggette a norme stringenti», fa notare Pier Mario Barzaghi, partner Kpmg con anni di incarichi di rappresentanza negli organismi di regolamentazione internazionali. «Ma persino le Pmi italiane che guadagnassero questi contratti sarebbero comunque soggette al rialzo dei costi delle materie prime e delle forniture lungo la loro supply chain e quindi il loro vantaggio si azzererebbe», ribatte Stefan Pan.
La battaglia su questa proposta normativa controversa si sposta ora al Parlamento europeo. Dove, per una volta, la Germania e i Paesi nordici condividono gli stessi interessi e le stesse preoccupazioni del sistema economico italiano. Una novità simbolo di una svolta in atto: forse la forsennata corsa europea al rispetto degli accordi internazionali sul clima e dei 17 Obiettivi di sostenibilità Onu sta rallentando, a causa della congiuntura e della geopolitica sfavorevoli. Del resto, anche il Regno Unito, ora fuori dall’Unione europea, ha appena annunciato il taglio dei fondi per la transizione ecologica da 28 a 4,7 miliardi di sterline all’anno.