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Se la moda sfila con la Csr nel cuore

Se la moda sfila con la Csr nel cuore
La prossima fashion week milanese innalza la bandiera della sostenibilità. Questa volta non sembra greenwashing. Le sfide di Csr della moda sono tangibili. E sono necessarie per comunicare credibilità e posizionamento. Il caso di Brunello Cucinelli


La prossima settimana inizieranno le sfilate donna di Milano. Con una particolarità rispetto al passato. Sulla moda italiana, e con risalto su quella delle passerelle milanesi, sventola la bandiera della sostenibilità. Che, questa volta, appare finalmente materiale, e non un effimero vezzo stilistico. La moda sembra iniziare a coordinare una filiera di prodotto unica al mondo. E sembra capace di dare a Milano (quale simbolo del sistema imprenditoriale italiano) quella medaglia di capitale della sostenibilità che l’Expo non è stato in grado di lasciarle in eredità.
Certo, c’è ancora molta confusione, e spesso e volentieri si trascende con facilità nel greenwashing. Ma sembrano esserci gli elementi solidi per pensare che il made in Italy (fashion, ma anche design) sia a una svolta sostenibile, e che in questo modo possa dare una notevole mano all’intera industria nazionale.
Il primo riscontro è di immagine. Se fino ad appena 12 mesi fa, il concetto di sostenibilità appariva in un comunicato aziendale su dieci proveniente dalla moda, ora la proporzione si è invertita: tutti sottolineano l’impegno in quello che è divenuto un must have. Lo spiega in modo chiaro Carlo Capasa, il presidente di Camera nazionale della moda, in un’intervista a ETicaNewsche sarà pubblicata oggi alle 12. «Il fatto è che si è avviata una corsa. Come avvenuto col fenomeno web. A un certo punto si è capito che non si poteva più starne fuori».
La domanda è: si tratta solo di immagine? Ci si accoda e si sale bendati sul carro di temporanei vincitori verdi?

SUPERATO IL POTERE DELL’IMMAGINE

No, non è così. Lo spiega sempre Capasa, evidenziando come la stessa Camera abbia, sì, puntato su alcuni eventi a grande richiamo di immagine (i Green Carpet Fashion Awards), ma come dietro ci sia un percorso tecnico-industriale assai concreto. La Camera ha messo a punto linee guida per i prodotti e per i processi. E ora questi cominciano a funzionare da standard. E il meccanismo ha attecchito nella filiera, quella di natura artigianale-imprenditoriale, dove i principi di Csr territoriale sono radicati nell’anima, ed è esplosa a valle, nei pensieri e nelle azioni delle case di moda.
La realtà è che la Csr sta ribaltando le priorità strategiche nella moda e nel lusso. Questo comparto è stato un esempio di quanto la comunicazione potesse divenire un fattore chiave nella costruzione di un’industria. Il made in Italy ha trovato la strada per rendere la comunicazione una leva formidabile del super premium price, spesso a prescindere dal reale valore che c’era “in the box”.
Tuttavia, proprio questa comunicazione portata all’eccesso (moltiplicata, continua, ininterrotta, ubiqua, parcellizzata, diffusa … incontenibile), per effetto di web e, soprattutto, social media, ha ridotto il potere della comunicazione stessa. Cioè, l’ha resa meno indipendente e libera, rendendola assai più vincolata alla realtà. Al valore reale del prodotto. A ciò che c’è “in the box”. Non solo. Anche a ciò che sta attorno, e a ciò che avviene lungo l’intero percorso di quel prodotto.
E così sta accadendo qualcosa che in pochi avevano pronosticato. La moda si sta rivelando un simbolo di come la Csr possa diventare il centro di valore di un marchio.
Volendo fare un rapido esame in rapporto ai tre fattori environmental, social e governance (Esg), l’equazione presenta indicazioni chiare.

UNA NUOVA EPOCA DI FILATI

Dal punto di vista ambientale, la filiera sta accelerando verso la produzione di una nuova epoca di filati e di tessuti ecologici, a fronte di una domanda che si prevede esplosiva da parte delle griffe. Al punto che si assiste alla conversione eco-tessile di aziende al confine con la chimica (come Aquafil e Bio.on), o alla nascita di startup che trasformano in filati gli scarti degli agrumi come Orange Fiber.

L’ESCLUSIVITÀ DEL LUSSO INCLUSIVO

Dal punto di vista social, il lusso sta cercando di risolvere il paradosso dell’inclusività. Cioè, mantenersi esclusivo (e farsi pagare come tale) proprio perché inclusivo nella gestione di tutti i propri stakeholder. A cominciare dai dipendenti e dal loro territorio (si guardi all’acquisto e alla valorizzazione di intere filiere, da parte dei colossi del lusso, in Toscana). Per finire con i propri clienti: nei mesi scorsi, più di un brand internazionale ha chiesto pubblicamente “scusa per non averci pensato prima”, riferendosi ai consumatori di standing o taglia differente, per i quali risultava inaccessibile.

UNA GOVERNANCE DEL PRODOTTO

Dal punto di vista della governance, sta diventando cruciale la sfida della tracciabilità. Ossia di riuscire a monitorare l’intero percorso del proprio prodotto, sino alla sua eliminazione. Il tema è ormai bollente per l’industria del fast fashion, costretta a enormi volumi di abiti da eliminare. Ma il caso Burberry ha acceso lo stesso allarme per il lusso. Un paio di mesi fa, il gruppo britannico è stato il primo brand di alta gamma a parlare pubblicamente di “distruzione” dell’invenduto (ed è stato costretto, nei giorni scorsi, ad annunciare che non lo farà più). La cosa, molto probabilmente, riguarda, dietro le quinte, l’intero spettro delle griffe mondiali.

IL SORPASSO DELLA CSR

Ecco il superamento della Csr sulla comunicazione. Non basta più un testimonial o una campagna. Non basta una spruzzata di verde. Le aziende stanno iniziando a capire che, per mantenere i propri consumatori di oggi e conquistare quelli di domani, le tematiche della sostenibilità e della responsabilità sociale, devono legarsi al Dna dell’azienda stessa. Cioè, è l’azienda, le sue persone, le sue policy verso gli stakeholder, che vengono proposti al mercato. Non più, solamente, i suoi prodotti.
La comunicazione, senza questo, non ha più senso. E se questo comincia a capirlo la moda, è un segnale fortissimo per tutti gli altri settori.
PS Il cliente è un giudice sempre più spietato della coerenza del messaggio di un brand. Ma, ancor più spietati, sono gli investitori. È interessante scoprire quanto sia convincente verso la Borsa la sostenibilità sociale e territoriale del brand Brunello Cucinelli. Gli sforzi pluriennali di Csr del gruppo umbro, per quanto portati avanti in modo personale e un po’ mistico, rappresentano un caso unico di moltiplicazione del valore di un’azienda. Secondo un recente report di Mediobanca, in base al parametro prezzo/utili attesi, il titolo Cucinelli vale il 60% in più dei competitor europei. E, addirittura, il 10% in più di una griffe ritenuta un simbolo del lusso come Hermes.




La (nuova) propaganda digitale: come la politica manipola il web

La (nuova) propaganda digitale: come la politica manipola il web
Comprendere e gestire le distorsioni del digitale – dagli effetti della nuova propaganda al proliferare di fake news – per non vanificarne le straordinarie opportunità. Ecco quali sono i rischi della mancanza di consapevolezza e cultura digitale e perché siamo tutti corresponsabili


e elezioni presidenziali Usa, oltre ad aver portato alla casa Bianca Donald Trump, hanno avuto l’effetto di porre al centro del dibattito il tema della propaganda digitale, da molti additata come vero “grande elettore” del tycoon statunitense. In Italia si parla diffusamente di quanto l’attuale maggioranza sia tale anche e soprattutto grazie alla propaganda digitale. Per non parlare del ruolo che il web avrebbe avuto nella nascita di una componente rilevante di questa stessa maggioranza, ovvero il Movimento 5 Stelle.
La propaganda digitale, però, non è una categoria a sé. La propaganda è sempre esistita, dai tempi dei faraoni autoproclamatisi divinità terrene, passando per il “taci il nemico ti ascolta” di epoca fascista, sino a più o meno esistenti armi di distruzione di massa. Quindi il digitale ne è solo un nuovo strumento? In realtà il paradigma va ribaltato: il web è un ecosistema attraverso cui è possibile anche fare propaganda, con modalità ed effetti inediti. E sono proprio questi effetti e modalità a rappresentare il vero scenario da indagare, dal quale discende poi la nuova definizione di propaganda (ma non solo).

Il web e la percezione distorta della realtà

La Rete è una lente convessa in grado di distorcere la percezione della realtà dei propri utenti. Il digitale amplifica una serie di fenomeni psicologici e cognitivi, ben noti alle neuroscienze, creando un ecosistema sociale dove si generano e si alimentano narrazioni, luoghi comuni, paure, credenze. Un ecosistema che interconnette direttamente le persone, escludendo – spesso perché è percepita come inutile, superflua o non credibile – qualsiasi forma d’intermediazione. Un ambiente in cui l’infinita disponibilità e la facilità d’accesso alle informazioni crea la falsa convinzione di poter avere gli strumenti per intervenire su qualsiasi tema, innescando contro-narrazioni collettive prive di verifica o fondamento. Un sistema, in sintesi, in grado di produrre verità autogenerate a volte più forti della verità fattuale, in grado di d’influenzare la percezione della realtà.
Tutto questo rappresenta l’altra faccia della medaglia, l’effetto collaterale del www, non voluto da chi l’ha pensato e progettato e che non esclude il fatto che il web continui a essere una straordinaria opportunità di crescita culturale e sociale, una potente leva di miglioramento della vita di ognuno. Il problema è che quest’altra faccia della medaglia è governabile, influenzabile, le sue/tali dinamiche sono “attivabili” in maniera economica e relativamente semplice e attraverso di esse si può arrivare a influenzare la percezione della realtà degli utenti. Ma andiamo con ordine.

La massificazione delle interpretazioni personali

Il web è un sistema simbolico immersivo nel quale siamo costantemente chiamati a decodificare e interpretare contenuti, immagini, contesti, reazioni, emozioni. Sin qui niente di nuovo, dal punto di vista della semiologia e della psicologia cognitiva: da sempre l’uomo produce e decodifica simboli e messaggi, è la base della comunicazione. La novità sta nel fatto che il web, per sua natura, massifica la nostra personale interpretazione: mentre nel mondo analogico quel che pensavamo su qualcosa o qualcuno poteva essere condiviso con un gruppo di persone limitato nel tempo e nello spazio, oggi la percezione immediata è che ce ne siano migliaia che la pensano come noi. Un meccanismo che tende a rafforzare la convinzione che quel che crediamo sia giusto, proprio perché condiviso da moltitudine di altri individui.

Il proliferare delle echo chambers

Tale dinamica è ulteriormente rafforzata dal Confirmation bias, pregiudizio di conferma – concetto ampiamente noto agli studiosi di neuroscienze – a causa del quale tendiamo a cercare conferme alle nostre tesi, idee. L’interazione di questi due processi porta a chiuderci dentro echo chambers, camere dell’eco, dove interagiamo solo con persone che la pensano come noi, iperconfermando le nostre idee e distorcendo così la percezione della realtà. Echo chambers che sul web hanno dimensione massiva e che rappresentano anche vastissima e reattiva platea per le cose che pensiamo e diciamo. Esprimiamo posizioni, giudizi e troviamo consenso e riconoscimento ampli e pubblici.

La disintermediazione dell’informazione

Accanto a questo agisce la profonda, travolgente perdita di fiducia nei corpi intermedi, ovvero le figure che socialmente dovrebbero rappresentare un punto di riferimento informativo: istituzioni, media, giornalisti, politica, partiti, sindacati, medici, scienziati, aziende, università, scuola. I singoli scandali, casi di corruzione, errori, cattive gestioni, amplificati da narrazioni collettive ipercondivise, divengono giudizi generali, che travolgono credibilità e autorevolezza e minano il ruolo stesso di questi soggetti. Così lo scienziato è sempre al soldo della multinazionale, il politico è corrotto, il giornalista asservito, l’istituzione schiava dei “poteri forti”, ecc. Quel che un tempo era considerato luogo comune diventa giudizio sociale.

Il potere dell’algoritmo e la scarsa attenzione

Viviamo poi immersi nei nostri smartphone, iperconnessi a una serie di piattaforme, soprattutto social, governate da algoritmi che leggono le nostre scelte e tendono a riproporre contenuti informativi e fonti le più simili possibili a quelle che abbiamo precedentemente selezionato, contribuendo così a quella echo chamber autoconfermativa. Algoritmi che sono di proprietà di pochi soggetti – così come le piattaforme su cui operano, d’altronde – e il cui funzionamento è un segreto gelosamente custodito. Abbinata a questo, la nostra scarsa capacità di attenzione e di valutazione di fronte a quantità enormi di informazioni, che ci porta a trattenere solo gli elementi più evidenti di un contenuto (il titolo, l’immagine). Studi recenti fissano a 5,8 secondi il tempo medio speso a usufruire di un contenuto sui social. In sostanza, prestiamo un’attenzione più che superficiale e frettolosa a informazioni selezionate automaticamente da algoritmi che non controlliamo.

Una propaganda semplice ed economica

Tutto questo vuol dire che il web è il male? No. Il digitale rimane un’opportunità straordinaria e una risorsa preziosissima, ma porta con sé alcune distorsioni che vanno comprese e gestite. Da tutto quello detto sopra appare evidente quanto sia “semplice” oggi fare propaganda. Mentre prima erano richiesti apparati di comunicazione giganteschi e costosi, adesso basta intercettare le echo chambers, comprendere le paure, i timori, i dubbi, i bisogni delle persone e alimentarli. Conoscere le dinamiche del web e saperle usare significa riuscire effettivamente a governare la percezione e quindi orientarla. Questo vale per la propaganda politica ma anche per l’informazione, la comunicazione. Basta costruire una notizia falsa ma verosimile, atta a stimolare timori o confermare dubbi, e riuscire (facilmente) a farla condividere per innescare una distorsione della percezione del reale. Molte di queste notizie si autogenerano e autoalimentano all’interno delle conversazioni social, ma altre, molte altre, vengono prodotte o “piegate” ad arte.
Nulla di nuovo, sia chiaro, torniamo a dire. Propaganda, notizie false, costruite per screditare o danneggiare, false o errate convinzioni, luoghi comuni, pregiudizi, sono sempre esistiti. Con l’avvento del digitale hanno assunto però una forza e un potere pervasivo inediti, abbinati a un’estrema “economicità” produttiva – sono sufficienti un pc, una connessione e una buona conoscenza tecnica – e a una velocissima e potente capacità di diffusione, quando autogenerati.
Tutto questo apre due scenari ulteriori. Da una parte, l’ampliamento del numero di quanti siano in grado di usare in maniera malevola queste dinamiche, proprio per la loro “accessibilità” ed “economicità”. Dall’altra, la capacità d’impatto che un’organizzazione strutturata (quella che una volta venivano chiamate le “macchine della propaganda”) può avere in termini di efficacia. Il rischio è un governo della “verità percepita” a scapito della verità fattuale e l’accentramento, nelle mani di pochi, di una nuova forma di potere manipolativo.

Gli utenti inconsapevoli

Il combinato disposto di queste dinamiche è tale solo grazie alla mancanza di consapevolezza degli utenti della Rete, di tutti quanti noi. La mancanza di consapevolezza di quanto possa essere deleteria la condivisione di un contenuto non verificato, l’esporsi con giudizi definitivi su temi di cui non si hanno conoscenze specifiche, il difendere le proprie convinzioni senza ascoltare o approfondire le tesi contrapposte e viceversa attaccarle con violenza e demonizzarle. In un ecosistema completamente trasparente, dal punto di vista della visibilità collettiva di ciò che diciamo e facciamo, siamo tutti corresponsabili, siamo tutti contemporaneamente fonte e medium.
Senza consapevolezza, senza cultura ed educazione al digitale – e considerato l’alto numero di “analfabeti funzionali”, cioè incapaci di comprendere il senso di un testo, che nel nostro Paese sono oltre il 50% – gli utenti diventano “carne da propaganda”, soggetti manipolabili su piccoli e grandi temi. Si dirà: «Ma la realtà non è solo il digitale, esistono altri mezzi, altre forme e dinamiche di persuasione». Vero, però ormai viviamo in un unico ecosistema informativo del quale il digitale è il sistema nervoso profondo, che connette le persone annullando le dimensioni spazio-temporali e amplificando i messaggi. Un sistema pervasivo e potente del quale dobbiamo diventare consapevoli, per far sì che Internet torni a essere esclusivamente quella splendida occasione di crescita collettiva che pure ancora rappresenta.




Una Magna Carta per l'era digitale

Una Magna Carta per l'era digitale

Nel 1215 l’Inghilterra adottò la Magna Carta, per impedire ai monarchi di abusare del loro potere. I monarchi di oggi sono le grandi aziende tecnologiche, e noi, le persone i cui dati personali vengono raccolti e manipolati per scopi sia buoni che cattivi, siamo i loro sudditi.
I benefici sono tanti, ma anche gli abusi. Ora, come allora, abbiamo bisogno di uno statuto che regoli questi nuovi poteri costituiti.
La rivoluzione digitale è la forza dinamica più importante del mondo odierno e influenza ogni cosa, dall’intimità della vita quotidiana fino ai conflitti geopolitici. Il mondo è diventato uno solo, come mai prima d’ora. Al tempo stesso, però, si sta spaccando e dividendo. L’intelligenza artificiale e la Rete sono le forze gemelle che sospingono questi cambiamenti.
L’evoluzione dell’intelligenza artificiale è passata attraverso due fasi distinte, e ora sta entrando in una terza. La prima fase, che si può far partire dai rivoluzionari sforzi di calcolo di Alan Turing durante la seconda guerra mondiale, è stata dominata dallo Stato e dal settore pubblico, con un contributo ad ampio raggio del mondo accademico. La seconda fase è rappresentata dall’emersione della Silicon Valley dopo il tracollo del blocco sovietico nel 1989, un periodo in cui le forze del mercato vennero lasciate agire indisturbate in tutto il mondo. La terza fase, in cui stiamo entrando adesso, dovrà per forza di cose tornare a coinvolgere lo Stato, e più in generale l’ambito pubblico.
Per un certo periodo gli sconvolgimenti positivi delle tecnologie digitali (dall’incremento della connettività fra persone che la pensano allo stesso modo o studiosi di Paesi diversi all’analisi del codice genetico attraverso i big data o alla convenienza dello shopping online) sono stati al centro della scena. Ma gli sconvolgimenti negativi si sono dimostrati profondi: includono minacce al tessuto stesso della democrazia, perché sono emersi movimenti online che sfidano, o addirittura rimpiazzano, i grandi partiti politici. Tutto questo sta avvenendo nel momento in cui si profilano ulteriori sconvolgimenti legati ai progressi dell’intelligenza artificiale, con avanzamenti potenzialmente spettacolari della capacità di apprendimento delle macchine.
Ho riflettuto su queste trasformazioni negli ultimi mesi, nella mia veste di membro della Commissione speciale sull’intelligenza artificiale della Camera dei Lord del Regno Unito. I governi e gli altri organismi pubblici in questo momento devono far fronte a due compiti sovrapposti. Dobbiamo cercare di mettere riparo agli errori del passato. Ma allo stesso tempo dobbiamo garantire che la nuova ondata di innovazione trainata dall’intelligenza artificiale sia gestita in modo più propositivo, invece di lasciare che irrompa incontrollata nelle nostre esistenze. Nel nostro rapporto “AI in the Uk: ready, willing and able?“, la Commissione propone una serie di riforme ad ampio raggio che si richiamano, e attingono, a provvedimenti legislativi all’avanguardia già adottati dalla Ue e da alcuni governi nazionali.
Abbiamo tracciato i contorni di uno statuto generale per l’intelligenza artificiale, che faccia da quadro di riferimenti per gli interventi pratici del governo e di altri organismi pubblici. Gli elementi principali sono: l’intelligenza artificiale dev’essere sviluppata per il bene comune; deve operare sulla base di principi di intelligibilità ed equità; deve rispettare il diritto alla riservatezza; deve fondarsi su cambiamenti di vasta portata del sistema di istruzione; non deve ricevere mai il potere autonomo di danneggiare, distruggere o ingannare gli esseri umani.
Questi principi formano la base di un codice dell’intelligenza artificiale da sviluppare a livello nazionale e internazionale. La Commissione chiede un intervento radicale per contribuire a smantellare il monopolio dei dati da parte delle grandi corporation digitali.
Suggeriamo tutta una serie di politiche su come raggiungere questi obiettivi in modo pratico e gestibile. Per esempio, il governo britannico ha già accettato il principio che bisogna istituire dei “fondi fiduciari”, per una condivisione etica dei dati. Una questione fondamentale, a questo riguardo, è come ristrutturare il Sistema sanitario nazionale. La riservatezza dei pazienti dev’essere conciliata con l’uso dei dati a scopi di ricerca e lo scambio di dati fra medici specialisti. È importante in particolare, a nostro parere, che questi “fondi fiduciari di dati” prevedano una rappresentanza e una consultazione diretta dei cittadini. Quantomeno all’interno del Regno Unito, questi principi e queste proposte dovrebbero assicurare un sostegno largo.
Abbiamo affrontato anche i problemi di ordine geopolitico, dove la regolamentazione interna si interseca con le prassi adottate da altre nazioni. Le fake news non sono solo un problema strutturale profondo dell’era digitale, ma vengono usate direttamente come arma dalla Russia e da altri Paesi.
La Cina possiede il più potente schieramento di supercomputer a livello mondiale e si avvia ad assumere un ruolo guida nell’ulteriore sviluppo dell’intelligenza artificiale.
Forgiare accordi internazionali sull’utilizzo dell’intelligenza artificiale è un’impresa di estrema difficoltà, probabilmente, ma anche di primaria importanza. Il rapporto della Commissione si conclude con la proposta di organizzare urgentemente un vertice mondiale di leader politici per elaborare un quadro comune per lo sviluppo etico dell’intelligenza artificiale in tutto il mondo. I vantaggi della rivoluzione digitale sono enormi e hanno trasformato in modo irreversibile le nostre vite, e sotto molti aspetti le hanno trasformate in meglio. Come nelle precedenti rivoluzioni tecnologiche, le società devono trovare un modo per raccogliere i benefici dell’innovazione e al tempo stesso tenere sotto controllo i problemi e i rischi. Uno statuto che protegga i diritti e le libertà dei cittadini — una Magna Carta per l’era digitale — è il punto da cui partire.




Quando il “green” fa male all’ambiente

Quando il “green” fa male all’ambiente
Pellet, diritti di emissione, bioetanolo, stop non pianificato all’atomo: ecco i “paradossi verdi”, quando le strategie ambientali si rivelano controproducenti


Non tutti i beni vengono per giovare. È vero, questo proverbio non esiste. È semplicemente il contrario di «non tutti i mali vengono per nuocere» ma, piaccia o no, è altrettanto valido. Basta vedere la lettera recentemente inviata da un gruppo di scienziati americani alla Commissione Europea. «Apprezziamo gli sforzi fatti dalla Ue con la sua Direttiva sulle energie rinnovabili – scrivono – ma il fatto che questa includa le biomasse lignee fra le risorse energetiche a impatto zero, ha creato una forte domanda di biomassa negli Stati Uniti sud-orientali che sta mettendo a seriamente rischio la biodiversità».

Qualche anno fa, Hans-Werner Sinn ha coniato un altro modo di dire: quando una politica climatica produce anche un aumento del riscaldamento globale – ovvero l’opposto del desiderato – siamo di fronte a un «paradosso verde». L’economista tedesco si riferiva in realtà al caso particolare dei proprietari di fonti energetiche fossili come petrolio o carbone, che possono venire incoraggiati dalle normative sul clima a estrarre ancora più rapidamente le risorse dal sottosuolo, di fatto contribuendo ad aumentare le emissioni.
Allargando un po’ il campo però, di paradossi verdi ce ne sono molti altri. Il più celebre è quel a Bruxelles è stato battezzato carbon leakage, la «fuoriuscita di carbonio»: siccome emettere anidride carbonica in uno stabilimento europeo può essere costoso (alcuni settori industriali devono comprare sul mercato i diritti di emissione, teoricamente per incoraggiare l’adozione di fonti rinnovabili), l’imprenditore può decidere di trasferire gli impianti in un altro Paese dove inquinare non costa nulla. Vantaggi per il clima, zero.
Ma che dire del bioetanolo, già sbandierato da George W. Bush come fulgido esempio di soluzione climatica? Gli Stati Uniti hanno offerto sussidi agli agricoltori e imposto di miscelare la benzina con una percentuale di etanolo prodotto dal mais. Con il risultato che i prezzi di generi alimentari sono saliti, e l’impatto sui gas-serra non c’è stato, mentre i consumi di benzina sono oggi a livelli record. Se nel 2000 anche il suo rivale Al Gore sosteneva la bontà del bioetanolo, oggi tutti i gruppi ambientalisti sono contrarissimi. Era etanolo il 10% dei 540 miliardi di litri di benzina consumati dagli americani nel 2015. Peccato che, secondo un recente studio dell’Università del Wisconsin, i sette milioni di acri convertiti in coltivazioni per l’etanolo abbiano prodotto un aumento delle emissioni equivalente a 20 milioni di automobili in più.
Fra le conseguenze involontarie delle politiche energetiche, può rientrare anche il caso tedesco. Nessuno ha investito in energie rinnovabili con la pervicacia della Germania, che siede oggi su un patrimonio solare e eolico di tutto rispetto. Tuttavia, dopo che sull’onda emotiva di Fukushima ha voltato le spalle al nucleare, si è trovata costretta a bruciare un po’ di più del suo carbone (che è lignite, il peggiore). Così le emissioni hanno ricominciato a salire. È anche il caso del Giappone che, ferito dall’ennesimo disastro nucleare, importa risorse fossili come se piovesse.
In un rapporto intitolato «Le conseguenze involontarie delle politiche climatiche», il celebre contestatore del climate change Andrew Montford elenca i paradossi prodotti dal processo di decarbonizzazione (la transizione dai fossili alle rinnovabili), concludendo che è meglio lasciar perdere. Il documento è stato pubblicato da The Global Warming Policy Foundation, la quale promuove il disaccordo sulle misure per salvare il pianeta dal riscaldamento atmosferico. Il vero problema sta nel criticare il «bene» di questa gigantesca transizione energetica, piuttosto che il «male» di un drastico cambiamento del mondo così come lo conosciamo: secondo uno studio appena pubblicato da University of East Anglia e Wwf, dalle aree biologiche più diverse del pianeta potrebbero sparire a fine secolo il 50% delle specie animali e vegetali.
Sarebbe assurdo dire che le politiche climatiche siano inutili o, peggio, dannose. Semmai, i paradossi verdi servono a ricordarci che il cammino verso la decarbonizzazione è lungo, accidentato e lastricato di imprevisti. Ecco perché va programmato con attenzione, continuamente rivisto e percorso il più velocemente possibile.




Come cancellarsi da Facebook in modo completo e definitivo

Come cancellarsi da Facebook in modo completo e definitivo

Disattivare l’utenza è la via più semplice, ma per abbandonare il social network è meglio prima eliminare ogni traccia e collegamento per un addio totale

Come cancellarsi da Facebook in modo totale, completo e soprattutto pulito andando a eliminare qualsiasi informazione abbiamo condiviso sotto qualsiasi forma, senza dimenticare le applicazioni di parti terze e i servizi collegati al social network per antonomasia?
Sappiamo tutti perfettamente che esiste un comando, seppur ben nascosto, per cancellarsi da Facebook. Tuttavia, la disattivazione del profilo può non soddisfare completamente le esigenze di chi vuole, al contrario, avere la sicurezza che tutto sia eliminato come prima dell’iscrizione.
Come a passare la pialla e livellare tutto. Forse un po’ paranoico, ma giusto. Per questo motivo andremo a descrivere una procedura definitiva che richiede certo un po’ di impegno e un po’ di tempo per completare in modo manuale ma rigoroso un totale abbandono di Facebook e di tutto ciò a esso collegato.
Insomma, invece che limitarsi a disattivare l’account, per una maggiore efficacia si possono andare a eliminare tutti gli elementi che abbiamo caricato, nel limite del possibile.

Backup di Facebook

Scarica informazioni Facebook
Il primo passaggio è quello di effettuare un corposo backup di tutto ciò che abbiamo condiviso negli anni su Facebook. Dunque: foto, video, messaggi della chat, elementi che abbiamo condiviso sul nostro profilo e così via. Naturalmente, se non siamo interessati a questo salvataggio è possibile saltare il passaggio.
Bisogna cliccare in alto a destra sul triangolo che punta verso il basso e scegliere Impostazioni > Le tue informazioni su Facebook > Visualizza in corrispondenza della voce Scaricare le tue informazioni. In alternativa, ecco il link diretto.
Si aprirà una pagina che consente di navigare in tutto ciò che abbiamo condiviso e di selezionare non solo i vari elementi, ma anche gli intervalli di date e il formato del file oltre che la qualità dei contenuti multimediali.
Si può cliccare su Crea il file e si dovranno attendere alcune ore perché il pacchetto sia pronto. Si riceverà un’email e si procederà procedere al download.

Cancellare tutte le chat di Facebook Messenger

Cancella messaggi Facebook plugin
Per i messaggi e le conversazioni delle chat di Messenger c’è un comodo plugin per Chrome che con un singolo click va a cancellare tutti i messaggi una volta sola. In alternativa, Messenger Cleaner.

Cancellare foto, video e album da Facebook

Per cancellare le foto, gli album e i video che abbiamo caricato nei vari anni su Facebook è necessario armarsi di un po’ di pazienza e agire in modo manuale. Bisogna accedere al proprio profilo, cliccare su Foto successivamente andare nella pagina Album.
Da qui si dovrà aprire l’album, cliccare sull’ingranaggio delle impostazioni / tre puntini e selezionare Cancella. Lo stesso vale anche per le foto che non sono contenute negli album, cliccando sull’icona matita.

Cancellare tutte le attività su Facebook con uno script

Social Book Post Manager plugin
Per cancellare tutte le attività su Facebook in automatico dunque non soltanto i contenuti multimediali, ma anche gli aggiornamenti di status e qualsiasi elemento abbiamo condiviso è possibile sempre passando attraverso un plugin di Chrome e avviando uno script che va molto lentamente a brasare tutto.
Il plugin in questione si chiama Social Book Post Manager si scarica gratuitamente dallo store del browser di Google, si avvia, si fa accesso a Facebook e successivamente si va all’attività vera e propria.
Si deve andare a cliccare su Activity log nella barra a sinistra e selezionare gli elementi desiderati da cancellare, in questo caso tutti (o tutti quelli che non abbiamo già eliminato precedentemente).
Inoltre, si può scegliere l’intervallo di tempo è la velocità alla quale lo script deve agire, da 16x a 1x. Più la velocità è bassa più l’azione sarà accurata e precisa, ma potrebbe richiedere – a seconda del computer – addirittura settimane.

Rimuovere tutte le connessioni tra Facebook e le app di parti terze

Autorizzazioni app parti terze
Il passo successivo è quello di andare a rimuovere tutte le connessioni tra Facebook e le applicazioni di terze parti. Per fare questo bisogna dare su Impostazioni > App e Siti Web e controllare tutte le applicazioni alle quali, durante gli anni, abbiamo concesso un qualche accesso alla nostra pagina Facebook.
Basta apporre l’apice sulla casella e cliccare su Rimuovi per eliminare tutte le varie connessioni, come vi abbiamo raccontato nella mini guida dedicata.

Cancellare tutti gli amici su Facebook

Friend Remover Pro plugin
Per eliminare gli amici ed evitare di farlo a mano spendendo giorni e giorni c’è un plugin di Chrome che si chiama Friend Remover Pro. Si può scaricare gratuitamente, ma non funziona sempre al meglio.
Il nostro consiglio è quello di rimuovere a gruppi di cento, massimo centoventi amici perché molte volte si inceppa. Inoltre, conviene effettuare in una sola seduta tutta l’eliminazione perché spesso spalmandola su più giorni gli amici non vengono eliminati in modo totale.

Disattivare l’account di Facebook

Disattiva utenza Facebook
Dopo tutte queste procedure siamo pronti a disattivare l’account che dovrebbe essere ormai pressoché scevro di ogni informazione, contenuto, amicizia, collegamento e quant’altro. Bisogna andare su Impostazioni > Gestione account > Disattivare l’account. In alternativa, il link diretto.
Sarà richiesta la password e appariranno alcune finestre con captcha e messaggi che tenteranno in tutti i modi di trattenerci, anche toccandoci sentimentalmente con le foto degli amici con i quali abbiamo condiviso tanti bei momenti virtuali.
Resistito ai canti delle sirene di Facebook e confermato, la disattivazione vera e propria avverrà dopo 14 giorni, intervallo di tempo durante il quale Facebook lascia la porta socchiusa nel caso volessimo ripensarci.