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Gestione di Crisi: 5 semplici azioni che il Governo non ha intrapreso nelle prime 48 ore della crisi Autostrade

5 semplici azioni che il Governo non ha intrapreso nelle prime 48 ore della crisi Autostrade

Ieri ho messo in evidenza la scarsa preparazione e l’incapacità dimostrate da Autostrade per l’Italia nella gestione di crisi legata al tragico crollo del Ponte Morandi a Genova. Oggi rivolgo brevemente la mia attenzione sull’azione del Governo, un terremo sicuramente più “scivoloso”.
Come si è comportato il Governo Italiano rispetto ad altri principi basilari del crisis management?

Convocare l’Unità di Crisi

Non si può mai enfatizzare troppo l’importanza di avere Unità di Crisi adeguatamente formate. Nell’ordinamento Italiano la responsabilità del coordinamento di emergenza sono delegate alle Prefetture che sono solitamente dotate di Unità di Crisi e Sale di Coordinamento (Crisis Room). Ma dinnanzi alle molteplici implicazioni di questa crisi (impatto sulla città di Genova, impatto sul sistema portuale, impatto internazionale, impatto reputazionale sul sistema Italia, impatto sui trasporti, impatto sul commercio, impatto sul turismo per citarne solo alcuni) sarebbe stato opportuno dare vita ad una Unità di Crisi presso la Presidenza del Consiglio con il compito di lavorare sull’evoluzione dello scenario. In pratica l’Unità di Crisi della Prefettura lavora sul quotidiano, l’Unità di Crisi della Presidenza del Consiglio dovrebbe invece lavorare con un orizzonte temporale e con una visione più ampia. Attraverso un lavoro di confronto interno e con l’ausilio degli specialisti della comunicazione di crisi, l’Unità di Crisi dovrebbe inoltre coordinare la risposta del Governo definendo posizioni, messaggi sostenibili e centralizzando il flusso informativo (vedi sotto).

Centralizzare la comunicazione

Una delle regole fondamentali della comunicazione di crisi è quella di centralizzare la comunicazione in un unico portavoce. Il Governo si è espresso (e continua ad esprimersi) a più voci, spesso dissonanti. Parlano il Presidente del Consiglio, il Vice Premier Ministro dell’Interno, il Vice Premier Ministro del Lavoro, il Ministro delle Infrastrutture e Trasporti e il suo Sottosegretario. Ciascuno pronto a rilasciare dichiarazioni (spesso avventate) senza una chiara regia dimostrando, se ce ne fosse bisogno, che la comunicazione – soprattutto quella di crisi – non può essere gestita da chi si è formato alla scuola del Grande Fratello.

Assumersi la responsabilità

L’assunzione di responsabilità rappresenta un altro importante e fondamentale aspetto della gestione di crisi. Come ho già scritto ieri, nel contesto del crisis management assumersi la responsabilità significa valutare continuamente e capire quali possono essere le possibili azioni da mettere in gioco per affrontare la situazione. La prima avrebbe dovuto essere quella di chiamare immediatamente Autostrade per l’Italia, comprendere cosa stava succedendo in azienda, valutare se l’azienda era in grado di gestire la situazione, ed eventualmente chiedere interventi immediati a sostegno delle vittime sotto il coordinamento della Prefettura. Ricordo che Autostrade è concessionaria di servizio pubblico su infrastruttura dello Stato che ha precise responsabilità di supervisione del concessionario.

Allineare toni, comportamenti e azioni

La comunicazione di crisi impone un’attenzione certosina alle parole e ai toni. Ma ancora più importante è l’allineamento e la coerenza tra azioni e parole. Il mondo anglosassone utilizza una bellissima espressione “walk the talk”. Presentarsi con la maglietta della Protezione Civile davanti ai giornalisti da parte di chi fino a ieri è stato seduto su una cattedra universitaria è un comportamento incoerente e, a mio giudizio, anche poco rispettoso della straordinaria opera dei volontari. Farsi fotografare in Sicilia davanti ad una tavolata imbandita mentre soccorritori e Forze dell’Ordine, queste ultime alle dipendenze del proprio Ministero, sono impegnate a salvare vite umane non è un comportamento accettabile. Lanciarsi in dichiarazioni avventate senza aver valutato fino in fondo le conseguenze e le implicazioni da parte di chi di professione è avvocato contribuisce a distruggere credibilità e fiducia che sono invece gli obiettivi di una corretta gestione e comunicazione di crisi.

Documentarsi e raccogliere informazioni

Uno dei principi cardine della comunicazione di crisi è la sua “sostenibilità nel tempo”. Per creare una comunicazione di crisi sostenibile è necessario da un lato raccogliere informazioni, verificarle e valutare con attenzione le conseguenze delle proprie dichiarazioni per evitare che siano prontamente smentite dai fatti e dall’altro costruire una comunicazione “action based” evitando  proclami futuri o futuribili. Questo evita il rischio di rilasciare roboanti dichiarazioni per poi dover fare marcia indietro con un evidente impatto sulla propria credibilità.
Nel corso delle ultime 48 ore il Governo Italiano ha dovuto confrontarsi con una situazione difficile e complessa. Purtroppo ha dimostrato scarsa preparazione, superficialità e incapacità di seguire le più elementari regole della gestione e comunicazione di crisi. E questo è particolarmente preoccupante.




Crisis management: oggi vi racconto una storia, quella del 8 ottobre 2001 a Linate

oggi vi racconto una storia, quella del 8 ottobre 2001 a Linate

I nostri cammini si sono incrociati l’8 ottobre 2001 all’aeroporto di Linate. Quel tragico giorno Paola, che studiava a Copenhagen, perse papà Giovanni, mamma Clara e il suo fratellino Michele di sei anni.
La incontrai in occasione del primo anniversario di quella tragedia al Bosco dei Faggi, l’8 ottobre 2002. Poi un giorno venne a trovarmi in ufficio per scrivere la sua tesi di laurea:“Crisis Management dell’incidente di Linate: il caso SAS”.
Ne ho una copia qui sotto gli occhi con la sua dedica. “A Patrick con un grazie speciale. Paola”. Potete scaricare qui dal sito del “Comitato 8 Ottobre per non dimenticare” le sue 190 pagine. Si leggono velocemente. Dovrebbe essere lettura obbligatoria per chiunque occupi una posizione di responsabilità in azienda o si occupi di comunicazione.
Ricordo di aver provato una grande ammirazione per quella dolce ragazza dal carattere forte che aveva avuto il coraggio di dedicare la sua tesi a questa tragedia. Per elaborare il suo lutto direbbero probabilmente gli psicologi. Forse per darsi una ragione.
Paola non è più con noi. Il 20 dicembre 2013, a soli 33 anni, si è tolta la vita lasciano due bimbi di 5 anni e 3 mesi. Si è arresa “al male di vivere” ha scritto una testata locale.  Un anno prima si era arreso anche suo fratello Matteo. Aveva 30 anni.
Il racconto che troverete sotto non è quello di cosa è successo. Per quello c’è la tesi di Paola. E’ solo un puzzle di frammenti che mi sono rimasti indelebili tra tanti a distanza di 18 anni e che spero possano aiutare a comprendere perché è importante per le aziende prepararsi a gestire situazioni critiche.

8 ottobre 2001

Da alcuni anni seguivo tra i clienti dell’agenzia fondata da mio padre nel 1963, Lufthansa. Il vettore tedesco all’epoca recentemente privatizzato mi aveva invitato a partecipare ad un seminario di gestione di crisi organizzato dalla IATA a Ginevra nel mese di agosto 2001. Pur avendo già una buona infarinatura sul tema, mi era sembrato indispensabile parteciparvi.
Alle 7 del mattino del 8 ottobre 2001 uscii di casa per recarmi in ufficio. Una nebbia fitta avvolgeva la città. Verso le 9 notai sull’ANSA le prime scarnissime notizie sull’incidente di Linate. Poiché SAS era membro di Star Alliance informai subito il mio referente Lufthansa in Belgio. Verso l’ora di pranzo arrivò la chiamata del vettore Scandinavo e con 3 colleghe mi diressi verso l’aeroporto.

A Linate

Ricordo il viale Forlanini deserto con una pattuglia della polizia che bloccava l’accesso. Il cielo era blu terso, quel blu che rende Milano così bella, la nebbia che aveva avvolto la città durante tutta la notte si era completamente diradata. Sceso dall’auto a Linate mi colpì immediatamente nell’aria l’odore acre del carburante per aviazione misto all’odore di bruciato. E il silenzio. Mio papà mi portava la domenica a vedere gli aerei decollare e io avevo preso centinaia di voli da quell’aeroporto. Un’atmosfera surreale per uno degli aeroporti più trafficati d’Europa.
Non avevo nessun riferimento visivo, il disastro sottostante non era visibile dal piazzale di ingresso in aeroporto.
Ricordo i corridoi deserti dello scalo. Ancora oggi ho un immagine indelebile davanti agli occhi. Quella di ombre muoversi nel corridoio sottostante gli uffici delle compagnie aeree da dove operavamo. Erano alcuni dei famigliari delle vittime che vagavano per l’aeroporto alla ricerca di qualcuno che li potesse aiutare ad avere notizie dei loro cari.
Ogni volta penso che solo chi ha attraversato il dolore della perdita di un famigliare può realmente capire cosa questo significhi. Io avevo perso mio padre 4 anni prima.

A fianco di SAS

Ho lavorato con SAS per cinque anni a partire dal 8 ottobre 2001. E ho seguito le cerimonie al Bosco dei Faggi per 10.
La differenza nelle situazioni di crisi la fanno gli uomini. Lo scrivo da anni.
All’epoca avevo 37 anni. Ricevetti la massima fiducia e quasi carta bianca dal direttore generale per l’Italia Roberto Maiorana, dal VP Europa Bjorn Allegren e dal CEO Jorgen Lindegard per gestire la comunicazione in Italia. Manager di incredibile integrità e umanità, aperti al confronto, pronti ad ascoltare ed accogliere i miei consigli.
Avevamo poche informazioni da dare. Organizzammo una conferenza stampa alle 18,00 del giorno stesso a Linate. I manager SAS Roberto Maiorana e Bjorn Ollegren al tavolo davanti ai giornalisti, io al loro fianco. Il CEO Jorgen Lindegard era su un aereo SAS insieme ai famigliari scandinavi delle vittime che volava da Stoccolma a Milano. Erano passate poco meno di 10 ore dal disastro dove avevano perso la vita 118 persone. Non avevamo molto da dire ma era importante fare vedere il volto “umano” del vettore.
Ricordo la frustrazione dei giornalisti che volevano sapere. Ricordo la nostra impossibilità a parlare di un incidente del quale non sapevamo quasi niente. Ma parlammo di quello che stavamo facendo.
Non “parlarono”. “Parlammo”. Io mi sentivo parte integrante del team SAS.
La mattina seguente, a 24 ore dal disastro, organizzammo una seconda conferenza stampa sempre a Milano.

A fianco di Jorgen Lindegard

Incontrai Jorgen Lindegard la mattina del 9 ottobre all’hotel Brunelleschi di Milano. Erano le 7 del mattino. Avevo sotto braccio la rassegna stampa, la misi sul tavolo e feci un rapido sommario della situazione così come presentata dai media italiani. Ne parlammo pochi minuti. Jorgen condivise con me e con il resto del management SAS lì presente la posizione della compagnia.
Gli chiesi come intendeva affrontare la conferenza stampa. Mi rispose “a braccio”. Gli spiegai che a mio giudizio non era una buona idea. Si convinse e mi chiese di scrivergli il discorso. Presi il mio portatile e in 25 minuti scrissi un discorso di 27 righe. 5 minuti. Poi, gli dissi, avremmo affrontato le domande dei giornalisti.
Ricordo che la sala che avevamo scelto per la conferenza stampa era troppo piccola. I giornalisti erano accalcati uno sull’altro. Non avevamo calcolato la portata mediatica dell’evento. Contattammo immediatamente la direzione dell’hotel e in 20 minuti spostammo, tra i loro mugugni, tutti i giornalisti in una nuova sala.
Quando entrammo in conferenza stampa mi sedetti sul palco al fianco di Jorgen Lindegard. Eravamo soli e il cuore non smetteva di battermi. Ho ancora vivida l’immagine di quel momento. Davanti a noi 30 telecamere schierate e un centinaio di giornalisti provenienti da tutto il mondo. Il mio compito: moderare gli interventi, tradurre le domande dei giornalisti italiani e le risposte del CEO SAS.
Ricordo la domanda del giornalista della CNN. “Lei si sente responsabile di quello che è accaduto?”. E la risposta di Lindegard: “In qualità di CEO di SAS mi sento responsabile”.

“Una lezione di stile, comportamento sociale e rispetto delle regole”

Così scrissero il giorno dopo i giornali italiani. “Una lezione di stile, comportamento sociale e rispetto delle regole. Un fair play in stridente contrasto con lo scaricabarile – classico esercizio nazionale – che impazza tra enti e società italiane a vario titolo coinvolte”, scrisse il Secolo XIX il 10 ottobre 2001.
“Efficienza, compostezza e sobrietà che rendono ancora più impari il confronto con altre espressioni e con altri atteggiamenti. (…) Troppe voci alle parole di pietà hanno preferito quelle dello scaricabarile”, commentò tra gli altri il giornalista del Corriere della Sera.

La storia dell’incidente

La storia di Linate avrebbe avuto molto da insegnarci. Prima di leggere la tesi di Paola, il migliore manuale di crisis management mai scritto, vi invito a leggervi il resoconto di quell’incidente su Wikipedia. E soffermarvi sul capitolo “Le Cause”.
In 18 anni ho raccontato una sola volta qualche anno fa, a porte chiuse su invito del country manager SAS quello che ho vissuto a Linate.
Di questa triste storia mi resta ancora una riflessione. Tutte le risorse che SAS ha messo in campo, e che Paola ha così ben documentato, non sono servite a salvarla. Paola e suo fratello sono morti l’8 ottobre 2001 sul volo SK686 insieme alla loro famiglia.
Che ciascuno tragga qualche insegnamento dalla tragedia di Genova. Quella di Linate sembra non aver lasciato traccia.




Bambina modella con il velo nella pubblicità di Gap: è polemica in Francia

è polemica in Francia

La campagna Back to School del marchio americano di abbigliamento è stata contestata sui social e dai politici francesi: «Nulla autorizza né giustifica che venga messo il velo alle bambine»


Ha circa dieci anni e fa parte del gruppo di bambini protagonisti della foto sulla home page di Twitter del marchio americano di abbigliamento GAP. Poi compare ancora in un’altra immagine, insieme a un coetaneo dai ricci esplosivi. È una delle bimbe – modelle della campagna Back to School, che è stata presentata in anteprima il 24 luglio e, per ora, diffusa solo negli Stati Uniti e in Gran Bretagna. E porta il velo.

Ma sui social le immagini sono state già divulgate in tutto il mondo, scatenando le polemiche soprattutto in Francia.
«Cominciare l’anno con il piede giusto consiste nel non metterne più uno da Gap», ha scritto su Twitter Aurore Bergé, deputata di En Marche, il partito del presidente Macron. «Nulla autorizza né giustifica che venga messo il velo alle bambine: dov’è la loro libertà? Dov’è il loro libero arbitrio? Dov’è la loro scelta? Che sia un argomento commerciale mi disgusta». E ha lanciato l’hashtag #BoycottGap.

Concorde anche Lydia Guirous, dei Républicains (destra): «Ho denunciato a più riprese questo aumento di imposizione del velo alle bambine: è un maltrattamento che calpesta i nostri valori di uguaglianza, di libertà e di laicità».

Su Le Figaro, la saggista Céline Pina protesta contro una campagna che «fa il gioco degli islamisti» per vendere. «(La bambina con il velo) non sembra molto allegra. Coperta dal velo, non dà la sensazione di essere a proprio agio e sicura come gli altri bambini. Rimane da parte, ma non è un modo per celebrare un’individualità particolarmente forte, un evidente carisma: è piuttosto l’opposto. È appartata perché indossa un segno distintivo. È difficile capire, vedendo l’immagine pubblicitaria, quali possano essere la nazionalità, la religione o la cultura di origine di ognuno dei bambini. La foto è fatta per adattarsi al contesto di diversi Paesi. Solo lei è segnata. Lei è musulmana. È definita e riassunta dall’appartenenza religiosa che il suo velo grida».
L’azienda ha risposto: «Gap Kids incoraggia i bambini a tornare a scuola celebrando le diversità», e ha spiegato che i bambini protagonisti delle foto (e anche di un video che fa parte della campagna pubblicitaria) frequentano una scuola pubblica di Harlem, a New York.
Per la Francia, però, il velo rappresenta una minaccia alla laicità del Paese: è vietato negli uffici pubblici e nelle scuole.




Emissioni, dopo il Dieselgate il paradosso: “I produttori aumentano i dati sulle emissioni di CO2 per ridurre il target”

produttori aumentano i dati sulle emissioni di CO2 per ridurre il target
Dopo lo scandalo che tre anni fa fece tremare Volkswagen e gli altri big del mercato delle auto, la nuova denuncia arriva dalla Commissione europea: le case falsificherebbero le statistiche sulle emissioni per allontanare i target percentuali di riduzione: meno 15% per il 2025 e meno 30% al 2030


I dati delle emissioni auto gonfiati di proposito “non sono un problema nell’industria nel suo complesso” e rappresentano una pratica controproducente per le stesse aziende: “Un produttore che volesse dichiarare valori diCo2 superiori potrebbe perdere significativamente in competitività e quote di mercato, cosa che non è interesse di nessuno”. Dopo l’allarme su nuovi test truccatilanciato dalla Commissione europea a Europarlamento e Consiglio Ue, reso noto nei giorni scorso dalla ong Transport&Environment, le case automobilistiche passano al contrattacco. Tramite l’associazione Acea, che rappresenta i 15 principali marchi di autovetture, l’industria rispedisce al mittente le accuse rivendica il suo contributo “per supportare la Commissione europea nello sviluppo del nuovo test di laboratorio Wltp”.

Sotto attacco il test post-Dieselgate

Proprio il Wltp, infatti, è stato messo a punto per superare le criticità del vecchio sistema di omologazione Nedc, che ha fatto da sfondo tre anni fa al Dieselgate. Ora, dopo lo scandalo sulle emissioni truccate dei motori diesel che ha travolto Volkswagen e toccato anche altri marchi automobilistici, l’allarme di Bruxelles ha sollevato sospetti anche questo nuovo sistema. Portando i commissari europei al Mercato interno Elżbieta Bieńkowska e al Clima ed energia Miguel Arias Cañete, così come gli ambientalisti, a temere per la reale efficacia delle politiche di riduzione delle emissioni auto. Falsificando sia le emissioni in fase di misurazione nei test, sia quelle dichiarate, i produttori potrebbero infatti arrivare, secondo T&E, a depotenziare in maniera significativa gli obiettivi comunitari di taglio dell’inquinamento prodotto dai mezzi a motore: i target al 2025potrebbero risultare indeboliti del 57%, quelli al 2030 del 23%. Una pratica ben lontana dall’onestà e trasparenza promessa dai grandi marchi dopo gli scandali degli anni passati e che fa sospettare gli ambientalisti di una collusione diffusa.

Bruxelles: “Dati truccati”, ma Acea: “Contro le manipolazioni”

Acea si dice “completamente d’accordo che i valori di Co2 non dovrebbero essere artificialmente aumentati di proposito in qualunque modo che potrebbe indebolire i target di Co2 post 2020”. La replica arriva dopo che la rete europea di associazioni Transport&Environment ha pubblicato la lettera inviata il 18 luglio dalla Commissione Ue a Parlamento europeo e Consiglio per allertarli e invitarli a mettere in atto una controffensiva di fronte ai presunti tentativi dei produttori di veicoli di depotenziare il nuovo sistema di omologazione Wltp. Manovre osservate dagli scienziati del centro di ricerca europeo Jrc, preoccupanti perché potrebbero ridurre la portata delle politiche europee di abbattimento delle emissioni. Il precedente test Nedc veniva svolto in condizioni troppo lontane da quelle di guida reale e prevedeva per le case automobilistiche spazi di manipolazione tali da non restituire dati rispondenti al vero. Da qui il cambio di test, passando al Wltp in vigore da settembre 2017 e l’introduzione di nuovi obiettivi di riduzione proposti dalla Commissione e adesso al vaglio di Parlamento e Consiglio Ue. In base alle evidenze ad oggi disponibili, però, non è cambiato l’approccio dei produttori di veicoli, ma solo la direzione dell’alterazione dei dati: in passato lo scopo era ottenere valori più bassi della realtà, adesso più alti. L’obiettivo, infatti, è sarebbe gonfiare i valori delle emissioni al 2020, per depotenziare gli obiettivi di riduzione della CO2 imposti dall’Europa: meno 15%per il 2025 e meno 30% al 2030. La logica è elementare: un valore di partenza maggiore fa sì che si debbano abbattere di meno le emissioni. “Ci sono evidenze di produttori che configurano i propri mezzi per il test in modo che le emissioni Wltp siano gonfiate, mentre una configurazione diversa è usata per gli Nedc per raggiungere emissioni di CO2 più basse possibile”, scrive la Commissione nella relazione allegata alla lettera.

T&E: “A tre anni dal Dieselgate, niente è cambiato”

Secondo T&E, nei vecchi test Nedc attraverso una serie di accorgimenti le case automobilistiche riuscivano a ottenere valori di emissioni inferiori rispetto a quelli reali. Adesso che l’obiettivo è invece ottenere nelle prove risultati più alti, si usano tecniche opposte che secondo la relazione del Jrc fanno aumentare i consumi di carburante del 5%. Oltre alla misurazione delle emissioni, il test Wltp prevede anche una dichiarazione della Co2emessa: anche su questo fronte, però, i ricercatori hanno individuato manipolazioni, con i valori dichiarati maggiori in media del 4% rispetto a quelli misurati, e punte del 13%. Se infatti, considerando le falle dello Nedc, il nuovo test prevede meccanismi per evitare valori dichiarati più bassi di quelli misurati, non si era previsto che le criticità sarebbero state esattamente opposte. “Appena tre anni dopo il Dieselgate, sembra che niente sia cambiato. Le case automobilistiche europee continuano a concentrarsi su come barare sui risultati dei test piuttosto che impegnarsi a produrre motori più efficienti. In questo modo, rimandano ulteriormente il passaggio alla mobilità elettrica con conseguenze negative per l’ambiente, la società e l’economia. I governi nazionali e il Parlamento europeo devono rispondere a questo abuso con target di riduzione della Co2 più ambiziosi”, dice a ilfattoquotidiano.it la rappresentante di T&E in Italia Veronica Aneris

Allarme collusione

“Considerando che solo alcuni produttori potrebbero gonfiare il dato di partenza, questo potrebbe anche portare una distorsione delle condizioni tra le aziende”, scrivono i commissari al Mercato interno Elżbieta Bieńkowska e al Clima ed energia Miguel Arias Cañete nella missiva. Tesi sostenuta anche da Acea nella sua risposta, spiegando che il problema non riguarda l’industria nel suo complesso: “Accrescere le emissioni di Co2 di proposito per gonfiare i dati di partenza Wltp non sarebbe solo controproducente nell’attuale discussione sulla Co2 ma potrebbe anche ostacolare la competitività del produttore”. Secondo il direttore esecutivo di T&E William Todts, invece, proprio il fatto che livelli di emissioni più alti porteranno probabilmente a maggiori tasse imposte sui veicoli e dunque a situazioni di svantaggio sul mercato fa pensare a un alto livello di collusione tra i produttori. “L’unico modo in cui questo trucco può funzionare è che tutti i produttori lavorino insieme”, dice Todts. Nella lettera i due commissari indicano alla presidenza di turno del Consiglio Ue e alla commissione Ambiente del Parlamento europeo, che stanno discutendo la proposta di regolamento della Commissione sui target di riduzione della Co2 per le auto, alcune soluzioni: chiarire che il dato di partenza su cui si calcolano i target è quello delle emissioni misurate e non di quelle dichiarate e prevedere una raccolta sistematica dei dati dei test Wltp. Soluzioni con cui si dice d’accordo anche Acea, mentre per T&E bisogna accertare se c’è stata collusione e infliggere delle sanzioni: “La Commissione propone solo di eliminare le scappatoie, non di punire i produttori. Questo è coerente con il modo con cui l’Europa ha gestito il Dieselgate, dove l’impegno è stato soprattutto dedicato a risolvere il caos dell’industria, e non a penalizzare i produttori per i loro misfatti. Forse è per questo che non c’è stato un cambiamento nella cultura”, dice Todts a ilfattoquitidiano.it.




Ferrero premia i suoi dipendenti: ​”Oltre 9mila euro in quattro anni”

Oltre 9mila euro in quattro anni

Aumento del 14% rispetto al contratto scaduto il 30 giugno, 4 mezze giornate di permesso per le visite pediatriche dei figli. Sono solo due due punti fondamentali dell’accordo, “frutto di un dialogo aperto e costruttivo” sottolinea Ferrero in una nota, che interesserà 6mila addetti in Italia.

“Abbiamo sottoscritto un accordo che offre ai circa 6mila lavoratori della Ferrero Italia, oltre a un buon aumento del salario variabile, anche la necessaria stabilità e continuità occupazionale. L’integrativo contiene, infatti, all’interno del capitolo investimenti area industriale, le iniziative imprenditoriali e gli investimenti che l’azienda intraprenderà nel quadriennio, anche per mantenere stabile l’occupazione del gruppo nei siti italiani”. Sono le parole di Attilio Cornelli, Mauro Macchiesi e Guido Majrone, segretari nazionali di Fai, Flai e Uila, annunciando il rinnovo dell’accordo di gruppo Ferrero, scaduto il 30 giugno 2018, sottoscritto oggi. Tre i capisaldi dell’accordo, “frutto di un dialogo aperto e costruttivo” sottolinea l’azienda in una nota: il premio di produttività – fino a 9.210 euro nel quadriennio, dai 2.220 euro per la campagna produttiva 2018-2019 ai 2.420 per il 2021-2022, con un aumento a regime del 14% rispetto a ll’ultimo integrativo –; la flessibilità – con il rafforzamento dello smart working, che si estende a tutti gli stabilimenti italiani, dopo la sperimentazione ad Alba, e la possibilità del part-time per i genitori fino al quarto anno di vita dei figli – e il tema, centrale, degli investimenti industriali nei plant italiani del Gruppo che negli ultimi mesi, grazie all’acquisizione del ramo dolciario di Nestlè negli Stati Uniti, ha ulteriormente rafforzato la sua vocazione globale.
“Al centro dell’integrativo ci sono gli interessi dei lavoratori”, sottolinea Majrone in una nota della Uila. “Non solo, infatti, l’azienda si è impegnata ad intraprendere una serie di iniziative e investimenti nel quadriennio per mantenere stabile l’occupazione nei siti italiani, ma – aggiunge – sono state incrementate molte misure di welfare”. “Tra queste voglio sottolineare l’innalzamento delle giornate di permesso per le visite pediatriche dei figli di età compresa tra 0 e 14 anni; l’aumento, rispetto a quanto previsto dalla legge, dei permessi retribuiti al padre in occasione della nascita del figlio e per assistere i genitori e/o il coniuge in caso di gravi infermità; l’attivazione di forme di part-time per i genitori al rientro dai periodi di astensione obbligatoria fino al compimento del quarto anno di vita del bambino e l’inserimento in busta paga di un contatore per le notti interamente lavorate”.
Diverse le novità che riguardano il capitolo ‘Persone in Ferrero’ – spiegano i sindacati: come accennato, l’innalzamento da 3 a 4 mezze giornate di permesso per le visite pediatriche dei figli di età compresa tra 0 e 14 anni, 2 giornate di permesso retribuito al padre in occasione della nascita del figlio oltre a quanto previsto dalla normativa vigente, 2 mezze giornate di permesso retribuito per assistere i genitori e/o il coniuge per documentata e grave infermità in aggiunta a quanto previsto all’articolo 40 bis del Ccnl, l’attivazione di forme di part-time per i genitori al rientro dai periodi di astensione obbligatoria fino al compimento del quarto anno di vita del bambino e l’inserimento in busta paga di un contatore per le notti interamente lavorate. “Come di consueto siamo riusciti a rinnovare l’accordo integrativo in tempi molto rapidi e con soddisfazione reciproca delle parti, confermando la positiva tradizione di relazioni tra Fai, Flai, Uila e il gruppo” sottolineano i sindacalisti. “Nonostante alcuni cambiamenti nella governance aziendale e nelle politiche di crescita anche tramite acquisizioni di marchi e stabilimenti all’estero, possiamo affermare che gli investimenti previsti per Ferrero Italia e il modello partecipativo di relazioni sindacali presente nell’accordo, confermano l’Italia come paese centrale e di grande importanza per il futuro della multinazionale piemontese”