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MiMoto, il primo scooter sharing elettrico senza stazioni

Nasce a Milano MiMoto, il primo ed unico servizio di scooter sharing elettrico ed ecosostenibile della città. Un’idea semplice che unisce in sé rispetto per l’ambiente, Made in Italy, sicurezza stradale, condivisione ed efficienza.
MiMoto oltre a essere una start up innovativa, è un servizio che ha l’obiettivo primario di offrire ai propri clienti finali un’esperienza smart, green e unica nel suo genere e, allo stesso tempo, migliorare la vita dei milanesi. Infatti vuole anche essere un alleato dell’amministrazione comunale che fin da subito si è dimostrata aperta e sensibile nei confronti del progetto.
“La sharing mobility milanese si arricchisce di un nuovo mezzo con il servizio di scooter sharing MiMoto, che ha anche il vantaggio di essere a zero impatto ambientale.” – dichiara Marco Granelli, Assessore a Mobilità e Ambiente del Comune di Milano – “I milanesi e i city user hanno dimostrato di apprezzare molto questa tipologia di servizi e di usarli quotidianamente. Con il loro sviluppo diventa sempre più importante che tutti rispettino le regole della convivenza e della condivisione in strada”.
Dal 14 ottobre 2017 residenti, pendolari e turisti potranno dimenticarsi lunghe code e attese: districarsi nel traffico milanese sarà molto più facile, grazie agli eScooter di Askoll scelti da MiMoto, omologati per due e con due caschi posizionati nel bauletto. Elettrici e Easy-to-usegrazie alla leggerezza del mezzo, facile da guidare e progettato per la mobilità urbana; ma anche Economico, con tariffe alla portata di tutti ed Efficiente, perché abbatte i tempi di viaggio, facendo risparmiare tempo e denaro.
Last but not leastnon c’è alcun vincolo di stazioni di ricarica. MiMoto è un servizio free floating e senza chiavi: localizzi l’eScooter più vicino tramite App, disponibile per iOS e Android, lo prenoti, parti e una volta terminata la corsa lo lasci dove vuoi all’interno dell’area operativa. Quest’ultima comprende tutto il centro della Città di Milano: le principali zone di interesse (Navigli, Città Studi, Lambrate, Morivione, Calvariate, De Angeli, San Siro e Bovisa Politecnico) e i principali distretti universitari tra cui Cattolica, Bocconi, Bovisa, Città Studi/Politecnico e IULM.
Un progetto dunque smart, user oriented e giovane, come giovani (under 35) sono i tre founders di MiMoto, Alessandro, Gianluca e Vittorio che hanno lavorato senza sosta fino ad oggi con metodo, ambizione e minuziosità al fine di offrire, all’esigente pubblico milanese, il miglior servizio possibile. I tre founders hanno cercato e trovato imprenditori e professionisti in grado di apportare al progetto un valore aggiunto, non solo dal punto di vista finanziario, ma in termini di expertise e know how, conseguendo un club deal di imprenditori di successo del settore.
MiMoto non è per noi una semplice idea che stiamo realizzando: è una sfida personale e professionale” – dichiarano i tre founders – “Lanciare sul mercato italiano un servizio di scooter sharing (che stiamo già progettando di implementare su scala nazionale ed internazionale) completamente ecosostenibile e Made in Italy, vuol dire posizionarsi come una realtà proiettata al futuro. Fin dall’inizio abbiamo deciso che MiMoto si sarebbe distinto per due plus principali: la sostenibilità e il Made in Italy. Un servizio dunque a zero emissioni, in grado di salvaguardare la salute dell’ambiente e di tutti i cittadini milanesi già sensibili a questa tematica, che contemporaneamente si renda portavoce dell’italianità dei materiali, dei servizi e delle aziende”.
I partner meticolosamente scelti sono un’ulteriore conferma di ciò: primo fra tutti Askoll, realtà italiana fornitrice degli scooter completamente elettrici. Sarà invece PLT puregreen, partner energetico emiliano-romagnolo, ad alimentare il servizio con la sua energia, prodotta esclusivamente da fonti 100% rinnovabili, mentre come partner assicurativo MiMoto ha scelto la torinese Nobis, realtà anch’essa attenta alle tematiche ambientali e supporter di progetti innovativi.
Utilizzare MiMoto significa dunque non solo usufruire di un servizio di sharing, ma adottare un preciso stile di vita e diventare ambassador di un cambiamento che mira a migliorare la qualità della vita dei cittadini, facilitando gli spostamenti urbani e fornendo, allo stesso tempo, un valido e concreto aiuto per migliorare l’aria che quotidianamente respiriamo.




La lezione di Shell a chi sottovaluta la Csr

DALLA FIGURACCIA BRENT SPAR A UNO DEI PRIMI IMPEGNI ETICI MESSI PER ISCRITTO DA UNA GRANDE AZIENDA: LA LEZIONE DI CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY DI SHELL


Corporate social responsibility: il caso Shell. Incredibile ma vero, il colosso petrolifero Shell è stata un pioniere della Csr nel mondo aziendale, ancor di più nel settore dei combustili fossili. Shell infatti ha sottoscritto uno dei primi impegni scritti di impegno etico per il rispetto dell’ambiente. Ma come nasce questo impegno? Da una figuraccia, che porta il nome di Brent Spar

Corporate social responsibility: il caso Shell

L’impegno nella corporate social responsibility di Shell è indissolubilmente legato a questa piattaforma petrolifera, la Brent Spar, che ha chiuso il suo ciclo di vita nel 1995. Chissà quanti ricorderanno le proteste che partirono in quel momento, in seguito alla decisione di Shell di affondare la struttura a 150 miglia al largo delle coste delle coste scozzesi, in un fondale di 2.000 metri. Attenzione, quella era ritenuta la scelta non solo più economica, ma anche più sicura dal punto di vista ambientale.
Gli attivisti di Greenpeace non erano d’accordo e iniziarono a protestare tentando anche l’assalto alla piattaforma, dalla quale vennero respinti con i getti dei cannoni d’acqua. La scena, trasmessa dalle tv di tutto il mondo, fece scalpore. Gli ambientalisti proponevano lo smantellamento sulla terraferma, recuperando i residui petroliferi contenuti nelle cisterne e riciclando le struttura metallica per evitare la dispersione di metalli pesanti e carburante (anche se poi si scoprì che i dati erano pesantemente inesatti). Per contro, la Shell sosteneva che la demolizione a terra sarebbe stata più pericolosa, dannosa per l’ambiente e soprattutto molto più costosa.

Le proteste per la Brent Spar

A maggio del 1995, la piattaforma Brent Spar, scortata da una nave da guerra britannica e da tre navi della compagnia petrolifera, comincia ad essere rimorchiata verso il punto definito per l’affondamento. Ma la protesta era partita in tutto il mondo: in Germania e Paesi Bassi gli automobilisti boicottavano le stazioni di servizio della Shell (si perse fino al 20% del giro d’affari), seguite da molte alte aziende. Persino Helmut Kohl fece pressioni per lo smantellamento. Alla fine gli attivisti di Greenpeace riuscirono a salire a bordo e a incatenarsi alla piattaforma.
Nonostante il governo britannico rimanesse fermo sulla propria decisione, alla fine Shell decise che la propria posizione non era più difendibile e rinunciò al proposito di affondare la Brent Spar. «La posizione della Shell come grande impresa europea è diventata insostenibile. La Spar ha acquisito un significato simbolico del tutto sproporzionato al suo impatto ambientale. Per conseguenza, le società del gruppo Shell hanno dovuto affrontare critiche di dominio pubblico sempre più intense, soprattutto nell’Europa continentale settentrionale. Molti politici e ministri sono stati apertamente ostili e molti hanno fatto appello al boicottaggio da parte dei consumatori. C’è stata violenza contro le stazioni di servizio Shell, accompagnato da minacce nei confronti del personale della Shell», fu la nota emessa dalla società. 

L’impegno per l’ambiente

Proprio dalle proteste per la Brent Spar è nato l’impegno nella corporate social responsibility di Shell che di lì a poco pubblicòil primo rapporto di sostenibilità nella storia della compagnia anglo-olandese. Nel frattempo, la convenzione OSPAR, ratificata nel 1998, prevede che tutte le piattaforme del mare del Nord debbano essere smantellate sull’esempio della Brent Spar (smantellata poi in Norvegia). «La Brent Spar ha modificato il nostro punto di vista. La Spar non costituisce, come molti ritengono, una minaccia ambientale, ma resterà nella storia come un simbolo dell’incapacità dell’industria di relazionarsi con il mondo esterno», commentò Heinz Rothermund, amministratore delegato della Shell UK exploration).
Rothemund riconobbe che la Shell non aveva preso in considerazione l’effetto delle proprie azioni sull’opinione pubblica, cosa che in futuro avrebbe sempre dovuto fare. Alla Shell conclusero che quanto era avvenuto avrebbe potuto ripetersi e che bisognava prendere decisioni in altro modo. Dovette inoltre accettare che molti non erano disposti a credere alle dichiarazioni che faceva sul proprio modo di agire in campo ambientale. «Vogliamo che in futuro le nostre azioni mostrino che gli interessi fondamentali delle imprese e della società sono del tutto compatibili; che non è necessario scegliere tra profitti e principi», concluse Cor Herckstroter, allora presidente del comitato degli amministratori. 

Il principio dell’impegno

Un’altra conseguenza dell’affare Brent Spar fu che Shell sposò il principio dell’impegno, il che significava coinvolgere nelle proprie decisioni organizzazioni diverse ed esterne all’azienda. Tali organizzazioni esterne non hanno un’autorità ufficiale sulle decisioni che la Shell stabilisce di prendere ma esercitano una forte influenza, poiché la Shell ascolta attentamente le loro opinioni.
In un articolo scritto dieci anni dopo la vicenda di Brent Spar, il presidente della Shell UK Jame Smith affermò: «Imparammo che per quanto essenziali scienza e approvazione governativa non sono sufficienti. Dovemmo impegnarci con la società, capire e rispondere alle preoccupazioni e alle aspettative della gente. Dobbiamo consultarci con loro per tempo e senza remore, pronti ad ascoltare e a cambiare. Dobbiamo ammettere gli errori e dimostrare che tentiamo di risistemare le cose e al contempo di imparare».




Anonymous torna alle origini e invita all’azione contro corruzione e povertà

L’operazione #Paperstorm chiama “alla battaglia globale per conquistare la tua libertà e la verità”. Con volantini, foto e bombolette spray sulla scia dei movimenti artistici d’opposizione della Silicon Valley pre-Amazon


Anonymous è tornato alle origini. il collettivo di hacker attivisti con la maschera del rivoluzionario inglese Guy Fawkes ha ricominciato a scorazzare in rete. In Italia, dove era rimasto piuttosto silente per parecchi mesi, le varie crew che di volta in volta avviano le operazioni di disturbo contro poteri vecchi e nuovi, chiamano all’azione per ridicolizzare i potenti e trasformare la protesta in azione politica. Così, dopo gli attacchi al Miur, ai siti di Libero e del Giornale, al blog di Salvini, adesso invitano alla protesta creativa.

Riaperto il blog di Anonymous Italia

Riaperto il blog di anon-news italia chiuso per dissidi interni, gli Anonymous italiani lanciano l’operazione #Paperstorm per invitare tutti “alla battaglia globale per conquistare la tua libertà e la verità”, con l’obiettivo di “far arrivare la nostra voce nelle orecchie di tutti i politici ed in tutte le stanze del parlamento, riguardo alla libertà di parola, la guerra contro la corruzione e l’uguaglianza.”
Tornano insomma alle origini dell’attivismo fatto di azioni dirette via computer dove il volantinaggio dalle strade si sposta in rete, le performance di strada riempiono i social e i banchetti delle firme sono rimpiazzati dalle petizioni digitali. E viceversa. Oggi Anonymous chiede di agire nella real life: “Le piazze, i luoghi comuni e le strade saranno i nostri media!”
Non sembra casuale il recupero dell’appello che fece nascere Indymedia, il collettivo di gestione dell’Indipendent Media Center nato a Seattle nel 1999 durante le proteste contro gli accordi di libero scambio del Gatt/Wto: “Don’t hate the media, become the media”. Cioè: “Sii tu stesso i media, crea i tuoi canali personali in rete, fai arrivare le tue parole ai tuoi compagni di battaglia e anche ai tuoi nemici.”

Irriverenti ed ironico come con Scientology

Gli Anonymous invitano alla creatività e all’ironia, con messaggi diretti sullo stile del Billboard liberation front, i culture jammer, i guastatori culturali che riscrivevano i manifesti delle strade della California con messaggi irriverenti e ironici. Per questo chiedono di “preparare volantini, striscioni, poster, adesivi, pennarelli indelebili o bombolette di colore”, di stampare immagini e pubblicare tutto su Imgur .
Usando questo social tornano alle origini della loro nascita quando nel 2004 usavano 4Chan, un social forum giapponese e poi americano che consentiva di pubblicare soltanto immagini e di commentarle. È li che nasce la loro battaglia contro la chiesa di Scientology, la loro prima operazione globale per denunciare l’imbroglio di sette e ideologie, ma sempre con uno spirito goliardico.
Solo dopo diventeranno un attore globale con le proteste contro la Sony e il copyright e l’operazione Payback per denunciare la censura contro Wikileaks e Julian Assange, il matematico cypherpunk creatore del sito anti-corruzione e pro-trasparenza che aveva denunciato il massacro americano dei civili in Iraq grazie ai documenti fatti trapelare da Chelsea Manning.

Hacker e attivisti goliardici

Gli Anonymous tornano quindi alle origini perché nonostante abbiamo usato le proprie capacità di sabotatori informatici per attaccare l’Isis e cacciarlo dal web con una lotta senza quartiere al Cybercaliphate dopo gli attentati di Parigi, riconoscono la loro antica vocazione, quella di occupare temporaneamente degli spazi di protesta e comunicazione e poi ritirarsi, nella speranza di aver lasciato un messaggio nelle coscienze addormentate dai social.




Come Funziona l’Algoritmo dei Principali Social

Si discute continuamente degli algoritmi e di come di fatto questi condizionino sempre più la nostra vita digitale, e dunque in ultima analisi, una parte sempre più consistente della nostra vita, del nostro tempo, e naturalmente di quale sia l’impatto per marketers e comunicatori, per brand, imprese, enti ed organizzazioni.
Una buona raccolta delle discussioni al riguardo è quella realizzata dagli amici di Dig.IT, ma in realtà essendo gli algoritmi fondamentalmente un procedimento sistematico di calcolo proprietario nessuno conosce esattamente il loro funzionamento, i criteri di calcolo, che sono noti soltanto a chi lo ha creato, a chi ne è, appunto, proprietario.
Dall’inizio dell’anno ad oggi le discussionile analisi, si sono concentrate prevalentemente su quello di Facebook, che dal 2009 ad oggi ha avuto numerosissimi aggiornamenti e relativo impatto sul news feed, ma degli oltre 100mila parametri che lo costituiscono se ne conoscono fondamentalmente solo i tre principali: affinità, peso e tempo di decadimento, anche perché essendo personalizzato non ne esiste comunque una versione unica ed universale [ndr: diffidare di chi invece vi dice di essere in grado di calcolarlo ed altre panzane].
In base a quanto ha comunicato nel tempo Facebook, spesso tutto da decodificare ed interpretare, ed in funzione dell’esperienza, è però possibile identificare con buona approssimazione, al di là dei tre principali parametri succitati, quali siano complessivamente alcuni degli altri fattori che determinano una maggior o minor visibilità di un post. Tra questi, ad esempio, come ho avuto modo di confutare sin dalla mia esperienza in qualità di social media editor de “La Stampa”, le condivisioni di post dalle fanpage di brand e newsbrand, soprattutto se generano ulteriori discussioni, sono uno dei criteri fondamentali in base al quale aumenterà, o meno, la reach, la portata, e dunque la visibilità, di un post.
Un ottimo contributo al riguardo arriva in questi giorni da parte di Ste Davies che ha pubblicato “Decoding the Social Media Algorithms. A Guide for Communicators”, in cui sviluppa e finalizza delle ipotesi estremamente ragionevoli e realistiche, tanto da indurre qualcuno a presentarle come un “leak” partito dall’interno del social più popoloso del pianeta,  sul funzionamento dell’algoritmo oltre che di Facebook anche di Twitter, YouTube ed Instagram. Vediamole, iniziando proprio da Facebook che, che che se ne dica, tra i social resta comunque il referral più importante.

  • Pare che [il condizionale resta comunque d’obbligo] inizialmente Facebook proponga ogni singolo post solo ad una piccola porzione di utenti, di persone, per testarne l’interesse ed il coinvolgimento iniziale;
  • L’algoritmo di Facebook dà comunque, in particolare dall’inizio di quest’anno, come noto, priorità ai contenuti che stimolano una conversazione tra amici e familiari;
  • Viene inoltre data ulteriore priorità ai post, ed eventualmente ai link contenuti in questi, a quanto condiviso via Messenger;
  • È un ulteriore fattore di ranking la credibilità di un utente [completezza della sua pagina, cronologia delle condivisioni ecc.];
  • Come si diceva, il contenuto del brand o del publisher condiviso da un utente e genera ulteriori discussioni avrà la priorità. Lavorare adeguatamente su questo, con i giusti contenuti, sia in termini di format che di linguaggio, affinchè le persone vi si riconoscano e dunque li condividano facendoli propri diviene assolutamente prioritario in chiave di comunicazione d’impresa;
  • Verrà comunque data la priorità ai video live perché ricevono più interazioni;
  • Naturalmente, i contenuti nativi hanno la precedenza su quelli che portano ad altri siti, al di fuori di Facebook, poiché ovviamente si ha il maggior interesse a far si che le persone permangano il più a lungo possibile all’interno della piattaforma social;
  • I post con commenti “long-form”, articolati, riceveranno una ponderazione più alta;
  • Nell’insieme il coinvolgimento è basato su un sistema di punteggi.


Si parla sempre dell’algoritmo di Facebook, e del suo impatto, come visto, mentre restano marginali gli altri social che invece hanno assolutamente un loro significato, valore e ruolo nell’ambito della comunicazione d’impresa.
Twitter, in newswire per eccellenza la cui notorietà è da sempre alle stelle mentre così non è per quanto riguarda l’utilizzo, ha complessivamente, nella mia esperienza, una reach ancora minore rispetto a Facebook con i tweet che mediamente raggiungono, che vengono visualizzati. al massimo tra il 2 ed il 5% dei follower.
L’algoritmo di Twitter, o “Algorithmic Timeline”, come lo chiama Twitter, è stato introdotto nel 2016 . Prima di allora, quando si effettuava l’accesso a Twitter il feed era in ordine cronologico inverso con gli ultimi tweet delle persone che si seguono nella parte superiore della pagina, mentre oggi non è più così. Inoltre, una nuova modifica all’algoritmo di Twitter è stata annunciata di recente, a Febbraio di quest’anno.
L’intenzione dell’algoritmo di Twitter è di rendere la timeline più pertinente, in modo che gli utenti possano cogliere i tweet importanti dalle persone con cui normalmente hanno maggior engagement che altrimenti perderebbero. Vediamo cosa ragionevolmente sappiamo dell’algoritmo della piattaforma di microblogging.

  • Il timing, in termini di tempismo nella diffusione di informazioni, resta il primo criterio nella ponderazione dell’algoritmo. Aspetto che certifica come la pianificazione dei tweet, specie se superiore alle 12 ore sia assolutamente da evitarsi;
  • La credibilità, stante tutti i ben noti problemi di troll e bot, è un fattore che viene favorito dall’algoritmo. Ecco perché ha senso e valore essere utenti certificati;
  • L’uso del limite di 280 caratteri aumenta i tassi di coinvolgimento;
  • È molto probabile che il contenuto nativo abbia la precedenza sui collegamenti ad altri siti;
  • Così come per Facebook, i tweet vengono “testati”, un tweet è servito a una piccola percentuale di utenti per misurare il coinvolgimento iniziale;
  • I mi piace, le risposte e i retweet hanno molto probabilmente un punteggio di ponderazione maggiore al contenuto twittato. Motivo, tra gli altri, per il quale ha senso fare engagement anche su Twitter;
  • Se, a livello di utilizzo personale, volete sfuggire all’algoritmo usate TweetDeck da desktop, da PC.


 
Anche Instagram da metà 2016 ha introdotto un proprio algoritmo. Se prima la vita media di un post sulla piattaforma social di foto [e video] era di 72 ore, adesso può essere mostrato per molto più a lungo, o naturalmente per un tempo molto più breve.
In tal senso il principale fattore discriminante è l’engagement.  Più like, commenti, mi piace, post salvati, risposte DM e inviati tramite DM ricevuti da un post, maggiore sarà la ponderazione dell’algoritmo. Oltre a questo i principali fattori di ranking di un post sembrano essere i seguenti.

  • Una regolarità nella frequenza di pubblicazione, a parità di condizione, è un fattore che mette in maggior evidenza i post;
  • I post condivisi tramite DM verranno classificati positivamente dall’algoritmo;
  • Gli hashtag funzionano ancora nell’algoritmo ma principalmente per la pagina Explore;
  • Anche per Instagram i post vengono “testati”, un post è servito a una piccola percentuale di utenti per misurare il coinvolgimento iniziale;
  • I generi di contenuti con cui le persone interagiscono maggiormente vengono mostrati più in alto;
  • Commentare e mettere mi piace ai post altrui aiuta a creare maggior engagement sul proprio profilo. Una logica di reciprocità che in realtà è alla base di tutti i social;
  • Maggiore il tempo speso dalle persone su un post, maggiore il ranking nell’algoritmo.


 
Mentre l’algoritmo di LinkedIn non è stato al centro di tante polemiche come quello di Facebook o Twitter, ha certamente avuto qualche “incidente di percorso” lungo la strada. Ad esempio, a Settembre 2016, LinkedIn è stato accusato di mostrare una preferenza per gli uomini rispetto alle donne quando vengono cercati potenziali candidati utilizzando la funzione di ricerca.
LinkedIn è forse stato uno dei social più aperti sul funzionamento del suo algoritmo. Nel marzo dello scorso anno, il team dedicato ai dati ha pubblicato un post sul blog intitolato “Strategie per mantenere pertinente il feed di LinkedIn” che includeva un diagramma dell’algoritmo su come combatte lo spam. Quello che emerge dal post è che LinkedIn utilizza sia l’intervento umano che il suo algoritmo per determinare la qualità del contenuto. Se un post inizia ad avere molto coinvolgimento, “le persone reali su LinkedIn” lo analizzeranno e decideranno se è abbastanza buono da essere visto da un pubblico più ampio sulla piattaforma.
Oltre a questi criteri generali, i fattori primari di ranking sembrano essere i seguenti:

  • I contenuti nativi hanno la precedenza sui collegamenti ad altri siti. Caratteristica comune a tutti i social che fa capire anche ai più ostinati, diciamo, il perché i social non possano essere canali di distribuzione primari;
  • I paragrafi di una frase dei racconti personali [attualmente] sono eccezionalmente funzionali per innescare un meccanismo “virale”. Elemento che “fa a cazzotti” con lo stile che mediamente le persone, ed i brand, adottano su LinkedIn, da tenere assolutamente presente;
  • I contenuti con alto coinvolgimento saranno analizzati dallo staff di LinkedIn e potenzialmente aperti a un pubblico più ampio. Aspetto che, anche se svolto con grande professionalità, introduce comunque soggettività;
  • Ancora una volta, i post vengono proposti a una piccola percentuale di utenti per misurare l’interesse ed il coinvolgimento iniziale.


Ultimo ma non ultimo, quello che sia per intensità di utilizzo che per numerosità di utenti è il secondo social nel mondo occidentale: YouTube.
L’algoritmo di YouTube è stato sviluppato per servire quelli che contribuiscono maggiormente al sito. Ciò si riflette in alcuni dei fattori di ranking che si basano sulla coerenza di pubblicazione e sul numero di “abbonati” di un account. Sistema che anche recentemente ha generato numerosi problemi, e critiche.
Oltre a richiedere una pubblicazione di circa 2/3 volte a settimana per ottenere la trazione algoritmica, i principali fattori alla base dell’algoritmo della piattaforma social di video sono:

  • La frequenza di caricamento di contenuti è, appunto, un fattore importante;
  • Il tempo di visualizzazione totale e la fidelizzazione del pubblico sono fattori importanti nella classificazione;
  • Anche in questo caso, un video recentemente caricato viene offerto a una piccola percentuale di utenti per misurare il coinvolgimento iniziale;
  • Più iscritti ha un account, maggiore sarà la priorità dell’algoritmo sui suoi video. Criterio quantitativo decisamente discutibile, del quale però non resta che prendere atto “giocando” in casa d’altri con regole stabilite unilateralmente. Un’altra costante di tutte le piattaforme social;
  • I video che della durata tra 7 e 16 minuti sono la lunghezza ottimale;
  • L’algoritmo di YouTube è AI. Impara, capisce e si espande;


 
Se volessimo trovare un conclusione critica potremmo tranquillamente dire che in realtà i social sono quanto di meno social possa esistere, almeno in termini di equivalenza tra socializzazione ed apertura. Walled gardens costruiti su regole e criteri unilaterali per mantenere al loro interno il più a lungo possibile gli utenti, le persone, con il fine ultimo di estrarre il maggior numero di dati da rivendere in diverse forme e formati.
D’altro canto, piaccia o non piaccia, sono assolutamente ciò che maggiormente impegna e coinvolge le persone in Rete, confermando, se necessario, che l’essere umano è un “animale sociale”, e dunque restano un punto di contatto, di relazione e di comunicazione per brand e newsbrand.
In quanto tali sono sempre più rented, endorsed e boosted media al tempo stesso. Soprattutto sono canali di monitoraggio della reputazione, attraverso appunto il social media monitoring, medium di ascolto ed indagine delle tendenze, grazie al social media listening, e fonte inesauribile di dati, grazie al social media mining. Utilizzi che sin qui sono stati assolutamente marginali e che costituiscono invece la base minima, la vera chiave di volta del social media marketing e dunque dell’utilizzo delle diverse piattaforme social in chiave di corporate communication. Altro che piattaforme di distribuzione e fonte di traffico.
Temi che naturalmente, se interessasse approfondire, ci vedono a disposizione come gruppo di lavoro, e che saranno al centro del programma del nostro master in giornalismi e comunicazione corporate.
 




Schiavi dell’algoritmo

Acquistare feltrini da mettere sotto le zampe dei mobili, almeno negli Stati Uniti, può rivelarsi un ottimo affare. E non solo per la salvaguardia dei pavimenti di casa. Un algoritmo utilizzato dai gestori di carte di credito ha infatti stabilito che chi utilizza quei dischetti rappresenta il miglior cliente possibile per le banche. E questo perchè non può che trattarsi di un individuo talmente scrupoloso da considerare insopportabile l’onta di un debito insoluto.

Ogni stagione ha bisogno di un suo idolo laico, e defunti i vari culti della Ragione, della Storia, o della Scienza, la nuova divinità è quella che porta il nome (con buona pace degli spregiatori dell’Islam), di un matematico arabo del nono secolo, Al-Khwarizm, e che, appunto, della divinità possiede tutte le attribuzioni: sembra capace di influire in modo determinante (e benefico) sulle vicende umane, è misterioso e può essere contattato solo da una ristretta, e perciò potentissima, classe di chierici.
Che l’algoritmo sia una bella (e necessaria) invenzione, è fuori di dubbio. Le pagine indicizzate da Google sono arrivate all’incredibile cifra di 30 mila miliardi. Su Facebook vengono postate quotidianamente 350 milioni di foto e 4,5 miliardi di like. Nell’arco di 48 ore, la rete genera la stessa quantità di informazioni che l’umanità ha prodotto dalla preistoria fino al 2003, e tale velocità è destinata ad aumentare.
Ogni giorno Google gestisce 3,3 miliardi di richieste provenienti dai suoi utenti. Solo grazie agli algoritmi, cioè a una serie d’istruzioni matematiche (segrete) che servono a vagliare grandi masse di dati, da una tale disordinata immensità è possibile ricavare ciò che è utile; tanto alla banca desiderosa di individuare la buona clientela che alla coppia in cerca di un ristorante romantico, ma non dispendioso, per festeggiare l’anniversario.
Il fatto è che la cieca fede nell’algoritmo (e forse anche la sua maggiore comodità rispetto al faticoso processo dell’umana valutazione) sta portando a una dilatazione piuttosto inquietante del suo dominio. Dilatazione alla quale si accompagnano i primi dubbi sulla sua effettiva imparzialità. Insomma, il nuovo culto incontra le prime (pesanti) apostasie.
Nelle scorse settimane, per restare solo in Italia, sia il Garante della Privacy Antonello Soro che quello della Concorrenza Giovanni Pitruzzella, hanno lanciato l’allarme. «L’assunzione di lavoratori, la determinazione dell’affidabilità di un prestito, la valutazione di un insegnante, persino il rating di legalità ai fini dell’aggiudicazione degli appalti sono sempre meno il frutto di una scelta umana e sempre più l’esito di selezioni algoritmiche alle quali deleghiamo quasi fideisticamente il compito di decidere aspetti determinanti della vita delle persone», ha osservato Soro. «Il consumatore», ha detto Pitruzzella, «è abituato a ritenere neutrali le informazioni che vede sul suo schermo. Invece sono selezionate da un algoritmo, e il modo in cui questo opera ha conseguenze enormi sulla formazione dell’opinione pubblica. Trovare una notizia al primo posto, o in una seconda schermata, cambia tutto, anche sulle dinamiche competitive…».
Dinanzi a una situazione nella quale la rivoluzione algoritmica non si limita ad aiutare gli esseri umani, ma finisce sempre più per orientarli e persino per predire (condizionandolo) il futuro, è lecito porsi le domande del sociologo francese Dominique Cardon: «Onnipresenti, i calcoli per noi restano un mistero. Guardiamo ai loro effetti senza esaminarne la fabbricazione. Quali sono i principi rappresentativi che animano il modello statistico usato per mettere in classifica tale oggetto piuttosto che un altro? Chi pilota la codificazione dei calcoli, e con quali obiettivi?».
Interrogativi ai quali il Garante della Privacy fornisce una preoccupante risposta: gli algoritmi non sono neutrali perchè riflettono i pregiudizi (o le intenzioni) di chi li ha concepiti. «Numerose applicazioni hanno dimostrato che gli algoritmi non sono matematica pura, infallibile e neutra, ma piuttosto opinioni umane strutturate in forma matematica e riflettono spesso le precomprensioni di chi li progetta, o le serie storiche assunte a riferimento. Con il rischio, dunque, non solo di cristallizzare il futuro nel passato, leggendo il primo con gli schemi del secondo, ma anche di assumere le correlazioni (quasi sempre contingenti) delle serie storiche considerate come relazioni necessariamente causali».
L’esempio più eloquente è quello di un algoritmo utilizzato negli Usa per calcolare il rischio di recidiva penale, che assegna ai neri una più elevata percentuale di “ricadute” solo sulla base di una certa serie storica presa a riferimento. Effetto casuale, o piuttosto voluto ?
Tutto ciò ha anche una ricaduta politica. Se è in grado di condizionare i cittadini nella scelta di un dopobarba o di un’auto, l’algoritmo può essere utilizzato anche per suggerire chi votare. L’elezione di Trump è stata segnata dal sospetto (interventi russi a parte) che la sua campagna si sia servita di un diabolico algoritmo messo a punto dalla Cambridge Analytica.
Le (temute) ambizioni politiche del capo di Facebook, Mark Zuckerberg, già dimostrano che al vecchio populismo erga omnes si può sostituire una più mirata azione dispiegata attraverso la manipolazione degli elettori-navigatori. L’impressione è che per la prima volta nella storia le chiavi del futuro siano state affidate a giocatori non solo privi di controllo democratico, ma persino di volto. Capaci di usare la matematica come, e meglio, dei missili, e dei cannoni.