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La modella con 500mila follower che non esiste

Si chiama Lilmiquela e pubblica immagini simili a quelle di una normale fashion blogger, solo che lei è fatta al computer

“Lilmiquela” è il seguito account Instagram di Miquela Sousa, una modella statunitense che da un po’ di tempo ha iniziato anche una carriera da cantante. Lilmiquela ha oltre 550mila follower su Instagram e pubblica costantemente foto di se stessa vestita con abiti di Chanel, Supreme, Proenza Schouler, Vans e molti altri marchi. I suoi post, simili a quelli di moltissime altre modelle sui social, raccolgono decine di migliaia di like, ma hanno una particolarità: ritraggono una modella generata al computer, che non esiste davvero. Almeno per quanto se ne sa.
La storia di Lilmiquela ha iniziato ad attirare le attenzioni dei giornali dal 2016, quando nacque il suo account. Il sito Business of Fashion l’ha recentemente intervistata – o meglio, ha intervistato la persona che gestisce l’account, che non ha mai voluto rivelare la sua vera identità. «Mi piacerebbe essere descritta come un’artista o una cantante, o comunque qualcosa che rispecchi quello che faccio, invece che concentrarsi sulle qualità superficiali di quello che sono». I follower di Lilmiquela sono stati soprannominati “miquelites” e hanno creato una comunità molto coesa e appassionata, come dimostrano i commenti ai suoi post ai quali Lilmiquela risponde spesso personalmente.
Lilmiquela indossa principalmente abiti di streetwear, cioè felpe, sneaker, e altri vestiti che provengono originariamente dalla cultura hip hop, non solo americana ma anche giapponese, e che da qualche anno sono una delle fette principali della moda sui social network. Nei suoi post, Lilmiquela pubblica talvolta anche immagini per sensibilizzare i suoi follower a temi come le discriminazioni verso gli afroamericani o le persone transgender. A volte la sua immagine – chiaramente prodotta da un computer – compare insieme a modelle vere, quasi sempre a Los Angeles, per strada o nei locali. Dal punto di vista del realismo, le simulazioni sono comunque migliorate nel tempo.
Business of Fashion la persona dietro l’account ha detto di non ricevere compensi direttamente dalle aziende di moda: sceglie gli outfit in base ai suoi gusti e ogni tanto riceve abiti omaggio per i suoi post, soprattutto da giovani stilisti che vogliono ottenere visibilità. L’intervista si presta a una certa ambiguità, visto che si parla di un’immagine generata al computer e di abiti veri. In molti hanno ipotizzato però che Lilmiquela – almeno nelle immagini più recenti – sia il risultato del ritocco al computer di immagini di una o più vere modelle. È per questo che la persona dietro Lilmiquela ha detto che i suoi guadagni provengono, oltre che dagli streaming delle sue tre canzoni pubblicate finora, dal lavoro come modella, che ha suscitato l’interesse di «alcune delle più grosse agenzie del mondo».

Sulla vera identità di Lilmiquela sono state fatte molte supposizioni, su YouTube, su Reddit e negli stessi commenti di Instagram. Qualcuno l’ha identificata con Nicole Ruggiero, una grafica di Los Angeles che lavora spesso con le immagini in 3D: lei ha negato, dicendo di non saperne niente. Ma il nome più circolato nelle discussioni tra i fan è quello di Arti Poppenberg, un’altra artista che dopo essere stata citata come possibile autrice dell’account si è eliminata dai social network.
Qualcuno ha ipotizzato che, dal punto di vista del successo ottenuto, l’account sia una critica molto riuscita del confine sempre più sottile tra realtà e finzione nel mondo della moda sui social network e degli influencer, spesso accusati di esibire vite e personaggi completamente fittizi e non aderenti alle loro reali abitudini e personalità. Qualcun altro crede invece che Lilmiquela sia una truffa, mentre altri ancora – la versione più accreditata – dicono sia un esperimento riuscito di un metodo alternativo di promuovere la moda sui social.




Dallo spreco al dono: il modello italiano da esportare in Europa

V Giornata nazionale contro lo spreco alimentare. L’Italia è all’avanguardia sul tema, grazie alla legge 166/2016 che mette l’accento sul recupero e la donazione delle eccedenze alimentari. Un volume curato dall’eurodeputata Patrizia Toia insieme a VITA raccoglie best practice e riflessioni sull’esperienza italiana, per farla conoscere ai colleghi del Parlamento europeo

Dal 2013, il 5 febbraio è la Giornata nazionale contro lo spreco alimentare. Su qualsiasi sito troverete oggi dei dati allarmanti, per dire quanto cibo ciascuno di noi ogni anno o ogni giorno butta nella spazzatura e qual è l’esorbitante valore economico di questo spreco. Lo spreco alimentare rappresenta in Italia il 15,4% dei consumi annui alimentari: nel complesso in Italia sono così persi 12,6 miliardi di euro all’anno, pari a circa 210 euro per persona residente. Ogni anno nell’Unione europea (Ue-28) vengono sprecate circa 88 milioni di tonnellate di cibo, circa 173 kg pro capite, per un valore complessivo di circa 143 miliardi di euro. Stimando la produzione complessiva di alimenti in Europa in 865 kg/per persona, significa che il 20% del cibo prodotto viene sprecato. Lo spreco alimentare genera evidenti costi sociali, economici e ambientali. Tutto vero e tutto giusto, dai numeri all’indignazione fino al desiderio di cambiare e promuovere comportamenti differenti.
Quel che non troverete su molti siti è invece forse la sottolineatura (e la spiegazione) di come i dati sullo spreco alimentare variano in realtà significativamente a seconda della fonte e delle diverse metodologie utilizzate per misurarlo, poiché manca una definizione condivisa di cosa sia “spreco”. Il problema è tanto grave che, dopo anni e soldi sprecati – è il caso di dirlo – per tentare di misurare lo spreco, oggi è maturata a livello europeo una nuova consapevolezza che si sta traducendo in un nuovo approccio al tema dello spreco alimentare, con la distinzione tra Food Loss, Food Waste e Food Surplus. Sempre di più si parla di “eccedenze alimentari” anziché di spreco e si predilige un approccio volto a valorizzare il recupero delle eccedenze lungo tutta la filiera, con l’obiettivo di allungare il più possibile la shelf life (la “vita sul banco”) dei beni alimentari e di destinarli in via prioritaria al consumo umano. Prevenzione della produzione di eccedenze e donazioni del cibo che altrimenti andrebbe sprecato sono infatti i due modi preferibili per combattere lo spreco di cibo. In Italia, ad esempio, due recenti lavori del Politecnico di Milano hanno messo in evidenza come un’analisi più precisa della quantificazione dello scarto, delle eccedenze e dello spreco restituisca un quadro della realtà molto diverso dall’approccio sensazionalistico con cui i media influenzano il dibattito pubblico e soprattutto come una programmazione sistematica e organizzata dei processi di gestione delle eccedenze possa dare risultati di tutto rilievo nell’ottica di aumentare le quantità di cibo recuperato e di diminuire lo spreco alimentare.
Semplificando, l’idea è oggi quella di mettere l’accento, l’attenzione e l’impegno operativo non più sulla misurazione del cibo che viene sprecato ma sulla misurazione del cibo che viene recuperato e donato: le donazioni di alimenti non solo aiutano a combattere la povertà alimentare, ma possono diventare una leva efficace per ridurre le eccedenze alimentari e i rifiuti. Fare buon uso delle eccedenze, è questo il punto decisivo per cambiare i comportamenti. E l’Italia è all’avanguardia su questo, grazie a una legge – la 166/2016, entrata in vigore il 14 settembre 2016, che in un solo anno ha già prodotto risultati di riguardo, a cominciare da un +20% nelle donazioni di cibo, con alcune aree del Sud che hanno registrato tassi di crescita del +120% in un solo anno e soprattutto l’avvio di esperienze di recupero e donazione in settori inediti, come i freschi, il pesce, i cibi già cotti – che mette il riflettore proprio sulle opportunità che esistono per mettere a buon uso le eccedenze una volta che si sono create, riconoscendo la “priorità” del recupero del cibo per fini sociali. È una legge che fin dal titolo mira specificatamente a incentivare la donazione e la redistribuzione delle eccedenze alimentari e a limitare gli sprechi, con un’ottica non punitiva, nata dal confronto diretto con chi questa legge avrebbe dovuto poi usarla ogni giorno, dal Terzo settore ai soggetti donatori.
Questa legge va fatta conoscere, nel suo testo, nei suoi principi ispirativi, nei suoi risultati: è una best practice italiana che ha molto da dire in Europa e che potrebbe essere presa a modello. È per questo che l’onorevole Patrizia Toia pensato al volume “Dallo spreco al dono. Il modello italiano per il recupero delle eccedenze alimentari”, realizzato in collaborazione con VITA, che oggi – in occasione della V Giornata nazionale contro lo spreco alimentare – viene pubblicato (qui potete scaricare il pdf).
Indice Toia Spreco
Troverete analisi, interviste, riflessioni e otto buone pratiche, dal Banco Alimentare a Costa Crociere, da Coop al Tavolo per la lotta agli sprechi e l’assistenza alimentare del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali. «Questo volume nasce con l’intenzione di far conoscere quanto fatto in Italia, affinché la nostra esperienza diventi una buona pratica da esportare a livello continentale e per anticipare quanto l’Europa sta costruendo. L’Unione europea è una delle regioni più ricche del pianeta ed è anche quella più all’avanguardia sui temi dell’ambiente e dell’economia circolare. È arrivato il momento di affrontare sul serio la questione dello spreco alimentare e di considerare l’adozione e l’estensione delle migliori pratiche nazionali, a partire da quella italiana. Siamo orgogliosi che l’Italia come in altri settori abbia proposto all’agenda europea contenuti e iniziative molto avanzate», afferma l’onorevole Patrizia Toia. «La legge 166/2016, cosiddetta “antisprechi”, ruota attorno ad un concetto molto semplice: sprecare non conviene a nessuno, recuperare è un bene per tutti. Si tratta di trasformare lo spreco in una opportunità e ridare valore ai prodotti in eccedenza, a partire dal cibo. Quando si parla di “lotta allo spreco” spesso il primo pensiero va al grande problema della gestione dei rifiuti, in particolare alimentari. Verissimo, ma ho l’impressione che in talune discussioni – anche a livello comunitario – è come se la lancetta si fosse fermata a un concetto obsoleto di economia circolare, superato anche dalle molte esperienze virtuose di aziende, enti del terzo settore e cittadini impegnati su questo versante», scrive nel suo contributo l’onorevole Maria Chiara Gadda, che alla legge italiana ha dato il nome «il contrasto allo spreco, in realtà, ci invita a riflettere in maniera più profonda sul concetto stesso di recupero e riutilizzo delle risorse, che non significa solo gestione efficace ed efficiente, ma un modello in grado di coniugare la sostenibilità sociale, economica ed ambientale di un intero sistema, che nel tempo ha purtroppo mostrato le sue criticità».
Noi abbiamo voluto mettere l’accento sul fatto che la legge italiana è un primo concreto esempio di economia circolare, tema su cui l’Unione europea è fortemente impegnata. Nel paradigma di un’economia circolare è cruciale preservare il valore dei prodotti il più a lungo possibile e i prodotti stessi sono posti al centro del processo di transizione. Ad oggi, però, questa transizione verso l’economia circolare si è concentrata più sui materiali che sui processi, fatto non casuale poiché l’economia circolare nasce dal tentativo di dare soluzione al problema dei rifiuti e gli attuali strumenti politici e commerciali si concentrano su rifiuti o materiali. Ma il design – inteso come progettazione di scenario e come rovesciamento di processi – è la sfida che si apre.
Cosa trovate nel volume? Gli interventi di Alessandro Perego, direttore del Dipartimento di Ingegneria Gestionale del Politecnico di Milano; Jacques Vandenschrik, presidente della Federazione Europea Banchi Alimentari; Patrizia ToiaSimona BonaféElena Gentile Brando Benifei, parlamentari europei; Maria Chiara Gadda, deputata italiana, promotrice della legge 166/2016; Serge LatoucheAldo Bonomi Luigino Bruni. Per le best pratice: “Banco Alimentare. I pionieri del recupero delle eccedenze”, raccontata da Marco Lucchini, Segretario Generale Fondazione Banco Alimentare; “Costa Crociere. La prima volta di una nave”, a firma di Stefania Lallai, Sustainability and External Relations Director, Sustainability and External Relations Department; “KFC. Il pollo fritto entra nel menù”, con la voce di Corrado Cagnola, Amministratore Delegato; “Italmercati. Una rete per l’ortofrutta”, nelle parole del presidente Fabio Massimo Pallottini; “Federdistribuzione. Strutturare i processi aziendali”, a firma di Stefano Crippa, Direttore Area Comunicazione e Ricerche; “Coop. Un volano per la far crescere le donazioni”, spiegato da Mauro Bruzzone, Responsabile Politiche Sociali ANCC – Coop; Luciano Gualzetti, Direttore di Caritas Ambrosiana racconta l’impegno di Caritas Ambrosiana dal Refettorio Ambrosiano di Bottura agli empori solidali e infine Felice Assenza, Presidente del Tavolo per la lotta agli sprechi e l’assistenza alimentare del Ministero delle politiche agricole alimentari e forestali, presenta il Tavolo innovativo istituito dalla Legge 166/2016.



L’economia circolare va al mare

La buona notizia di questa settimana è che per un’impresa adottare l’analisi del ciclo di vita (LCA) per valutare gli impatti ambientali dei prodotti e delle attività produttive può portare ad interessanti scoperte. È il caso di Aquafil, azienda trentina che da anni investe per trovare soluzioni innovative utili al business ma anche all’ambiente.
L’impresa ha scoperto che la maggior parte dell’impatto della produzione di un filo di nylon è dovuto alla produzione delle materie prime: da qui è partito il progetto ECONYL Regeneration System, un sistema innovativo che permette di sostituire la materia prima vergine di origine non rinnovabile con materia prima seconda derivante dal riciclo di rifiuti raccolti in mare.
Dal mare, per il mare: reti da pesca, scarti tessili e scarti di altri tessuti vengono raccolti, ripuliti, triturati e imballati e si trasformano in costumi da bagno venduti in tutto il mondo. Un processo di trasformazione e rigenerazione che rimette in circolo materiali trasformati in fili per tappeti e tessili. Aquafil può affermare che l’economia circolare non è una interessante teoria ma una realtà che migliora il business.
Cosa c’è di nuovo
Riciclare è sempre meglio che produrre consumando risorse preziose ma il riciclo non è sufficiente per sostenere l’industria nel suo sviluppo futuro. Per questo Aquafil coinvolge diversi partner della catena di fornitura per trovare soluzioni sempre nuove: grazie al progetto ECONYL® Qualified l’azienda cerca di stimolare l’eccellenza nella catena di fornitura per rendere la filiera sempre più virtuosa. Con quattro aziende con cui collabora ha creato alcune Linee Guida con cui i fornitori dovranno misurarsi per ottenere il riconoscimento di fornitore ECONYL® Qualified.




Il Cattivo di Turno – AKA Facebook – & il suo Ciclo di Vita

La scorsa settimana la copertina di Wired, e la relativa “cover story” dei «due anni che hanno scosso Facebook, e il mondo intero», di feroce critica al social più popoloso del pianeta, sono state riprese, commentate e enfatizzate, da tutti i media del mondo.
Altrettanto è avvenuto con i dati di eMarketer dai quali emergeva una flessione significativa nell’utilizzo di Facebook da parte dei giovani statunitensi e britannici. Notizia anche in questo caso ripresa ed amplificata dai media a livello internazionale, e naturalmente anche in Italia, con evidente malcelato gaudio dei segnali di difficoltà della piattaforma social.
Un j’accuse così potente da spingere Campbell Brown, l’ex giornalista della CNN assunta poco più di un anno fa per occuparsi delle “news partnership”,  a sentenziare che «Voglio essere molto chiara rispetto al fatto che il mio lavoro non è di reclutare persone dai publisher per mettere le loro cose su Facebook. Il mio lavoro non è convincerli a rimanere su Facebook. Se qualcuno ritiene che essere su Facebook non sia adatto alla sua attività, non dovrebbe essere su Facebook. Parliamoci chiaro. Il mio lavoro non è rendere felici gli editori. Il mio compito è garantire che ci siano notizie di qualità su Facebook e che gli editori che vogliono essere su Facebook e vogliano fare notizie di qualità su Facebook abbiano un modello di business che funzioni. È molto diverso. Quindi se qualcuno sente che questa non è la piattaforma giusta per loro, allora non dovrebbe essere su Facebook. Non ci consideriamo la risposta al problema».
Risposta frutto, anche, delle ulteriori accuse giunte dal Brasile da parte del “Folha de S Paulo”, che pochi giorni prima aveva annunciato che non pubblicherà più i propri contenuti sulla sua fanpage mantenendola aperta [la pagina ha 6 milioni di fan] ma senza aggiungere nuovi contenuti, dando voce ad una chiara ostilità, che potrebbe allargarsi a macchia d’olio visto quel che succede anche in altri Paesi,  e resa, appunto, ancor più manifesta da Wired e dall’enfasi sui dati di eMarketer succitati, con alcuni organi d’informazione economico- finanziaria del nostro Paese che addirittura dedicano la loro copertina al “declino di Facebook”, con un punto interrogativo messo lì più per dovere che per convinzione, citando anche altri elementi con possibili ripercussioni negative emersi negli ultimi giorni.
Se a questo si aggiungono, in particolare in Europa ma non solo, la “Netzwerkdurchsetzungsgesetz”, legge tedesca entrata in vigore dal 1 Gennaio di quest’anno con multe sino a 50 milioni di euro se i social non rimuovono tempestivamente “fake news” e incitamenti all’odio, che pare Macron in Francia voglia “copiare”, e la sentenza in Belgio che minaccia di multare Facebook per un importo sino a 125 milioni di euro se non si adeguerà alla legge sulla privacy del Paese, si capisce come non sia certo un  buon  periodo per Zuckerberg  & Co.
Se sulle attuali difficoltà di Facebook non ci possono essere dubbi, come ha riconosciuto lo stesso Zuckerberg nella recente presentazione dei risultati 2017, da qui a predire la “Facebook apocalypse”, il declino e la scomparsa della piattaforma social ce ne passa. Vediamo di mettere ordine al riguardo partendo da quello che è uno dei “basic” del marketing: il ciclo di vita di un prodotto/servizio, come anticipavo nella mia intervista a  Radio InBlu, il network radiofonico nazionale di matrice cattolica.

Il ciclo di vita, per dovere di cronaca nei confronti di coloro che non fossero familiari con il tema, viene tradizionalmente caratterizzato da quattro fasi: introduzione, sviluppo, maturità e declino o, in alternativa, rivitalizzazione. E qui sta il punto.

I prodotti o i servizi, quale Facebook semplificando per sintesi, hanno un loro ciclo di vita che ricorda un po’ quello umano. I prodotti/servizi hanno però il vantaggio di poter rinascere in uno stadio della loro vita e, utilizzando nella maniera giusta gli ingredienti del marketing mix, possono anche evitare il loro declino.
A 14 anni dalla nascita, al di là delle singole questioni, non vi è dubbio che Facebook sia entrato, con oltre due miliardi di utenti attivi nel mese secondo gli ultimi dati, nella fase di maturità e quindi potenzialmente sia prossimo alla fase di declino [che evidentemente può avere comunque tempi più o meno dilatati o, altrettanto, più o meno rapidi].
Se si osserva il trend del numero di utenti attivi – vedi grafico sottostante – si vede come negli ultimi due anni la crescita non sia generata, se non in maniera relativamente marginale, da USA/Canada e Europa, con addirittura un calo di 700mila iscritti oltreoceano nell’ultimo trimestre. Il problema è che anche nel resto del mondo sinché non riuscirà ad entrare nel mercato cinese, cosa tentata più volte e si qui mai realizzata, la crescita e lo sviluppo, almeno sotto il profilo quantitativo, sono plafonati, suscettibili di incrementi relativamente modesti.

Per quanto riguarda i giovani la perdita è fisiologica, e molto sicuramente continuerà, almeno a livello di frequenza di uso se non di valori assoluti, poiché ovviamente i teenager non vogliono trascorrere il loro tempo nello stesso luogo dove stanno i loro genitori e forse anche i loro nonni. Avviene nella vita reale ed ancora una volta quel che accade con Facebook dimostra quanto debole sia ormai la separazione tra online e offline. Altro elemento che per quanto riguarda USA/Canada ed Europa, i mercati a maggior redditività per Facebook, non gioca a favore della piattaforma social.
È in funzione di questi elementi, giustificati da una ricerca la cui irrilevanza è evidente fosse solo per il fatto che Facebook non ha bisogno di farne sapendo precisamente tutto su ciascuna persona iscritta, che Zuckerberg, come noto, ha scritto il 12 Gennaio scorso un post pubblicato sulla sua pagina Facebook nel quale ha annunciato maggior attenzione e priorità alle interazioni tra le persone. Raggiunta la fase di maturità, con ormai un livello molto vicino alla saturazione del news feed anche in termini di affollamento pubblicitario, che del resto Facebook considera come un pericolo da fine 2016, non resta che tentare la carta di far aumentare le interazioni tra coloro che sono già iscritti così da mantenerli “felici” ed al tempo stesso profilarli meglio e di riflesso vendere la pubblicità a prezzi maggiori.
Si tratta di “una scelta obbligata” che Facebook ha compiuto nel momento giusto per i propri interessi, almeno finché non potrà contare anche sul mercato cinese, cosa che potrebbe anche avvenire in tempi ancora molto lunghi, o non avvenire affatto naturalmente. Si deve certamente anche a questo nuovo indirizzo strategico la posizione espressa da Campbell Brown citata in apertura dell’articolo. Allo stato attuale, nel breve-medio periodo non vi è altra possibilità per rivitalizzare il ciclo di vita del social network, anche perché è evidente che l’alternativa, che qualcuno suggerisce, è assolutamente peregrina e non garantirebbe neppure lontanamente gli attuali ricavi, figurarsi una espansione/rivitalizzazione.

È però necessario fare dei distinguo che nell’ambito del piano di Facebook potrebbero fare la differenza, e naturalmente non solo per la piattaforma social ma anche per brand e newsbrand, seppur in modo distinto per ciascuna di queste macro-categorie.
Se infatti si comprendono, come detto, i motivi alla base delle recenti scelte di Facebook sono i dettagli e le modalità con cui questo avviene che lasciano quantomeno perplessi.
Le communities, quelle su cui ora Facebook preme l’acceleratore, qualsiasi community, vive dello scambio di informazioni senza le quali implode, cessa di esistere. Lo ha spiegato bene Manuel Castells quando ha parlato di “Informazionalismo”, dicendo che «La Rete è un ecosistema sociale che, abbattendo le barriere spazio temporali, favorisce la comunicazione. La sua stessa natura è lo scambio d’informazioni». Da questo punto di vista porre sullo stesso piano i newsbrand ed i brand, penalizzandoli in egual misura, è un errore sia tattico che strategico.
Si tratta di un errore tattico poiché, seppure il concetto di media è mutato completamente rispetto al passato, con l’ecosistema dell’informazione che è fatto sempre più non solo dai legacy media ma anche dalle piattaforme social, dagli “influencer”, e da molto altro ancora, è chiaro che il peso dei newsbrand, inclusi i broadcaster, resta importante e scontrarsi con loro in maniera diretta non è assolutamente conveniente e consigliato, come dimostra quanto riportato in apertura dell’articolo e, se necessario, conferma, per contro, l’ottimo lavoro svolto da Google in tal senso nell’ultimo triennio. Che da allora ad oggi le parti si siano invertite con Alphabet a giocare la parte del “buono” e Facebook sempre più quella del “cattivo” lo testimonia con estrema chiarezza.
É un errore strategico per almeno due motivi. In primis perché se si escludono pochi brand, dovendo azzardare una stima non più di 500 al mondo, gli altri non creano contenuti di qualità, non sviluppano una politica di relazione sui social, a cominciare da Facebook, e dunque effettivamente il loro valore è tendente a zero.  In tutto il mondo le piccole-medie imprese non hanno né le risorse né la cultura per creare valore attraverso la produzione di contenuti. Va bene che usino Facebook, ed eventualmente gli altri social, così come usano/usavano le televisioni ed i giornali locali, come un mezzo a pagamento dal quale possono trarre vantaggio pagando.
Ben diverso è invece il discorso per quanto riguarda i newsbrand che, al netto delle critiche, a volte anche “spietate”, mosse in questi spazi, possono avere un ruolo molto importante per Facebook, e viceversa. Come abbiamo detto, l’aumento di visibilità di contenuti che vengono dai vicini, dai propri contatti, può accentuare l’effetto chiusura in bolle di opinioni omogenee [deriva già da tempo presente su FB], mentre in questo il ruolo dei newsbrand, se svolto correttamente e non come invece prevalentemente finalizzato sin qui, può quantomeno attenuare il fenomeno.
Inoltre, l’idea di affidarsi, ed investire, su “community leaders”, può essere di contorno, di supporto alla nuova strategia di Facebook, ma è evidente che da sola non sia sufficiente. Se, come abbiamo detto, qualunque community vive di informazioni senza le quali implode, svanisce, il ruolo dei newsbrand, che guarda caso sono conosciuti anche come, appunto, industria dell’informazione, può essere cruciale per la rivitalizzazione del social network. É per questa ragione di fondo che penalizzarli in egual misura come i brand, oltre ad essere un errore tattico è un errore strategico.
Certo, come abbiamo scritto più volte, anche di recente, i newsbrand dal canto loro devono cessare una volta per tutte l’attuale approccio basato sui click e mettere, finalmente, al centro le persone. Uscire dalle loro “paginette” ed entrare in relazione veramente con le persone e le diverse communities d’interesse. É necessario entrare nelle communities, nei gruppi e fornire loro notizie, informazioni, argomenti di loro interesse. Stabilendo veramente una relazione e creando nuovi spazi di confronto e discussione nei propri siti web per valorizzarla, come ho provato a spiegare in maniera approfondita, non più tardi di ieri, sul sito della FERPI, la Federazione Relazioni Pubbliche Italiane, con cui collaboro attivamente in qualità di membro del comitato scientifico di “InspiringPR”
Facebook senza informazioni rischia seriamente di diventare sempre meno importante e interessante ed anche l‘idea di superare il problema delle “fake news” chiedendo direttamente alle persone se conoscono una certa fonte giornalistica [un sito, un giornale, una tv] e  se si fidano di quel media, comunicata il 19 Gennaio scorso, è pessima. Se infatti teoricamente sarebbe meraviglioso concettualmente affidare direttamente alle persone la valutazione dell’affidabilità dei media, compiendo così finalmente un percorso di “democrazia dal basso”, non è per nulla certa la capacità di giudizio e di discernere sull’affidabilità delle fonti, sia per il ben noto fenomeno del “confirmation bias” che per limiti culturali, diciamo, che del resto sono proprio quelli che contribuiscono alla diffusione delle “fake news”. Lo ha spiegato bene in una battuta Massimo Russo, Managing Director, Digital Division GEDI e Ceo HuffPostItalia, che al riguardo ha scritto: «Vi prego, qualcuno dica a Mark che la folla è quella che, messa di fronte alla scelta da Ponzio Pilato, decise compatta di liberare Barabba #nonimpariamonulla?»
É insomma giunta davvero l’ora che Facebook ed i newsbrand stabiliscano una relazione “win-win”, basata su regole condivise. Non possono che guadagnarne entrambi se questo avverrà.
 

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Paolo Bellavite. Vaccini sì, obblighi no: la prospettiva della nostra Costituzione

Primo nella classifica bestseller di Ibs del settore “Medicina”, nell’ambito di un dibattito infuocato in Italia sull’obbligatorietà dei vaccini Paolo Bellavite offre nel libro ‘Vaccini sì, obblighi no’ un contributo chiaro, completo, nell’ottica della Costituzione italiana.

Autore del libro ‘Vaccini sì, obblighi no’, volume assai interessante, Paolo Bellavite è autore di oltre 250 pubblicazioni scientifiche, oltre 140 delle quali citate nella banca dati PubMed, e diversi libri pubblicati anche all’estero, dagli Usa al Brasile.
Il titolo per esteso del libro che è balzato al numero uno dei bestseller di Ibsnel settore ‘medicina’ è ‘Vaccini sì, obblighi no. Le vaccinazioni pediatriche tra evidenze scientifiche e diritti previsti nella costituzione italiana’. Qui spiega la sua posizione: i vaccini sono utili mezzi di prevenzione delle malattie infettive e vanno raccomandati nell’ambito di un consiglio terapeutico che prevede il consenso informato del paziente o dei genitori. Tuttavia, l’imposizione di vaccini all’intera fascia pediatrica della popolazione desta perplessità per varie ragioni di tipo tecnico-scientifico, essendovi la possibilità che si riveli inutile al fine della salute della collettività o persino controproducente.
Poiché la Costituzione tutela la salute del singolo e l’interesse della collettività, ciò che va verificato nel concreto è in primo luogo se l’imposizione di un determinato trattamento sanitario sia veramente necessaria e, in subordine, se questo trattamento non presenti delle conseguenze che, per il prolungarsi dell’effetto nel tempo e per l’entità delle stesse, eccedano una normale e tollerabile intensità.
Queste problematiche sono affrontate, nel libro, utilizzando le più recenti conoscenze di epidemiologia, immunologia e patologia generale. I principali filoni di studio di Bellavite e collaboratori hanno riguardato difatti gli aspetti molecolari e cellulari dell’infiammazione, con particolare riguardo a struttura, biochimica e funzione delle cellule del sangue, con competenze che spaziano dalla nutraceutica alla storia della medicina e alla bioetica.

Le caratteristiche dei vaccini della legge 119/17

Le caratteristiche dei vaccini della legge 119/17

Professor Bellavite, il suo libro è stato ferocemente criticato, con attacchi personali anche pesanti, da persone – inclusi alcuni colleghi – che hanno ammesso di non averlo neppure letto, e per contro elogiato come una “rivelazione” da cittadini – segnatamente, genitori – fermamente contrari ai vaccini per partito preso. Cosa si sente di rispondere agli uni e gli altri?
A chi mi critica senza neanche leggere ciò che scrivo, non ho davvero nulla da dire. Ai cittadini interessanti a questi temi, parlo ogni giorno soprattutto tramite i social network, e facendolo mi sono reso conto che i genitori contrari ai vaccini “per partito preso” sono pochissimi; la gran parte di coloro che sono “esitanti” oppure “critici” verso i vaccini lo sono diventati per esperienze negative di tipo personale o per essere venuti a conoscenza di tali criticità da altri, e semplicemente vogliono delle risposte. Le grandi associazioni dei “free-vax” – che purtroppo tendono facilmente a diventare alfieri dei “no-vax” – sono sorte per tutelare e sostenere le cause di risarcimento di coloro che, a torto o a ragione, ritengono di aver avuto danni da vaccinazione. In questo scenario, una cosa è certa: la legge voluta dal ministro Lorenzin non ha certo risolto il problema degli “esitanti”, ma invece lo ha acutizzato, ha dato ulteriori argomenti di protesta per questi gruppi di persone.
Quando scrive – non senza ragioni a supporto – che la situazione italiana non è a suo avviso tale da richiedere un Decreto per l’obbligatorietà di certi vaccini, in quanto non vi sono state – né vi sono all’orizzonte – delle epidemie, non considera che tali epidemie non hanno avuto luogo proprio grazie al fatto che la copertura vaccinale è stata in passato molto alta? Molti specialisti affermano “Meglio prevenire, che correre ai ripari quando gli ospedali sono saturi d’infetti”…
Per quanto riguarda la prima parte della domanda, una cosa è certa: l’unica “epidemia” negli ultimi cinque anni è stata quella del 2017, di morbillo, che ha interessato meno di 5.000 italiani ed ha toccato l’apogeo in una settimana in aprile, quando si sono ammalati circa 200 italiani, di cui solo circa 50 bambini. Quindi, la più “grave” di tutte le epidemie degli ultimi anni (a parte l’influenza, ovviamente) ha interessato al massimo un bambino per settimana ogni milione di abitanti, qualcuno di più a Roma, qualcuno di meno a Milano. Qualche Regione è stata più coinvolta (Lazio, Piemonte, Abruzzo), altre meno (Val d’Aosta, Puglia, Molise), senza alcuna correlazione col numero dei vaccinati. Come morbilità elevata (circa 50,000 casi/anno) esiste anche la varicella, che però è molto meno grave del morbillo ed il cui vaccino ha peraltro dei suoi particolari problemi. Nel mio libro ho affrontato analiticamente la questione dell’efficacia dei diversi vaccini nella prevenzione delle epidemie. Certo che è meglio prevenire che curare, sono io il primo a dirlo. Quello che contesto è la utilità, a tal fine, di un obbligo generalizzato per 10 vaccini imposto alla sola fascia pediatrica, con – e questo è assurdo – scappatoie comunque con pagamento della sanzione. A nessuno è vietato vaccinarsi, anzi è consigliabile farlo: il piano vaccinale aveva persino già previsto la gratuità. Il Veneto, senza obblighi di nessun tipo, aveva le più alte coperture.

L’immunità di gregge, o di gruppo, è il fenomeno per cui raggiunto un certo livello di copertura vaccinale tra la popolazione, di solito il 95%, anche gli individui non vaccinati (perché troppo piccoli, o immunodepressi, o deboli in quanto malati) godono dei benefici dell’immunizzazione ugualmente, in quanto circondati da individui vaccinati e che quindi non trasmettono la malattia ed evitano anche il propagarsi delle patologie infettive .

L’immunità di gregge, o di gruppo, è il fenomeno per cui raggiunto un certo livello di copertura vaccinale tra la popolazione, di solito il 95%, anche gli individui non vaccinati (perché troppo piccoli, o immunodepressi, o deboli in quanto malati) godono dei benefici dell’immunizzazione ugualmente, in quanto circondati da individui vaccinati e che quindi non trasmettono la malattia ed evitano anche il propagarsi delle patologie infettive .

I dubbi di costituzionalità sul Decreto Vaccini da lei espressi nel libro paiono ormai superati dalla recente pubblicazione delle motivazioni della corte costituzionale. Da ricercatore attento a questa tematica, come commenta la decisione della Corte?
Ho scorso velocemente il lungo documento. Vi sono riportate in maniera meticolosa le motivazioni dell’Avvocatura della Regione Veneto e di altri ricorrenti e poi quelle, opposte, dell’Avvocatura dello Stato. Alla fine, la Corte sposa la versione della Avvocatura dello Stato. In estrema sintesi, secondo la Consulta non è “irragionevole”, nell’attuale contesto e allo stato “delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche”, l’intervento del legislatore che “ha ritenuto di dover rafforzare la cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale”. Ma, conclude la Corte, “nulla esclude che, mutate le condizioni, la scelta possa essere rivalutata e riconsiderata”. In pratica, ha dato una lettura politica in cui prevale la tesi dello Stato. La motivazione per cui sarebbe legittima la imposizione di una volontà statale in materia di vaccini si baserebbe, semplificando, sul fatto che lo Stato stabilisce i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), i quali a loro volta comprendono i vaccini gratuiti.
Ergo, sarebbe legittimata anche la decisione di imporli per legge. Quello che era un “diritto” e prevedeva comunque un consenso al trattamento sanitario (LEA), diventa un “dovere”, in cui il consenso è un “optional”. Sul piano medico-scientifico, va osservato che le cosiddette “condizioni epidemiologiche e le conoscenze scientifiche” fatte proprie dalla Corte sono quelle descritte dalla Avvocatura dello Stato, la quale ovviamente riporta il parere del Ministero della Salute, che è l’ente che ha proposto il Decreto. Un perfetto corto-circuito di auto-referenzialità. Circa l’affidabilità di questi dati, venduti come incontrovertibili, basta ricordare che i vertici sanitari hanno dichiarato ripetutamente che in Inghilterra negli anni scorsi c’erano stati centinaia di morti di morbillo, cosa assolutamente falsa, hanno poi lanciato l’allarme del morbillo in Italia sostenendo che “l’epidemia” era dovuta al calo di coperture (calo che è stato minimo, e solo per due anni), prevedendo che le Regioni con bassa copertura sarebbero state le più a rischio, cosa che non si è verificata, stimando 670.000 bambini suscettibili (quando poi se ne sono ammalati meno di 1000 in tutto l’anno) e previsto una recrudescenza dell’epidemia in settembre, che non c’è stata. E il morbillo, in pratica, è l’unica emergenza con cui si giustificherebbe l’obbligo di molteplici iniezioni di 10 vaccini ai soli bambini, tra cui l’epatite B del De Lorenzo, pena la esclusione da scuola dei più piccolini o una multa ai genitori dei più grandi, la quale multa per legge estinguerebbe il pericolo epidemico. Ebbene, quando uno Stato basa le proprie decisioni in campo di politica sanitaria su delle bugie, a mio avviso abbiamo dei seri problemi.
Lei critica la scelta dell’Italia che ha interpretato le linee guida europee sui vaccini come “un’estensione dell’obbligatorietà”, mentre sono diversi i paesi europei dove da 6 a 11 vaccini sono obbligatori, e in Finlandia – dove pure non sussiste l’obbligatorietà, questa è richiesta a gran voce da un movimento di genitori preoccupati per i rischi in termini di salute pubblica. Come commenta?
A livello europeo esistono precise strategie coordinate di contenimento delle infezioni mediante i piani vaccinali. Gli obiettivi e i metodi di tali piani sono enunciati nell’”European Vaccine Action plan” 2015-2020, emanato dalla sezione europea dell’OMS. Gli obiettivi sono cinque: 1) Indicare la immunizzazione come priorità; 2) Le persone capiscono il valore dell’immunizzazione e domandano la vaccinazione; 3) I benefici sono equamente estesi a tutta la popolazione; 4) Forti sistemi di immunizzazione sono parte di un sistema sanitario efficiente; 5) I programmi di immunizzazione hanno adeguati finanziamenti e prodotti di alta qualità. Di particolare interesse è l’obiettivo “2” dove appare chiarissimo che la vaccinazione sia una “richiesta” da parte delle persone. L’indicatore del progresso di tale obiettivo è “la percentuale di Paesi che hanno sviluppato un piano di comunicazione in caso di una epidemia”, vale a dire la capacità di mettere in atto adeguati programmi di informazione per fronteggiare degli aumenti di malattie infettive prevenibili col vaccino, ed è bene ricordare che l’ultima campagna di informazione e sensibilizzazione in Italia data 14 anni fa. Alla fine (anno 2020) ci si pone come obiettivo finale che “tutti i 53 Paesi abbiano un piano di comunicazione”. Tutto il programma europeo è basato sulla informazione e la responsabilizzazione del cittadino; in nessuna parte del programma si parla di obblighi vaccinali da introdurre. L’Europa domanda che si organizzino programmi di informazione ai cittadini sui benefici e (cosa che in Italia pare una bestemmia solo a dirsi) sui rischi dei vaccini, particolarmente per ciò che concerne la possibilità di fronteggiare gli “outbreaks” (eventuali aumenti epidemici di malattie infettive prevenibili col vaccino). Qualcuno ha sollevato il dubbio che le decisioni in alcuni Stati membri possano essere “influenzate” da altre fonti e altri criteri, con vari “canali” attraverso cui le politiche vaccinali possono essere condizionate; al netto di queste osservazioni maliziose, pare piuttosto evidente che la strategia dell’obbligo decisa in Italia e in alcuni alti Paesi è contraria a quanto deciso e raccomandato a livello europeo.
I vaccini sono farmaci, possono quindi presentare degli effetti collaterali. Pur tuttavia, la frequenza di effetti avversi scientificamente documentati e ben inferiore a molti dei più comuni farmaci in commercio. Come mai allora questa “ipersensibilità” sui tema vaccini?
Il discorso sarebbe lunghissimo e delicato, cerco di riassumerlo in tre punti.
Uno. I vaccini non sono farmaci in senso stretto, perché i farmaci vengono dati a persone che già hanno una sofferenza e che cercano col farmaco di guarire o di alleviarla, mentre i vaccini vengono dati a persone sane (nel nostro caso bambini sanissimi) che potrebbero trarre un beneficio dalla somministrazione del vaccino stesso. Un eventuale effetto avverso del farmaco viene pertanto “messo nel conto” di un certo o quasi certo beneficio, mentre per il vaccino è visto come una “maledizione” e spesso è accompagnato dal senso di colpa del genitore che ha portato il bimbo a vaccinarsi.
Due. La vaccinovigilanza è estremamente carente, perché le segnalazioni di danni da vaccino non sono obbligatorie e pertanto molti casi inevitabilmente sfuggono: ne è prova la enorme differenza di segnalazioni tra le diverse Regioni italiane.
Tre. Anche se i vaccini sono sotto la “giurisdizione” dell’AIFA, la registrazione di questi prodotti farmaceutici segue delle vie “facilitate”, nel senso che non è richiesta né la prova di efficacia “sul campo” (studio clinico randomizzato che studi i casi di malattia e di effetti avversi casi nel gruppo vaccinato rispetto al non vaccinato), né la prova di farmacocinetica (quanto materiale è assorbito, dove va a finire nel corpo, quando viene eliminato). In presenza di queste incertezze, è impossibile rassicurare con prove inconfutabili coloro che hanno dei dubbi. Tengo a dire che questo è in primis un problema dei medici di famiglia e dei pediatri, i quali da una parte sono ben consci di queste incertezze e dall’altra non possono dirlo ai loro assistiti, perché rischierebbero provvedimenti disciplinari e anche l’eventuale radiazione dall’Albo dei medici.
Quali potrebbero essere a suo avviso le strategie più efficaci alternative all’obbligatorietà?
Se si volesse veramente agire con razionalità e con un sistema “evidence-based”, si dovrebbe riprendere il metodo del Veneto, che in 10 anni di esperienza ha dato ottimi risultati: informazione (ai medici e ai genitori), anagrafi vaccinali e farmacovigilanza efficienti. Si dice che non tutte le Regioni sarebbero pronte a utilizzare tale metodo, in quanto avrebbero dei sistemi sanitari più arretrati. Ammesso che ciò sia vero, e in taluni casi lo è, si deve rendere migliori i sistemi sanitari, non far pagare al cittadino la loro inefficienza. Un altro aspetto importante riguarda la produzione di vaccini singoli, e la ricerca attiva per vaccini migliori, vale a dire di maggiore durata sotto il profilo della copertura.
Lei conferma l’importanza di vaccini quali quelli per la poliomielite, il tetano e la difterite, fondamentali per la salute pubblica di intere popolazioni. Attualmente – sempre a seguito delle modalità attraverso le quali si è costruito questo acceso dibattito – gruppi di genitori si dicono completamente contrari a qualunque tipo di vaccino. Nell’ultimo anno in particolare pare essere stato scavato un “solco” tra favorevoli e contrari alle politiche di obbligatorietà vaccinale e ai vaccini stessi, senza distinzione. Come commenta questa situazione e come sarebbe possibile secondo Lei ripristinare quel rapporto di fiducia tra cittadini e classe medica, dopo una così forte “polarizzazione” del dibattito?
La polarizzazione del dibattito è iniziata con le radiazioni dei medici “dubbiosi” e si è accentuata enormemente dopo la introduzione dell’obbligo di legge. Sarà molto difficile tornare indietro e recuperare la fiducia dei cittadini contrari ai vaccini nelle istituzioni sanitarie e nei loro pediatri. L’unica via secondo me, è quella tracciata dal Veneto, in cui le cose funzionavano bene pur in presenza di un 10-12% di famiglie che vaccinavano poco o niente (come avviene comunque nelle altre Regioni). In Veneto peraltro era già prevista la possibilità di introdurre un obbligo vaccinale specifico, ma solo in caso di eventuali reali minacce epidemiche. Per recuperare la fiducia nelle Istituzioni bisogna che si apra un dibattito realmente libero, innanzitutto a livello medico-scientifico, e che a livello “centrale” si affidi la governance della vaccinologia non ad un Ministro con delle “belle idee” ma ad una commissione di esperti con molteplici competenze e totalmente liberi da conflitti di interesse con case farmaceutiche. Ma in Italia siamo lontanissimi da questo scenario.