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Traffico esseri umani, il tech fa muro

Tech against trafficking è l’associazione fondata da BT, Microsoft e Nokia per la lotta al traffico di esseri umani attraverso la tecnologia. Insieme all’Onu, nel 2018 hanno iniziaito a monitorare e lavorare su soluzioni tech per lo sviluppo di una strategia triennale


Il lavoro forzato e la tratta di esseri umani colpiscono circa 40 milioni di personein tutto il mondo. Un problema diffuso e complesso da affrontare, come ha descritto anche l’ultimo rapporto del dipartimento di Stato Usa presentato a fine giugno. Per cercare di affrontarlo nel modo più efficace, un gruppo di aziende tech insieme a Onu e l’organizzazione globale no profit  Business for social responsibility (Bsr) si sono unite per lanciare “Tech against trafficking“, progetto di collaborazione per creare app e tool specifici per queste tematiche. I membri fondatori sono BT, Microsoft e Nokia, che hanno promosso il dialogo su come la tecnologia può essere utilizzata al meglio per lottare contro la schivitù moderna, dialogo avviato un anno fa durante un evento di Wilton Park, forum internazionale dedicato alle discussioni su temi strategici del nostro tempo.
Ora la conversazione si è ufficialmente trasformata in azione. «L’evento del Wilton Park sembrava l’inizio di qualcosa di potente — ha commentato sul sito del Bsr Eric Anderson, responsabile del modern slavery program presso Bt — Ognuno si è rimboccato le maniche e ha preso appunti. È stato unico riunire diverse prospettive di esperti provenienti da aziende tech e gruppi della società civile di tutto il mondo.  Quei tre giorni hanno rivelato le concrete opportunità di fare la differenza e una forte volontà di collaborare per riuscirci.  Dovevamo trovare un modo per far sì che continuasse». «Abbiamo bisogno di collaborare più strettamente come industria e unire le forze con esperti nella lotta al traffico per fermarlo — ha incalzato Laura Okkonen, responsabile dei diritti umani presso Nokia — Insieme massimizzeremo l’impatto positivo della tecnologia».
I primi passi di tech against trafficking nel 2018 serviranno per mappare e analizzare il panoramadelle attuali iniziative incentrate sulla tecnologia per affrontare la schiavitù moderna. I risultati chiave saranno condivisi pubblicamente entro la fine dell’anno per poi sviluppare una strategia triennale. Le potenziali aree di interesse includono app cloud e mobile per consentire aisoccorritori, alla società e ai lavoratori di sensibilizzare, accedere alle risorse e segnalare problemi. Hardware di base, come laptop e smartphone più facilmente disponibili alle OngLinee di assistenza nazionali che aiutano le vittime e fungono da centri di raccolta dei dati. Analisi di informazioni e strumenti per affrontare il problema del sovraccarico di dati, utilizzando AI e big data.  Strumenti di trasparenza della supply chain per migliorare la tracciabilità e la coerenza agli standard di lavoro.
«È grandioso vedere queste organizzazioni all’avanguardia nel loro impegno contro la schiavitù moderna  — ha detto Andrew Wallis,  direttore del centro anti-schiavitù Unseen —. Portano una quantità enorme di esperienza tecnica, oltre a un’enorme influenza. La tecnologia offre un potenziale di trasformazione non solo per interrompere e ridurre la schiavitù moderna, ma anche per sostenere i meccanismi di cura e recupero per i sopravvissuti».




Ci sono prove di un attacco degli hacker russi di APT28 anche in Italia

Lo sostiene una ricerca presentata dallo Z-lab di Cybersec: “Il bersaglio potrebbe essere la Marina italiana”. La società di cybersecurity italiana ha incrociato i dati con analisti di una piattaforma aperta: si tratta del medesimo malware del gruppo legato al GRU, un software maligno che ha agito anche nell’hackeraggio delle mail democratiche nelle presidenziali Usa

Alla long story dell’interferenza della Russia nei processi elettorali occidentali, si potrebbe aggiungere un altro tassello. Questa volta la vittima sarebbe l’Italia. Ricercatori di un’azienda di cybersecurity italiana (CSE Cybersec) hanno scoperto che sulle reti italiane è circolato un malware in tutto simile a quello usato dai russi di Apt28 (aka Fancy Bear, o Pawn Storm), un gruppo paramilitare di hacker ritenuti collegati al GRU, il servizio segreto militare russo. Apt28 è stato a lungo ritenuto l’autore di tante operazioni molto importanti di hacking, tra le quali spicca l’hackeraggkio della primavera del 2016 ai danni delle mail del Comitato nazionale dei democratici, nella corsa verso le elezioni presidenziali americane – prima che il nuovo indictment del Procuratore speciale Robert Mueller accusasse direttamente dodici ufficiali del GRU di aver eseguito, gestito e diretto l’operazione.
L’operazione di spionaggio – che i ricercatori chiamano “Operation Roman Holiday” – dura da alcune settimane, e non è certo chi sia la vittima dell’hackeraggio, ma potrebbe trattarsi della Marina italiana. Lo spiega Pierluigi Paganini, capo tecnologo di CSE Cybsec, che tra l’altro è direttore del Master in cybersecurity alla ormai famosa Link Campus University, intervistato da Agi: «Se adottiamo le logiche degli attaccanti parrebbe un riferimento alla Marina militare italiana e ci invita a verificare l’ipotesi che quel codice malevolo sia stato sviluppato come parte di una serie di attacchi mirati contro la Marina o altre entità ad essa associate, come i suoi fornitori».
Scoperta la “backdoor”, la porta posteriore nelle reti, una serie di esempi del malware sono stati inviati da Cybersec a una piattaforma di cybersecurity aperta, Virus Total, attraverso un analista conosciuto online con il nome @drunkbinary. E da questo incrocio di verifiche è risultato confermato, spiegano i ricercatori, che esiste un pezzo di malware (il software maligno che di solito si impianta in un computer nemico, inducendolo a cliccare un link malevolo inviato alla vittima) in tutto analogo a quelli usati dagli hacker di Apt28.
Le somiglianze sono, dal punto d vista dell’evidenza informatica, molto rilevanti: il linguaggio in cui è scritto il codice del malware è uguale a quello di un malware usato dai russi (linguaggio Daphni). I luoghi remoti di command and control verso i quali vengono indirizzati i dati; anche alcune «librerie dinamiche” che il malware spinge surrettiziamente i computer attaccati a caricare. Non sarebbe il primo attacco russo contro l’infrastruttura italiana: di almeno un’altra circostanza è stato scritto già un anno e mezzo fa dal Guardian, che citò fonti governative, mai smentito da nessuno.
«Non possiamo escludere – sostiene Cybersec – che Apt abbia sviluppato la backdoor per colpire specifiche organizzazioni, tra le quali la Marina militare italiana, o qualche altro subcontractor. Nelle nostre analisi non siamo riusciti a collegare il file malevolo dll ai sample di X-agent trovati, ma crediamo che entrambi siano parte di un attacco ben coordinato e chirurgico di Apt28». Varrà la pena notare che anche nel nuovo indictment di Mueller si racconta delle modalità X-agent con cui ha agito – in questo caso direttamente il GRU -contro le mail dell’ufficio di Hillary Clinton.
La ricerca, pubblica, è stata messa a disposizione sul sito dello Z-Lab di Cybersec. La piattaforma online che l’ha incrociata – VirusTotal – mette a disposizioni alcuni samples riscontrati. Cresce, negli ambienti degli analisti e degli osservatori internazionali, la preoccupazione che il caso Usa non sia affatto isolato. E inquietudini geopolitiche si sommano a quelle forensi: specialmente nel momento in cui il presidente americano Donald Trump, a Helsinki, ha detto di credere a Vladimir Putin, che nega che la Russia abbia hackerato le elezioni Usa, anziché a tutta la comunità dell’intelligence americana, che sostiene il contrario; e nel momento in cui il ministro dell’Interno italiano Matteo Salvini, incontrando a Mosca prima esponenti del Consiglio per la sicurezza nazionale russo, poi il ministro dell’interno russo, ha spiegato che l’Italia coopererà proprio con la Russia «nella cybersecurity e contro gli attacchi informatici», arrivando a scambiarsi – ha scritto Salvini – anche «banche dati» con Mosca.




Il Flop del Grande Fratello & l’Influenza dei Social

Si è conclusa l’edizione 2018 del Grande Fratello. La 15esima edizione del reality chiude con il minor numero di telespettatori di sempre.
Come mostra l’infografica sottostante, anche se in termini di share le finali dell’edizione dell’anno scorso e quella del 2015 avevano ottenuto risultati ancora inferiori, questa edizione conquista il primato negativo per numero di persone che hanno visto la trasmissione.

Al di là del dato sulla finale, quello che è decisamente più interessante è vedere la correlazione tra il numero di telespettatori e citazioni sui social dell’edizione di quest’anno.
Infatti, se fin dall’inizio il reality è rimasto ben al di sotto di altre trasmissioni per engagement sui social, appare abbastanza evidente come la social TV, le citazioni del programma sui social, abbiano giocato un ruolo non secondario nel determinare l’insuccesso della trasmissione.
Già la tag cloud, la nuvola di parole, di hashtag associate a quello ufficiale della trasmissione: #GF15, mostra come questa edizione sia stata estremamente controversa. Al riguardo si noti in particolare la vicinanza a #GF15, e le dimensioni, evidenza del significativo numero di citazioni sui social, per #AdiosGF15, piuttosto che #Aida, #IoStoConAida, #AdiosFavoloso, ed altro ancora.
Dinamiche che avevamo già documentato e commentato all’emergere del fenomeno di dissociazione dagli atti di machismo e bullismo, in particolare nei confronti di Aida Nizar, che avevano, tra le altre cose, portato alla “fuga” degli sponsor della trasmissione. Fuga, che per inciso, si stima abbia comportato una perdita di ricavi compresa tra i due ed i tre milioni di euro.

 
Ebbene, analizzando e mettendo in relazione il numero di telespettatori delle diverse puntate con le citazioni sui social ed il relativo sentiment [*],  le emozioni e le reazioni suscitate, si vede come dopo l’indignazione di un vasto numero di persone vi sia parallelamente un calo di audience televisiva e di citazioni sui social di #GF15, proprio a partire dalla puntata che aveva dato il il peggio della trasmissione con le vessazioni succitate.
Da allora si assiste ad un calo costante, puntata dopo puntata, del numero di telespettatori, che passano dai 4.7 milioni della puntata del 30 Aprile ai 3.4 milioni del 29 Maggio, risalendo, di poco, solo per la finale di Lunedì 04 Giugno.

Dinamica, che seppur con valori assoluti ben diversi, ovviamente, si riscontra anche per quanto riguarda le citazioni sui social che crollano dalle 250mila della puntata con il massimo di ascolti televisivi a 31mila della penultima puntata, per risalire, di pochissimo come l’audience televisiva, per la finale.
Insomma, lo “spett-attore” è sempre più centro di “immagin-azione”, protagonista della scena digitale ed “influenz-attore”, anche, del successo, o dell’insucceso, come in questo caso, del proposte dei broadcaster. Si tratta, se necessario, della conferma di quanto sia profonda la rivoluzione che ha trasformato la realtà sociale in una “società delle reti”, riprendendo la definizione del sociologo Manuell Castell di esattamente dieci anni fa. Per dirla in una battuta, è l’onlife bellezza, e non puoi farci niente. Prendere nota.

[*] Dati Talkwalker con cui DataMediaHub ha una partnership per l’ascolto della Rete
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Nuove professioni: l’esperto di biomarketing

Sudorazione, palpitazioni, tic motori, smorfie facciali e non solo. Per chi si occupa di marketing la sfida non è solo una questione di dati. Noci, autore di “Biomarketing” (Egea): «Serve una nuova piattaforma che metta al centro le emozioni e le relazioni»

Nell’era dell’e-commerce e dei social network come vetrina, chi si occupa di marketing molto spesso dimentica che ad acquistare sono persone in carne e ossa, non semplici account. Big data, Kpi (Key performance indicator) e Roi (Return of investement) da un decennio a questa parte sono le basi su cui costruire campagne di comunicazione pubblicitaria e di vendita. Il tutto, supportato dai dati derivanti dalle neuroscienze, quell’insieme di discipline che si occupano di studiare il sistema nervoso, il suo funzionamento e la sua risposta agli stimoli esterni. Domande come: qual è il neurone che si attiva quando vediamo l’auto dei nostri sogni? Che catena di sinapsi si mette in moto di fronte a un bel cono di gelato? Che combinazione chimico-neurale ci spinge o meno ad entrare in un negozio? Domande le cui risposte generano un mercato che, secondo un recente studio pubblicato da “Market Research Report Search Engine”, potrebbe raggiungere i 2,2 miliardi di dollari di valore entro il 2025.
Ci dimentichiamo che il punto di partenza è sempre lo stesso: l’uomo, che rimane centrale anche quando è considerato solo come il consumatore del mondo tecnologico.
Giuliano Noci, professore di Strategia & Marketing presso la School of Management del Politecnico di Milano
«Ma ci dimentichiamo che il punto di partenza è sempre lo stesso: l’uomo, che rimane centrale anche quando è considerato solo come il consumatore del mondo tecnologico. Un mondo dove, tuttavia, il 90% delle scelte è di natura emozionale». A dirlo è Giuliano Noci, professore di Strategia & Marketing presso la School of Management del Politecnico di Milano e autore del libro Biomarketing (Egea). Con questo termine, Noci cerca di spostare un po’ più in là la frontiera delle ricerche di mercato: non solo freddi dati che riducono il consumatore a una semplice catena di impulsi, ma un aspetto più generale e ampio sull’inclinazione umana all’acquisto. «Il biomarketing è sostanzialmente una piattaforma che mettendo al centro l’uomo allarga i parametri solitamente considerati per analizzarne il comportamento, focalizzando la propria attenzione sulle sue risposte non verbali», spiega Noci. Sudorazione, palpitazioni, tic motori, ritmo di respirazione sono solo alcuni dei criteri con cui chi si occupa di biomarketing cerca di arricchire il senso del rapporto fra cliente, tecnologia e prodotto.
Per riuscirci, nel suo libro Noci propone quattro punti cardinali con cui seguire la rotta verso la nuova frontiera del marketing. Primo punto: il venir meno della differenza fra spazio fisico e digitale in una dimensione phygital (dall’unione di physical e ditigal). Per il consumatore che vive nell’era digitale esiste un unico piano di interazione con la marca che si attua attraverso diversi canali, ma senza soluzioni di continuità. Seconda indicazione: la rilevazione dei dati è diventata imprescindibile per ogni buona campagna di marketing, ma la carta vincente è la capacità di integrarli e intrecciarli. Il terzo punto cardinale proposto da Noci riguarda il tempo. Detto altrimenti, progettare l’interazione per il consumatore nel tempo (la relazione) e nei tempi giusti (la singola decisione) rappresenta uno degli elementi salienti del fare marketing in un contesto contraddistinto sempre più da entropia informativa e da una pluralità di punti di contatto. Infine, bisogna allargare la prospettiva verso ecosistemi digitali intesi come contesti più ampi e dinamici del classico binomio prodotto-settore a cui siamo abituati.
Le emozioni sono importanti. Perché quello che conta non è più il “che cosa” ma il “come”, le relazioni.
Giuliano Noci, professore di Strategia & Marketing presso la School of Management del Politecnico di Milano
«Le emozioni sono importanti», sintetizza Noci, «e così lo è la marca che ha la funzione di delega fiduciaria di un’azienda. Perché quello che conta non è più il “che cosa” ma il “come”, le relazioni. Prendiamo Amazon,per esempio: con il suo marketplace virtuale è diventata amica del consumatore, la sua comfort zone, e un prodotto che tutti cercano per la relazione che instaura attraverso i servizi che offre». Insomma, quello che conta è il modo in cui un’azienda interagisce con il proprio cliente. Ma quali sono gli strumenti per realizzare tutto questo? «Si tratta di una duplice prospettiva: da un lato, bisogna lavorare sul lungo periodo per costruire una storia che sia utile al consumatore (storydoing, ndr) in una prospettiva di intimità collettiva con la comunità di riferimento; dall’altro, bisogna agire sul breve periodo massimizzando i punti di contatto fra cliente e marca». In altre parole, una volta che un brand ha conquistato il suo posto nella mente del consumatore, la relazione successiva deve passare attraverso dei love times, come li definisce Noci. Ossia, momenti di interazione che spingono la conversione dall’interesse all’acquisto. A tutto questo rispondono gli strumenti del biomarketing.
Ma che posto occupano discipline come questa all’interno del mercato italiano? «C’è ancora un ostacolo culturale da superare», risponde Noci. «La marca mette ancora al centro il prodotto e non il cliente. Un atteggiamento che ha a che fare con la storia delle aziende e la loro produzione di valore. Mentre l’innovazione passa attraverso un ribaltamento della prospettiva». Non solo: «C’è anche una questione di competenze. Nel nostro Paese c’è un ritardo relativo sia alla diffusione delle competenze digitali, sia alla presenza di data scientist. In generale, inoltre, c’è una sottovalutazione delle competenze necessarie al marketing: non si tratta solo di applicare gli strumenti necessari per ottenere una serie di dati, ma di elaborare quest’ultimi per ottenere informazioni sul comportamento delle persone in un contesto».



Social media e sanità

Facebook e Twitter da tempo hanno sono più solo uno svago per adolescenti e studenti universitari,  sono ormai parte integrante della vita quotidiana di milioni di cittadini, e il mondo della sanità non fa eccezione.
Negli USA il 35% della popolazione usa internet come seconda fonte di informazione per questioni di salute, in Italia si avvicinano ai 30 milioni gli utenti di Facebook, che rimane il social più diffuso.
Anche se con enormi divari da regione a regione in Italia cresce il numero di aziende sanitarie pubbliche  che utilizzanoFacebook e Twitter come strumento per comunicare con utenti e cittadini, anche Linkedin avanza.

Negli ultimi anni le aziende private statunitensi e inglesi del settore sanitario hanno aumentato gli investimenti nei social media, in Italia il quadro generale è fortemente frazionato. Purtroppo è un effetto del fatto che il Servizi Sanitario Nazionale è nazionale solo sulla carta, in realtà esistono venti servizi sanitari regionali che si comportano in modo differente e, all’interno stesso dei servizi regionali, vi sono comportamenti differenti in quanto molte regioni sono avare di linee guida nel settore internet.
Eppure bisogna constatare che uno degli elementi che ha profondamente modificato i rapporti tra strutture sanitarie, medici e cittadini nello scenario contemporaneo della cura e della salute è stato proprio il prorompente e inarrestabile sviluppo di Internet e delle tecnologie digitali.
Le tecnologie digitali non sono un vezzo tecnologico, ma un fattore abilitante al miglioramento della qualità dei servizi, al contenimento dei costi, all’affermarsi di nuove pratiche di cura e un  basilare strumento per lo sviluppo di relazioni e comunicazione tra tutti gli attori del sistema sanitario.
E’ con il web 2.0 e con i social media questi processi acquisiscono una crescente visibilità nella scena pubblica, grazie allo sviluppo di spazi online di condivisione di informazioni sulla salute, di scambio di pareri su prestazioni mediche, di interazioni e dialogo  con medici e strutture sanitarie.
Le ricerche hanno messo in luce come sempre più cittadini usano Internet per cercare informazioni di tipo sanitario o che riguardano tematiche legate alla salute e agli stili di vita salutari, a volte anche in modo disordinato e non sempre di esito positivo, si pensi alla pericolosissima disinformazione sulle vaccinazione.
I dati CENSIS  testimoniano una crescita rapidissima,  Questo quadro, come abbiamo accennato comporta anche criticità, come la diffusione di informazioni improprie che possono causare rischi per i cittadini, a volte anche la pubblicità sovrapposta alle informazioni sanitarie serie può confondere l’utenza. A volte l’ansia di utilizzare mezzi di basso costo con abbandono di mezzi tradizionali, può aumentare il digital divide, considerando che la comunicazione sanitaria pubblica si rivolge indiscriminatamente a tutti i cittadini, qualsiasi sia la loro condizione culturale e sociale.
I social media sono anche uno strumento strategico per i sanitari. Gli usi vanno dalla ricerca di informazioni specialistiche alla visibilità delle ricerche scientifiche, dalla formazione professionale al supporto a pazienti con specifiche patologie. È poi strumento pressoché indispensabile  per costruire e mantenere relazioni con le comunità scientifiche e professionali.
Come vediamo i social media hanno possibilità di uso eccezionale nella comunicazione pubblica sanitaria.  Le aziende pubbliche possono, a costi bassissimi, lanciare campagne di comunicazione e sensibilizzazione su specifici temi sanitari o per promuovere stili di vita salutari anche integrandoli con altri mezzi classici. Se utilizzati con regole e attenzione i social media possono aiutare le aziende sanitarie a comunicare con utenti difficili da raggiungere, come adolescenti e immigrati, in questo specifico segneto di utenza è da incrementare l’uso, ancora molto limitato, di applicazioni per smarphone.
Un uso classico  è quello tipico per gli Uffici Relazioni con il Pubblico per raccogliere i feedback degli utenti, monitorare le opinioni dei pazienti e raccogliere i reclami per corregge i disservizi.
Anche nella comunicazione interna vi è spazio si possono aprire spazi di dialogo anche con l’apporto dei circoli ricreativi aziendali, per un dialogo di tipo anche informale.
Per quanto riguarda gli uffici stampa uno spazio sui social può essere gestito come valida alternativa all’house organ, con possibilità di postare interviste, slide, foro e interviste. Alcune esperienze di aziende private si sono rivelate  molto valide.
Il Ministero della Salute suggerisce alle strutture sanitarie italiane, all’interno delle linee guida per la comunicazione on line pubblicate nel 2010, l’impiego di piattaforme partecipative per pianificare attività di comunicazione più efficaci in tema di promozione della salute e per stabilire con i cittadini relazioni più coinvolgenti e di dialogo. Purtroppo spesso le buone indicazioni ministeriali i sistemi sanitari regionali le recepiscono solo in parte o a volte nemmeno le conoscono.
Su questo quadro generale delle strutture sanitarie possiamo addentrarci tramite una ricerca dell’Università di Sassari condotta nel 2013/14 dal prof. Alessandro Lovari (membro del comitato scientifico di Comunicazione Pubblica).
La ricerca ha esplorato e analizzato il processo di colonizzazione dei Social Media da parte delle Aziende Sanitarie Locali italiane (ASL) mettendo in evidenza le strategie comunicative e le problematiche organizzativo/manageriali.
Lo studio si è articolato in tre fasi con diversi metodi, ha mappato della presenza delle Aziende Sanitarie Locali sui più popolari social media (Facebook, Twitter, YouTube). Ha analizzato il contenuto delle pagine per descrivere le tipologie di messaggi pubblicati sulle timeline delle presenze istituzionali su Facebook. E infine ha svolto interviste ai direttori generali e i direttori della comunicazione, per analizzare i problemi di attuazione, le strategie comunicative, le implicazioni gestionali e i vincoli che impediscono un corretto sviluppo dei social media da parte delle ASL.
La ricerca conferma che il trend è in crescita ma emergono differenze regionali non rispondono a logiche territoriali ma alle scelte compiute da organi di indirizzo della comunicazione sanitaria.
Le maggiori difficoltà  sono causate da vari fattori. Premesso che, in generale, nella sanità pubblica sono quasi sempre insufficienti le risorse economiche ed umane investite nella comunicazione, mancano  le risorse umane qualificate e specializzate per gestire le piattaforme, spesso la un profilo Facebook non viene aperto solo perché mancano le risorse umane per gestirlo.
Permane un forte gap culturale di molte Direzioni Generali che hanno paura di ricevere commenti negativi e critiche da parte dei cittadini.
Infine il peggior ostacolo è dovuto alla  resistenza al cambiamento e cultura dell’innovazione, in certe aziende vi è ancora addirittura il divieto di accesso ai social media all’interno delle Asl.
Malauguratamente troppe ASL sono gestite da Direttori Generali che non hanno familiarità con i social media e non sono in grado di comprendere la rivoluzione tecnologica digitale che questi mezzi posso portare alle organizzazioni.
Come spesso ho rilevato si combattono le guerre con i generali della guerra precedente, dei novelli generali Cadorna che mandano le truppe all’attacco, allo scoperto, con la sciabola sguainata, perché non hanno capito cosa è una mitragliatrice
Purtroppo dobbiamo così constatare che l’uso dei social media per la comunicazione sanitaria istituzionale è ancora in una fase sperimentale  per la quantità e qualità. Ancora troppe Asl non sono ancora pronte a cogliere l’opportunità di attivare rapporti diretti  con i cittadini. Non investono ne risorse umani ne materiali.
L’Associazione Comunicazione Pubblica da anni è in prima fila in questa battaglia culturale, sia nella formazione che nella divulgazione. Come prosegue nella battaglia per il riconoscimento dei profili professionali nei contratti della sanità che è necessaria per poter portare i laureati in scienza della comunicazione a ricoprire un ruolo che è più che necessario.
Per concludere è importante ancora sottolineare che le aziende sanitarie pubbliche, insieme ai comuni, sono il più importante e diffuso contatto del cittadino con lo Stato, e che il bilancio delle regioni per il 70% è indirizzato alla spesa sanitaria. Un tale quadro socio-economico richiede assolutamente una comunicazione pubblica forte e moderna, come noi di Comunicazione Pubblica P da sempre sosteniamo.