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Zuckerberg fa mea culpa: “Commettiamo ancora troppi errori”

Nella lista degli impegni il Ceo di Facebook mette in testa la risoluzione dei “troppi errori” commessi nell’evitare l’uso improprio della piattaforma. Poi, mette gli occhi sulle criptovalute


La pressione degli ultimi mesi si è fatta sentire e Mark Zuckerberg, che dal 2009 ha preso l’abitudine di fissare obiettivi annuali da raggiungere, quest’anno ha deciso di concentrarsi sui problemi che hanno tormentato l’azienda nel 2017: dall’hate speech alle molestie, passando alle inferenze della politica e della propaganda.
“Non riusciremo a impedire tutti gli abusi, ma attualmente commettiamo ancora troppi errori nel rafforzare le nostre policy e prevenire l’uso improprio dei nostri strumenti”, ha scritto il Ceo in un post.
Come avevamo scritto qui qualche giorno fa, per Facebook, come per le altre grandi piattaforme, il nuovo anno si preannuncia con un inizio in salita. E infatti gli sforzi di Zuckerberg saranno orientati a capire meglio dove andare, per ottenere una “migliore traiettoria”. E si rende bene conto, Zuckerberg, che nei problemi di cui sopra, la tecnologia è “solo” uno degli aspetti coinvolti. C’entrano la storia, l’educazione civica e la filosofia.
C’entra l’informazione e c’entra la politica. Per questo, parla di riunire “esperti” per dibattere delle prospettive e mettersi al lavoro.
Rispetto a imparare il mandarino (fatto), realizzare una casa zeppa di Intelligenza Artificiale (fatto) e visitare ogni stato degli Stati Uniti (fatto), l’impegno nella risoluzione delle falle potrebbe non sembrare un obiettivo “personale”, premette Zuckerberg, ma è convinto che concentrarsi su certi problemi gli farà apprendere di più sul tema che facendo qualcosa di completamente differente.
Rispetto agli intenti stilati all’inizio del 2017, il fondatore di Facebook disperde meno energie sulla visione del mondo e delle comunità e sembra ammettere una cosa: l’incanto dell’internet uguale per tutti si è rotto, la promessa della democrazia dal basso sgretolata, e ora tocca capire come correre ai ripari.
Facebook è un’azienda e ignorare queste pulsioni evidenti sarebbe a dir poco miope (e sicuramente i suoi utenti sono più interessati a questo che ai progressi di Zuckerberg nel mandarino).
“Una delle domande più interessanti della tecnologia riguarda la centralizzazione rispetto al decentramento […] Negli anni Novanta e Duemila, la maggior parte delle persone credeva che la tecnologia sarebbe stata una forza decentrata. Oggi, molte persone, hanno perso fiducia in questa promessa. Con l’ascesa di un piccolo numero di grandi aziende tech – e di governi che usano le tecnologie per osservare i propri cittadini  – molte persone ora credono che la tecnologia centralizzi, anziché decentralizzare”.
A riprova di questa crisi c’è lo sviluppo di sistemi “che prendono il potere dei sistemi centralizzati e lo rimettono nelle mani delle persone” come la crittografia e le criptovalute.
“Mi interessa approfondire e studiare gli aspetti positivi e negativi di queste tecnologie e il modo migliore di usarle nei nostri servizi” promette Zuckerberg.




Ecco come il governo americano continua a sorvegliare i cittadini

Sorveglianza a strascico, disprezzo dei diritti e pregiudizi: un nuovo documento di Human Rights Watch svela come la polizia americana spia i suoi cittadini

Se questa prova fosse stata ottenuta con un controllo illegale, sarebbe un problema per la Corte. Potenzialmente, potremmo definirlo il frutto di un albero avvelenato”, spiega al pubblico ministero un giudice statunitense, nel 2013. “Con rispetto, ma lo contesto”, replica il PM. “In verità, la cosa non mi crea nessun problema”.

Questo scambio di battute – riportato nel report “Dark Side” che Human Rights Watch ha da poco pubblicato – è la sintesi perfetta di uno dei più classici dilemmi della giustizia: è giusto condannare qualcuno se le prove che lo inchiodano sono state ottenute illegalmente?
Le leggi e le costituzioni di tutte le nazioni democratiche, ovviamente, vietano questa pratica; ma ciò non impedisce alle forze dell’ordine di nascondere spesso e volentieri le vere modalità con cui sono state ottenute le prove che hanno portato a un arresto. Il report di HRW, che si concentra sugli Stati Uniti, mette in luce la vasta diffusione di questa pratica – nonostante sia impossibile fare una stima numerica corretta – e come questa venga nascosta anche agli stessi giudici, attraverso la creazione di una costruzione parallela.

Nulla che non si sia già visto in chissà quanti film

Dopo aver eseguito, per esempio, un’intercettazione telefonica non autorizzata che ha confermato i sospetti su un presunto spacciatore, le forze dell’ordine mettono in scena un “casuale” controllo stradale che porterà alla scoperta della droga dell’auto del sospetto.

Sorveglianza nascosta

Ma a suscitare i maggiori timori sono gli strumenti tecnologici che spesso si nascondono dietro queste costruzioni parallele: dispositivi per la sorveglianza a strascico che consentono di raccogliere un enorme numero di informazioni in maniera illegale; intercettando le attività dei cittadini senza avere avuto il permesso di un giudice.
Il più noto di questi strumenti è chiamato in gergo Stingray (il nome tecnico è IMSI Catcher): un dispositivo che opera come fosse una cella telefonica e che consente di ottenere la geolocalizzazione delle persone controllate, l’elenco delle chiamate in uscita e in entrata e anche di poter ascoltare le telefonate e leggere i loro messaggi. L’utilizzo degli IMSI Catcher, la cui legalità è molto dubbia, viene spesso tenuto nascosto dalle forze dell’ordine (fino a poco fa, non si sapeva nemmeno della loro esistenza); per questo, nel caso in cui le informazioni ottenute portino a un arresto, si crea una costruzione parallela: una storia diversa su come sono state ottenute le prove necessarie.
È il caso di quanto è avvenuto in Florida nel 2013: il diciottenne Tadrae McKenzie rapina 130 dollari in marijuana a uno spacciatore usando una pistola ad aria compressa (ma che può sparare pallini di metallo e quindi viene considerata un’arma vera e propria). Dopo essere stato arrestato, patteggia quattro anni di galera. Alla fine del processo, però, il giudice riduce la pena a soli sei mesi.
Cos’è successo? Semplicemente, che l’accusa non era stata in grado di spiegare come avesse scoperto il luogo esatto in cui il ragazzo viveva e come avesse potuto conoscere i suoi spostamenti con tale precisione. Nel momento in cui il giudice, insospettito, ha chiesto alle forze dell’ordine di mostrare i dati del loro Stingray, la polizia si è rifiutata; convincendolo di trovarsi di fronte a un caso di costruzione parallela e provocando così la forte riduzione della pena.

Ma se queste azioni portano alla condanna di un colpevole, perché è sbagliato utilizzarle?

La costruzione parallela“, si legge nel report, “non permette agli avvocati della Difesa di venire a conoscenza, e di poter quindi contestare, le vere ragioni che hanno portato all’arresto di qualcuno, impedendo quindi l’equo processo che dev’essere garantito a tutti”.
In questo modo, eventuali violazioni dei diritti garantiti a ogni cittadino vengono nascosti e non possono essere utilizzati a favore dell’imputato nel processo; non consentendo al giudice di svolgere il proprio lavoro e imponendo la volontà delle forze dell’ordine sul potere giudiziario. Una prevaricazione che potrebbe avere conseguenze molto pericolose.
I diritti di tutti
Tutto ciò, però, non riguarda solo i diritti dei presunti criminali, ma di ognuno di noi: “Se agenti che lavorano per il governo (la polizia, anche in Italia, risponde al ministero dell’Interno, ndrpossono segretamente violare la privacy, svolgere pratiche discriminatorie e condurre altre operazioni illegali senza mai doversene assumere le responsabilità, i diritti di tutti i cittadini sono messi in pericolo”, si legge sempre nel report. “Portato alle sue estreme conseguenze, la costruzione parallela rischia di creare una società in cui le persone sono costantemente soggette a indagini basate magari su pregiudizi, operazioni illegali o negligenza professionale, senza avere mai modo di venirne a conoscenza e poter così chiedere agli agenti di rispondere delle loro azioni”.
Se non bastasse, l’utilizzo segreto di dispositivi come gli IMSI Catcher cela facilmente operazioni di sorveglianza a strascico con i quali vengono tenuti inevitabilmente sotto controllo anche le azioni di cittadini assolutamente innocenti e che non hanno fatto niente di male. E se credete che “chi non ha fatto nulla di male non ha niente da nascondere”, immaginate con che spirito potreste andare a manifestare, per esempio, contro gli abusi della polizia o contro il governo sapendo che potreste essere tenuti sotto controllo.

Una maschera di Edward Snowden, l'uomo che ha svelato al mondo le tecniche di sorveglianza Usa
Una maschera di Edward Snowden, l’uomo che ha svelato al mondo le tecniche di sorveglianza Usa

Dal programma di sorveglianza Hemisphere, svelato dal New York Times nel 2013, all’utilizzo da parte delle forze dell’ordine dei dati lasciati dagli utenti sui social network, fino al più noto Datagate, sono numerosi i casi in cui sono stati utilizzati segretamente strumenti illegali per sorvegliare i cittadini.
Questi strumenti danno la possibilità di identificare anche le relazioni sociali delle varie persone controllate”, ha spiegato Aaron Mackey dell’Electronic Frontier Foundation. “Ed è estremamente probabile che molti cittadini completamente innocenti siano finiti, con i loro dati, all’interno di qualche database”.
Non è tutto: i nuovi strumenti tecnologici – basti pensare ai software del riconoscimento facciale o di “polizia predittiva” – offrono grandi potenzialità, ma sono ancora molto imprecisi e nascondono non poche controindicazioni. Per questa ragione è fondamentale che la polizia consenta a esperti, giudici, media e cittadini di valutare i dispositivi che utilizza per il proprio lavoro; nella più completa trasparenza.




Un anno di Trump Presidente, la propaganda via Twitter funziona

Nell’utilizzo dei social media Donald Trump si pone anni luce avanti rispetto a un Salvini, a un Di Maio, a un Renzi e a un Berlusconi. Ecco come

Un anno fa, il 20 gennaio 2017, un baldanzoso Donald Trump giurava da 45° presidente degli Stati Uniti d’America sul palco di Capitol Hill, a Washington, dando inizio all’anno da incubo di tutti i liberal d’America e d’Europa. Nel suo discorso accusava il vecchio establishment di aver protetto se stesso, ma non i cittadini, e prometteva che quella data sarebbe stata ricordata come il giorno in cui il popolo era tornato di nuovo al potere. Poco dopo ribadirà il concetto in un tweet:
https://twitter.com/realDonaldTrump/status/822502270503972872

Da quel famoso 20 gennaio il ciclone Trump si è abbattuto su tutto ciò che poteva rappresentare un ostacolo per la sua avanzata. Il primo a essere spazzato via è stato il direttore dell’FBI James Comey che stava indagando sulle influenze russe nelle elezioni; l’ultimo a cadere, il fido stratega alt-right Steve Bannon, colui che dalla stampa era considerato come il deus ex machina del neo presidente. Nel mezzo, scontri su clima e immigrazioneconclusi da gare al bottone nucleare più grosso con il nordcoreano Kim Jong-Un, ma soprattutto sparate ad alzo zero contro i media, rei a suo dire di diffondere fake news per distruggerlo.
Lo strumento preferito per esprimere sentenze e lanciare accuse? Sempre Twitter. Moderni cinguettii che ricordano il metallico gracchiare di più tristi altoparlanti. È attraverso i 140 caratteri che Trump comunica decisioni, strizza occhiolini, inveisce, ammonisce e zittisce giornalisti.

E così, quelli che dovrebbero essere i watchdog della democrazia, finiscono per essere cani guardati a vista.
https://twitter.com/realDonaldTrump/status/949610896241946626

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/950023175907266560
https://twitter.com/realDonaldTrump/status/948202173049049088
 
Big Donald eccita gli animi dei suoi sostenitori e sgomenta quelli dei suoi detrattori. Come scrive Jason Stanley in “How propaganda works”, per Hitler “la propaganda doveva fare effetto sulle emozioni della gente, non sui suoi ragionamenti, magari ripetendo formule e stereotipi”. Trump sembra seguire il consiglio alla lettera, ed ecco che un “America First!”, buttato lì a caso, fa sempre la sua figura.
https://twitter.com/realDonaldTrump/status/952166927476183040

È proprio grazie a quel linguaggio diretto che mira alla pancia e non al cervello, più che per merito dei magheggi dell’intelligence russa che Trump è riuscito a convincere i suoi elettori. Una chiave di lettura rifiutata come una rimozione psicanalitica dai liberal d’America che erano già pronti a incoronare Hillary: la speranza democratica secchiona ma fredda, incapace di scaldare persino i cuori femminili di fronte al machismo trumpiano, ma soprattutto di convincere l’elettorato di Bernie Sanders, vera spiegazione politica della sconfitta.

Crooked Hillary, la corrotta Hillary, ama definirla Trump utilizzando un termine che ricorda Richard Nixon (“I’m not a crook”), al quale in America è spesso accostato. Un paragone che fa venire i brividi, ma che diventa addirittura inquietante se pensiamo che la stessa moglie di Nixon aveva predetto la carriera di Trump.

nix

Tante le similitudini con il famigerato presidente del Watergate, ma soprattutto la paranoia e le barricate difensive verso avversari politici e giornalisti, attaccati senza mezze misure da entrambi. Sfruttando i suoi quasi 50 milioni di follower, Trump ricorda ai media che li sta osservando, ne critica comportamenti, uscite e analisi, e li espone al pubblico ludibrio dell’uccellino lanciando addirittura Gli awards delle fake news

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/953794085751574534
A farne le spese il premio Nobel 2008 per l’economia Paul Krugman, columnist del New York TimesBrian Ross di ABC News, il Time, il Washington Post, la CNNNewsweek, cioè i baluardi dell’informazione americana. Tutti concordi nel condannare l’atteggiamento, tutti incapaci però di opporre una reazione esemplare.
Coloro che non avrebbero scommesso un centesimo neanche su un suo passaggio alle primarie, probabilmente non avevano calcolato bene la natura del fenomeno. Trump si inserisce come un antigene nei nostri tempi: promette risposte ai delusi dal sistema, oppone il politicamente scorretto all’ipermoralismo dell’establishment, mette in dubbio l’informazione autorevole strizzando l’occhio ai complottisti, eleva i social media a comunicazione politica standard. Tutto ciò che nessun altro del suo livello riesce a fare, né in America né altrove.
Tanto per fare un paragonare con l’Italia, nell’utilizzo dei social Trump si pone anni luce avanti rispetto a un Salvini, a un Di Maio, a un Renzi e a un Berlusconi. Se anagraficamente solo dieci anni lo separano dal Silvio nazionale che ha imposto in politica i canoni della tv commerciale, sembrano quasi tre le generazioni di differenza nel modo di concepire e utilizzare i nuovi sistemi di comunicazione. Dove il biscione per difendersi dagli attacchi nemici preferisce schierare giornali e tv lasciando il compito a fidi scudieri, Trump ama occuparsene personalmente con il suo account.

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Nella giornata ufficiale del presidente americano la prima parte è definita “executive time”, ma secondo Axios, che giura di essere in possesso del vero programma, consiste principalmente nel guardare programmi televisivi e twittare. Un’attenzione ai media che occuperebbe almeno quattro ore della sua giornata tipica secondo il New York Times e che dimostrerebbe ancora una volta la paura che avrebbe dei giornalisti, gli unici nella sua visione che potrebbero togliergli il giocattolo.
Fu così con Nixon, lo sarà anche con Trump? Qualche dubbio c’è. Come i democratici non hanno saputo opporre un’alternativa valida alla sua scalata, così i giornalisti americani, spiazzati, non sembrano avere quel sacro fuoco che incendiò animi e pagine negli anni ’70. Anche questo in fondo è lo spirito dei tempi. Troppo moderati, troppo timorosi, troppo superficiali. È il conformismo da social media, quelli che invece Trump usa come una mitragliatrice inchiodando avversari in cerca di alibi.
Ridete, e un tweet vi seppellirà.




Sorpresa, c'è un test di gravidanza nella pubblicità della culla (Ikea)

In Svezia, per promuovere la culla Sundvik, il colosso lancia una singolare campagna sulla stampa: «Urinare su questa pubblicità potrebbe cambiarti la vita»




Perché l’equità può fare la differenza negli affari

L’amministratore delegato di Snam, Marco Alverà, spiega come la fairness sia l’ingrediente chiave del successo di un’azienda. Negli Stati Uniti alle imprese l’ingiustizia costa 550 miliardi ogni anno


Quanto l’equità può influenzare il buon andamento degli affari? Per Marco Alverà, amministratore delegato di Snam, la più importante azienda delle infrastrutture del gas in Europa, molto. Non è sempre detto, insomma, che siano volpi e lupi a vincere. “Al lavoro, l’ingiustizia mette le persone sulla difensiva e le fa sentire demotivate” spiega il manager nel suo intervento di oggi al Talk of the Day di Ted (Technology Entertainment Design), la non profit statunitense che organizza conferenze con relatori di alto livello. Alverà cita una ricerca americana, che “rivela che il 70% dei lavoratori negli Stati Uniti sono demotivati. Ciò costa alle aziende 550 miliardi di dollari l’anno. È una cifra corrispondente a quasi la metà della spesa sostenuta dagli Stati Uniti in educazione, è pari al pil di un paese come l’Austria”. Per questo, insiste, “rimuovere l’ingiustizia e promuovere la “fairness”, l’equità, dovrebbe essere la nostra priorità”.
Alverà, già direttore generale di Snam, nell’aprile 2016 ha preso il timone come ad. “Guido una squadra di 3.000 persone e la differenza tra 3.000 giocatori di squadra motivati e felici e 3.000 persone demotivate è tutto”, osserva. La sua ricetta per la “crociata per l’equità”, come l’ha ribattezzata, si articola in più punti. “Cerchiamo di promuovere attivamente una cultura di diversità di opinioni e di diversità di caratteri”. Inoltre “guardiamo alle regole, ai processi e ai sistemi nella nostra società” e “cerchiamo di eliminare ciò che non è molto chiaro, che non è molto razionale o non ha molto senso”. L’ad spinge per “sistemare tutto ciò che limita la circolazione di informazioni dentro l’azienda”. Tuttavia, per raggiungere l’equità per Alverà serve un passo in più. “Ha a che fare con le emozioni delle persone, con le loro esigenze, con le loro vite private, con quello di cui ha bisogno la società. Sono tutte questioni difficili da inserire in un foglio di calcolo o in un algoritmo”, osserva, perciò “è molto difficile renderle parte di una decisione razionale”. Tuttavia, incalza, “se non ne teniamo conto, ci mancano elementi molto importanti, ed è probabile che il risultato sia quello di sentirsi ingiusti”.
Per spiegare la differenza tra equità e ingiustizia, Alverà parte da un’esperienza personale. Un invito mancato al matrimonio di un amico scatena una sensazione di malessere nel manager. Il piccolo episodio smaschera un problema che può costare denari alle aziende. Il manager se ne accorge dopo il suo ingresso in Snam, quando si confronta con i colleghi. “Queste persone lavoravano in un’azienda nella quale non dovevano preoccuparsi dei risultati di breve termine. Non sarebbero stati penalizzati per sfortuna o errori in buona fede”, approfondisce Alverà. E aggiunge: “Sapevano che sarebbero stati valutati per ciò che cercavano di fare, non per l’esito. Erano valutati come esseri umani. Erano parte di una comunità. Qualsiasi cosa fosse accaduta, l’azienda li avrebbe sostenuti. E per me questa è la definizione di fairness”.
L’equità, insomma, si presenta come un collante tra l’azienda e i suoi dipendenti. E come il motore di una serie di effetti positivi. “La scienza dimostra anche che quando vediamo o percepiamo equità il nostro cervello rilascia una sostanza che ci dà piacere, vera gioia. Ma quando percepiamo una ingiustizia sentiamo dolore, un dolore anche più grande di quello che proviamo quando ci feriamo”, chiosa l’ad. Allora, si domanda, “se l’equità è la pietra miliare della nostra vita, perché ogni leader non la considera una priorità? Non sarebbe più bello lavorare in un’azienda più equa?”. Per Alverà la scelta dell’equità è una strada obbligata e non solo per le grandi aziende: “Ho anche scoperto che questo può funzionare in tutte le aziende a tutti i livelli. Non c’è bisogno di stipendi fissi o carriere stabili, perché la scienza dimostra che gli uomini hanno un innato senso di equità.Sappiamo cosa è giusto e cosa è sbagliato, prima ancora che possiamo dirlo o pensarlo”.