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Inclusione + Diversità = Valore

E’ una delle equazioni dell’innovazione: aggregare nelle imprese competenze, culture e sensibilità diverse costituisce un fattore evolutivo

Se l’iperspecializzazione tecnologica è un must necessario per un mondo dove l’innovazione corre in modo esponenziale, l’importanza delle persone nell’immaginare e concepire tutto ciò che sia “made for human” ma sostenibile è sempre maggiore. Per questo motivo le imprese hanno necessità di includere i più disparati punti di vista, le più ampie esperienze, i background più diversi. E parallelamente tutto questo si riflette in ciò che si porta sul mercato, sul posizionamento e sulla comunicazione. Tanto che oggi si comincia a parlare di brand inclusivi nel senso in cui riescono a posizionarsi in modo da rispondere a qualsiasi audience, senza distinzioni caratteristiche.
Sul tema è stato effettuata la ricerca Diversity Brand Index, uno studio approfondito di Focus Mgmt presentato all’evento Diversity Brand Summit a Milano il l’8 febbraio 2018.
Lo studio ha consentito di costruire un indice (il Diversity Brand Index) per misurare il livello di inclusione dei brand rispetto ai consumatori finali. Inoltre ha consentito di studiare l’impegno concreto delle imprese sul tema D&I mediante una ricerca avvenuta con una fase attraverso il web e una seconda fase con la valutazione di progetti e iniziative effettivamente realizzati dalle aziende. L’indagine via web è stata effettuata attraverso il metodo Cawi su un campione di 1.068 rispondenti.
Rispetto al concetto di diversità, la survey ha preso in considerazione una classificazione composta da 7 cluster: credo/religione, disabilità, età, etnia, genere, orientamento sessuale, status socio-economico. Le domande sono state precedute da una verifica circa il tema affinché i rispondenti avessero cognizione di causa. In particolare per ogni genere di diversità si è sondato il grado di familiarità al tema, di relazione e coinvolgimento attraverso una griglia analitica. Dal sondaggio effettuato è emersa una segmentazione della popolazione italiana in sei macro cluster. Il 24,6% sono gli “impegnati”. Si tratta di donne e uomini con età media di 42,5 anni, reddito e istruzione oltre la media che dimostrano di essere informate, coinvolte e vicine rispetto la diversità di tipo etico, religioso con risvolti etici. Si dichiarano socialmente responsabili. Il 27,3 costituisce il cluster dei “coinvolti”. Età media di 42 anni, reddito più alto della media sono molto orientati alla famiglia. Dichiarano un alta consapevolezza con le forma di diversità ma non hanno abitudine a interagire con queste. Un terzo cluster è quello degli “idealisti” (15,4%). Età media di 39 anni, prevalentemente uomini (57,3%) hanno un reddito più basso della media ma un tasso di istruzione universitaria più alta. Esprimono un senso superiore dell’etica e si sentono coinvolti dai temi della diversity solo a livello teorico. Con il 13% del campione troviamo i “consapevoli”. Si tratta prevalentemente di donne (55,9%) con età media di 41 anni. Hanno un reddito e un livello di istruzione dichiarato superiore alla media, sono consapevoli ma scarsamente coinvolti. Esprimo maggior vicinanza ai temi dell’invecchiamento e dell’orientamento sessuale. L’8,3% del campione è costituito dai “menefreghisti”. Sono uomini e donne con un’età media di 42 anni, un reddito dichiarato più basso della media, pensano solo a sé stessi o alla loro famiglia, non conoscono i temi della diversità e non sono interessati ad approfondirli. Infine con l’11,4% si trova il cluster degliarrabbiati. Sono donne e uomini con un età media di 47 anni e reddito nella media. Si confrontano frequentemente con la disabilità, con persone molto anziane e con indigenti a livello economico. Sono persone che si dimostrano spiccatamente individualiste e non hanno interesse verso la diversity.

Il tema della diversity è entrato nel sentire comune abbastanza profondamente, un po’ perché si trova nella vita reale delle persone, (invecchiamento, crisi economica, migrazioni ecc.), un po’ perché la società si è spontaneamente evoluta anche sotto l’influenza dei media e dei soggetti di riferimento dei vari segmenti. Tuttavia rimane la distanza tra la teoria e la pratica. La ricerca mette in luce un interesse degli italiani per la diversity ma allo stesso tempo, uno scarso comportamento proattivo con limitata relazione con le diverse forme di diversity. Le forme di diversità per le quali gli italiani dichiarano di essere più preparati sono la senilità, la disabilità, lo status socio-economico, aspetto con il quale si ha maggiore relazione mentre la distanza maggiore è con le minoranze etniche e religiose con le quali si interagisce poco. Appaiono significative alcune considerazioni che i ricercatori hanno effettuato sui vari cluster emersi. In particolare gli idealisti sembrando prevalentemente sorretti da un senso dell’etica ferreo che li porta ad essere “politicamente corretti”; tuttavia si applicano poco. Spicca la dimensione del cluster degli Impegnati che vale quasi un quarto di tutto il panel. Questi si spendono effettivamente nella relazione con la diversity. Tanti italiani sono sensibili sul tema diversity (la stragrande maggioranza), desiderano che se ne parli diffusamente ma solo una parte minoritaria interagisce, si impegna concretamente. Tuttavia questa parte vale sostanzialmente un italiano su quattro. Al di la dei dati della ricerca, vi sono alcuni macro trend generali che caratterizzano i tempi attuali, che impattano su tutto il vivere sociale e anche sulla diversity. Uno di questi è l’arretramento sociale di tipo economico che genera reazioni emotive predominanti in alcuni soggetti. Poi vi è un generale disimpegno trasversale ai Millennials e non solo, che favorisce la teoria a discapito della pratica.




La Csr nel Dna della stakeholder company

Luca Poma interviene sul tema di cosa significa oggi essere davvero “responsabili”. Un rapido excursus delle teorie, per arrivare a una proiezione dell’azienda misurata ai portatori di interesse. Per riuscire davvero a rispondere alla domanda posta da Benigni e Troisi

«Chi siete? Da dove venite? Cosa portate? Dove andate? Un fiorino!». Chi non ricorda una delle scene storiche dello straordinario “Non ci resta che piangere”, film scritto, diretto e interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi?
Il tema del “chi siete”, ovvero dell’identità delle aziende, della coerenza tra le loro strategie di business e il loro Dna, e tra lo scopo codificato nel momento fondativo e l’oggi, è oggetto di continua analisi da parte dei relatori pubblici e degli specialisti di economia e scienze sociali.
A riguardo, il padre delle RP italiane, Toni Muzi Falconi, ha detto: «Secondo la mia valutazione, pur in una situazione generale dove il dubbio appare essere la sola possibile certezza, l’organizzazione di valore è quella che persegue consapevolmente il suo scopo facendo leva sui propri 6 diversi capitali (umano, relazionale, finanziario, produttivo, naturale e intellettuale) sviluppando sistemi consapevoli di relazioni, di ascolto e di dialogo con quegli stakeholder le cui decisioni e i cui comportamenti possono accelerare o ritardare il raggiungimento degli obiettivi dell’azienda stessa, monitorando man mano l’efficacia del percorso grazie a indicatori di attuazione predefiniti, sia quantitativi che qualitativi, sia materiali che intangibili».

VALORI TROPPO “FREDDI”

Il che è senza dubbio corretto: ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la routine e l’ossessiva attenzione al raggiungimento di obiettivi “qui e ora”. Se è vero che sfogliando qualunque bilancio sociale, o navigando i siti web delle principali corporation, il “manifesto dei valori” è tra le prime voci del menù, trattasi a mio avviso di “piatto freddo”, se consideriamo che sono poche le aziende attrezzate efficacemente per misurare il grado di applicazione e concreto perseguimento di questi principi da parte del management e dei dipendenti e collaboratori. I cosiddetti “valori” sono più che altro un elenco di “buoni principi”, appunto, che ognuno formula secondo la propria sensibilità e storia, e ai quali aderisce in astratto, o che nella migliore delle ipotesi costituisce un framework di riferimento entro cui muoversi; ma quanto poi ogni membro del team contribuisca in concreto al raggiungimento di quegli obiettivi, resta confuso all’interno di cruscotti d’indicatori spesso strutturati per misurare gli aspetti quali-quantitativi della vita aziendale nel breve periodo, più che il raggiungimento di scopi di lungo periodo.

CIRCONDATI DA UN ORDINE SOCIALE

L’economista italiano Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia all’Università di Bologna e di International Political Economy alla Johns Hopkins University, ha ricordato come, nel 1953, negli Stati Uniti un economista americano all’epoca non particolarmente noto, Howard Bowen, scrisse che «era giunto il momento per le imprese di farsi carico della responsabilità per ciò che le circondava». L’impresa socialmente responsabile è quindi quella che non si limita a immaginare come guadagnare di più per poi redistribuire parte dei propri profitti, ma che si adopera con i mezzi a sua disposizione per far sì che l’ordine sociale di cui è parte attiva evolva, migliorando tra l’altro l’efficienza dell’organizzazione politica e amministrativa, generando benessere per i cittadini e permettendo così a tanti nuovi soggetti di immettersi nel circuito del mercato, con conseguenti vantaggi anche per l’impresa stessa. Ogni azienda, aggiungo io, lo fa a modo proprio: in linea, appunto, con lo scopo codificato nel momento fondativo.
Uno stimolo che ha radici anche, nell’etica delle virtù, nata in Grecia all’epoca di Aristotele e poi perfezionata nel corso dei secoli, la quale sostiene che bisogna agire sulla base del convincimento che il “mio benessere deve andare di pari passo con il tuo”, e che si scontra con un modello post-ford-taylorista, di tipo gerarchico con struttura piramidale, che ancora pervade molte aziende, attente appunto soprattutto “al risultato” (di breve periodo, of course).

ALLARGARE IL CRUSCOTTO

Ma se, come afferma Zamagni, l’impresa non è solo un attore economico, bensì ha a che fare con la polis, la città-stato greca dove viveva la comunità, il “cruscotto di indicatori” che regola la vita d’impresa non può e non deve fermarsi solo alla misurazione dei risultati quanti-qualitativi raggiunti settimana dopo settimana: è l’aderenza ai valori fondativi nel lavoro quotidiano di ogni dipendente (tutti, dal magazziniere al Ceo) che bisogna trovare il modo di misurare concretamente. Così facendo, stimoleremmo ad esempio l’ufficio acquisti sia ad approvare contratti di fornitura derivanti solo da filiere realmente sostenibili (dimenticando l’inveterata prassi di porre al primo posto esclusivamente il criterio del “miglior prezzo”) come anche a porsi domande circa la situazione dell’etica del lavoro lungo la filiera, fino agli “stakeholder degli stakeholder”, invece di garantirsi tranquillità per la propria coscienza solo grazie al fatto che si “dimentica” di indagare circa gli standard etici dei produttori a monte, oltre al primo livello di fornitura.

LA SPINTA SOFT DEL NUDGING

Infine, aggiunge Muzi Falconi, s’impone anche un’altra seria riflessione: una volta riusciti a misurare il cambiamento di un comportamento, come giustificare un investimento qualsiasi per ottenere che esso duri nel tempo? «Qui – dice Falconi – c’è forse il valore effettivo del nudging: un’azione continuativa necessaria per sostenere un cambiamento virtuoso, che probabilmente non può prescindere da politiche aziendali di osservazione partecipata».

L’ORGANIGRAMMA PER STAKEHOLDER

Un ulteriore passaggio, a mio avviso, potrebbe sostanziarsi nella creazione di un “organigramma per stakeholder”, all’interno del quale inserire tutte le funzioni aziendali in ragione dei tipi di stakeholder con i quali maggiormente dialogano: solo così sarà possibile comunicare realmente, all’esterno ma soprattutto all’intero, “l’essenza” di una “stakeholder company”, educando inoltre il capitale umano dell’azienda a mettere al centro della propria attenzione i pubblici d’interesse dell’azienda stessa (senza la piena soddisfazione dei quali non esiste impresa) e non solo i prodotti e i servizi erogati.
Concludendo, ricordo come Benigni e Troisi dichiararono in un’intervista che la celebre scena in cui passano la dogana venne girata più e più volte, perché i due durante le riprese non riuscivano a restare seri… Un po’ come molti di noi, leggendo i bilanci sociali e integrati pubblicati online (centinaia di pagine a volte ancora stampate su carta) da molte aziende. Altro che KPI’s di scopo: nel 2017 è ancora, purtroppo, lo “short-termismo” a farla da padrone.




Gli USA mettono al bando Kaspersky

Vietato l’uso del software russo su ogni computer dell’amministrazione federale: potrebbe avvantaggiare le spie straniere.

La suite antivirus di Kaspersky è generalmente considerata come una delle migliori in circolazione.
Purtroppo (almeno dal punto di vista statunitense) è prodotta in Russia, e da qualche mese a questa parte è finita sotto accusa perché sarebbe fin troppo strettamente legata al Cremlino e ai servizi di intelligence di Mosca.
Addirittura c’è chi ritiene che i software di Kaspersky siano stati diffusi in America con il preciso scopo di fungere da cavalli di troia (il che è abbastanza ironico, per un antivirus) ai fini di spionaggio informatico.
Se a ciò si aggiunge la paura – più volte ventilata anche se tutta da provare- che la Russia abbia interferito con le più recenti elezioni americane, si capisce il clima di sospetto in cui si trova oggi a operare Kaspersky.
Meglio però sarebbe dire “si trovava”, poiché il presidente americano Donald Trump ha ora firmato una norma che vieta l’uso dei prodotti Kaspersky su tutti i sistemi informatici governativi, decisione per la quale ha ottenuto anche il plauso dell’opposizione democratica.

A nulla è servita l’offerta di Evgenij Kaspersky, il quale s’è detto pronto ad aprire il codice sorgente dei propri prodotti per fugare ogni dubbio circa la loro onestà e, confermando il proprio carattere impulsivo, ha definito «teoria del complotto senza alcun fondamento» nonché «str***ata colossale» ogni ipotesi di implicazione della sua azienda con le spie russe.

«Il rischio che il governo russo, sia che agisca da solo sia che agisca in collaborazione con Kaspersky, possa guadagnare dall’accesso fornito dai prodotti Kaspersky per compromettere le informazioni e i sistemi informatici federali è una minaccia diretta alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti» ha fatto sapere il Dipartimento della Sicurezza Interna, chiudendo la questione.
Dal canto proprio, l’azienda s’è detta «molto preoccupata» per la decisione, che mostra un inquietante «approccio su base geografica alla sicurezza informatica».




Il paradosso Twitter in Iran spiega perché i mullah sono così detestati

Le più vaste proteste dal 1979 avvolte dall’incertezza causa blocco internet. Ma il regime è tutto sui social proibiti. L’appello a Trump


Le proteste più ampie in Iran dal 1979, anno della rivoluzione khomeinista, sono arrivate all’ottavo giorno e non è chiaro se la loro forza è ormai scemata e si spegneranno in pochi giorni oppure se andranno avanti – a dispetto del fatto che il capo dei pasdaran, Ali Jafari, le abbia dichiarate “finite” due giorni fa.
Ieri circolavano ancora video molto freschi di proteste nelle strade e notizie in diretta di scontri con morti, ma è molto difficile avere un’immagine fedele di cosa sta succedendo davvero. In parte perché i reporter stranieri sono per ora concentrati nella capitale Teheran, molto risparmiata dai disordini, e non nelle piccole città molto religiose dove le rivolte sono scoppiate con più forza. Ma soprattutto perché le mille informazioni frammentarie rilanciate dai manifestanti circolano poco da quando il governo ha ristretto con successo internet nei primi giorni di proteste.
Whatsapp, Telegram e Instagram sono bloccati, e in più c’è la derisione amara di un servizio sulla tv di stato che intervistava iraniani felici di avere più tempo libero per fare altro ora che non sono più distratti da quei servizi. E’ possibile ancora accedere a social media e messaggi se si entra in internet attraverso una Vpn, quindi attraverso un programma che trucca l’indirizzo IP del computer e lo fa apparire come se fosse all’estero (e quindi non soggetto alle restrizioni), ma spesso il governo ordina di rallentare in modo deliberato la velocità di internet e quindi anche questo stratagemma delle Vpn funziona poco.
Gli iraniani da tempo non hanno Twitter, che fu bloccato durante le proteste dell’Onda verde del 2009, quasi dieci anni fa, dal governo dell’allora presidente Mahmoud Ahmadinejad, molto falco e conservatore. C’è dell’ironia, considerato che a marzo lo stesso Ahmadinejad ha aperto un proprio account su Twitter, come pure hanno fatto la Guida suprema Ali Khamenei, che ha quasi mezzo milione di follower e account in diversi linguaggi, e anche il presidente Hassan Rohani e il ministro degli Esteri Javad Zarif. Questi ultimi due su Twitter hanno anche la spunta blu, vale a dire un segno concesso dalla casa madre di San Francisco che certifica che sono proprio loro. La spunta blu negli anni è cominciata a essere considerata come l’equivalente di un endorsement da parte di Twitter, come se il sito riconoscesse l’importanza e il rango dell’account. In questo modo, Twitter concede un attestato di legittimità ai leader di un governo che in teoria impedisce a tutti gli ottanta milioni di iraniani ordinari di usare Twitter. L’apparato di repressione iraniano è consapevole che il blocco può essere aggirato, al punto che Tasnim, il sito del giornale delle Guardie della rivoluzione, sta chiedendo a tutti i suoi lettori di identificare i manifestanti per arrestarli – e lo sta chiedendo anche mostrando le loro foto via Twitter, come riporta la giornalista Golnaz Esfandiari. Da strumento di libertà a facilitatore della reazione governativa.
Il paradosso di Twitter è una rappresentazione interessante della crisi iraniana: gli iraniani protestano perché non hanno gli stessi privilegi dei leader, e si tratta di privilegi in stile occidentale. Il 2 gennaio un bella testimonianza del romanziere e giornalista iraniano Amir Ahmadi Arian sul New York Times spiegava che a gonfiare l’ira del ceto meno abbiente c’è il cambio di stile della classe più fortunata del paese, che un tempo si riparava dietro a una facciata di sobrietà pubblica e che oggi invece lascia che i suoi rampolli viziati girino in auto di lusso e mettano su internet foto di spiagge lontane dove si beve birra senza problemi.
Ieri su alcuni canali Telegram creati dagli arrabbiati iraniani circolava un appello all’Amministrazione Trump perché in qualche modo desse accesso libero a internet a tutti gli iraniani. Si tratta di una boutade, perché il governo americano non ha i mezzi tecnici per liberare l’accesso a internet e scavalcare il controllo di Teheran, ma è anche un punto centrale di queste proteste che, anche in caso di fallimento, hanno già cambiato il paese.




Newsbrand: Reputazione, Community & la “Facebook Apocalypse”

A pochi giorni dall’annuncio dell’aggiornamento del news feed del social più popoloso del pianeta che fa tremare newsbrand, e brand, di tutto il mondo arriva la seconda mazzata ed è, se possibile, ancor peggio della prima, anche se in questo caso vede coinvolti solamente i publisher.
«La scorsa settimana ho annunciato un cambiamento importante nel news feed», ha scritto Zuckerberg il 19 Gennaio in un post pubblicato sulla sua pagina Facebook e poi ripreso da Adam Mosseri, Head of News Feed, che successivamente ha twittato alcune precisazioni, spiegando che «Ogni utente vedrà meno contenuti pubblici, tra cui notizie, video e post pubblicati dalle aziende.
Dopo questo cambiamento, prevediamo che le notizie rappresenteranno circa il 4% dei contenuti, rispetto a circa il 5% di oggi». Proseguendo, «Tra i sondaggi sulla qualità del nostro servizio, chiederemo alle persone se conoscono una certa fonte giornalistica [un sito, un giornale, una tv] e  se si fidano di quel media. Crediamo infatti che alcune testate giornalistiche abbiano fiducia soprattutto dai propri lettori, mentre altre siano invece riconosciute come testate autorevoli anche da chi non le segue direttamente».
Incrociando le risposte degli utenti quindi, il social deciderà quali testate avranno priorità nel feed, quali no. Dando così priorità alla diffusione della fiducia che ha un media, piuttosto che alla sola credibilità dei suoi fan. Zuckerberg quindi in buona sostanza ha deciso di affidare ad ognuno dei circa due miliardi di utenti mensili del suo social di stilare la propria personale classifica su quali siano le fonti attendibili dell’informazione, quelle a cui credere, quelle che hanno sufficiente autorevolezza per comparire sulle bacheche.
Al riguardo Massimo Russo, Managing Director, Digital Division GEDI e Ceo HuffPostItalia, ha scritto: «Vi prego, qualcuno dica a Mark che la folla è quella che, messa di fronte alla scelta da Ponzio Pilato, decise compatta di liberare Barabba #nonimpariamonulla?», e le reazioni a livello internazionale non si sono fatte attendere, dalle più “colorite” di Gizmodo agli interrogativi di The Atlantic, passando per  i richiami al grande fratello di Forbes, i dubbi, diciamo, di Slate e molto altro ancora, con Emily Bell che solleva il dubbio, non peregrino, anche se smentito, che ci sia anche un fine commerciale dietro la mossa di Facebook, e fornisce tre buoni suggerimenti all’Head of News Feed Mosseri su trasparenza e autorevolezza.

 
La questione è estremamente complessa ed articolata e coinvolge più aspetti che vale la pena di esaminare in dettaglio.
Se infatti teoricamente sarebbe meraviglioso concettualmente affidare direttamente alle persone la valutazione dell’affidabilità dei media, compiendo così finalmente un percorso di “democrazia dal basso”, non è per nulla certa la capacità di giudizio e di discernere sull’affidabilità delle fonti, sia per il ben noto fenomeno del “confirmation bias” che per limiti culturali, diciamo, che del resto sono proprio quelli che contribuiscono alla diffusione delle “fake news”.
Se a questo di aggiunge che i criteri relativi ai valori della sezione notizie di Facebook sono ampiamente discutibili a cominciare dal fatto che «la sezione notizie deve essere divertente» secondo Facebook. Aspetto che, a prescindere da tutte le altre considerazioni possibili al riguardo, è talmente soggettivo da non renderlo un parametro di valore. Si capisce come vi sia una profonda distanza tra quelli che sono, o dovrebbero essere, i criteri giornalistici e l’interpretazione che Facebook ne fa nel suo dorato walled garden.
È chiaro che Facebook è nel panico, terrorizzato da accuse e sanzioni per la diffusione di “fake news” e reagisce in maniera assolutamente inadeguata con un sistema che sembra «terribilmente semplicistico e ingenuo» ma questa è solo una parte della questione.
timori e le accuse a Facebook da parte dei media all’annuncio di Facebook sono da inquadrarsi in un utilizzo dei social, ed in particolare di Facebook, come “discarica di link”, come abbiamo evidenziato a più riprese nel tempo in questi spazi, utilizzando il social più popoloso del pianeta come canale di distribuzione con il solo obiettivo di dragare traffico da questo. Non vi è stata praticamente nessuna attenzione alla gestione della reputazione e dell’immagine dei newsbrand. Altrettanto non vi è stata nel complesso nessuna attenzione alla creazione ed alla gestione delle community come con grande onestà intellettuale finalmente qualcuno inizia ad ammettere a fronte della “facebook apocalypse”. Non a caso dopo l’annuncio di Facebook le quotazioni in borsa del NYTimes sono “schizzate” verso l’alto proprio per la superiorità del quotidiano statunitense in quest’ambito.
Il Trust Barometer di Edelman nell’edizione 2018, appena pubblicato, dedica ampio spazio alla questione della fiducia e dell’autorevolezza dei media con approfondimenti specifici anche al tema delle “fake news”,

Dal rapporto emerge come vi sia una una generale polarizzazione della fiducia, con l’Italia tra le nazioni in cui maggiore è il calo di fiducia. Fiducia che per quanto riguarda in maniera specifica i media, seppur maggiore rispetto a quella riposta nelle piattaforme social, è ai minimi termini con la popolazione di 22 delle 28 nazioni oggetto dell’indagine, italia inclusa ancora una volta, che mette i media tra le organizzazioni nelle quali meno fiducia ripone.
Soprattutto, emerge come sia il concetto di media ad essere mutato completamente, con l’ecosistema dell’informazione che è fatto sempre più non solo dai legacy media ma anche dalle piattaforme social, dagli “influencer”, e da molto altro ancora.
Inoltre, si evidenzia come la metà degli intervistati siano “disingaged”, non coinvolti, rispetto alle news con un consumo informativo inferiore ad una volta alla settimana, e due terzi che ritengono che i publisher siano maggiormente interessati ad attrarre a loro la maggior porzione possibile di audience piuttosto che a svolgere una corretta informazione, sacrificando l’accuratezza in nome della velocità e/o per favorire una determinata tesi politica.
Ed ancora, il report evidenzia come il 63% delle persone non sia in grado di distinguere il “buon giornalismo” da falsità e cattiva informazione, e per il 59% degli individui è sempre più difficile dire se se l’informazione è prodotta da un media degno di rispetto. Elemento che smonta definitivamente, in caso di dubbi, l’ipotesi di lavoro di Facebook.

È insomma evidente che il lavoro svolto, sia in termini prettamente giornalistici che in specifico riferimento alla [non] gestione dei social da parte dei publisher è fallimentare.
Sta a loro, a noi, cambiare rotta e invertire, hic et nunc, la tendenza cambiando diametralmente l’approccio sia a livello di contenuti che, soprattutto, di coinvolgimento delle persone. Le fanpage perderanno sempre più di rilevanza e questo, per quanto preoccupante nel breve periodo, è un bene. Cessiamo una volta per tutte l’attuale approccio basato sui click e mettiamo al centro le persone. Usciamo dalle nostre “paginette” ed entriamo in relazione veramente con le persone. Qualunque community vive di informazioni senza le quali implode, svanisce. Entriamo nelle communities, nei gruppi [non solo su Facebook, eh!] e forniamo loro notizie, informazioni, argomenti di loro interesse. Stabiliamo veramente una volta per tutte una relazione e creiamo spazi di confronto e discussione nei siti web per valorizzarla. Credo davvero non ci sia altra scelta.