Quando il fundraising incontra l'emotional marketing
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Ben il 67% delle persone che non hanno mai fatto una donazione sarebbe disposto a farla se trovasse una causa convincente. «Un esercito di potenziali donatori che le associazioni potrebbero raggiungere semplicemente imparando a raccontarsi in maniera efficace. L’approccio emozionale – afferma Francesco Quistelli, fondatore e Ceo di Atlantis Company – ha altissime potenzialità: permette alle aziende di legarsi alle onlus più adeguate al proprio bacino di consumatori e alle associazioni di investire con maggiore efficacia le proprie risorse»
Tra i consumatori italiani c’è una spiccata propensione ad acquistare prodotti che sostengono cause benefiche. Ben l’83% degli intervistati sarebbe disposto ad acquistare un prodotto sapendo che parte degli incassi saranno utilizzati per finanziare una causa benefica. La percentuale sale a sfiorare il 90% se il contributo solidale non comportasse un aumento del costo del prodotto, ma che non precipita, attestandosi al 72%, nemmeno quando si segnala un piccolo aumento del costo finale. È quanto emerge dalla ricerca “Fundraising Survey Italia 2018”, realizzata da Emotional Marketing per Atlantis Company, azienda specializzata nella consulenza e nella comunicazione nel settore nonprofit. Lo studio – condotto attraverso tecniche innovative basate sull’analisi delle emozioni e fondato sui dati derivanti da mille questionari somministrati via web incrociati con bigdata in costante aggiornamento sull’immaginario emotivo degli italiani – è stato presentato oggi in occasione della quarta edizione di “Reinventing”, l’appuntamento dedicato all’innovazione e allo sviluppo del fundraising, della comunicazione sociale e della CSR promosso da Atlantis Company.
Non tutti i prodotti e non tutte le cause benefiche ottengono, però, gli stessi risultati. Dalla ricerca risulta, ad esempio, che i consumatori preferiscono sostenere associazioni che sostengono la ricerca scientifica contro gravi malattie e la tutela dei minori, a prescindere dalla tipologia del prodotto acquistato. Mentre chi acquistano prodotti per animali è molto più sensibile ai temi connessi agli amici a quattro zampe e all’ambiente. Lo studio rivela, inoltre, che anche le modalità di sostegno dichiarate dalle aziende e l’approccio comunicativo delle associazioni sostenute influenzano sensibilmente le intenzioni di acquisto dei consumatori.
Quanto al profilo dei donatori, la ricerca “Fundraising Survey Italia 2018” mette in luce che il 52% per cento del campione analizzato ha sostenuto economicamente una causa benefica negli ultimi 12 mesi e che si tratta per lo più di donatori episodici. I donatori costanti sono soprattutto persone con più di 55 anni e rispondono ad un preciso profilo emozionale, più sensibile a determinate tecniche di comunicazione che ad altre. Il profilo emozionale dei donatori è indicativo anche in relazione all’importo delle donazioni, che mediamente si attesta sui 51 euro, ma che è decisamente più alto per alcune specifiche fasce di popolazione. In relazione alle modalità di donazione la parte da leone viene svolta dalle donazioni in contanti (21%), dalle donazioni on line attraverso carte di credito (19%) e dal bollettino postale (16%).
Sulla Corporate Social Responsibility, emergono innovative fotografie del settore non profit. L’aspetto più rilevante è che ben il 67% delle persone che hanno dichiarato di non aver mai fatto una donazione sarebbe disposto a farla se trovasse una causa convincente. «Un dato che si traduce in un vero e proprio esercito di potenziali donatori che le associazioni potrebbero raggiungere semplicemente imparando a raccontarsi in maniera efficace e che lascia trasparire le altissime potenzialità della collaborazione tra profit e nonprofit, con vantaggi strategici per entrambi i settori», sottolinea Francesco Quistelli, fondatore e Ceo di Atlantis Company. L’analisi approfondita di scenari e contesti connessi alle emozioni permette infatti di individuare il target elettivo di ciascuna onlus e offre importanti indicazioni alle aziende sul fronte Corporate Social Responsibility. «Ciascuna associazione – spiega il Ceo di Atlantis Company – si incardina in uno specifico quadro emozionale e conoscerne le tinte è fondamentale per impostare una strategia di comunicazione efficace e per avviare collaborazioni realmente e reciprocamente vantaggiose con le aziende». «L’approccio emozionale – conclude Quistelli – ha senza dubbio altissime potenzialità: permette alle aziende di legarsi alle onlus più adeguate al proprio bacino di consumatori e alle associazioni di investire meglio e con maggiore efficacia le proprie risorse, migliorando così la capacità di generare risorse indispensabili per affrontare le tante sfide che un’organizzazione nonprofit deve affrontare per il bene comune».
MiMoto, il primo scooter sharing elettrico senza stazioni
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Nasce a Milano MiMoto, il primo ed unico servizio di scooter sharing elettrico ed ecosostenibile della città. Un’idea semplice che unisce in sé rispetto per l’ambiente, Made in Italy, sicurezza stradale, condivisione ed efficienza.
MiMoto oltre a essere una start up innovativa, è un servizio che ha l’obiettivo primario di offrire ai propri clienti finali un’esperienza smart, green e unica nel suo genere e, allo stesso tempo, migliorare la vita dei milanesi. Infatti vuole anche essere un alleato dell’amministrazione comunale che fin da subito si è dimostrata aperta e sensibile nei confronti del progetto.
“La sharing mobility milanese si arricchisce di un nuovo mezzo con il servizio di scooter sharing MiMoto, che ha anche il vantaggio di essere a zero impatto ambientale.” – dichiara Marco Granelli, Assessore a Mobilità e Ambiente del Comune di Milano – “I milanesi e i city user hanno dimostrato di apprezzare molto questa tipologia di servizi e di usarli quotidianamente. Con il loro sviluppo diventa sempre più importante che tutti rispettino le regole della convivenza e della condivisione in strada”. Dal 14 ottobre 2017 residenti, pendolari e turisti potranno dimenticarsi lunghe code e attese: districarsi nel traffico milanese sarà molto più facile, grazie agli eScooter di Askoll scelti da MiMoto, omologati per due e con due caschi posizionati nel bauletto. Elettrici e Easy-to-use, grazie alla leggerezza del mezzo, facile da guidare e progettato per la mobilità urbana; ma anche Economico, con tariffe alla portata di tutti ed Efficiente, perché abbatte i tempi di viaggio, facendo risparmiare tempo e denaro. Last but not least, non c’è alcun vincolo di stazioni di ricarica. MiMoto è un servizio free floating e senza chiavi: localizzi l’eScooter più vicino tramite App, disponibile per iOS e Android, lo prenoti, parti e una volta terminata la corsa lo lasci dove vuoi all’interno dell’area operativa. Quest’ultima comprende tutto il centro della Città di Milano: le principali zone di interesse (Navigli, Città Studi, Lambrate, Morivione, Calvariate, De Angeli, San Siro e Bovisa Politecnico) e i principali distretti universitari tra cui Cattolica, Bocconi, Bovisa, Città Studi/Politecnico e IULM.
Un progetto dunque smart, user oriented e giovane, come giovani (under 35) sono i tre founders di MiMoto, Alessandro, Gianluca e Vittorio che hanno lavorato senza sosta fino ad oggi con metodo, ambizione e minuziosità al fine di offrire, all’esigente pubblico milanese, il miglior servizio possibile. I tre founders hanno cercato e trovato imprenditori e professionisti in grado di apportare al progetto un valore aggiunto, non solo dal punto di vista finanziario, ma in termini di expertise e know how, conseguendo un club deal di imprenditori di successo del settore. “MiMoto non è per noi una semplice idea che stiamo realizzando: è una sfida personale e professionale” – dichiarano i tre founders – “Lanciare sul mercato italiano un servizio di scooter sharing (che stiamo già progettando di implementare su scala nazionale ed internazionale) completamente ecosostenibile e Made in Italy, vuol dire posizionarsi come una realtà proiettata al futuro. Fin dall’inizio abbiamo deciso che MiMoto si sarebbe distinto per due plus principali: la sostenibilità e il Made in Italy. Un servizio dunque a zero emissioni, in grado di salvaguardare la salute dell’ambiente e di tutti i cittadini milanesi già sensibili a questa tematica, che contemporaneamente si renda portavoce dell’italianità dei materiali, dei servizi e delle aziende”.
I partner meticolosamente scelti sono un’ulteriore conferma di ciò: primo fra tutti Askoll, realtà italiana fornitrice degli scooter completamente elettrici. Sarà invece PLT puregreen, partner energetico emiliano-romagnolo, ad alimentare il servizio con la sua energia, prodotta esclusivamente da fonti 100% rinnovabili, mentrecome partner assicurativo MiMoto ha scelto la torinese Nobis, realtà anch’essa attenta alle tematiche ambientali e supporter di progetti innovativi.
Utilizzare MiMoto significa dunque non solo usufruire di un servizio di sharing, ma adottare un preciso stile di vita e diventare ambassador di un cambiamento che mira a migliorare la qualità della vita dei cittadini, facilitando gli spostamenti urbani e fornendo, allo stesso tempo, un valido e concreto aiuto per migliorare l’aria che quotidianamente respiriamo.
CRISI “RAINBOW": #PUBBLICITÀREGRESSO?
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Pare essere la classica “buccia di banana” quella sulla quale è scivolato il patron – e Presidente da oltre un ventennio, parola peraltro mai come in questo caso densa di significati – di “Pubblicità Progresso” Commendator Alberto Contri, genero di Longanesi all’epoca del primo impiego, uomo di pubblicità e Consigliere di Amministrazione RAI ai tempi dell’”editto bulgaro” contro il giornalista Enzo Biagi.
Sulla bacheca Facebook di un apprezzatissimo creativo italiano – Paolo Iabichino, che era intervenuto commentando le discutibili dichiarazioni del neo-nominato Ministro alla Famiglia Fontana – Contri si è lanciato in un’invettiva dal retrogusto vagamente omofobo, definendo “checche” due cittadini italiani omosessuali, “giurati” del programma RAI “Ballando con le stelle”, due persone che Contri definisce “una squallida caricatura dell’omosessualità”, e lamentando anche l’eccessiva presenza di gay in televisione, a suo dire “sovra-rappresentati” rispetto alla maggioranza della popolazione, precisando in vari commenti successivi sul wall di Iabichino “di non aver nulla contro i gay ma di essere per la famiglia tradizionale”, quasi che le due cose fossero inspiegabilmente da vivere come un’antitesi in tema di rivendicazione di diritti.
Per chi si occupa di crisis management, pare la brutta copia della già trucida figuraccia di Guido Barilla al programma radio “La Zanzara” di qualche anno fa: l’esperienza non insegna proprio nulla, evidentemente.
Ebbene, al netto delle riflessioni su quanto sia davvero tristissimo leggere nell’Italia del 2018 dichiarazioni come queste di Contri, spicca un altro tema: Contri è anche, appunto, presidente di Pubblicità Progresso, la Fondazione che collabora con tutti i principali network televisivi per promuovere – udite udite – campagne di sensibilizzazione sociale anche e soprattutto a difesa delle minoranze. Si profila quindi all’orizzonte, vicinissima, una tempesta perfetta generata dal cortocircuito tra identità e reputazione percepita.
Infatti di lì a poco, Massimo Guastini, un altro noto pubblicitario, ingaggia un appassionato e sferzante dibattito con Contri sulla pagina di Iabichino , dichiarando anche: “Sono eterosessuale, ma la battaglia contro questi oscurantismi è una battaglia di diritti e di civiltà, non c’entra l’appartenenza personale”. In poche ore la questione diventa “trend topic” nelle stanze che contano della comunicazione e della pubblicità italiana.
Contri tuttavia non molla, e a modo suo si giustifica, richiamando le molte campagne sociali promosse dall’Ente che lui rappresenta e dirige senza soluzione di continuità da decenni: down, stranieri, non vedenti, anziani, bambini handicappati, donatori di sangue e di organi, e persone che fanno volontariato, tutte categorie che Contri indistintamente etichetta come “minoranze” (sic). Un utente su Facebook commenta a riguardo: “Il Presidente Contri dice cretinate insostenibili precisando successivamente di dirle a titolo personale e non come Presidente dell’ente, ma sua difesa cita un lungo elenco di campagne sociali di Pubblicità Progresso. Ma non farebbe prima a chiudere il computer e farsi una bella doccia?”
In tutto il mondo si discute di “pink economy”, ovvero dell’impatto positivo che l’inclusione e il rispetto della diversità hanno sul business e sull’economia, e magistrale in tal senso è il lavoro di Francesca Vecchioni con l’Associazione Diversity in collaborazione con l’Università Bocconi di Milano: Contri pare proprio non volersi fare mancare nulla, e riesce ad attaccare nei suoi commenti social anche l’esperienza della figlia del noto cantautore, il cui lavoro è invece già diventato un positivo caso di studio in diverse università italiane.
Mentre lo scenario inevitabilmente si scalda, sarebbe interessante anche conoscere la posizione di Assocom, l’associazione italiana delle agenzie di comunicazione, all’interno della quale Emanuele Nenna , stimato professionista e Presidente del network, pare non averla presa proprio bene, nonché della RAI, che siede nel consiglio di amministrazione di “Pubblicità Progresso”, in quanto – è bene ricordarlo – il “contratto di servizio” che lega la RAI al Ministero dello Sviluppo Economico cita la tematica LGBT tra gli assi di intervento della televisione pubblica in tema di educazione alla diversità. Anche SKY Italia, la TV di Stato della Repubblica di San Marino, e Discovery Channel, come altri enti, aderiscono a Pubblicità Progresso ed esprimono a vario titolo rappresentanti in Consiglio di Amministrazione: prenderanno posizione?
Contri negli ultimi post di ieri sera – da diverse ore infatti tace sui social – ha parlato di “categorie sessuali”, definendosi un “panda”, in quanto, a suo dire, sarebbe un eterosessuale discriminato nel proprio pensiero, che pure pare esprimere liberamente e anche con toni vagamente razzisti e discriminatori, e richiama a sostengo delle proprie tesi percentuali ISTAT (“il 95% degli italiani è eterosessuale”), in realtà usando categorie logico-ontologiche di lettura della realtà ben distanti dalla sensibilità della maggioranza degli italiani, e anche -tra l’altro- dal magistero del Santo Padre (“Chi sono io per giudicare?” cit. Papa Francesco): gli risponde stamane agguerritissimo lo show-man RAI Fabio Canino, che lancia l’hashtag #pubblicitàregresso.
Il 20 giugno pare esser stato convocato un consiglio di amministrazione di Pubblicità Progresso per discutere proprio di questa vicenda: diversi consiglieri hanno già preso le distanze da Contri, e si mormora che alcuni di essi vogliano presentarsi dimissionari chiedendo le dimissioni del loro attuale Presidente. Rossella Sobrero, nel CdA della Fondazione, donna da sempre sensibilissima alle questioni sociali, in vari contatti telefonici con colleghi pare abbia definito le parole di Contri “incommentabili”, mentre Stefano Del Frate, altro consigliere, ha preso nettamente le distanze in modo pubblico, sempre sul wall di Iabichino.
Ah, i social: croce e delizia dei comunicatori. Stay tuned: ne vedremo delle belle.
La Corte di Giustizia Europea conferma: fu patto scellerato tra Roche e Novartis
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La Corte di Giustizia Europea ha confermato che i due gruppi farmaceutici Roche e Novartis hanno diffuso d’intesa informazioni ingannevoli per favorire in Italia un prodotto che costa 900 euro, ostacolando l’utilizzo di un farmaco equivalente a soli 80 euro. La Svizzera si dichiara impotente.
Interessante e documentato l’articolo di Federico Franchini su Il Quaderno, il giornale degli italiani in Svizzera.
Franchini spiega che Roche e Novartis hanno ostacolato la vendita in Italia di un farmaco dal prezzo accessibile, l’Avastin, dal costo di 80 euro, a vantaggio di un medicamento più costoso, il Lucentis, che di euro ne costa 900.
Il primo è nato come medicamento antitumorale, la cui licenza è detenuta da Roche. La comunità scientifica ha stabilito che il prodotto ha un’ottima e sicura resa anche per il trattamento della maculopatia, una malattia dell’occhio. Quindi è sufficiente acquistare l’Avastin per ottenere gli effetti promessi dal Lucentis, la cui licenza è stata ceduta da Roche alla Novartis, che detiene circa il 30% delle azioni di Roche.
La vicenda è nota da tempo ma ora giungono le conferme: i due principali gruppi farmaceutici svizzeri hanno diffuso informazioni ingannevoli per differenziare artificiosamente i due prodotti, perfettamente sovrapponibili.
Ciò che ha generato costi sanitari enormi. Nonostante l’uso diffuso in ambito oftalmico, Roche non ha fatto nulla per richiedere un’estensione delle indicazioni dell’antitumorale Avastin per questo utilizzo. Anzi, tramite la filiale Genentech ha creato un farmaco clone – il costosissimo Lucentis – confezionato appositamente per l’uso in campo oftalmologico.
Da parte sua Novartis non è riuscita ad imporre subito il nuovo farmaco poiché i medici italiani, per ovvie ragioni di costi, continuavano a prescrivere l’Avastin benché non autorizzato dalle autorità sanitarie per questo trattamento (utilizzo off label).
La posta in gioco è molto elevata: la maculopatia colpisce un anziano su tre sopra i 70 anni ed è la prima causa di cecità nel mondo occidentale. In Italia della vicenda si sono occupate l’Antitrust e la magistratura. In Svizzera le autorità affermano di avere le mani legate. Aggiotaggio: è questo il capo d’accusa con cui i due rappresentanti legali in Italia di Roche e Novartis sono finiti sul registro degli indagati. Aggiotaggio, stando al codice penale italiano, significa turbare il mercato, pubblicando o divulgando notizie false, esagerate o tendenziose atte a cagionare un aumento o una diminuzione del prezzo di un prodotto.
Nel caso specifico sono state messe in atto “manovre fraudolente” finalizzate a turbare il mercato italiano dei prodotti oftalmici e realizzare così “ingiusti profitti patrimoniali”: così si legge, nell’avviso di conclusione delle indagini firmato dal pubblico ministero di Roma Stefano Pesci.
In sostanza l’Avastin è stato presentato come un farmaco pericoloso (ciò che è risultato poi non veritiero) condizionando così le scelte dei medici e dei servizi sanitari. Un cartello che, secondo l’Antitrust, è costato, nel solo 2012, un esborso aggiuntivo per il Servizio sanitario nazionale di oltre 45 milioni di euro, “con possibili maggiori costi futuri fino a oltre 600 milioni l’anno”.
“I due gruppi si sono accordati illecitamente per ostacolare la diffusione dell’uso di un farmaco molto economico, a vantaggio di un prodotto molto più costoso, differenziando artificiosamente i due prodotti”.
Proprio nel 2012, cedendo alle pressioni delle case farmaceutiche, l’Aifa (Agenzia italiana del farmaco) decise di obbligare gli ospedali a utilizzare il Lucentis al posto di Avastin. Nella vicenda, però, è intervenuta l’Antitrust che, nel 2014, ha sanzionato le due multinazionali basate a Basilea. Il motivo: “I due gruppi si sono accordati illecitamente per ostacolare la diffusione dell’uso di un farmaco molto economico, Avastin, nella cura della più diffusa patologia della vista tra gli anziani e di altre gravi malattie oculistiche, a vantaggio di un prodotto molto più costoso, Lucentis, differenziando artificiosamente i due prodotti”.
Per questa vicenda le due società svizzere sono state condannate ad una multa di circa 90 milioni di euro ciascuna. Una decisione contro la quale è stata fatta opposizione. Il Consiglio di Stato italiano, l’ultimo organo che deve trattare il ricorso, ha chiesto un parere alla Corte europea di giustizia. La quale, lo scorso 23 gennaio, ha ribadito che l’intesa tra due aziende, “atta a diffondere informazioni ingannevoli sull’uso off label” di un medicamento al fine di ridurre la pressione che esercita su un altro medicamento, costituisce una restrizione alla concorrenza.
D’intesa le due ditte svizzere hanno fatto leva per diffondere il più ampiamente possibile una percezione di pericolosità per l’Avastin. “A tale scopo – si legge in un documento consultato dal Quaderno – spingendosi addirittura a predisporre apposite pubblicazioni scientifiche e piani di comunicazione mirati”.
Era la stessa Roche, affermano per iscritto diversi medici, che aveva inviato loro una lettera con la quale s’indicava che l’Avastin non era approvato per l’uso intravitreale e invitava a non usarlo per la cura delle maculopatie. Contemporaneamente anche Novartis cominciava a dire che era pericoloso usare Avastin e che si rischiavano guai giudiziari a usare un farmaco non approvato.
Emblematica è la vicenda con Federanziani. Quest’ultima, nel 2011, aveva scritto una lettera a Roche e Novartis per lamentarsi della sproporzione di costi esistenti fra Avastin e Lucentis in ambito oftalmico e le sempre maggiori difficoltà incontrate nell’uso off label del primo farmaco. Poi, all’improvviso, il cambio di rotta: la tesi dei problemi creati da Avastin viene sposata anche dalla stessa Federanziani. In un comunicato stampa del 2014, quest’ultima rivela dei risultati allarmanti in merito all’utilizzo del prodotto di Roche per la maculopatia. Secondo quanto riporta il Fatto Quotidiano, la Guardia di Finanza sospetta che il tutto sia stato creato ad hoc per “avvalorare la tesi della scarsa sicurezza dell’uso oftalmico dell’Avastin”. Non sarà quindi un caso se, nel 2014, la stessa Federanziani ha ricevuto due finanziamenti da parte di Novartis, uno da 54’000 euro e un altro da 91’000 euro. L’informazione la si trova su un documento sul sito internet di Novartis.
In Svizzera, dove per il Lucentis le assicurazioni malattia spendono circa 75 milioni di franchi all’anno, questi metodi non sono necessari. Finché Roche non fa una domanda di autorizzazione a Swissmedic (l’Istituto svizzero per gli agenti terapeutici) per l’utilizzo di Avastin in oftalmologia questo farmaco non può essere inserito sulla lista delle specialità stabilita dall’Ufficio federale della sanità pubblica per il trattamento della maculopatia. Per questo l’utilizzo oftalmico di questo farmaco non può essere rimborsato dalle casse malati. Il coltello dalla parte del manico lo tiene Roche che ben si guarda dal chiedere a Swissmedic l’autorizzazione. Tanto riceve già le royalties per il Lucentis venduto da Novartis ma che è stato creato dalla Roche.
“La Confederazione non dispone delle basi legali per obbligare le aziende farmaceutiche a far omologare un nuovo medicamento o a estendere l’indicazione di uno già omologato” ribadisce il governo svizzero in seguito ad un’interpellanza .
Un’impossibilità d’azione che genera costi enormi per il sistema sanitario elvetico. “Questo esempio dimostra come l’industria farmaceutica può cercare di massimizzare i suoi profitti a discapito dell’assicurazione di base. Purtroppo, i fabbricanti di medicamenti non possono essere obbligati a estendere l’indicazione dei loro prodotti per altri utilizzi che quelli previsti dall’iscrizione della sostanza sulla lista delle specialità”, spiega Christophe Kaempf di Santésuisse.
Benvenuti nell’era dell’attenzione parziale
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Troppe informazioni e sempre meno tempo: tra giornalismo, new media e pubblicità Alberto Contri racconta l’era della Costante Attenzione Parziale
Alberto Contri lo potremmo definire un “grande vecchio” della pubblicità italiana, se non fosse che nel mondo della comunicazione spesso il termine vecchio ha un’accezione negativa, di conservatorismo e arroccamento a vecchi schemi.
In realtà Contri, classe ’44, unisce a un curriculum di tutto rispetto – Direttore Creativo e Amministratore Delegato di DMB&B e McCann Erickson con ruoli anche internazionali, fondatore in Italia di McCann Interactive, Consigliere Rai e a capo di Rainet – una lucida visione sul mondo: oggi è Docente di Comunicazione Sociale allo IULM e Presidente di Pubblicità Progresso.
Contri sa riflettere come pochi su media e pubblicità con uno sguardo al passato e uno al futuro, e con quell’aria da sofisticato gentiluomo d’altri tempi va dritto al punto, e non si vergogna di fare nomi e cognomi. Tutto parte dal suo libro sullo stato della comunicazione McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della Costante Attenzione Parziale edito dai tipi di Bollati Boringhieri. Partiamo dal titolo McLuhan non abita più qui?: in realtà come scrive anche Derrick de Kerckhove nell’introduzione, il sociologo canadese aveva previsto l’avvento di una cosa tipo internet Lo ammetto, mi sono un po’ pentito di quel titolo perché in molti l’hanno preso come un saggio su McLuhan; ne sono usciti così tanti che in realtà non ci sarebbe stato bisogno di pubblicarne un altro. In realtà il libro è una riflessione su come sta evolvendo il mondo della comunicazione, riprendendo alcune sue intuizioni. Il punto di domanda in effetti significa che le sue riflessioni sono ancora valide. Ma il vero argomento del volume è il sottotitolo “La rivoluzione della comunicazione nell’era della Costante Attenzione Parziale”. Oltre alla famosa frase “Il medium è il messaggio” in realtà McLuhan ha anche scritto “the user is the content” che pare criptica se applicata alla tv e dell’editoria, ma è facilmente interpretabile oggi nel mondo dei media interattivi È stato di una visionarietà assoluta. Walter J. Ong, il mentore gesuita di McLuhan, addirittura diceva che “noi usiamo i mezzi di comunicazione, ma i mezzi di comunicazione plasmano il nostro cervello”. Basta guardarci attorno e vedere come tutti siamo distratti contemporaneamente da due-tre device in contemporanea e questo ci porta ad acquisire una modalità di pensiero fatta di frammenti che ci porta appunto all’era della Costante Attenzione Parziale. Non so se ha letto la biografia di McLuhan scritta da Douglas Coupland uscita nel 2011: si racconta di un McLuhan che soffriva di carenza di attenzione, ma sempre pronto a assorbire informazioni da qualsiasi cosa. Forse anche lui aveva una Costante Attenzione Parziale Non ho letto quel libro, però credo proprio che si trattasse di una Distrazione Creativa, come la chiama De Masi. A volte capita anche a me di essere un po’ dietro al mio sguardo, sembra che io sia lì invece viaggio con il pensiero. Ma è l’ulteriore dimostrazione che noi non ci possiamo scientemente concentrare su una sola cosa. L’inconscio può fare più operazioni, il conscio una sola. Non è come la ragazza che ho ritratto in copertina che cerca di essere multitasking pur essendo dotata di un cervello analogico. Nel libro lei analizza la situazione attraverso una visione olistica e poi si permette di dare anche una sua opinione soggettiva. L’opposto di quel che vedo in giro: tutti si sentono semiologi e sparano sentenze e analisi affrettate, scrivendo libri sull’abuso degli smartphone… Sta parlando di Aldo Cazzullo, vero? Lasciamo perdere. Lo trovo orribile. Un ottimo giornalista come quello lì, capace di documentarsi e fare analisi e riflessioni, ti spara un libercolo con quattro chiacchiere di una superficialità disarmante, senza un’analisi di causa e di effetto, ed è pure in testa alla saggistica. È il segno di dove è arrivato il giornalismo oggi. Invece di provare a comprendere in profondità i nuovi atteggiamenti, i giornalisti inventano tesi partendo dall’interpretazione di una foto con quattro tizi in gondola che guardano gli smartphone Partendo dai fattori critici, risalgo ai problemi che hanno oggi gli editori della tv e della stampa. Uno dei fattori critici è sicuramente il tempo: il paradosso è che di fronte a una miriade di informazioni a disposizione, abbiamo sempre meno tempo per usufruirne. Una delle vie di fuga è fare sei cose in contemporanea, quindi noi raccogliamo e rielaboriamo frammenti e rispondiamo attraverso gli stessi frammenti senza comunicare più in maniera lineare. Ed è qui che trae origine il linguaggio destrutturato che ha la generazione dei ventenni che vedo tra i miei studenti all’Università.
Per venire incontro a questa deconcentrazione diffusa del lettore, i giornalisti realizzano articoli sempre più brevi, sempre meno carichi di riflessione; ed ecco che si entra un circolo vizioso.
L’editoria tradizionale non fa molto per riequilibrare la soluzione…
Online sta funzionando bene il long form: lunghi approfondimenti su un argomento Le rispondo con la frase del padre dalla pubblicità David Ogilvy, che sosteneva che per i grandi prodotti funziona sempre meglio un copy lungo che uno corto. Le storie interessanti funzionano sempre. Ci sono alcune cose di base che non sono cambiate, anzi, vanno potenziate. Quindi esiste un modo per correggere questo circolo vizioso Secondo me tutto passa attraverso l’educazione delle giovanissime generazioni. Esempio: fino a sette anni non si dovrebbe dare in mano a un bambino un tablet o uno smartphone, bensì sviluppare la scrittura a mano. Oggi purtroppo i nativi digitali non sanno più scrivere: lo so che le coercizioni sono sempre sgradevoli, ma forse stavolta sono necessarie.
C’è una cosa di cui sono convinto, è che il nostro cervello non può diventare digitale: ci ha messo 250.000 anni per diventare quel che è, e ora nel giro di pochi anni si sarebbe modificato?
Sono teorie che da un punto di vista antropologico sono prive di fondamento. Tant’è vero che Richard Branson si è inventato la digital detox, per cui un giorno a settimana vieta a tutti i dipendenti di usare device elettronici, perché si è capito che stiamo andando dentro una patologia. È evidente che la tecnologia ci aiuterà sempre di più, che saremo supportati continuamente da robot e app che faranno sempre più cose, ma questa non è intelligenza artificiale, è solo calcolo computazionale velocissimo. Il linguaggio del computer è estremamente lineare, mentre il linguaggio della mente lavora in modo più che tridimensionale, ed è capace di intuire, esercitare il libero arbitrio, avere dubbi e sensazioni. Hiroshi Ishiguro, studioso e insegnante di robotica all’Università di Osaka, dice che siccome la coscienza è un ammasso di conoscenze, allora in futuro esisterà un computer sufficientemente potente da possedere una coscienza. A me sembra una riflessione aberrante.
Lei è da molti anni presidente di Pubblicità Progresso: da qualche anno mi sembra che la Corporate Social Responsability sia diventata strategica
Sì, concordo. Le grandi aziende hanno capito che la CSR non significa mettere zucchero a velo in un torta non proprio dolce, non è il greenwashing, ovvero buttare il colorante sul Po e poi fare una pagina sui giornali che hai restaurato una chiesetta. Quest’anno Audi nell’ultima campagna superbowl parla di parità di trattamento e salario tra maschi e femmine: che non vuol dire “guarda quanto sono buono”, bensì “ragiono di cose che sono importanti per te: parità di genere e acquisto dell’automobile”. Usano il valore sociale perché la gente ne ha bisogno, proprio perché stanno finendo le grandi “agenzie di senso”, il brand non solo diventa una casa in cui rifugiarsi, ma mi dà cose che non mi aspettavo. Sono bravi quelli che riescono a farlo coerentemente con la loro missione C’è poi anche il tema della reputation delle aziende Vero, e la reputazione non te la puoi costruire a botte di campagne. Io sono nato a Ivrea e ci ho vissuto fino ai 10 anni, e quindi so perfettamente che Olivetti è stato il vero grande precursore del CSR. La Olivetti produceva buoni prodotti – non per niente macchine da scrivere e personal computer le hanno inventate loro – aveva un’ottima assistenza ai consumatori e soprattutto ai dipendenti, con bici, campi da tennis, mensa e teatro gratuiti. Un paradiso terrestre. Poi sono arrivati i “maghi della finanza” e hanno trasformato quel gioiello in un’azienda che produce cartucce per stampanti. Insomma era già stato tutto inventato, e quindi ora stiamo tornando a quel concetto: non dobbiamo pensare alla CSR come una sovrastruttura, ma come un elemento che fa parte dell’impresa. Dal suo punto di vista com’è la situazione odierna della comunicazione in Italia? Mah, guardi, la comunicazione in Italia è sempre vista come una cosa semplice: tutti credono che siccome sanno leggere e scrivere, allora sono capaci di comunicare. Anche nelle grandi famiglie imprenditoriali, il figlio meno riuscito lo mettevano a capo della comunicazione. È sempre stata considerata la figlia di un Dio Minore, ma dall’altro lato molti comunicatori si sono inventati una carriera sul nulla e una competenza senza averla. Per esempio, guardiamo nella politica, questi consulenti di comunicazione, questi Rondolino, Velardi, che si atteggiano a grandi guru, ma che studi hanno fatto? Vedendo anche le ultime storie di Renzi e il Governatore di Bankitalia, ma anche Maroni e il referendum. Io mi chiedo, chi consiglia a questi come comunicare?
La corsa al tweet e al titolone è una tragedia. Anch’io che sono Ariete ho imparato a respirare 10 volte prima di parlare, e pur nella mia capacità creativa, di cazzate ne ho dette tante anch’io. Ma nella politica italiana non vedo una strategia, che invece aveva addirittura Trump nella sua campagna elettorale.
È stato a lungo consigliere Rai: che Rai vede oggi?
Mi sembra che ci siano gli stessi problemi di sempre, come la politica che manovra i cambi dei direttori di rete e dei tg. Quel che non va avanti purtroppo è la capacità delle redazioni di produrre un contenuto multimediale che sappia integrare i due mezzi, quello televisivo e quello digitale. È stato anche amministratore delegato e direttore editoriale di Rainet dal 2003 al 2008. Mi sembra che oggi RaiPlay sia una bella novità… Esatto. Ho costruito da zero Rainet, che era una società partecipata indipendente, prendendo le migliori teste interne della Rai e qualche ingegnere esterno. Mi sono ispirato al progetto che stava portando avanti la BBC. È stata una fatica pazzesca, perché eravamo considerati gli ultimi della catena del valore; internet era un’ancella che doveva solo portare ascolti alla tv. Avevamo costruito una bella cosa: 7 canali di web tv con 30 milioni di video caricati , crescita del 500% di utenti unici in 4 anni; quando la cosa è diventata interessante, io che non avevo nessuna protezione politica sono stato cacciato fuori, il progetto è finito in mano a persone che non state capaci di continuare il lavoro, e hanno distrutto tutto ciò che era stato fatto. Alla fine Rainet l’hanno addirittura chiusa, pur avendo un vantaggio fiscale a tenerla in vita e hanno fatto un disastro. Con l’arrivo di Campo Dall’Orto è entrato un nuovo responsabile new media. Io ci sono andato a parlare e gli ho segnalato disinteressatamente il team che aveva lavorato con me e lui se li è andati a ripescare. E ha cominciato da dove avevo finito io dieci anni fa. Quindi la Rai digitale sta andando avanti. È la tv che è rimasta sempre la stessa. L’arrivo di Netflix sta travolgendo tutto, e la frase che abbiamo ripetuto da anni “peak time is my time” è oggi una realtà anche da noi. Questi sono drive ormai evidenti a tutti : l’avevo scritto in un articolo su IlSole24Ore nel 1994. Ma questo non lo scriva, è talmente noioso dire “io l’avevo detto”.
Essere creativi è un istinto. L’ozio fa scattare la scintilla
Creatività, tecnologia e tempo libero. Il tempo cambia in base ai periodi, persone e circostanze.
E’ sempre e solo una questione di tempo. Si tratta di un concetto che ho espresso più volte, ma credo che sia alla base di ogni riflessione o ragionamento. E non solo per quanto riguarda la tecnologia. Ma partiamo da questa, che poi è il tema che contraddistingue i nostri scritti.
La concezione del tempo cambia a seconda dei periodi, delle persone e delle circostanze. Nel 1969 per andare da Roma a Milano in treno occorrevano circa sei ore. Il treno veniva definito rapido. Oggi, con il Freccia Rossa, ci si impiega meno della metà. Con l’auto, invece, percorrendo l’autostrada, la durata del viaggio rimane più o meno la stessa di circa 40 anni fa. La sensazione che il tempo passi velocemente o meno è data anche dall’ambiente. Se facciamo un bel lavoro il tempo passa velocemente. Viceversa, il tempo non passa mai. Se, ad esempio, assistiamo a un bel concerto, il tempo acquista un valore diverso e sarà difficile paragonare quelle ore trascorse ad ascoltare musica rispetto allo stesso periodo di tempo necessario per svolgere un’attività più noiosa.
Ma questo cosa c’entra con la tecnologia? C’entra molto, considerando che oggi, grazie ai mezzi di comunicazione sempre più sofisticati, riusciamo a fare molte più cose in tempi decisamente ridotti rispetto al passato. Ma tutto ciò ci rende più felici? Prendiamo i telefonini. Grazie a WhatsApp, a Facebook e ad altri social, siamo in continuo contatto con altre persone, amici o conoscenti che definiamo amici. Le nostre prospettive sono cambiate. Così come i nostri sentimenti. Il nostro sguardo è sempre rivolto in basso, sul display del cellulare o del tablet. E i nostri rapporti sono sempre più virtuali.
In questo panorama mi ha colpito molto un libro scritto da Paolo Crepet, dal titolo Baciami senza rete, Mondadori. Il volume nasce da una scritta apparsa su un muro di Roma: “Spegnete Facebook e baciatevi”. Parole che sintetizzano nel migliore dei modi l’epoca in cui stiamo vivendo. Nessuna accusa contro la tecnologia, ci mancherebbe. Non lo ha fatto neppure l’autore del libro in questione. La tecnologia è utile, fondamentale, facilita le nostre vite in molti campi. Tuttavia è necessario fermarsi a riflettere su quegli aspetti che stanno modificando così tanto le nostre esistenze per comprendere e affrontare questa fase di cambiamenti e di transizione affinché si utilizzi nel miglior modo possibile il tempo a disposizione. Il tempo, appunto.
Visto che grazie alla tecnologia riusciamo a fare molte più cose nello stesso lasso di tempo, vale la pena dedicare più ore allo svago, alla distrazione. Distrarsi fa bene alla salute e alla creatività. E’ quanto sostiene Michael C. Corballis, un professore di psicologia dell’Università di Auckland, in Nuova Zelanda, autore del libroLa mente che vaga, edito da Raffaello Cortina. Senza distrazione non c’è pensiero, sostiene Corballis. In fondo è quello che diceva anche Steve Jobs, ovvero, essere creativi significa vedere qualcosa che fino a quel momento non c’era. E allora, scrive Corballis, la distrazione diventa una speciale forma di concentrazione. Perché la mente non si ferma mai.
La distrazione, lo svago, l’ozio. Di ozio creativo parla Domenico De Masi, professore di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma. Esiste una prospettiva diversa, scrive De Masi, che ci può guidare fuori dallo smarrimento dei nostri tempi. Una prospettiva che il professore definisce Una semplice rivoluzione, che è anche il titolo del suo libro. Nel momento in cui la tecnologia è entrata così prepotentemente nelle nostre vite, rendendoci raggiungibili ovunque, dagli amici, dai nemici, localizzati attraverso i cellulari e altri dispositivi a cui affidiamo memoria, senso di orientamento, tempo libero e rapporti con le persone, non sarà il caso di staccarsi ogni tanto per recuperare quella parte di tempo che ci è stata tolta?
Non si tratta di essere avversi al progresso tecnologico. Non siamo come i Greci che nella antica Atene disponevano ciascuno di otto schiavi che in pratica si occupavano di tutto. Del resto, era chiaro che avanti così non si poteva andare e prima o poi quella pacchia doveva finire. Tuttavia è proprio dal tempo libero che nasce la civiltà, come sosteneva il grande filosofo russo Alexandre Koyré. Oggi quasi il 70 per cento della popolazione attiva lavora più con il cervello che con le braccia. La compresenza in molti casi non è più necessaria, e per i lavoratori intellettuali è sempre più difficile scindere il proprio mestiere da quello che viene definito ozio creativo.
Essere creativi è un istinto, e proprio l’ozio fa scattare la scintilla, l’idea, accende la lampadina che illumina la mente. Molte aziende nella Silicon Valley mettono a disposizione dei propri dipendenti sale relax, ambienti destinati al gioco, al divertimento, allo sport, per rendere più attraente il lavoro ma soprattutto per abbattere la barriera tra attività e tempo libero e per sollecitare la mente a nuove e sempre più utili invenzioni. La riconquista del tempo, paradossalmente, valorizza ancora di più le opportunità offerte dalla tecnologia. E organizzare nel migliore dei modi le proprie giornate rappresenta una delle principali sfide del futuro.