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Il collasso mediatico sociale e la pelliccetta scagnata

L’ultima volta che avevo parlato di “collasso mediatico sociale” è stata in occasione delle elezioni presidenziali negli Stati Uniti, quando mi sono imbattuto in una foto che ritraeva Hillary Clinton di fronte ad una folla di ammiratori, i quali però davano le spalle alla candidata per farsi dei selfie.

Niente in confronto a quello che è successo in un centro commerciale di Caserta recentemente.
Chiunque abbia avuto una minima esperienza nel Retail avrà sicuramente avuto modo di imbattersi con clienti che presentavano dei reclami per problemi avuti con dei prodotti. In ogni situazione del genere, sempre molto delicata, è compito dell’addetto alle vendite o del responsabile del punto vendita gestire la situazione al meglio, con l’unico obiettivo di far contento il cliente ed ovviamente tutelare il profitto dell’azienda. Ma in questo caso qualcosa è andato storto. In questa situazione, oltre ad una cliente che si è scatenata all’interno del negozio inveendo contro la commessa e lamentandosi che l’abito acquistato poco tempo prima avesse perso colore macchiando una pelliccia che stava indossando durante un matrimonio, sempre all’interno del negozio, un altro cliente ha ripreso tutto e pubblicato immediatamente il video sui social. E da quel momento, un semplice e comune episodio di reclamo, sebbene un po’ colorito nella gestione della comunicazione da parte della cliente, è diventato un vero e proprio caso mediatico, il video è diventato in poche ore un cosiddetto “video virale”.
Quale dei due clienti ha arrecato il maggior danno all’azienda?
Mettiamoci però nei panni dell’azienda che si è vista, in un attimo, balzare agli onori della cronaca e costretta a gestire una crisi, anzi una “nuova” crisi. Ma non dimentichiamoci che spesso le crisi si trasformano in opportunità, se ben gestite. E questo è stato il caso Silvian Heach. Siamo tutti d’accordo che l’azienda non abbia fatto una bellissima figura in questa circostanza e sicuramente sarebbe stato possibile evitare tutto ciò. Ma ecco che cosa è successo nel web nei giorni successivi: Il marchio ha avuto un’impennata impressionante e, analizzando la funzione pubblica di Google Trends, sono stati raggiunti valori mai registrati prima. Gestire “social media crisis”, non è semplice, ma è importante essere preparati e soprattutto consapevoli di quello che è l’ambiente in cui ci si muove. Nel caso specifico, la reazione dell’azienda è stata molto particolare e, forse, molto efficace. Silvian Heach infatti ha deciso di riprendere l’episodio con molta ironia e leggerezza ma, soprattutto, con estrema velocità, pubblicando immediatamente un video in risposta a quanto accaduto di assoluto effetto e sdrammatizzante (qualche testata giornalistica ha definito questa reazione addirittura “geniale”).
La cliente, dal suo canto avrà sicuramente ricevuto un adeguato risarcimento al danno subito, ed un’inaspettata (e sicuramente piacevole) visibilità mediatica.
E tutti vissero felici e contenti…
Ma non sempre queste storie hanno tutte un lieto fine, perché casi del genere sono oggi dietro l’angolo e il rischio di trovarsi impreparati è estremamente alto. Il danno e la perdita di profitto che potrebbero generare questo tipo di crisi, ai tempi dei social media, potrebbe avere un effetto devastante sull’azienda. Dobbiamo evolverci e farci trovare pronti, ma siamo solo all’inizio. Temo che assisteremo ancora ad episodi del genere, siamo nell’era della omnicanalità!




Wikipedia: fontare o non fontare

Wikipedia: fontare o non fontare

Durante la cerimonia dipremiazione del concorso letterario “Racconti Corsari” dell’inizio di febbraio mi sono reso conto che alcuni interventi (tra cui il mio) hanno attinto informazioni e aneddoti dalla rete, e in particolare dalle pagine di Wikipedia. È un percorso quasi naturale, intrapreso da chiunque abbia un dubbio, e reso ancora più immediato dalla diffusione di quella protuberanza del nostro corpo chiamata smartphone. Dovrebbe essere un punto di partenza, nulla più, anche se spesso rappresenta sia l’inizio che la fine del nostro sforzo per appagare la sete di conoscenza: l’esercizio del pensiero critico necessita approfondimenti maggiori rispetto ai risultati di un semplice inserimento di parole chiave su un motore di ricerca o un sito.Sull’utilità di tale processo, tuttavia, non si discute, anche in relazione alla semplicità dell’accesso e alla fruibilità delle informazioni. Sul contenuto, invece, sarebbe il caso di discutere eccome: in passato ho eliminato dall’enciclopedia Wikipedia affermazioni che di enciclopedico avevano davvero poco, inserite da qualche buontempone probabilmente come gesto di rivolta o di critica. Ne cito due su tutte: il romanzo, definito “un genere letterario della narrativa in prosa, caratterizzato da un testo di una certa estensione, tipo anche più di venti pagine, ma anche meno se è scritto piccolo piccolo (se la pagina fa un metro per due e il carattere è piccolo, ne basta una)” o l’imposta di soggiorno di cui buona parte del gettito “inevitabilmente servirà ad alimentare il giro di corruzione, di favoritismo, di nepotismo e il mercato della prostituzione (escort) che affligge le varie istituzioni”. Queste affermazioni sono rimaste disponibili in rete senza che nessuno se ne accorgesse o che aprisse una discussione su quanto fossero “fontate” (orrendo neologismo che non deriva dall’italianizzazione di un termine inglese – font, carattere di stampa – ma da un obbrobrio linguistico tutto italiano che trasforma il sostantivo “fonte” in un verbo, “fontare” appunto, attribuire una fonte).Negli scorsi mesi mi sono trovato a fare i conti (da autore di contenuti) con il moloch di Wikipedia, che riesce a fondere in un connubio non sempre ben intellegibile la libertà diffusa di accesso alle informazioni dell’enciclopedia dal lato dei fruitori, con l’impossibilità (anch’essa diffusa) a vedersi riconosciuto il diritto di avere una pagina dedicata alla propria attività e alle proprie produzioni artistiche.In effetti, negli anni si è assistito a un aumento esagerato delle pagine di Wikipedia, trasformatasi in una specie di Facebook. La reazione era stata la chiusura del recinto dopo la fuga dei buoi, a cui si è accompagnata (possibilità che gli allevatori distratti non hanno) la cancellazione di una moltitudine di pagine non considerate enciclopediche. Questo processo continua, fondato in particolar modo su un oscuro concetto, cangiante nei confini, della “valenza enciclopedica” delle fonti che consentono e sorreggono l’inserimento di una nuova voce.Sotto questo profilo ho alzato bandiera bianca da qualche anno, rinunciando a inserire nuove voci nella enciclopedia libera. L’ultima volta ci ho provato con Fabio Izzo, ai tempi della sua partecipazione al premio Strega grazie alla presentazione di Predrag Matvejevic. La pagina è stata cancellata a breve. Se non sapete chi è Predrag Matvejevic guardate su Wikipedia. Fregandomene dell’adagio “Chi dimentica il proprio passato è destinato a riviverlo”, ho recentemente proposto l’inserimento di una pagina di Wikipedia dedicata a Giovanni Agnoloni. Non è una questione di conoscenza personale o di suggerimenti esterni: il mio interessamento deriva da un approfondimento sul movimento del Connettivismo, di cui Agnoloni è esponente rilevante sia per i romanzi prodotti e la partecipazione alle principali antologie connettiviste, sia quello che può essere considerato come il principale saggio critico sul movimento. La pagina Wikipedia del Connettivismo, tra l’altro, riporta “sia come autori che come saggisti, (…) Giovanni Agnoloni (autore anche dell’articolo riassuntivo sul connettivismo, uscito per Italica Wratislawiensia)”.Sulla pagina si sono succeduti interventi che hanno eliminato alcuni fonti ritenute non enciclopediche. La principale è quella alsito Next eliminata in quanto considerata alla stregua di un blog. Sorvolo su quanto questo intervento sia pertinente: Next non è un blog ma il sito ufficiale e di riferimento del Connettivismo. Non c’è altra fonte più qualificata e in questo caso non può valere la motivazione “Niente blog come fonti”. Ma tant’è.Una parentesi su cui varrebbe la pena soffermarsi, se non fosse del tutto inutile, riguarda la valutazione sulle case editrici per cui ha pubblicato Agnoloni, non considerate all’altezza della valenza enciclopedia richiesta. I piccoli e medi editori italiani ne saranno felici.  Nello specifico quelle di Agnoloni non possono essere considerate “micro case editrici”: sono piccoli editori ma non editori a pagamento e soprattutto non è una caso di self publishing. Il Connettivismo, purtroppo, non è mainstream, ma questo non può sminuirne la valenza letteraria. Può però determinare l’esclusione da Wikipedia.La pagina sconta il peccato originale di essere già stata inserita una volta, due con la mia versione. Dal mio punto di vista poco rileva: la comparazione del contenuto delle due pagine mostra un lavoro di ricerca, recupero di fonti critiche e di approfondimento non paragonabile a quanto in precedenza presente su Wikipedia. Dal mio punto di vista, ovviamente.E questo è un elemento su cui varrebbe la pena interrogarsi: dal mio punto di vista. Alla circostanza che le mie testi, espresse e difese, non abbiano trovato sostenitori, dovrebbe fare da contraltare la presenza di una moltitudine di soggetti interessati a giudicare, nel merito, i contenuti. Qualificati, titolati, che si esprimono con argomentazioni fondate (e non “fontate”) nell’ambito di una discussione critica. Questo è il problema, non solo di Wikipedia ma della nostra società: l’illusione che la disponibilità di dati e informazioni in rete, facilmente fruibili, sia sintomo di democrazia. E che l’illusione di una democrazia che passa per la rete non crei e consolidi, come invece avviene, oligarchie e centri di potere. Ma questo non è colpa di Wikipedia: è una versione aggiornata, nei mezzi e negli strumenti, della storia dell’Umanità.




Internet, dieci regole per far sopravvivere la Rete

Anno del signore 2018: Internet non è più libera. E potrebbe andare in pezzi.
La Russia ha bloccato Telegram. L’Iran conta di fare lo stesso. Gli Usa hanno bocciato la neutralità della Rete; la Francia vuole backdoor governative nei sistemi di messaggistica; Egitto e SudAfrica pianificano leggi censorie; l’Etiopia arresta e fa sparire un blogger autoctono; la Cina chiude gli account femministi sui social; israeliani e palestinesi si zittiscono online a vicenda e in Indonesiaun milione di utenti cade nelle maglie di Cambridge Analytica. Che sta succedendo? Succede che Internet è il nuovo terreno di scontro di un mondo che si fa la guerra con bombe e armi chimiche ma anche usando virus, missili digitali, censura e arresti preventivi nel cyberspace.
Era per impedire tutto questo che le nazioni convocate dall’Onu a Tunisi nel 2005 avevano dato vita all’Internet governance forum, l’incontro mondiale dove tutti gli utenti Internet possono esprimersi, proporre innovazioni e soluzioni condivise ai temi emergenti di un mondo sempre di più globale e interdipendente grazie alla Rete. L’idea dell’allora segretario Kofi Annan era di affrontare con Internet gli obbiettivi del millennio: la lotta alla fame e alla povertà, la pace globale e lo sviluppo del potenziale umano. Da allora questo “parlamento” di Internet si è riunito 12 volte – la prima ad Atene, l’ultima a Ginevra – ma l’enorme potenziale di crescita e democrazia che la Rete porta in dote continua a infrangersi sugli scogli dell’incomprensione, dell’autoritarismoe degli interessi commerciali.
Così accade che in larga parte del mondo – nonostante siano oltre quattro miliardi le persone connesse a Internet – non è ancora possibile per donne, minoranze, attivisti e pacifisti esercitare attraverso di essa il diritto all’informazione e alla libertà d’espressione tanto spesso raccomandate dalle Nazioni unite. E molti altri non possono neppure usare Internet per imparare, lavorare, commerciare o divertirsi online semplicemente perché non ce l’hanno.
Per favorire un processo globale di dialogo e inclusione dal Palazzo di vetro di New York è venuta la richiesta di far incontrare a un unico tavolo cittadini, imprese, governi e associazioni dello stesso Paese per liberare ogni dove il suo potenziale di crescita economica e di rafforzamento della democrazia. I capitoli nazionali dell’Igf da allora si incontrano ogni anno in molti Paesi e in qualche caso sono riusciti a ottenere dei risultati in termini legislativi. L’Italia è uno di questi. Grazie al lavoro fatto negli anni da persone come StefanoRodotà, il Parlamento italiano ha perfino partorito una Carta dei diritti della Rete, una Internet bill of rights che – come tutte le costituzioni repubblicane – stabilisce nella sua prima parte una serie di principi comuni, valori condivisi e diritti non negoziabili: l’accesso alla Rete per tutti, il diritto alla privacy, la libertà d’informazione, il diritto incomprimibile alla libera manifestazione del pensiero.

Ognuno può dare il suo parere fino al 30 aprile e stabilire le priorità di intervento votando tre temi fra i dieci proposti per mantenere la Rete libera, aperta e funzionante: lotta agli abusi verso i bambini, sicurezza informatica, diritto alla formazione, contrasto alle fake news, tutela dei lavoratori della new economy, etica dell’innovazione, proprietà dei dati personali e difesa della proprietà intellettuale, regole giuridiche globali, privacy e libertà d’espressione.
Di sicuro sarebbe utile che la consultazione ribadisse i principi della Carta di internet, a cominciare dalla libertà d’espressione che in tanti, troppi Paesi è a rischio. Sarebbe un buon esempio per tutti.




Csr, come farla male. Il pasticcio della United sulle armi

La decisione di recidere ogni collegamento con la National Rifle Association (compresi gli sconti riservati ai suoi membri), presa dalla United Continental Holding Inc. subito dopo la strage di Parkland, in Florida, potrebbe rivelarsi un boomerang.
Durante l’ultima assemblea annuale, un azionista ha fatto notare al ceo, Oscar Munoz, come la decisione rischi di allontanare milioni di potenziali clienti che possiedono armi da fuoco o che supportano il diritto a detenerle. Ebbene, la risposta di Munoz ha sminuito la portata della scelta: «Non è stata politica. (La decisione) è stata personale con riferimento alla mia “famiglia” della United».
Il Ceo della società ha spiegato che tra le 17 vittime della strage c’era anche Gina Rose Montaltola figlia teenager di un capitano della compagnia di volo. Tanto che circa un centinaio di piloti e altri dipendenti di United, JetBlue Airways Corp., American Airlines Group Inc. e FedEx Corp. hanno partecipato al suo funerale, formando una sorta di guardia d’onore all’entrata della celebrazione.
La dichiarazione di Munoz, però, potrebbe ora sollevare le proteste di quanti sostengono la scelta di allontanarsi dagli interessi della potente lobby delle armi Usa. Il rischio, infatti, è quello di aver fatto un pasticcio nella gestione di una scelta che poteva sembrare in linea con una ben definitaresponsabilità aziendale.




Influencer marketing: cos’è e come sfruttarlo

I social network sono una questione sempre più seria. Da tempo grandi e piccole aziende hanno intuito il potenziale di strumenti come Facebook, Twitter e Instagram per parlare direttamente ai propri consumatori e costruire relazioni uniche. Più recentemente però, i brand hanno scoperto un nuovo e potente canale per comunicare e raggiungere il proprio target: i cosiddetti (e sempre più famosi) influencer.
Figure accomunate da un largo seguito sui social, da una voce neutrale e allo stesso tempo autorevole agli occhi della propria community (authority, knowledge, position e relationship gli elementi costitutivi individuati da MailUp). La creazione di relazioni di valore è infatti al centro dell’Influencer Marketing, un insieme di tecniche e strategie che ha tra i propri obiettivi quello di aumentare la portata della voce del brand grazie all’affidamento dei propri messaggi a figure selezionate.
Influencer MarketingMa come scelgono le aziende l’influencer giusto? Fondamentale, nella persona individuata, la capacità di parlare a un pubblico preciso, con caratteristiche socio-demografiche e abitudini di consumo particolarmente delineate, una cosiddetta nicchia, che si immedesima nello stile del proprio influencer.
Conta dunque il numero di follower (parliamo generalmente di migliaia o addirittura milioni), ma questo non deve rappresentare l’unico criterio di valutazione all’interno di una strategia di Influencer Marketing, come sottolineato nella Video Academy di MailUp.
Oltre al seguito, è infatti necessario analizzare la capacità degli influencer di essere percepiti come persone “normali”. Di qui il vero paradosso, l’equilibrio sottile alla base dell’Influencer Marketing. Come può una persona considerata autentica e spontanea scendere “a compromessi” con un brand e mantenere intatta la relazione con il proprio pubblico? I migliori influencer hanno capito da tempo che la fiducia del proprio seguito è fondamentale per il proprio posizionamento e per il proprio business: per questo curano i propri contenuti nel minimo dettaglio e li inseriscono in uno storytelling intimo e personale.
Recentemente, negli Stati Uniti, la Federal Trade Commision ha però istituito una nuova tutela a difesa dei consumatori; l’obbligo cioè, di contrassegnare i contenuti a pagamento pubblicati su profili personali di influencer con gli hashtag #sponsored o #adv. Una misura che permette, tra l’altro, di tracciare in maniera semplice la condivisione di questi contenuti. Da gennaio 2017, solo su Instagram, ne sono stati pubblicati oltre 200 mila al mese.
Ma quanto guadagna un influencer? Per chi ha una follower base consolidata, quello dei social network è sicuramente un mercato lucrativo, come scrive l’Economist, che ha provato a fare una stima del valore di un singolo post sui diversi social network. Secondo il giornale, Instagram e Snapchat assicurano buoni ricavi: tra i 5 mila dollari per post per chi ha un massimo di 500 mila follower e oltre 150 mila dollari per chi supera i 7 milioni. Cifre considerevoli, ma nulla in confronto a YouTube, il canale più remunerativo in assoluto: si guadagnano infatti più di 12 mila dollari per un contenuto condiviso con un pubblico di 500 mila follower, per arrivare a 300 mila dollari con community di oltre 7 milioni.
Nonostante venga spesso liquidato come fenomeno di passaggio, questi dati dimostrano come l’Influencer Marketing sia di fatto un nuovo trend di considerevole portata, difficile da ignorare. Un’opportunità da analizzare a fondo per capire come utilizzarla per i propri obiettivi di brand, preparandosi a coglierne ogni possibile evoluzione.