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The Sound of City

L’ospite di questa settimana del mio blog è Chiara Luzzana che ha dato vita al progetto The Sound of City.

Ciao Chiara e benvenuta sul mio blog. Come è nata l’idea di The Sound of City?
Grazie a te Rossella, è un grande piacere, nonché onore, essere invitata sulle tue pagine. “The Sound of City ®” nasce dalla mia voglia di esplorazione. Dal mio amore per i viaggi. Nasce dal desiderio, legato poi alla mia professione come Sound Designer, di descrivere ogni cosa attraverso un senso per noi fondamentale: l’udito. Ed ecco quindi che il progetto diventa come un caleidoscopico amplificatore del suono di ciascuna città. L’esperienza non è più visiva, ma uditiva. La missione principale è quella di camminare e riconoscere una Città attraverso il suo aspetto più intimo, quasi inosservato, dell’ascolto.
Nel 2015 hai realizzato la composizione della colonna sonora di Shanghai: come mai ha scelto proprio questa città?
Ho vinto una residenza Artistica a Shanghai, e per diversi anni ho vissuto in questa incredibile Città nella quale 2 volte l’anno faccio ritorno, perché ho il mio secondo studio lì. Inutile dire che me ne sono innamorata perdutamente. Shanghai è ricca di contraddizioni; alterna silenzio a rumore, colori vividi a grigio intenso, complessità e semplicità, asfalto, traffico, contrapposto ad aree verdi, ricche di attività all’aperto.
Shanghai è stata la culla del progetto “The Sound of City ®” perché in essa, nella mia esperienza solitaria, ho imparato a trasformare i rumori, anche della mente, in un’esperienza positiva. Ecco quindi che il frastuono della città, è diventato melodia. La trasformazione, la nascita di qualcosa che nasce “disarmonico”, è la base della mia ricerca come Artista Sonora e Sound Designer.
Possiamo dire che The Sound of City è un “progetto mondiale”?
Non solo è un progetto mondiale, che ha toccato fino ad ora 14 Città, ma è anche un progetto che avrà vita eterna, finché avrò vita per ascoltare ogni luogo del mondo.
Quali sono le maggiori difficoltà che incontri nel tuo lavoro? 
Sicuramente viaggiare da sola. Inutile mentire: un viaggio in solitaria per una donna, in Città del mondo per lo più sconosciute, diventa più complicato in termini di “sicurezza personale” rispetto ad un uomo. Ad eccezione di questo aspetto, non ho riscontrato particolari difficoltà, o meglio, ce ne sono come in ogni altro lavoro, ma cerco di prenderle sempre per il lato positivo di esse. Ti faccio un esempio. Registrare una Città, significa portarsi sulle spalle più di 15 chili di attrezzatura, sia audio che video. Questo potrebbe essere un deterrente. Invece diventa lo stimolo per prepararsi durante l’anno, ad avere un rapporto con l’allenamento fisico costante. Oppure ancora, aprire un’attività è spesso un salto nel vuoto, trovare clienti, gestire tutto da soli, ma la libertà che questo approccio lavorativo ti dona in cambio, è impagabile.
Per concludere, quali sono i tuoi programmi per il 2018?
Ho unito le mie più grandi passioni: il viaggio e la musica, trasformandoli in un progetto artistico full-time. Non potrei essere più felice di così. Ho inoltre il mio lavoro come Sound Designer che prosegue attivamente , ed anche quest’ultimo mi permette di viaggiare molto. Un piccolo (grande) obbiettivo per il 2018 è quello di realizzare 10 nuove Città per il progetto “The Sound of City ®”.




Altro che Facebook, ecco le piattaforme social usate dai giovani

Da Snow a Musical.ly, da ThisCrush al classico Instagram, ecco su quali social media e app si stanno spostando gli under 25 per sfuggire ai vecchi

Facebook ha un problema: in quello che rimane tutt’ora il suo mercato più importante, il Nord America, gli utenti attivi quotidianamente sono calatiper la prima volta nella storia del social network. Stando a quanto riportato nell’ultima report trimestrale della società, il numero è passato da 185 a 184 milioni. Un calo contenuto, ma che rappresenta comunque un segnale preoccupante per l’azienda di Menlo Park.
L’aspetto più importante, però, è la fascia demografica in cui è avvenuto il declino: nel 2017, l’utenza tra i 12 e i 17 anni è infatti scesa del 9,9%. Nel complesso, il social network fondato da Mark Zuckerberg sembra perdere terreno tra i giovani al di sotto dei 25 anni, facendo segnare un saldo negativo di 2,8 milioni. La tendenza, secondo alcune ricerche, è confermata anche in Italia.
Ma perché questi problemi? Come noto, il 2017 di Facebook è stato segnato dalle polemiche sulle fake news, sulle interferenze russe nelle elezioni occidentali, sulla filter bubble e non solo.
Questioni che, però, probabilmente ai giovanissimi interessano anche meno che alla fascia più adulta di popolazione. Un aspetto più significativo si può allora ritrovare nel cosiddetto context collapse; un fenomeno segnalato per la prima volta dagli analisti che, nell’aprile 2016, notarono come la condivisione di informazione personali (merce fondamentale per Facebook, che le utilizza per targettizzare la pubblicità) fosse calata del 21%.

Quale ragazzo vorrebbe condividere i propri segreti in un luogo dove c’è anche sua madre?

La ragione di questo declino era, appunto, il “collasso del contesto”: il fatto cioè che tutto quello che postiamo su Facebook – a meno che abbiate diviso i vostri contatti in gruppi separati, cosa che quasi nessuno fa – appare a persone con le quali siamo collegati per ragioni molto diverse; compagni di scuola, amici intimi, vecchie conoscenze che non vediamo da una vita, colleghi, parenti, ecc. ecc. Ciò crea una sorta di blocco negli utenti: sarà il caso di postare la foto dell’ultima festa alla quale ho partecipato, se la vedono anche i miei genitori? Non sarà meglio evitare uno sfogo personale, dal momento che lo leggeranno tutti i miei colleghi?
Non è difficile immaginare che questo problema colpisca principalmente i più giovani, che su Facebook sono spesso in contatto con genitori, parenti e anche insegnanti. E così, ecco che i minorenni scappano da un social network dove forse si sentono sotto osservazione, non liberi di agire spontaneamente e che comunque non percepiscono più come nuovo, per rifugiarsi altrove. In luoghi dove il contesto è più omogeneo perché rappresentato principalmente da loro coetanei.
Il primo approdo è Instagram, che in Italia ha raggiunto quota 14 milioni di iscritti (contro i 30 di Facebook) e nel mondo può contare su 800 milioni di utenti attivi, il 59% dei quali compresi in un’età che va dai 18 ai 29 anni. Il social network dei giovanissimi per definizione, Snapchat, ha recentemente dato qualche segnale di vita – il numero di utenti attivi quotidianamente, nel 2017, è salito del 18% rispetto all’anno precedente – ma nel complesso sembra avere subito pesantemente il colpo subito proprio da Instagram, che ha copiato le Storie e le ha introdotte con enorme successo nella sua piattaforma.
Alcune schermate di Musical.ly
Alcune schermate di Musical.ly
 
Ma ad aver davvero cambiato il panorama dei giovanissimi è un social network che chi ha più di 25 anni potrebbe anche non aver mai sentito nominare: Musical.ly, app recentemente acquistata dalla società cinese Bytedance che consente di produrre video in playback, della durata massima di 15 secondi, durante i quali gli utenti ballano o cantano sulle hit del momento, sfruttando anche vari filtri ed effetti.
I dati di Musical.ly sono impressionanti: 200 milioni di utenti nel mondo, con un’età media attorno ai 15 anni e un 70% di utenza femminile. L’Italia è uno dei paesi in cui la comunità è cresciuta più rapidamente, arrivando a contare 4 milioni di iscritti che trascorrono oltre 30 minuti al giorno sull’applicazione, creando alcuni dei 12 milioni di video prodotto ogni giorno (a livello globale) e soprattutto guardando quelli dei muser più famosi, celebrità da 20 milioni di followers come le gemelle Lisa & Lena (viste dal vivo anche in Italia) o Baby Ariel. Gente che, secondo Forbes, incassa fino a 300mila dollari per un post sponsorizzato.
Anche in Italia non mancano i muser di successo: uno dei più famosi è sicuramente Luciano Spinelli, 17 anni e già noto youtuber, che oggi può fare affidamento anche su 1,7 milioni di follower su Musical.ly. Ancora più seguita è la 15enne Elisa Maino, tra i primi dieci muser al mondo grazie ai suoi 2 milioni di fan.

Elisa Maino su Musical.ly
Elisa Maino su Musical.ly

 
A giocare un ruolo fondamentale per generare gli introiti è però la app gemella di Musical.ly: la piattaforma di live streaming Live.ly, direttamente collegata a quella musicale e attraverso la quale gli utenti possono inviare ai loro muser preferiti da 5 centesimi a 50 dollari – acquistando le apposite emoji – in cambio di un po’ di visibilità (la citazione del nome). Non si tratta di spiccioli: i primi dieci autori di Live.ly (che a differenza della piattaforma madre non è dedicato solo alla musica) guadagnavano già nel 2016, in media, 90mila dollari al mese.
Ma il mondo dei social network è in costante fermento, per cui all’orizzonte sta già arrivando la nuova app fenomeno: Snow, piattaforma creata dalla società sudcoreana Naver – la stessa del servizio di messaggistica Line – che può contare su 200 milioni di utenti, concentrati principalmente nel mercato asiatico.

Snow
Snow

 
Nato come clone di Snapchat, Snow ha recentemente aggiornato il suo prodotto per concentrarsi sui selfie, arricchiti con realtà aumentata, sticker, filtri e quant’altro; dando anche la possibilità di girare brevi video in playback (facendo quindi concorrenza a Musical.ly) e poi condividere il tutto sugli altri social. Per il momento non sono noti i numeri nei mercati occidentali – ancora periferici – ma è molto probabile che, volendo cercare il nuovo fenomeno di internet, dovremo a breve fare i conti con Snow.
Non tutti i social network che stanno prendendo piede sono però così innocui (a dire la verità, anche Musical.ly ha sollevato non pochi timori a causa delle attenzioni indesiderate che i video di ragazzine potrebbero attirare): ThisCrush è un’app che consente di inviare a tutti gli iscritti dei messaggi pubblici – e che quindi compariranno in bacheca – o privati e anche in forma anonima.

La creazione di una CrushTag su ThisCrush
La creazione di una CrushTag su ThisCrush

 
A giudicare dal nome (crush in inglese significa cotta), l’applicazione nasce per esprimere apprezzamenti o innamoramenti adolescenziali senza doversi fare avanti (almeno inizialmente); in breve, però, si è trasformata in un covo di insulti e cyberbullismo, attirando anche l’attenzione dell’Osservatorio Nazionale sul Cybercrime guidato da Luca Pisano, che ha denunciato quanto avviene su questa applicazione su Facebook.
Come già visto prima con Ask.fm poi con Sarahah – che, come prevedibile, aveva il solo scopo di fare incetta di dati personali – la possibilità di agire nascosti dall’anonimato apre le porte a comportamenti pericolosi che non vanno né esagerati, né sottovalutati. D’altra parte, l’epoca dei social è iniziata per davvero da meno di dieci anni: una rivoluzione che anche gli adulti, a giudicare da quanto si vede quotidianamente anche su piattaforme popolate da  vecchi come Facebook o Twitter, devono ancora imparare a governare.




La lezione di Shell a chi sottovaluta la Csr

DALLA FIGURACCIA BRENT SPAR A UNO DEI PRIMI IMPEGNI ETICI MESSI PER ISCRITTO DA UNA GRANDE AZIENDA: LA LEZIONE DI CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY DI SHELL 

Corporate social responsibility: il caso Shell. Incredibile ma vero, il colosso petrolifero Shell è stata un pioniere della Csr nel mondo aziendale, ancor di più nel settore dei combustili fossili. Shell infatti ha sottoscritto uno dei primi impegni scritti di impegno etico per il rispetto dell’ambiente. Ma come nasce questo impegno? Da una figuraccia, che porta il nome di Brent Spar.

Corporate social responsibility: il caso Shell

L’impegno nella corporate social responsibility di Shell è indissolubilmente legato a questa piattaforma petrolifera, la Brent Spar, che ha chiuso il suo ciclo di vita nel 1995. Chissà quanti ricorderanno le proteste che partirono in quel momento, in seguito alla decisione di Shell di affondare la struttura a 150 miglia al largo delle coste delle coste scozzesi, in un fondale di 2.000 metri. Attenzione, quella era ritenuta la scelta non solo più economica, ma anche più sicura dal punto di vista ambientale.
Gli attivisti di Greenpeace non erano d’accordo e iniziarono a protestare tentando anche l’assalto alla piattaforma, dalla quale vennero respinti con i getti dei cannoni d’acqua. La scena, trasmessa dalle tv di tutto il mondo, fece scalpore. Gli ambientalisti proponevano lo smantellamento sulla terraferma, recuperando i residui petroliferi contenuti nelle cisterne e riciclando le struttura metallica per evitare la dispersione di metalli pesanti e carburante (anche se poi si scoprì che i dati erano pesantemente inesatti). Per contro, la Shell sosteneva che la demolizione a terra sarebbe stata più pericolosa, dannosa per l’ambiente e soprattutto molto più costosa.

Le proteste per la Brent Spar

A maggio del 1995, la piattaforma Brent Spar, scortata da una nave da guerra britannica e da tre navi della compagnia petrolifera, comincia ad essere rimorchiata verso il punto definito per l’affondamento. Ma la protesta era partita in tutto il mondo: in Germania e Paesi Bassi gli automobilisti boicottavano le stazioni di servizio della Shell (si perse fino al 20% del giro d’affari), seguite da molte alte aziende. Persino Helmut Kohl fece pressioni per lo smantellamento. Alla fine gli attivisti di Greenpeace riuscirono a salire a bordo e a incatenarsi alla piattaforma.
Nonostante il governo britannico rimanesse fermo sulla propria decisione, alla fine Shell decise che la propria posizione non era più difendibile e rinunciò al proposito di affondare la Brent Spar. «La posizione della Shell come grande impresa europea è diventata insostenibile. La Spar ha acquisito un significato simbolico del tutto sproporzionato al suo impatto ambientale. Per conseguenza, le società del gruppo Shell hanno dovuto affrontare critiche di dominio pubblico sempre più intense, soprattutto nell’Europa continentale settentrionale. Molti politici e ministri sono stati apertamente ostili e molti hanno fatto appello al boicottaggio da parte dei consumatori. C’è stata violenza contro le stazioni di servizio Shell, accompagnato da minacce nei confronti del personale della Shell», fu la nota emessa dalla società. 

L’impegno per l’ambiente

Proprio dalle proteste per la Brent Spar è nato l’impegno nella corporate social responsibility di Shell che di lì a poco pubblicò il primo rapporto di sostenibilità nella storia della compagnia anglo-olandese. Nel frattempo, la convenzione OSPAR, ratificata nel 1998, prevede che tutte le piattaforme del mare del Nord debbano essere smantellate sull’esempio della Brent Spar (smantellata poi in Norvegia). «La Brent Spar ha modificato il nostro punto di vista. La Spar non costituisce, come molti ritengono, una minaccia ambientale, ma resterà nella storia come un simbolo dell’incapacità dell’industria di relazionarsi con il mondo esterno», commentò Heinz Rothermund, amministratore delegato della Shell UK exploration).
Rothemund riconobbe che la Shell non aveva preso in considerazione l’effetto delle proprie azioni sull’opinione pubblica, cosa che in futuro avrebbe sempre dovuto fare. Alla Shell conclusero che quanto era avvenuto avrebbe potuto ripetersi e che bisognava prendere decisioni in altro modo. Dovette inoltre accettare che molti non erano disposti a credere alle dichiarazioni che faceva sul proprio modo di agire in campo ambientale. «Vogliamo che in futuro le nostre azioni mostrino che gli interessi fondamentali delle imprese e della società sono del tutto compatibili; che non è necessario scegliere tra profitti e principi», concluse Cor Herckstroter, allora presidente del comitato degli amministratori. 

Il principio dell’impegno

Un’altra conseguenza dell’affare Brent Spar fu che Shell sposò il principio dell’impegno, il che significava coinvolgere nelle proprie decisioni organizzazioni diverse ed esterne all’azienda. Tali organizzazioni esterne non hanno un’autorità ufficiale sulle decisioni che la Shell stabilisce di prendere ma esercitano una forte influenza, poiché la Shell ascolta attentamente le loro opinioni.
In un articolo scritto dieci anni dopo la vicenda di Brent Spar, il presidente della Shell UK Jame Smith affermò: «Imparammo che per quanto essenziali scienza e approvazione governativa non sono sufficienti. Dovemmo impegnarci con la società, capire e rispondere alle preoccupazioni e alle aspettative della gente. Dobbiamo consultarci con loro per tempo e senza remore, pronti ad ascoltare e a cambiare. Dobbiamo ammettere gli errori e dimostrare che tentiamo di risistemare le cose e al contempo di imparare».




Whirlpool Emea, malore della presidente Berrozpe. Tensione alle stelle

Dal Blog “La casa di Paola” – La numero uno del gruppo di elettrodomestici si è sentita male mentre era già ricoverata in ospedale. Escalation di tensioni e duri confronti all’interno del gruppo proprietario di Embraco? Sono molte le partite aperte e c’è anche l’avanzata dei cinesi di Midea

Esther Berrozpe, 43 anni, spagnola-basca, sposata con un figlio, presidente di Whirlpool Emea dal 2013, prima donna in questa carica, è stata colta da malore nella giornata di mercoledì 7 mentre era già ricoverata in ospedale per accertamenti sanitari.
La notizia, già grave di per sé per il ruolo rivestito da Berrozpe, alla guida dell’area europea (Est e Ovest) della multinazionale e per la giovane età della Berrozpe stessa, ha mandato in panico manager e dipendenti, perché arriva in un momento che definire critico per le attività del gruppo in Europa, è dire poco. I dipendenti della multinazionale, già provata da forti contrasti tra i manager, tra il vertice americano e quello europeo, dalla crisi delle vendite in un mercato dove i competitor invece crescono, dalla minaccia dell’arrivo dei cinesi di Midea, sono in grande tensione da diverso tempo.
L’ultima delle cause di questo clima pesante che si respira a partire da Rho, la sede europea di recente inaugurata, riguarda la gestione dell’affare Embraco, dipendente sì dal management brasiliano ma facente parte del gruppo al 100 per cento. E solo l’intervento del governo italiano e del ministro Carlo Calenda in particolare, ha ottenuto l’intervento diretto del presidente mondiale di Whirlpool, lo svizzero-tedesco Mark Bitzer  – che peraltro ignorava in precedenza la reale gravità della situazione – ed ha parzialmente sbloccato l’impasse economica della vicenda (cassa integrazione, stipendi e altro).
Ma il malore di Berrozpe – anche in assenza di conferme che non verranno mai – ha una storia lunga alle spalle come abbiamo anticipato. Se ne  è andato, dopo una sorda, dura serie di contrasti, un carismatico e roccioso general manager di Whirlpool Italia, Lorenzo Paolini (i ricchi margini che aveva sempre messo in tasca agli azionisti rapaci sono diminuiti, non cessati, e questo oggi si paga). Il rapporto annuale sull’andamento del gruppo in Europa, arrivato mercoledì, segnala una forte controtendenza con perdite pesanti di quote storiche. Un esempio per tutti: la non gestione della comunicazione dei pesantissimi effetti delle cosiddette lavastoviglie assassine di Hotpoint, in Inghilterra e poi, a Londra, della tragedia della torre incendiata a causa – secondo la stampa britannica – di un incendio di un frigo Indesit. E la conseguente perdita di quote notevoli di quel 40% del mercato inglese sui cui contava da sempre la multinazionale. E la caduta del mercato russo, eredità dell’acquisizione di Indesit, ma colpito dalle sanzioni e da altro….
Ma ad  agitare l’intero gruppo è l’attesa di una news come smentita o come conferma delle mire pressanti della cinese Midea per appropriarsi del gigantesco ramo europeo di Whirlpool, che per gli azionisti non regala i profitti di prima. Attesa vana. Sembrerà incredibile ma una parte consistente dei problemi che si riflettono su vendite e immagine dell’azienda dipende – come è noto – dalla strategia di una comunicazione di crisi. “Ci vogliono anni – diceva Warren Buffett – per costruire una reputazione e 5 minuti per distruggerla”. E le criticità che Whirlpool ha dovuto affrontare  sono state e sono davvero troppe. Il malore di Esther Berrozpe probabilmente lo dimostra.




Gas serra: la moda emette quanto l’Europa

NUOVO STUDIO CHIARISCE IMPATTO AMBIENTALE DI FASHION E CALZATURE

Un nuovo studio di ClimateWorks Foundation e Quantis chiarisce l’impatto ambientale dei settori fashion e calzaturiero a livello globale: complessivamente sono responsabili dell’8% di tutte le emissioni di gas serra prodotte in tutto il mondo

L’industria dell’abbigliamento e quella delle calzature sono responsabiliinsieme dell’8% delle emissioni di gas serra nel mondo. Tanto quanto l’intera Unione europea. Il solo settore abbigliamento vale ben il 6,7 per cento. Oltre il 50% di queste emissioni è prodotto in tre fasi dell’attività: produzione di fibra (15%), preparazione del filato (28%) e, soprattutto, tintura e rifinitura (36%).
Sono alcuni dei risultati che emergono dal report “Measuring Fashion: Insights from the Environmental Impact of the Global Apparel and Footwear Industries study”, diffuso il 27 febbraio dalla ClimateWorks Foundation (una ong che si occupa di mobilizzare la filantropia per risolvere la crisi climatica) insieme al provider di servizi sulla sostenibilità Quantis.

IL PRIMO STUDIO DEL SUO GENERE

ClimateWorks Foundation e Quantis assicurano che si tratta di una ricerca innovativa. Innanzi tutto perché, dicono, è la prima in grado «di stimare gli impatti ambientali a livello globale delle industrie dell’abbigliamento e del calzaturiero». Andando oltre le stime parziali o gli annunci delle aziende.
In particolare, l’analisi considera il valore della catena del settore attraverso sette passi che vanno dalla produzione della fibra e l’estrazione del materiale fino al fine-vita del prodotto. Inoltre, include cinque diversi indicatori ambientali: cambiamento climatico, risorse, prelievo di acqua, qualità dell’ecosistema, salute umana.
Secondo gli studiosi, gli aspetti innovativi del documento sono tre: 1. si basa su dati specifici d’impatto di questa industria, così come indicati nel World Apparel Lifecycle Database, il che lo rende «completo, robusto e aggiornato»; 2. utilizza un approccio multi-indicatore per valutare diverse aree d’impatto, come il consumo di acqua e gli effetti sull’ecosistema, considerati insieme alle emissioni di gas serra, per assicurare una stima bilanciata sotto molteplici fronti; 3. fornisce una visione dell’evoluzione degli impatti nel tempo.
«C’è una pressione crescente sui brand della moda – ha detto Annabelle Stamm, Quantis senior sustainability consultant – perché dimostrino la propria sostenibilità. Sono state tentate molte simulazioni a proposito della reale performance ambientale dell’industria e della sua catena di valore, dove si trovano i suoi hotspot e quali soluzioni potenziali ci potrebbero essere»Evidentemente, secondo Quantis, si è trattato di simulazioni non complete. «Sapevamo che l’impatto del fashion (sull’ambiente, ndr) era maggiore, ma non avevamo metriche scientifiche su cosa questo significasse davvero. Questo studio ci permette di rispondere ad alcune di queste domande, rompere alcune delle nostre convinzioni collettive e fornire linee guida a chi è impegnato ad agire».

L’ANDAMENTO NEL TEMPO

Tornando ai dati emersi da questo studio, si scopre che senza un cambiamento radicale della situazione il settore peggiorerà di molto nei prossimi anni da un punto di vista dell’impatto ambientale prodotto. Secondo i ricercatori, infatti, se non interverranno cambiamenti, in uno scenario  di “business-as-usual”, l’impatto ambientale del settore dell’abbigliamento potrà arrivare a produrre il 49% dei gas serra emessi complessivamente sul nostro Pianeta entro il 2030, ossia quanto emesso ogni anno negli Stati Uniti d’America.
In estrema sintesi, per mettere in moto un cambio di rotta, lo studio identifica tre leve: “ripensare l’energia”; “disruption per ridurre”; e “design per il futuro”. E, in ogni caso, il report conclude chiedendosi: «Sarà sufficiente il passaggio verso un’economia circolare?».

LA PARTECIPAZIONE DELL’INDUSTRIA DELLA MODA

Lo studio, fanno sapere i ricercatori, si è avvalso anche dell’aiuto di uno “Steering Committee” di leader dell’industria ed esperti che hanno fornito feedback e input, poi utilizzati nella finalizzazione del lavoro.
A questo comitato, in particolare, hanno partecipato: Jason Kibbey, ceo della Sustainable Apparel Coalition; Debera Johnson, direttore esecutivo di Brooklyn Fashion e design accelerator di Pratt Center for Sustainable Design Strategies; Megan McGill, program manager di C&A Foundation; La Rhea Pepper, managing director a Textile Exchange; Linda Greer, senior scientist di Nrdc.