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Benvenuti nell’era dell’attenzione parziale

Troppe informazioni e sempre meno tempo: tra giornalismo, new media e pubblicità Alberto Contri racconta l’era della Costante Attenzione Parziale

Alberto Contri lo potremmo definire un “grande vecchio” della pubblicità italiana, se non fosse che nel mondo della comunicazione spesso il termine vecchio ha un’accezione negativa, di conservatorismo e arroccamento a vecchi schemi.
In realtà Contri, classe ’44, unisce a un curriculum di tutto rispetto –  Direttore Creativo e Amministratore Delegato di DMB&B e McCann Erickson con ruoli anche internazionali, fondatore in Italia di McCann Interactive, Consigliere Rai e a capo di Rainet – una lucida visione sul mondo: oggi è Docente di Comunicazione Sociale allo IULM e Presidente di Pubblicità Progresso.
Contri sa riflettere come pochi su media e pubblicità con uno sguardo al passato e uno al futuro, e con quell’aria da sofisticato gentiluomo d’altri tempi va dritto al punto, e non si vergogna di fare nomi e cognomi. Tutto parte dal suo libro sullo stato della comunicazione McLuhan non abita più qui? I nuovi scenari della comunicazione nell’era della Costante Attenzione Parziale edito dai tipi di Bollati Boringhieri.
Partiamo dal titolo McLuhan non abita più qui?: in realtà come scrive anche Derrick de Kerckhove nell’introduzione, il sociologo canadese aveva previsto l’avvento di una cosa tipo internet
Lo ammetto, mi sono un po’ pentito di quel titolo perché in molti l’hanno preso come un saggio su McLuhan; ne sono usciti così tanti che in realtà non ci sarebbe stato bisogno di pubblicarne un altro. In realtà il libro è una riflessione su come sta evolvendo il mondo della comunicazione, riprendendo alcune sue intuizioni. Il punto di domanda in effetti significa che le sue riflessioni sono ancora valide. Ma il vero argomento del volume è il sottotitolo “La rivoluzione della comunicazione nell’era della Costante Attenzione Parziale”.
Oltre alla famosa frase “Il medium è il messaggio” in realtà McLuhan ha anche scritto “the user is the content” che pare criptica se applicata alla tv e dell’editoria, ma è facilmente interpretabile oggi nel mondo dei media interattivi
È stato di una visionarietà assoluta. Walter J. Ong, il mentore gesuita di McLuhan, addirittura diceva che “noi usiamo i mezzi di comunicazione, ma i mezzi di comunicazione plasmano il nostro cervello”. Basta guardarci attorno e vedere come tutti siamo distratti contemporaneamente da due-tre device in contemporanea e questo ci porta ad acquisire una modalità di pensiero fatta di frammenti che ci porta appunto all’era della Costante Attenzione Parziale.
Non so se ha letto la biografia di McLuhan scritta da Douglas Coupland uscita nel 2011: si racconta di un McLuhan che soffriva di carenza di attenzione, ma sempre pronto a assorbire informazioni da qualsiasi cosa. Forse anche lui aveva una Costante Attenzione Parziale
Non ho letto quel libro, però credo proprio che si trattasse di una Distrazione Creativa, come la chiama De Masi. A volte capita anche a me di essere un po’ dietro al mio sguardo, sembra che io sia lì invece viaggio con il pensiero. Ma è l’ulteriore dimostrazione che noi non ci possiamo scientemente concentrare su una sola cosa. L’inconscio può fare più operazioni, il conscio una sola. Non è come la ragazza che ho ritratto in copertina che cerca di essere multitasking pur essendo dotata di un cervello analogico.
Nel libro lei analizza la situazione attraverso una visione olistica e poi si permette di dare anche una sua opinione soggettiva. L’opposto di quel che vedo in giro: tutti si sentono semiologi e sparano sentenze e analisi affrettate, scrivendo libri sull’abuso degli smartphone…
Sta parlando di Aldo Cazzullo, vero? Lasciamo perdere. Lo trovo orribile. Un ottimo giornalista come quello lì, capace di documentarsi e fare analisi e riflessioni, ti spara un libercolo con quattro chiacchiere di una superficialità disarmante, senza un’analisi di causa e di effetto, ed è pure in testa alla saggistica. È il segno di dove è arrivato il giornalismo oggi.
Invece di provare a comprendere in profondità i nuovi atteggiamenti, i giornalisti inventano tesi partendo dall’interpretazione di una foto con quattro tizi in gondola che guardano gli smartphone
Partendo dai fattori critici, risalgo ai problemi che hanno oggi gli editori della tv e della stampa. Uno dei fattori critici è sicuramente il tempo: il paradosso è che di fronte a una miriade di informazioni a disposizione, abbiamo sempre meno tempo per usufruirne. Una delle vie di fuga è fare sei cose in contemporanea, quindi noi raccogliamo e rielaboriamo frammenti e rispondiamo attraverso gli stessi frammenti senza comunicare più in maniera lineare. Ed è qui che trae origine il linguaggio destrutturato che ha la generazione dei ventenni che vedo tra i miei studenti all’Università.

Per venire incontro a questa deconcentrazione diffusa del lettore, i giornalisti realizzano articoli sempre più brevi, sempre meno carichi di riflessione; ed ecco che si entra un circolo vizioso.

 L’editoria tradizionale non fa molto per riequilibrare la soluzione…
Avendo sposato una delle figlie di Leo Longanesi, l’altro giorno sono andato a un convegno a Bagnacavallo che celebrava questo grande innovatore del giornalismo. C’era Veltroni e la semiologa dell’Università di Bologna Giovanna Cosenza, anche lei nata incendiaria e finita pompiere, che però ha detto una cosa interessante “la forma si sta distaccando dal contenuto”. Longanesi si inventava caratteri, fulminanti titoli di rubriche e aveva una coerenza mostruosa tra quel che scriveva e la forma con cui lo scriveva. Oggi come oggi i giornali scrivono tutto e il contrario di tutto e la gente rimane coinvolta in questo loop con sempre meno tempo a disposizione e meno attenzione. E allora cosa fa il furbo giornalista del Corriere? Siccome nessuno ormai si concentra più, si inventa un libretto con quattro chiacchiere da bar e lo fa diventare un best seller. Siamo ormai in un’epoca dove l’urgenza scaccia l’importanza, così tutto diventa veloce e in questo contesto impera la Costante Attenzione Parziale.
C’è modo di uscire da questo loop?
Tornare indietro è difficile. Quindi oggi gli editori e i media sono costretti a dare un’informazione in pillole, ma se vuoi che sia penetrante la devi curare molto bene.
 

intervista alberto contri sapiens visum salone berlino televisori
Televisori in esposizione al salone IFA di Berlino nel 2006 © A. Vossberg / VISUM / LUZ

 
Online sta funzionando bene il long form: lunghi approfondimenti su un argomento
Le rispondo con la frase del padre dalla pubblicità David Ogilvy, che sosteneva che per i grandi prodotti funziona sempre meglio un copy lungo che uno corto. Le storie interessanti funzionano sempre. Ci sono alcune cose di base che non sono cambiate, anzi, vanno potenziate.
Quindi esiste un modo per correggere questo circolo vizioso
Secondo me tutto passa attraverso l’educazione delle giovanissime generazioni. Esempio: fino a sette anni non si dovrebbe dare in mano a un bambino un tablet o uno smartphone, bensì sviluppare la scrittura a mano. Oggi purtroppo i nativi digitali non sanno più scrivere: lo so che le coercizioni sono sempre sgradevoli, ma forse stavolta sono necessarie.

C’è una cosa di cui sono convinto, è che il nostro cervello non può diventare digitale: ci ha messo 250.000 anni per diventare quel che è, e ora nel giro di pochi anni si sarebbe modificato?

 Sono teorie che da un punto di vista antropologico sono prive di fondamento. Tant’è vero che Richard Branson si è inventato la digital detox, per cui un giorno a settimana vieta a tutti i dipendenti di usare device elettronici, perché si è capito che stiamo andando dentro una patologia. È evidente che la tecnologia ci aiuterà sempre di più, che saremo supportati continuamente da robot e app che faranno sempre più cose, ma questa non è intelligenza artificiale, è solo calcolo computazionale velocissimo. Il linguaggio del computer è estremamente lineare, mentre il linguaggio della mente lavora in modo più che tridimensionale, ed è capace di intuire, esercitare il libero arbitrio, avere dubbi e sensazioni. Hiroshi Ishiguro, studioso e insegnante di robotica all’Università di Osaka, dice che siccome la coscienza è un ammasso di conoscenze, allora in futuro esisterà un computer sufficientemente potente da possedere una coscienza. A me sembra una riflessione aberrante.
Il Paradigma della Superficialità è presente anche nella comunicazione aziendale e nella pubblicità. Molte aziende evitano un “pensiero lungo”: vedo soprattutto progetti a brevissimo termine che danno risultati spesso modesti
Allora, bisogna fare delle distinzioni. In generale concordo con lei, le aziende di medie dimensioni hanno manager che purtroppo lavorano a breve periodo, senza un pensiero strategico a 3-4 anni. Molti marketing manager lavorano solo per il loro curriculum vitae. Ci sono invece aziende multinazionali come Apple, Unilever e Procter & Gamble che oggi stanno lavorando benissimo con un piano di lungo periodo ma in modo globale e quindi oggi in Italia, ai confini dell’impero, arrivano solo le briciole. Un tempo vigeva il think global act local, perciò alle agenzie locali davano un certo margine d’azione. Adesso non esiste più: tutto è già deciso a New York o a Los Angeles, la campagna viene girata lì e quando arriva qui, più che tradurre non puoi fare. Anche se sui social network e sul retail si può fare qualcosa di interessante.
Anche il mondo delle agenzie pubblicitarie ha subito un forte cambiamento in questi anni
Eh, certo! Io sostengo che questo derivi anche da un fattore tecnico: essendo stati abituati a calcolare i compensi alle agenzie sulla base dell’investimento, in questa fase di cambiamento vale la massima americana per cui “i dollari sulla tv diventano centesimi sul web”. Mi spiego meglio: se io azienda per una campagna tv 3-4 milioni li devo spendere, per fare una bella campagna sul digital e social media mi bastano anche 100mila euro. Però se devo pagare un’agenzia che ha lavorato molto, ci ha messo 10 persone per farti un bel progetto digital articolato, e ti do il 2% di 100mila euro, è poca roba. Allora le agenzie mandano dai clienti gli stagisti e si sentono dire cose che non capiscono. E siccome il mondo è pieno di storyteller che fanno video virali, giovani creativi senza arte né parte che si offrono a cifre ridicole, bene o male tutti i clienti prima o poi ci cascano. Quando vedono che le cose poi non vanno, affermano che i nuovi media non funzionano. Ma non è vero!
Oggi sembra che più che la creatività contino i big data, anche nella pubblicità
Ha visto? Adesso Accenture si è fatta la sua web agency e ora si è comprata anche un centro media. Però di nuovo si sta commettendo un errore, perché pensano che i big data siano il futuro di tutto. Certo, è importante avere il maggior numero di informazioni possibile, ma stanno venendo fuori un sacco di problemi sulla privacy, sulla concentrazione dei dati da parti di Google, Facebook… non è così semplice. E poi c’è stata negli anni scorsi questa fede totale al numero dei like, che non vuol dire niente. Ora finalmente in molti si sono resi conto, anche in UPA (Utenti Pubblicitari Associati, l’associazione delle aziende inserzioniste), che molti dati avevano degli errori o erano addirittura falsi.
E poi ci vuole il contenuto all’interno della storia
Ci vuole sempre un’intelligenza creativa, i numeri non bastano. Tornando al discorso di prima: Procter & Gamble ha preso questo Marc Pritchard come Global Brand Supervisor che lavora su tutti i brand. E lui nel nel suo speech iniziale ha detto “mi sono rotto le scatole di aver mille agenzie, ne voglio solo una a servizio completo, che magari coordina altri fornitori: però io devo parlare con un solo interlocutore e non voglio sapere niente delle vostre complessità, portatemi solo un risultato sulla base di un visione globale complessiva“. E da Procter negli ultimi anni sono nate le campagne più interessanti, che da una parte prendono anche valori sociali (il ringraziamento alle mamme durante Rio 2016) dall’altra sfruttano i fenomeni virali della rete per costruirci sopra delle campagne efficaci, vedi come sono riusciti a far risalire un brand come Old Spice.
C’è una campagna che le è piaciuta particolarmente in questi ultimi anni?
Ce ne sono molte. Mi piacciono soprattutto quelle che riescono a inserire i valori di brand o affrontare un tema per così dire “sociale” all’interno di una gabbia divertente: oggi il virale funziona solo per contenuti fuori di testa e che fanno ridere, e al tempo stesso riescono a parlare del prodotto. Visto che prima si parlava di abuso di smartphone, cito quella di qualche anno fa di CocaCola che si è inventata il Social Media Guard affrontando il tema, facendo sorridere e in più comunicando anche il prodotto. Il tutto con un video di 1’40”. Ma quanto tempo ci avranno pensato? C’è bisogno di tornare a una capacità di approfondimento e di analisi che ormai sono andate perse nella grande corsa di fare tutto in fretta.
 

intervista alberto contri sapiens visum salone berlino televisori
Televisori in esposizione al salone IFA di Berlino nel 2006 © A. Vossberg / VISUM / LUZ

 
Lei è da molti anni presidente di Pubblicità Progresso: da qualche anno mi sembra che la Corporate Social Responsability sia diventata strategica
Sì, concordo. Le grandi aziende hanno capito che la CSR non significa mettere zucchero a velo in un torta non proprio dolce, non è il greenwashing, ovvero buttare il colorante sul Po e poi fare una pagina sui giornali che hai restaurato una chiesetta. Quest’anno Audi nell’ultima campagna superbowl parla di parità di trattamento e salario tra maschi e femmine: che non vuol dire “guarda quanto sono buono”, bensì “ragiono di cose che sono importanti per te: parità di genere e acquisto dell’automobile”. Usano il valore sociale perché la gente ne ha bisogno, proprio perché stanno finendo le grandi “agenzie di senso”, il brand non solo diventa una casa in cui rifugiarsi, ma mi dà cose che non mi aspettavo. Sono bravi quelli che riescono a farlo coerentemente con la loro missione
C’è poi anche il tema della reputation delle aziende
Vero, e la reputazione non te la puoi costruire a botte di campagne. Io sono nato a Ivrea e ci ho vissuto fino ai 10 anni, e quindi so perfettamente che Olivetti è stato il vero grande precursore del CSR. La Olivetti produceva buoni prodotti – non per niente macchine da scrivere e personal computer le hanno inventate loro – aveva un’ottima assistenza ai consumatori e soprattutto ai dipendenti, con bici, campi da tennis, mensa e teatro gratuiti. Un paradiso terrestre. Poi sono arrivati i “maghi della finanza” e hanno trasformato quel gioiello in un’azienda che produce cartucce per stampanti. Insomma era già stato tutto inventato, e quindi ora stiamo tornando a quel concetto: non dobbiamo pensare alla CSR come una sovrastruttura, ma come un elemento che fa parte dell’impresa.
Dal suo punto di vista com’è la situazione odierna della comunicazione in Italia?
Mah, guardi, la comunicazione in Italia è sempre vista come una cosa semplice: tutti credono che siccome sanno leggere e scrivere, allora sono capaci di comunicare. Anche nelle grandi famiglie imprenditoriali, il figlio meno riuscito lo mettevano a capo della comunicazione. È sempre stata considerata la figlia di un Dio Minore, ma dall’altro lato molti comunicatori si sono inventati una carriera sul nulla e una competenza senza averla. Per esempio, guardiamo nella politica, questi consulenti di comunicazione, questi Rondolino, Velardi, che si atteggiano a grandi guru, ma che studi hanno fatto? Vedendo anche le ultime storie di Renzi e il Governatore di Bankitalia, ma anche Maroni e il referendum. Io mi chiedo, chi consiglia a questi come comunicare?

La corsa al tweet e al titolone è una tragedia. Anch’io che sono Ariete ho imparato a respirare 10 volte prima di parlare, e pur nella mia capacità creativa, di cazzate ne ho dette tante anch’io. Ma nella politica italiana non vedo una strategia, che invece aveva addirittura Trump nella sua campagna elettorale.

 È stato a lungo consigliere Rai: che Rai vede oggi?
Mi sembra che ci siano gli stessi problemi di sempre, come la politica che manovra i cambi dei direttori di rete e dei tg. Quel che non va avanti purtroppo è la capacità delle redazioni di produrre un contenuto multimediale che sappia integrare i due mezzi, quello televisivo e quello digitale.
È stato anche amministratore delegato e direttore editoriale di Rainet dal 2003 al 2008. Mi sembra che oggi RaiPlay sia una bella novità…
Esatto. Ho costruito da zero Rainet, che era una società partecipata indipendente, prendendo le migliori teste interne della Rai e qualche ingegnere esterno. Mi sono ispirato al progetto che stava portando avanti la BBC. È stata una fatica pazzesca, perché eravamo considerati gli ultimi della catena del valore; internet era un’ancella che doveva solo portare ascolti alla tv. Avevamo costruito una bella cosa: 7 canali di web tv con 30 milioni di video caricati , crescita del 500% di utenti unici in 4 anni; quando la cosa è diventata interessante, io che non avevo nessuna protezione politica sono stato cacciato fuori, il progetto è finito in mano a persone che non state capaci di continuare il lavoro, e hanno distrutto tutto ciò che era stato fatto. Alla fine Rainet l’hanno addirittura chiusa, pur avendo un vantaggio fiscale a tenerla in vita e hanno fatto un disastro. Con l’arrivo di Campo Dall’Orto è entrato un nuovo responsabile new media. Io ci sono andato a parlare e gli ho segnalato disinteressatamente il team che aveva lavorato con me e lui se li è andati a ripescare. E ha cominciato da dove avevo finito io dieci anni fa.
Quindi la Rai digitale sta andando avanti. È la tv che è rimasta sempre la stessa.
L’arrivo di Netflix sta travolgendo tutto, e la frase che abbiamo ripetuto da anni “peak time is my time” è oggi una realtà anche da noi. Questi sono drive ormai evidenti a tutti : l’avevo scritto in un articolo su IlSole24Ore nel 1994. Ma questo non lo scriva, è talmente noioso dire “io l’avevo detto”.

Essere creativi è un istinto. L’ozio fa scattare la scintilla

Creatività, tecnologia e tempo libero. Il tempo cambia in base ai periodi, persone e circostanze.

 
E’ sempre e solo una questione di tempo. Si tratta di un concetto che ho espresso più volte, ma credo che sia alla base di ogni riflessione o ragionamento. E non solo per quanto riguarda la tecnologia. Ma partiamo da questa, che poi è il tema che contraddistingue i nostri scritti.
La concezione del tempo cambia a seconda dei periodi, delle persone e delle circostanze. Nel 1969 per andare da Roma a Milano in treno occorrevano circa sei ore. Il treno veniva definito rapido. Oggi, con il Freccia Rossa, ci si impiega meno della metà. Con l’auto, invece, percorrendo l’autostrada, la durata del viaggio rimane più o meno la stessa di circa 40 anni fa.
La sensazione che il tempo passi velocemente o meno è data anche dall’ambiente. Se facciamo un bel lavoro il tempo passa velocemente. Viceversa, il tempo non passa mai. Se, ad esempio, assistiamo a un bel concerto, il tempo acquista un valore diverso e sarà difficile paragonare quelle ore trascorse ad ascoltare musica rispetto allo stesso periodo di tempo necessario per svolgere un’attività più noiosa.
 
Ma questo cosa c’entra con la tecnologia? C’entra molto, considerando che oggi, grazie ai mezzi di comunicazione sempre più sofisticati, riusciamo a fare molte più cose in tempi decisamente ridotti rispetto al passato. Ma tutto ciò ci rende più felici? Prendiamo i telefonini. Grazie a WhatsApp, a Facebook e ad altri social, siamo in continuo contatto con altre persone, amici o conoscenti che definiamo amici. Le nostre prospettive sono cambiate. Così come i nostri sentimenti. Il nostro sguardo è sempre rivolto in basso, sul display del cellulare o del tablet. E i nostri rapporti sono sempre più virtuali.
 
 

 
In questo panorama mi ha colpito molto un libro scritto da Paolo Crepet, dal titolo Baciami senza rete, Mondadori. Il volume nasce da una scritta apparsa su un muro di Roma: “Spegnete Facebook e baciatevi”. Parole che sintetizzano nel migliore dei modi l’epoca in cui stiamo vivendo. Nessuna accusa contro la tecnologia, ci mancherebbe. Non lo ha fatto neppure l’autore del libro in questione. La tecnologia è utile, fondamentale, facilita le nostre vite in molti campi. Tuttavia è necessario fermarsi a riflettere su quegli aspetti che stanno modificando così tanto le nostre esistenze per comprendere e affrontare questa fase di cambiamenti e di transizione affinché si utilizzi nel miglior modo possibile il tempo a disposizione. Il tempo, appunto.
Visto che grazie alla tecnologia riusciamo a fare molte più cose nello stesso lasso di tempo, vale la pena dedicare più ore allo svago, alla distrazione. Distrarsi fa bene alla salute e alla creatività. E’ quanto sostiene Michael C. Corballis, un professore di psicologia dell’Università di Auckland, in Nuova Zelanda, autore del libroLa mente che vaga, edito da Raffaello Cortina. Senza distrazione non c’è pensiero, sostiene Corballis. In fondo è quello che diceva anche Steve Jobs, ovvero, essere creativi significa vedere qualcosa che fino a quel momento non c’era. E allora, scrive Corballis, la distrazione diventa una speciale forma di concentrazione. Perché la mente non si ferma mai.
 

 
La distrazione, lo svago, l’ozio. Di ozio creativo parla Domenico De Masi, professore di Sociologia del lavoro all’Università La Sapienza di Roma. Esiste una prospettiva diversa, scrive De Masi, che ci può guidare fuori dallo smarrimento dei nostri tempi. Una prospettiva che il professore definisce Una semplice rivoluzione, che è anche il titolo del suo libro. Nel momento in cui la tecnologia è entrata così prepotentemente nelle nostre vite, rendendoci raggiungibili ovunque, dagli amici, dai nemici, localizzati attraverso i cellulari e altri dispositivi a cui affidiamo memoria, senso di orientamento, tempo libero e rapporti con le persone, non sarà il caso di staccarsi ogni tanto per recuperare quella parte di tempo che ci è stata tolta?
Non si tratta di essere avversi al progresso tecnologico. Non siamo come i Greci che nella antica Atene disponevano ciascuno di otto schiavi che in pratica si occupavano di tutto. Del resto, era chiaro che avanti così non si poteva andare e prima o poi quella pacchia doveva finire. Tuttavia è proprio dal tempo libero che nasce la civiltà, come sosteneva il grande filosofo russo Alexandre Koyré. Oggi quasi il 70 per cento della popolazione attiva lavora più con il cervello che con le braccia. La compresenza in molti casi non è più necessaria, e per i lavoratori intellettuali è sempre più difficile scindere il proprio mestiere da quello che viene definito ozio creativo.
 
ozio creativo
Essere creativi è un istinto, e proprio l’ozio fa scattare la scintilla, l’idea, accende la lampadina che illumina la mente. Molte aziende nella Silicon Valley mettono a disposizione dei propri dipendenti sale relax, ambienti destinati al gioco, al divertimento, allo sport, per rendere più attraente il lavoro ma soprattutto per abbattere la barriera tra attività e tempo libero e per sollecitare la mente a nuove e sempre più utili invenzioni. La riconquista del tempo, paradossalmente, valorizza ancora di più le opportunità offerte dalla tecnologia. E organizzare nel migliore dei modi le proprie giornate rappresenta una delle principali sfide del futuro.




I Principali Fattori di Ranking dell’Algoritmo di Instagram

A pochi giorni di distanza da quando avevamo pubblicato come funziona l’algoritmo dei principali social, Instagram incluso naturalmente, la piattaforma social più in voga del momento aveva annunciato novità al riguardo, comunicando che, anche se non era in programma un ritorno alla vecchia modalità cronologica, la “freschezza” dei contenuti sarebbe tornata ad essere un fattore di ranking determinante.

A qualche mese di distanza, l’azienda di proprietà di Facebook ha riunito un gruppo di giornalisti nel suo nuovo ufficio di San Francisco per approfondire il funzionamento del suo algoritmo. Secondo quanto riportato, sono tre i principali fattori di ranking:

  1. Interesse: Quanto Instagram prevede che ti interesserà un post, con un posizionamento più elevato per ciò che conta per le persone, determinato dal comportamento passato su contenuti simili e quale può essere potenzialmente la visione analizzando il contenuto effettivo del post;
  2. Tempestività: Quanto recentemente è stato condiviso il post, con la priorità per i post “di successo” che hanno più di una settimana di vita;
  3. Relazione: Quanto si è vicino alla persona che lo ha condiviso, con un punteggio più alto per le persone con cui si è interagito molto in passato su Instagram, ad esempio commentando i loro post o taggandoli insieme nelle foto.

Oltre a questi fattori chiave, tre segnali aggiuntivi che influenzano le classifiche sono:

  • Frequenza: Quanto spesso si apre Instagram, poiché cercherà di mostrarti i post migliori dall’ultima visita;
  • Seguito: Se si seguono molte persone, Instagram sceglierà una gamma più ampia di autori in modo che si possa vedere meno di una persona specifica;
  • Utilizzo: Il tempo che si trascorre su Instagram determina se si sta visualizzando i post migliori durante le sessioni brevi o se invece si approfondisce maggiormente passando più tempo a navigare all’interno della piattaforma social.

Elementi che se certamente non forniscono chiarezza assoluta sul funzionamento di Instagram, almeno fanno luce su una serie di, falsi, miti ed ipotesi su come utilizzare al meglio professionalmente il social in questione, a cominciare dalla frequenza con cui postare.

Read more: http://www.datamediahub.it/2018/06/05/come-funziona-lalgoritmo-di-instagram/#ixzz5gBMLiktg
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Airlite, l’innovativa vernice che purifica l’aria è tutta italiana

Airlite è una pittura innovativa che trasforma le pareti di case, uffici e scuole in depuratori d’aria naturali alimentati con l’energia solare.


I pericoli derivanti dal riscaldamento globale e dalle emissioni di carbonio sono sempre più evidenti; meno diffuse invece, sono le informazioni riguardo i danni provocati dall’ ossido di azoto, un gas prodotto soprattutto nei processi di combustione ma ampiamente diffuso anche all’interno delle abitazioni, dovuti al riscaldamento, alla cottura, al fumo e alle infiltrazioni, i cui effetti vanno a incidere profondamente sulla qualità della nostra vita. Oggi la cattiva qualità dell’aria rappresenta un elemento di rischio molto grande per la salute di tutti noi, basti pensare che secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità, più del 15% delle malattie croniche sono causate dalla cattiva qualità dell’aria. Solo nel 2012, si è stimato che 6.5 milioni di morti siano collegate all’inquinamento indoor e outdoor insieme.

inquinamento auto

La combustione dei carburanti che alimentano i motori di tutti i veicoli circolanti comporta l’emissione di gas come il biossido di azoto, che finisce nell’aria che respiriamo. ©Ingimage

Airlite® per combattere gli agenti inquinanti

Airlite nasce da un’idea innovativa, che mira a contrastare proprio questa realtà: migliorare l’ambiente e la vita delle persone purificando l’aria. Si tratta di una vernice in polvere a cui, aggiungendo dell’acqua che contiene biossido di titanio in grado di attivarsi a contatto con la luce (sia naturale che artificiale), trasforma agenti inquinanti come ossidi di azoto e zolfo, benzene, formaldeide e monossido di carbonio in molecole di sale. Una vernice in grado di “mangiare” lo sporco che c’è nell’aria, all’aperto o all’interno di un edificio, depurandola dall’88,8% dell’inquinamento presente, e che usata all’interno degli edifici in cui viviamo contribuisce a renderli più igienici e salutari.
Questa tecnologia innovativa nasce dall’incontro di tre persone, Massimo BernardoniAntonio Cianci e Arun Jayadev che insieme sono partiti nel 2013 dalla start up Advanced Materials e ora hanno un’azienda presente in tre continenti diversi. Bernardoni, 56 anni, inizia nel 2000 a a studiare le proprietà dei materiali fotosensibili che si attivano con la luce e senza mai scoraggiarsi, dopo molti anni e continui esperimenti sviluppa una nuova tecnologia al 100% naturale che si applica come una pittura; deposita quindi i brevetti e sviluppa le applicazioni della sua scoperta. L’incontro con il socio Antonio Cianci all’Expo di Shanghai nel 2010 determina la svolta definitiva per fondare nel 2013 la società, alla quale si unirà poi Arun Jayadev. Grazie alla loro ricerca e al team perfettamente equilibrato, i prodotti Airlite permettono una perfomance superiore rispetto agli altri prodotti fotocatalitici presenti sul mercato e continuano ad espandersi in tutto il mondo.

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Da sinistra Arun Jayadev, Massimo Bernardoni e Antonio Cianci, i fondatori di Airlite

I molteplici benefici di Airlite®

Molti sono i vantaggi di questa pittura innovativa. Per capire quanto questa pittura riesca a contrastare l’impatto ambientale, basti pensare che dipingere una superficie di 100 m2 con Airlite riduce l’inquinamento dell’aria al pari di un’area di 100 m2 coperta da alberi ad alto fusto: lo stesso effetto di un bosco. Ma tra i benefici di Airlite c’è anche il fatto di eliminare il 99,9% di batteri e virus, sia resistenti agli antibiotici, come lo Staphylococcus Aureus, sia efficaci su altri batteri pericolosi per la salute umana come l’Escherechia Coli, peritonite, meningite e molti altri,  creando ambienti più sani e sicuri ed evitando inoltre la formazione di possibili allergie, pruriti, mal di testa, tosse, asma e altri disturbi delle vie respiratorie.

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Alcuni tra i molteplici benefici di Airlite, la pittura ecosostenibile che combattere l’inquinamento e depura l’aria ©Airlite

Altra caratteristica interessante, l’abbattimento dei consumi energetici: questa pittura rivoluzionaria infatti, riflette la maggior parte delle radiazioni solari infrarosse, impedendo il passaggio eccessivo di calore. Questo permette in estate, di avere ambienti più freschi, in modo naturale, con un risparmio di energia elettrica tra il 15 e il 50%. Infine, la capacità di eliminare gli odori dagli ambienti quotidiani e lo sporco dalle pareti, interne ed esterne, trasformandole in depuratori d’aria naturali. La sua tecnologia smart permette infatti alla pittura di essere facilmente applicabile e di repellere lo sporco grazie a un film invisibile e protettivo che impedisce alle polveri di posarsi sulle pareti, lasciandolo incontaminate.

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La tecnologia di Airlite si basa sul meccanismo della fotocatalisi: una volta “attivata” dalla luce, l’eco-vernice libera infatti molecole ossidanti che attaccano le sostanze nocive trasformandole in sali minerali innocui. © Airlite

Secondo gli esperti del settore, Airlite ha tutte le potenzialità per diventare un’ applicazione vincente diffusa a livello internazionale, e lo sta già dimostrando: oggi infatti, il prodotto è commercializzato in Messico, Emirati Arabi, Qatar, Thailandia, Italia, Inghilterra, Francia e Irlanda. L’obiettivo è diventare per il 2019 leader mondiale nel settore delle tecnologie per la qualità dell’aria. Uno strumento semplice ed efficace per ridurre la presenza di inquinanti dall’aria e per rendere perfettamente antibatteriche le superfici sulle quali è applicata. Una potenziale rivoluzione per le città di tutto il mondo che potrebbe cambiare a livello globale la qualità della vita dei cittadini.




È pronta a salpare la prima rivoluzionaria macchina per pulire gli oceani dalla plastica

La macchina sarà diretta verso il Pacific Trash Vortex dove comincerà a raccogliere tonnellate di rifiuti plastici accumulati dalle correnti oceaniche.


La visione di Boyan Slat è diventata realtà. Sono passati cinque anni da quando Slat, appena diciannovenne, ha lasciato gli studi in ingegneria aerospaziale per dedicarsi alla sua missione, pulire gli oceani dalla plastica. Il ragazzo prodigio olandese ha fondato la ong Ocean Cleanup e ha progettato una macchina per raccogliere rifiuti plastici dal mare sfruttando le correnti oceaniche. Dopo uno studio di fattibilità e una campagna di raccolta fondi di successo, il macchinario chiamato Ocean Array Cleanup è pronto per essere testato sul campo. Entro poche settimane l’Ocean Array Cleanup salperà da San Francisco diretto verso il Pacific Trash Vortex, la grande isola di plastica che galleggia nell’oceano Pacifico, tra la California e le Hawaii. “La pulizia degli oceani del mondo è dietro l’angolo”, ha commentato euforico Slat.

L’Ocean Array Cleanup è il più grande strumento di pulizia degli oceani creato

I bracci dell’Ocean Array Cleanup sono fissati ad ancore che galleggiano in profondità. Ciò consente loro di muoversi lentamente, ma non al punto da impedire loro di svolgere il lavoro di pulizia © Ocean Cleanup

Come funziona l’Ocean Array Cleanup

L’idea alla base dell’Ocean Array Cleanup è semplice e geniale, la macchina sfrutta le correnti del mare, le stesse che hanno portato alla creazione dell’isola di plastica, per far sì che i rifiuti di plastica si accumulino nelle piattaforme e il mare si pulisca “da solo”. Il sistema è composto da una catena di barriere galleggianti della lunghezza di due chilometri e poste in favore di corrente, senza reti, che convogliano la plastica verso piattaforme che fungono da imbuto. Una volta al mese circa una barca andrà a raccogliere i rifiuti convogliati verso la parte centrale della macchina.

Dimezzare l’isola di plastica

L’obiettivo di Boyan Slat è di raccogliere circa 5mila chili di plastica durante il primo mese di funzionamento e di smaltire entro cinque anni almeno la metà del Pacific Trash Vortex. L’impatto ambientale del macchinario sarà minimo, sfruttando le correnti non necessita infatti di energia per raccogliere la plastica. L’Ocean Array Cleanup non costituirà un pericolo per gli animali marini, secondo i suoi creatori, che potranno passare sotto le barriere galleggianti.

Solo il primo passo

La prima missione dell’Ocean Array Cleanup rappresenta un test sul campo per valutare il funzionamento della macchina e rilevare eventuali problemi prima di estendere il progetto. Ocean Cleanup ha infatti l’obiettivo di installare sessanta piattaforme galleggianti giganti in varie aree del pianeta entro il 2020.

L’isola di plastica che minaccia gli oceani

Il Pacific Trash Vortex è un colossale accumulo di spazzatura galleggiante, composto perlopiù da plastica, la sua superficie è maggiore di quelle di Francia, Germania e Spagna ed è composto da almeno 79mila tonnellate di plastica. “La maggior parte dei detriti è di grandi dimensioni – ha affermato Boyan Slat. – Si tratta di una bomba ad orologeria perché tutti questi grandi oggetti si trasformeranno in microdetriti nelle prossime decadi se non agiamo”. La grande isola di plastica è costituita soprattutto da attrezzi da pesca abbandonati, come reti e corde, e ogni anno provoca la morte di migliaia di balene, delfini e foche.

Rifiuti che galleggiano nell'oceano

Lo studio Evidence that the Great Pacific Garbage Patch is rapidly accumulating plastic, condotto da Ocean CleanUp in collaborazioni con altre istituzioni, ha rivelato che la situazione del Great Pacific Garbage Patch è in continua evoluzione e tende a peggiorare molto rapidamente. L’isola contiene fino a 16 volte più plastica di quanto stimato nei precedenti studi e il livello di inquinamento cresce in modo esponenziale © Ingimage

Pulizia e prevenzione

La Ocean Cleanup prevede di autofinanziarsi grazie alla vendita della plastica oceanica che alcuni brand, come Adidas, hanno iniziato a sfruttare comprendendone l’appeal sui consumatori. La pulizia degli oceani, per quanto efficace, da sola non può però bastare, è necessario combattere alla fonte l’inquinamento che sta lentamente uccidendo i mari del mondo con gravi ricadute anche sulla nostra specie. “Dobbiamo pulire, ma dobbiamo anche prevenire che la plastica entri negli oceani. Meglio riciclare, meglio usare questi materiali in creazioni di design e regolamentare questi rifiuti. Abbiamo bisogno di combinare queste soluzioni”, ha dichiarato Boyan Slat.




Nasce Indaco Ventures, il più grande fondo di venture capital in Italia

Una squadra di manager guidata da Davide Turco, Intesa Sanpaolo e Fondazione Cariplo dà vita a Indaco Venture Partners sgr, società che gestirà il fondo di venture capital Indaco Ventures I. L’obiettivo è una raccolta complessiva fino a 250 mln di euro entro fine anno (130 mln sottoscritti entro domani). Intesa Sanpaolo punta a diventare la prima Impact Bank al mondo

Futura Invest (i cui principali azionisti sono Fondazione Cariplo e Fondazione Enasarco) e Intesa Sanpaolo  deterranno, con quote paritetiche, il 49% di Indaco Venture Partners Sgr, mentre il 51% sarà posseduto da cinque manager: Davide Turco (amministratore delegato), Elizabeth Robinson (vicepresidente esecutivo) e i direttori investimenti Antonella Beltrame, Alvise Bonivento e Valentina Bocca.
Indaco Sgr gestirà il fondo Indaco Ventures I che ha già raccolto 130 milioni di euro da Intesa Sanpaolo , Fondo Italiano d’Investimento e Fondazione Cariplo. Entro la fine dell’anno il fondo ha un obiettivo di raccolta complessiva superiore a 200 milioni di euro fino a un massimo di 250 milioni di euro da investitori istituzionali italiani e da istituzioni europee.
Il fondo, che investirà in 20-30 società, principalmente startup late stage, attive nel digitale, elettronica e robotica, medtech e nuovi materiali, ha già all’attivo due investimenti nel medicale e in elettronica. Gli investimenti si concentreranno su realtà i cui vantaggi competitivi derivano da tecnologie proprietarie d’avanguardia o da innovazioni che portino a un’effettiva trasformazione digitale, con team e tecnologie made in Italy. E’ anche prevista una limitata allocazione a investimenti in startup early stage.
Il cda sarà presieduto da Salvatore Bragantini e vedrà la presenza maggioritaria dei manager, oltre a due consiglieri di nomina Intesa Sanpaolo  e due indipendenti (tra cui il presidente) espressi da Futura Invest. Il management team sarà supportato da primari advisor tecnologici e beneficerà dei servizi di analisi, segnalazione e advisory di Cariplo Factory, che utilizza i flussi informativi e le competenze della piattaforma GrowITup promossa da Cariplo Factory insieme a Microsoft.
“Siamo molto grati agli investitori che hanno creduto in questo progetto. Siamo convinti che Indaco Ventures potrà contribuire a colmare il ritardo nel venture capital del nostro Paese, fornendo finalmente alle nuove aziende con maggiori potenzialità e ambizioni le risorse finanziarie necessarie per fare un importante salto dimensionale e competere ad armi pari, o quasi, con i loro concorrenti attivi in contesti caratterizzati da risorse per l’innovazione enormemente più grandi”, ha commentato Davide Turco, amministratore delegato di Indaco Venture Partners Sgr.
“Cariplo Factory oggi è una realtà importante che ha già realizzato oltre 6700 opportunità di lavoro delle 10 mila che ci eravamo proposti di attivare in tre anni, inserendo i giovani in un ecosistema dedicato all’innovazione. Mancava ancora un importante tassello che si realizza oggi con la nascita del fondo Indaco”, ha aggiunto Giuseppe Guzzetti, presidente della Fondazione Cariplo, ritenendo che il venture capital nel nostro Paese è ancora lontano degli standard internazionali. “Con questo fondo ci proponiamo di offrire alle realtà con possibilità di crescita interessanti, un veicolo per potenziare la loro competitività internazionale, aiutando così le nuove aziende”.
Nel piano d’impresa 2018-2021 Intesa Sanpaolo  prevede di rafforzare in maniera significativa l’impegno nella Corporate Social Responsibility. “Puntiamo a diventare la prima Impact Bank al mondo, intendiamo supportare ulteriormente la Circular Economy, sosteniamo l’imprenditorialità giovanile e le nuove idee d’impresa. Il progetto che presentiamo oggi a fianco del Fondo Italiano d’Investimento e della Fondazione Cariplo, con la quale abbiamo da tempo condiviso obiettivi e progetti anche in questo ambito, intende accrescere l’impegno nei confronti di un’imprenditorialità caratterizzata in particolare da competenze e tecnologie italiane”, ha dichiarato l’ad di Intesa Sanpaolo , Carlo Messina.
Il banchiere ritiene strategico il presidio di questo settore: le operazioni di anno in anno aumentano significativamente, così come risulta in forte crescita l’attenzione di importanti player internazionali al mercato italiano. “Tale impegno vuole, in sintesi, stimolare la competitività, dare impulso a nuovi investimenti e confermare ancora una volta il nostro sostegno allo sviluppo imprenditoriale”, ha concluso Messina.
Con l’investimento effettuato in Indaco Ventures, prosegue l’attività di sostegno al mercato italiano del venture capital da parte anche del Fondo Italiano d’Investimento, oggi attivo su questo specifico segmento sia con un fondo di investimento diretto che con due fondi di fondi, più un terzo in fase di lancio. Nella fattispecie, “siamo particolarmente contenti di contribuire all’avvio di quest’importante iniziativa che ha come obiettivi il sostegno allo sviluppo e alla competitività del sistema italiano delle giovani aziende a elevato contenuto tecnologico e sviluppata in partnership con due istituzioni di cosi elevato prestigio come Fondazione Cariplo e Intesa Sanpaolo “, ha sottolineato l’ad del Fondo Italiano d’Investimento, Carlo Mammola.