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Nuovo paradigma: la rete del tutto

L’internet delle bio-nanocose permetterà di mettere in rete oggetti molecolari e macroscopici
L’internet delle nanocose non è un’applicazione solitaria ma, ancora prima di nascere, ha già un fratello: l’internet delle bio-nanocose.
A introdurci in questo mondo è Murat Kuscu, giovane ricercatore dell’Università di Cambridge, impegnato da tempo in questo campo. Kusku definisce l’internet delle bio-nanocose come “una rete informatica dove unità funzionali sulla nanoscala e unità biologiche – come nano-biosensori, cellule viventi, batteri ingegnerizzati – sono connessi tra loro e con un network convenzionale macroscopico”.
Pioniere di questa modalità di realizzazione di un network di oggetti nanometrici è stato lo stesso ricercatore che sette anni fa introdusse per primo il concetto di Internet delle nanocose, ossia Ian Akyildiz, dell’Istituto di Tecnologia della Georgia. Due anni fa Akyildiz, assieme ad alcuni suoi collaboratori, descrisse infatti per la prima volta sulla rivista “Ieee Communications magazine” le condizioni per realizzare l’internet delle bio-nanocose.
Nelle reti composte di nanocose a comunicare tra loro sono sensori e macchine di dimensioni molecolari. Nel caso dell’internet delle bio-nanocose, invece, i nodi della rete sono le cellule o gli organismi biologici molecolari.
Le cellule, infatti, possono essere considerate come delle nano-macchine capaci di calcolare, interagire e comunicare. Il nucleo costituisce il luogo dove vengono processati e memorizzati i dati; i mitocondri la riserva energetica di cui dispone ogni macchina; mentre i trasmettitori molecolari e i recettori chimici sono i sensori sul mondo esterno.
Questi nodi comunicano tra loro non attraverso delle onde elettromagnetiche, ma tramite segnali chimici o impulsi elettrici.
L’internet delle bio-nanocose, nelle parole di Kuscu, può trasformare potenzialmente “il modo con il quale ci connettiamo e comprendiamo il mondo nelle sue fondamenta, fornendo nuovi metodi per intervenire  sui processi biologici all’interno degli organismi viventi a livello di singola molecola”.
Il ricercatore inglese considera l’internet delle bio-nanocose “un nuovo paradigma” perché permetterà di mettere in rete oggetti molecolari e macroscopici. Un paradigma che “giocherà un ruolo essenziale soprattutto nella sanità di domani” perché “siamo sicuri che questa tecnologia trasformerà radicalmente la nostra attuale comprensione su diagnosi e terapia”, consentendoci di “sviluppare nuovi metodi diagnostici per una varietà di malattie: dai tumori all’Alzheimer, fino alle lesioni della colonna vertebrale”.
Quest’ultimo obiettivo non è però dietro l’angolo. “Non abbiamo ancora nanomacchine individuali, come bio-nanosensori o nanorobot, capaci di operare autonomamente”, e ancor meno reti di questi oggetti connessi a internet. Secondo Kuscu, quindi, occorrerà attendere ancora almeno 20 anni perché queste promesse si realizzino.
Tuttavia, la ricerca è in corso, e la direzione è chiaramente tracciata: il suo team di ricerca – guidato da Ozgur B. Akan e chiamato “Internet of Everything Group”, sta affrontando le sfide richieste dalla realizzazione di nanomacchine e dalla loro connessione con il mondo biologico. In particolare, con il progetto Minerva – finanziato dall’European Research Council (Erc) con 1,8 milioni di euro – il suo gruppo sta studiando le fondamenta del sistema nervoso per “sviluppare nano-network artificiali” ispirati dal mondo biologico assieme a bio-nano macchine con l’obiettivo di costruire strumenti diagnostici e di cura in grado di intervenire su alcuni disturbi neurologici.
In un altro progetto, realizzato in collaborazione con il Graphene Centre di Cambridge, il team di Akan sta anche lavorando alla sintesi di “interfacce neurali biocompatibili basate sul grafene” pensate per connettere network molecolari con reti macrocopiche. E ancora, il suo gruppo di ricerca sta cercando di costruire sinapsi artificiali, nano-network interamente ottici che sfruttano fenomeni di fluorescenza o ricetrasmettitori al grafene sulla banda dei Terahertz: tutti apparati che “giocheranno un ruolo chiave nella realizzazione di applicazioni per l’internet delle bio-nanocose”.
L’obiettivo di tutto questo lavoro è “realizzare l’internet del tutto per un Universo connesso”. Un obiettivo affascinante, che un domani potrebbe diventare raggiungibile.




Anno 2017: “partorito” il primo figlio totalmente artificiale

Il 2017 è un anno significativo, forse storico, per chi guarda allo sviluppo tecnologico con occhi da “futurologo”, se dobbiamo dar credito a quanto riportato – invero in ritardo – dalle principali agenzie stampa internazionali, in occasione della ripubblicazione dell’articolo di un team di ricercatori di Google Brain, settore di ricerca sulle neuroscienze applicate all’intelligenza artificiale del gigante di Mountain View.
Quest’anno, infatti, una rete neurale “madre”, denominata “AutoML – Automatic Machine Learning”, ha generato la prima rete neurale “figlia”, denominata “NASNet” senza necessità di alcun intervento umano. Si tratta del primo “parto digitale” autonomo al mondo.
NASNet è quindi il primo “bimbo” nato da un AI: un figlio istruito – sempre dal genitore digitale, e non dall’Uomo – a riconoscere in modo straordinariamente efficace gli oggetti che compaiono all’interno di un video, compito che svolge eccellentemente fin da “piccolo”, in quanto i test eseguiti con due dei maggiori set d’immagini al mondo – ImageNet e Coco – hanno raggiunto in termini di prestazioni l’82,7% di precisione nel riconoscimento degli oggetti, l’1,2% superiore alle prestazioni dei migliori sistemi loro precedenti.
Generò già un forte interesse nella comunità scientifica, e non solo, la notizia di un precedente esperimento del team di ricerca di Google, che dimostrò come alcune potenti reti avevano imparato – durante le proprie interazioni comportamentali – a proteggere i propri messaggi da occhi indiscreti, compresi quelli degli esperti umani che li istruivano, e – ancor prima – i risultati conseguiti da Annabell, acronimo di Artificial Neural Network with Adaptive Behavior Exploited for Language Learning, un modello di cervello simulato al computer costituito da due milioni di neuroni artificiali collegati da 33 miliardi di sinapsi virtuali, e utilizzato da ricercatori italiani per tentare di replicare strutture e processi che avvengono ogni momento nella nostra mente, rete che non usò regole precodificate per elaborare le informazioni, imparando a rispondere a 1.500 frasi di input attraverso gli stessi meccanismi che sono alla base dell’apprendimento nel cervello umano, e soprattutto senza alcuna conoscenza linguistica precodificata dall’uomo.
Tuttavia, questo ulteriore e recente “traguardo” raggiunto dall’AI progettata da Google, ovvero la creazione di un “figlio” senza necessità di assistenza umana, riporta di attualità il dibattito a suo tempo generato dalle affermazioni di uno dei più noti scienziati viventi, Stephen Hawking, che – come riportavo nel mio libro “Il sex appeal dei Corpi Digitali” disse: “Lo sviluppo pieno dell’intelligenza artificiale potrebbe significare la fine della razza umana. Gli esseri umani sono limitati dalla lenta evoluzione biologica, e non potranno competere – e saranno superati – dal mondo del digitale, che potrebbe evolvere rapidamente e detronizzare gli esseri umani come gli abitanti più intelligenti della Terra. E se computer auto-programmanti mandassero comandi ostili agli oggetti di uso quotidiano che noi stessi abbiamo posto sotto la loro responsabilità?”.
Ci consola sapere che NASNet è stata creata in modalità open-source, ovvero basata su un software il cui codice è accessibile, migliorabile e di libero utilizzo. L’appello dei ricercatori è “di costruire nuovi schemi basati su questi modelli, per affrontare una moltitudine di problematiche che finora non abbiamo neanche immaginato”: in qualche modo, il processo dovrebbe quindi essere trasparente e sotto controllo della comunità scientifica, fermo restando che – invece – ciò che sta accadendo in questo stesso momento in ambito militare resta un segreto e quindi un mistero.
I campi di applicazione per questo nuovo “giocattolo digitale” paiono comunque pressoché infiniti: dalla guida autonoma delle vetture, alla produzione industriale di precisione, alle soluzioni di alta tecnologia per la salute a favore dei portatori di handicap. Ma insieme all’entusiasmo monta la preoccupazione: teoricamente e potenzialmente, siamo appunto innanzi a una macchina in grado di prendere decisioni in assenza dell’intervento umano.
In un recente articolo del settimanale britannico “New Scientist”, il giornalista Michael Brooks ha intervistato esperti delle università di Cambridge e Bristol, che hanno denunciato come la tendenza ad antropomorfizzare le AI – immaginandole ad esempio come “robot ostili” – ci impedisca di renderci conto che le applicazioni di intelligenza artificiale sono invece già tutto intorno a noi: decidono il nostro premio delle assicurazioni, mixando in brevissimo tempo un’incredibile quantità di dati che ci riguardano estrapolati dalle tracce che lasciamo quotidianamente online, scoprono le truffe sul web esaminando tutte le transazioni sospette e le denunciano ai servizi di sicurezza dei gestori delle carte di credito, si occupano di dare le prime risposte agli utenti nei call-center più evoluti, e sono coinvolte nel calcolo del possibile grado di recidività dei criminali, supportando i giudici della definizione della pena da comminare, in alcuni tribunali sperimentali in USA.
Il problema in ogni caso pare essere – più che lo scenario da futuro distopico, con le macchine che prendono il potere sull’uomo – l’assenza di norme certe, in grado di stabilire confini e corretti pesi ponderali uomo/macchina: fino a non più di una quindicina di anni fa, ragionamenti come questi avrebbero fatto parte del dominio della fantascienza, oggi invece chiamano in causa discipline non solo come il neuromarketing, ma anche le scienze sociali la giurisprudenza. Esistono documenti di indirizzo, come la carta della Robo-Etica scritta dal British Standard Institute, o il documento dell’UE che sollecita la creazione di un vero e proprio Ente preposto al controllo su questi delicati scenari. Il tema vero quindi è capire quando questi complessi algoritmi sono utilizzati per prendere decisioni, in quale modo lo fanno, con quale influenza sulla nostra vita di tutti i giorni, e con quale grado di trasparenza. Attualmente, nessuna delle blande azioni di advocacy promosse da ONG e gruppi di pressione ha smosso di un millimetro i colossi del web e del mondo digitale, che questi algoritmi li controllano e che non hanno alcuna intenzione di condividere pubblicamente i criteri alla base del loro funzionamento.
Certamente, un limite evidente le AI ce l’hanno: possono anche loro imparare dall’esperienza, ma non sono dotate di “intelligenza emotiva”, non sanno stringere relazioni, e non ne percepirebbero neppure l’utilità. Soprattutto, ha dichiarato Neil Lawrence, ricercatore dell’Università Britannica di Sheffield, non sono in grado di emulare la capacità dell’Uomo di immaginare e costruire scenari futuri, e – a differenza degli esseri umani – sono prive della più importante delle caratteristiche motivazionali di lungo periodo: non hanno “uno scopo nella vita”. Per ora, perlomeno.




Torino, alla scuola Peyron sono gli studenti a scrivere il bilancio sociale

Gli alunni di elementari e medie al lavoro per descrivere le ricadute positive della loro scuola anche con disegni e video: “Racconteremo tutto, dalle lezioni di coding fino alle lezioni in ospedale”

A fare il bilancio sociale della scuola Peyron di Torino penseranno gli alunni. “Hanno compreso cos’è e a cosa serve e hanno deciso, insieme ad alcuni docenti, di occuparsene direttamente”, spiega la preside Tiziana Catenazzo. E racconta: “Stanno quindi lavorando per arrivare a un documento che fornisca solo dati essenziali sull’efficacia delle strategie attivate, in modo da consentire a tutti di verificare i risultati, anche dal punto di vista delle ricadute sociali e della qualità della vita”.
Il bilancio sociale è diventato un obbligo per le scuole. Solitamente se ne occupano gli adulti, ma nel caso dell’istituto comprensivo torinese saranno anche gli alunni a collaborare. “Il compito di realtà è appena partito, e le discussioni di questi giorni vertono sulla descrizione del contesto e la definizione degli obiettivi. I bambini sono molto concreti”, dice la maestra Susj Brotto della quinta A.
Nel documento i giovanissimi allievi dovranno cercare di misurare i risultati conseguiti dalla loro scuola. Dopodiche, “penseremo a comunicarlo entro la fine dell’anno”, dice Mia, una delle studentesse coinvolte. “Il nostro documento sarà un facile strumento di informazione delle azioni messe in atto dalla scuola”, aggiungono Matteo, Lavinia, Paolo e Gabriele.
Spesso i bilanci sociali sono freddi e non semplici da capire. Alla Peyron però il documento sarà ricco di disegni, racconti, video: “Vogliamo una formulazione molto semplice il cui stile e contenuti verranno scelti da noi alunni”. Ci lavoreranno allievi sia delle elementari che delle medie e la quinta A di via Ventimiglia sta facendo da apripista. “Abbiamo svolto – spiega Cecilia – diversi laboratori. Ci siamo soffermati sul benessere del nostro quartiere e siamo andati a visitare Palazzo Nervi  Abbiamo anche parlato di un argomento come il bullismo su cui abbiamo ragionato molto. Vogliamo essere bravi cittadini e quindi parteciperemo a laboratori in cui parleremo di cittadinanza”.
Le riflessioni partono da quanto ogni giorno si fa in classe, e come lo si fa. “Nella nostra classe si sta molto insieme, principalmente si gioca in compagnia oppure si lavora in gruppo – scrive Caterina – di litigi nella nostra classe non ce ne sono quasi mai, di solito siamo molto attivi”. Alcune classi stanno pensando di sviluppare un lavoro sulle emozioni utilizzando il coding (scratch), altre di proporre una rendicontazione fondata sulla pedagogia dei genitori e sui gruppi di narrazione per l’orientamento, oltre che di spiegare come da anni si lavora sull’inclusione con ottimi risultati. Per non dimenticare il lavoro svolto nella sezione ospedaliera della Peyron, che è Scuola Polo regionale per l’istruzione in ospedale da oltre vent’anni.




Economia circolare: se i mobili di una banca “fanno ricco” il terzo settore

Bnl, banca del gruppo Bnp Paribas, ha dismesso oltre dieci mila pezzi che, attraverso Legambiente, sono stati destinati a onlus, scuole e associazioni in difficoltà

Il sogno di una casa da realizzare attraverso un mutuo, la nuova macchina o cameretta per i figli da acquistare con un prestito oppure quel gruzzoletto da far crescere “per quando si andrà in pensione”. Le scrivanie, le sedie, i salottini di una banca potrebbero raccontare la storia e i desideri di alcune generazioni di uomini e di donne. O quelli delle migliaia di dipendenti che in quelle stanze hanno trascorso gran parte delle loro giornate lavorative. Dopo anni, però, le esigenze lavorative cambiano: agli uffici personali si sostituiscono gli open space, ai tavoli di lavoro si preferiscono le soluzioni “multifunzione”. Così quei mobili non servono più e vengono destinati alla discarica. Bnl, brand del gruppo Bnp Paribas, ha scelto diversamente.

 Nuova vita

Ha voluto dare “nuova vita” a quasi 10 mila pezzi d’arredamento provenienti dalle otto sedi della Banca Nazionale del Lavoro (Bnl) di Roma. Per dare un’idea del volume occupato si può pensare a quattro campi da calcio affiancati. Un’enorme mole di oggetti che avrebbero dovuto essere gettati dopo l’accorpamento dei dipartimenti nell’edificio che ospita la nuova direzione generale di viale Altiero Spinelli nella Capitale e invece saranno utilizzati da circa un centinaio tra scuole, onlus, imprese sociali ed enti no profit. «Sarebbe stato più facile dismettere tutti gli arredi che, oggi, stoccati occupano 20 mila metri quadri nei magazzini – racconta Claudia Schininà, Corporate Social Responsability Officer -e invece l’azienda ha preferito attivarsi per dare vita ad un’economia circolare: i mobili di pregio, sono stati reinseriti nella nuova sede, gli altri di design, moderni o vintage sono stati donati».

Una nuova sede

La nuova sede, chiamata Orizzonte Europa, inaugurata pochi mesi fa, si sviluppa su 12 piani per un totale di 75 mila mq. E’ concepita secondo logiche di smart working, con spazi moderni, aperti e ampie zone condivise come la palestra, il ristorante, l’auditorium, l’asilo. Prevale l’idea dell’”ufficio diffuso” dove si lavora in maniera dinamica e interattiva. L’arredo precedente non era utilizzabile nella nuova sede. Da qui l’idea della cessione gratuita.« Abbiamo chiesto ai nostri 15mila dipendenti di segnalarci i destinatari meritevoli – prosegue Schininà -. Da questo matching è nata l’iniziativa che è ancora in corsa e che si concluderà sotto Natale». « Abbiamo poi cercato un partner che ci aiutasse a selezionare le realtà più affidabili a cui regalare i nostri beni, e ci garantisse una certificazione da “mettere a bilancio sociale”».

Il partner

La scelta è caduta su Legambiente, una delle associazioni più capillarmente distribuite sul territorio italiano. L’accordo siglato prevede che Bnl gruppo Bnp Paribas ceda gratuitamente a Legambiente i propri beni aziendali per un riutilizzo sociale. E che Legambiente scremi tra le 300 realtà individuate dai dipendenti della Banca tra associazioni, scuole, enti no profit. «È stata una sfida – spiega Enrico Fontana responsabile nazionale Economia Civile di Legambiente – la mole di oggetti da gestire era enorme. Si doveva procedere con equità e andare a certificare i destinatari. Ma il dono è stato per alcuni una boccata d’ossigeno. Basti pensare alle scuole – come l’istituto comprensivo Pirandello di Roma – che da anni non riescono a rinnovare i propri locali».

Le scuole

Gli istituti scolastici effettivamente raggiunti saranno circa una sessantina, e quasi altrettante le associazioni non profit. «La storia che più mi ha colpito? -prosegue Fontana – quella dell’associazione di promozione sociale che lavora con i ragazzi disabili, La Grande Quercia di Anzio che doveva arredare la nuova sede a Lavinio (Rm). Obiettivo centrato li abbiamo aiutati con suppellettili a riuso ecosolidale». Una buona pratica che nell’intenzione delle due realtà, Bnl del gruppo Bnp Paribas e Legambiente, sarà ripetuta. «Se solo il governo inserisse in manovra anche una diminuzione dell’iva dal 22% al 4% per i mobili a riuso sociale – conclude Fontana – ci avvicineremmo un passo verso gli obiettivi di sviluppo sostenibili dell’Agenda Onu 2030».




Pandora è riuscita a mettere in un unico manifesto i più gretti stereotipi femminili. La rete sentenzia: #EpicFail

Polemiche sui social networks per un cartellone pubblicitario di Pandora apparso alla fermata della metropolitana Duomo a Milano. Questa la scritta che sta facendo infuriare moltissimi utenti, soprattutto donne ma non solo. “Un ferro da stiro, un pigiama, un grembiule, un bracciale Pandora. Secondo te cosa la farebbe felice?”
Il manifesto – che riesce a mettere in fila alcuni dei più gretti stereotipi sul genere femminile – non è passato inosservato a Lefanfarlo, organizzazione no-profit che si occupa di “burlesque, vita e donne” e su Facebook si presenta così: “Abbiamo un cervello e un reggicalze. E non abbiamo paura di usarli. Entrambi”.

“Non potevamo crederci, ma purtroppo è tutto vero”, scrivono Lefanfarlo su Fb. “La nostra Laki Hancock ha scattato questa foto a Milano, MM1 Duomo uscita via Torino.
Cara PANDORA, Lefanfarlo per Natale vorrebbero soprattutto rispetto, piuttosto che un bel bracciale.

 E voi amiche cosa vi aspettate di trovare sotto l’albero? Un ferro da stiro oppure un grembiule?”. Con tanto di hashtag: #pandora #tristezza #pandoraepicfail #epicfail
Sono in molti a condividere la foto su Twitter puntando il dito contro un “Copywriter da arresto”.