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CASO MARTINA STRAZZER, PARTE II: LUCARELLI VS. MATTEINI?

CASO MARTINA STRAZZER, PARTE II: LUCARELLI VS. MATTEINI?

Sui dettagli del caso Strazzer e Amabile non spendo una parola in più, è già stato detto di tutto, l’efficientissima AI del dott. Google potrà venire in soccorso dei pochi che in questo tranquillissimo agosto non hanno gettato un occhio ai Social, dove la polemica è impazzata; mentre per i palati più fini e gli addetti ai lavori rimando a quanto scritto dall’ottima Giorgia Grandoni, forse la più lucida e completa analisi di questa vicenda pubblicata online.

Ieri sera – finalmente, dopo un silenzio davvero troppo lungo – Martina Strazzer rompe gli indugi, con un’intervista all’opinionista (e non giornalista, ha lasciato l’Ordine nel 2023, dopo essere stata coinvolta in un procedimento disciplinare) Selvaggia Lucarelli.

Lucarelli era l’interlocutrice corretta?

L’intervista appare irrituale fin da subito per la scelta dell’interlocutrice: non già Charlotte Matteini, che per prima, con grande rigore, sollevò il caso il 12 agosto scorso, chiedendo peraltro anticipatamente a Martina Strazzer di dire la sua (richiesta mai esaudita, né al momento dei contatti tra loro, né nelle 3 settimane successive), bensì a un’altra donna – la Lucarelli – in grado sicuramente di garantire il giusto hype e una audience numericamente di tutto rispetto, ma che nulla c’entrava con la vicenda.

Certo, quale migliore megafono della più nota “distruttrice di influencer” d’Italia (vedasi caso Ferragni), la cui benevolenza e “assoluzione” potrebbe ridurre l’intensità della crisi e cambiarne gli esiti?

A margine, è bene ricordare che gli specialisti del settore si stanno interrogando sullo schema: i bene informati riferiscono che inizialmente Strazzer contattò alcuni validi colleghi tra Milano e Roma, ma la collaborazione non si perfezionò a causa dell’indisponibilità della giovane influencer ad accettare consigli, mettersi in discussione e presentare al pubblico scuse sincere e incondizionate. Cosa è cambiato ora, e chi ha convinto Strazzer a rilasciare un’intervista, aprendo il contatto con Lucarelli? (credere a un’operazione spontanea e auto-gestita, perdonatemi, offende l’intelligenza di chi la crisis-communication la pratica per mestiere).

Al netto di queste domande (attualmente) senza risposta, l’intervista Strazzer/Lucarelli non convince del tutto. Complice l’insonnia, alle tre di questa notte scrivevo al mio team:

“Ho letto l’intervista, vi dico due cose: il testo molto probabilmente non è frutto di una sbobinatura autentica come vuol far credere la Lucarelli, ma paiono più essere domande e risposte perfezionate per iscritto, o comunque “aggiustate” in modo agiografico (non so quale sia stato l’interesse della Lucarelli, a parte dimostrare di essere sul pezzo, ma l’intervista non appare del tutto “spontanea”); in secondo luogo, il dossier Amabile non si chiude qui, con questa intervista. Il tempo ci dirà se ho ragione”

Poche ore dopo, stamattina, Matteini è uscita con un suo nuovo video, preannunciando novità (anche su questo spenderemo due parole in chiusura di questo articolo).

Manteniamo tuttavia il focus sull’intervista Strazzer/Lucarelli, concentrandoci su alcuni importanti indicatori semantici, noti non certo da oggi: sono infatti molti gli autori che in passato hanno studiato questo genere di fenomeni, da Patrick Charaudeau, che ha approfondito il “contratto comunicativo” riscontrabile in certe interviste e le modalità di costruzione dell’immagine pubblica tramite esse, a Umberto Eco, che in ambito semiotico ha dimostrato come alcuni testi vengano costruiti per orientare l’interpretazione del lettore/spettatore, fino alle ricerche proprie del filone dell’analisi conversazionale, il cui padre scientifico è il sociologo e linguista statunitense Harvey Sacks, che analizzano appunto le caratteristiche dell’interazione verbale e in particolare come le persone si rapportano tra loro in contesti “faccia a faccia”, approfondendo i modelli e le strutture dei dialoghi (interviste incluse, quindi) per comprendere meglio l’interazione umana e come gli individui possano cooperare negli scambi di opinioni, pensieri e sentimenti (in appendice, chi fosse interessato potrà trovare una breve bibliografia a riguardo).

Non pochi indizi paiono allarmanti. Capiamo perché.

Le apparenti non conformità dell’intervista Strazzer/Lucarelli

In primo luogo, nell’intervista si registra una carenza di spontaneità linguistica, che emerge – paradossalmente – dall’abuso di alcuni marcatori di incertezza, che se è vero sono comuni nel parlato spontaneo, nel testo pubblicato da Lucarelli paiono utilizzati con precisione chirugica al fine di far apparire spontaneo un testo che in realtà non lo è.

Le risposte sono prive di esitazioni o digressioni, e soprattutto il tone-of-voice è quello di chi “imbocca” la risposta sulla base di uno schema narrativo predefinito (per esempio: “Le tue collaboratrici sono tutte impaurite, immagino”, o “Sara si proclamava anche tua fan, immagino”, o ancora “Questa cosa ti terrorizza, immagino”…): in poche parole, le domande – a volte formulate persino con tono retorico – traghettano esattamente a una precisa risposta, e gli esempi in tal senso nel testo sono numerosi.

In non pochi casi, è rilevabile un allineamento perfetto tra domanda e risposta, con le risposte che sono la consecuzione esatta, dal punto di vista del contenuto, dell’incipit della domanda, in modo convinto e senza alcuna umana esitazione. Il testo in poche parole pare essere – se letto maliziosamente – la perfetta risposta al quesito: “se dovessimo emettere un comunicato stampa, conterrebbe questi elementi. Come possiamo destrutturarlo per farlo apparire come fosse un dialogo genuino?”.

Lucarelli poi (stranissimo, e poco aderente allo stile tipico alla quale ci aveva abituati l’opinionista) pone a Strazzer tutte – nessuna esclusa – le domande alle quali l’influencer avrebbe probabilmente voluto rispondere in occasione di una conferenza stampa (“È la vostra prassi quella di fare contratti a tempo determinato per passare poi a contratti a tempo indeterminato?”, oppure “Perché a Sara non è stato rinnovato il contratto?” etc). Nulla di inopportuno, ma rafforza l’idea che domande e risposte possano essere figlie di una precisa e attenta regia.

Inoltre, le domande critiche o tali da generare un contraddittorio sono poste (quando sono poste, perché molti dei quesiti sollevati da Matteini non sono stati affrontati) in modo amabile (sic!) e comunque mai realmente incisivo, e in molti casi “indicano” già l’exit-way della risposta “comoda” (il che rappresenta un unicum per Lucarelli), ad esempio come quando si tenta di “sterilizzare” la passata vicenda dei gioielli comprati in Cina e spacciati per produzioni di Amabile: mancano domande poste in maniera genuinamente scomoda, il che è un possibile indicatore di controllo sull’intervista da parte dell’intervistato (o del suo staff).

L’intervistata sembra seguire una narrazione ben costruita, con messaggi di scuse o auto-assolutori ripetuti più e più volte, quasi a voler far breccia nell’immaginario del pubblico “cristallizzando” una precisa narrazione giustificativa finalizzata a permettere a Strazzer di “archiviare il caso”, e la Lucarelli pare collaborare attivamente a questo disegno, con affermazioni smaccatamente agiografiche del tipo Sembri molto solida, non pensavo che a 25 anni avessi questa tenuta psicologica…”.

È rilevabile una coerenza eccessiva tra varie risposte, che traghettano il lettore a destinazione fissando dei concetti chiave: “se la ragazza è stata licenziata c’erano dei precisi e gravi motivi, non ho risposto subito alle critiche perché volevo fare approfondimenti seri, e qualunque errore io abbia commesso è stato fatto in buona fede, per cui mi scuso, e ora passiamo oltre”, questo è – in sintesi – ciò che sostanzialmente dice Strazzer.

L’intervista, in definitiva, si sostanzia in un momento di autopromozione e di costruzione di uno storytelling fin eccessivamente benevolo e sempre auto-giustificativo: Strazzer nel 100% delle sue affermazioni “si scusa ma…” (…ma ero giovane, ma non sono stata capita, ma ero oberata dal lavoro, ma non avevo personale adeguato, etc…).

Tutto è quindi molto coerente e bilanciato, e pare così ben organizzato, dal punto di vista narrativo, da generare il sospetto – attendo smentite – di una preparazione o revisione ex post del testo.

La vicenda si chiude qui, con il “viaggio dell’eroe” di Strazzer?

Sulle non conformità della strategia di Strazzer e Amabile dal punto di vista della crisis-communication è già stato detto e scritto molto (incluse le scuse inefficaci presentate qualche giorno fa via Social, con delle storie testuali molto algide), ma ciò che è certo è che questa intervista rilasciata a Lucarelli si sostanzia in un perfetto “viaggio dell’eroe” (la struttura narrativa resa popolare dallo sceneggiatore Christopher Vogler, basata sul lavoro di Joseph Campbell) che delinea varie tappe ritenute di appeal per rappresentare la crescita e la trasformazione della protagonista: è uno schema applicabile a storie di ogni genere, che include l’uscita dal mondo ordinario, il superamento di prove e la vittoria su nemici o ostacoli, l’ammissione di colpe e inadeguatezze (cit. Lucarelli: “Un pianto te lo sarai fatto, sei umana…”), fino al ritorno al mondo d’origine con un dono o una “maggiore consapevolezza”, che è poi la morale che Strazzer vuole far trasparire dalla sua intervista, con la complicità (ops, volevo scrivere collaborazione) di Lucarelli.

L’intervista – qualora il caso avesse un seguito, con nuove rivelazioni della Matteini – potrebbe quindi rivelarsi un boomerang reputazionale non solo per Martina Strazzer, ma anche per la stessa Lucarelli, la quale peraltro pare non stia esitando (altra cattiva prassi nella gestione dei dibattiti on-line) a cancellare non pochi commenti critici da parte di membri della sua community (ne riportiamo alcuni qui per rendere l’idea di un sentiment non sempre positivo da parte della sua stessa audience):

La Matteini per contro nel suo video di stamattina ha preannunciato risposte, prendendo la parola – in modo tanto assertivo quanto informale – in bikini dalla spiaggia, durante un momento di relax: la speranza vivissima è che questa delicata e rilevante vicenda non si riduca a dissing tra due note opinioniste, e che possa aver la meglio, su tutto, il buon giornalismo.

Di sicuro, to be continued…


Breve bibliografia:

  • Charaudeau, P. – Le discours d’information médiatique. La construction du miroir social, Vuibert Parigi, 2005
  • Clayman, S. E., & Heritage – J., The News Interview: Journalists and Public Figures on the Air, Cambridge University Press, Cambridge, 2002
  • Eco, U. – Lector in fabula. La cooperazione interpretativa nei testi narrativi, Bompiani, Milano, 1979
  • Fairclough, N. – Media Discourse, Edward Arnold, Londra, 1995
  • M., Taylor, S., & Yates, S. J. (Eds.) – Discourse Theory and Practice: A Reader (pp. 311–324).
    Sage, Londra, 2001
  • Van Dijk, T. A. – Discourse and Power, Palgrave Macmillan, Basingstoke, 2008
  • Wodak, R. – The Politics of Fear: What Right-Wing Populist Discourses Mean, Sage, Londra, 2015
  • Wodak, R. – The Discourse of Historical Approaches, In Wetherell, 2001



SENTENZA STORICA IN CALIFORNIA: PRIMI PALETTI LEGALI PER L’ADDESTRAMENTO DELLE IA SUI CONTENUTI PROTETTI 

LA DIRETTIVA EUROPEA CHE RIVOLUZIONA LE FILIERE PRODUTTIVE DEL TESSILE
avv. Rosalba Tubère

Per la prima volta un Tribunale Federale statunitense ha tracciato con rigore giuridico i confini legali entro cui è lecito utilizzare opere protette da copyright per addestrare sistemi di intelligenza artificiale.

È una decisione epocale che farà storia perchè segna lo spartiacque nel diritto di autore dell’intelligenza artificiale generativa.

Ma vediamo come il Giudice William Alsup definisce i parametri normativi nel contesto del copyright digitale.

Tutto nasce da tre Autori  – Kirk Wallace Johnon , Charles Graeber ed Andrea Bartz- che hanno scoperto l’utilizzo non autorizzato delle loro opere letterarie per l’addestramento di Claude, l’assistente IA  sviluppato da Anthropic PBC (società partecipata da Amazon e Alphabet).

Ma attenzione alla strategia operativa di Anthropic: da un lato aveva utilizzato oltre sette milioni di opere da fonti pirata; dall’altro aveva acquistato legittimamente milioni di copie fisiche sottoponendole a digitalizzazione mediante scansione “distruttiva“ ( cioè senza ulteriore possibilità di operare copie fisiche del libro).

Questa duplice modalità ha consentito al Giudice Alsup di operare la distinzione fondamentale tra due distinte fattispecie giuridich; le ha analizzate separatamente dando un’interpretazione innovativa della dottrina sull’uso corretto dell’intero ecosistema tecnologico.

Il Giudice ha stabilito che l’addestramento di modelli linguistici di grandi dimensioni (LLM) costituisce un uso “estremamente trasformativo” delle opere originali, quindi legittimo!

Ha evidenziato che i modelli linguistici non hanno riprodotto al pubblico gli estremi creativi di un’opera data, né lo stile espressivo identificabile di un autore. Per il diritto di autore statunitense la trasformatività rappresenta uno dei fattori cardine nella valutazione di un uso legittimo.

Il Giudice è pervenuto a questa conclusione con una metafora molto evocativa : come qualsiasi lettore che aspiri a diventare scrittore, i modelli linguistici di Anthropic si sono addestrati sulle opere non per replicarle o soppiantarle, ma per cambiarle e creare qualcosa di diverso.

Questa analogia con il processo creativo umano stabilisce un precedente di cardinale importanza, è il paradigma di riferimento di tutto l’ecosistema tecnologico!

Ha inoltre definito ed operato una tripartizione tra le diverse modalità di acquisizione dei contenuti. Prima categoria: l’utilizzo di opere legittimamente acquistate per l’addestramento di IA. La seconda categoria: la conversione formato di opere legittimamente acquistate e la sua sostituzione digitale con distruzione della copia originale analogica. La terza categoria: utilizzo di biblioteche pirata.

Per la prima categoria l’utilizzo è consentito e non viola alcun copyright perchè è un uso trasformativo, paragonabile all’apprendimento umano.

Anche la seconda categoria è lecita perché si basa su opere legittimamente acquistate e solamente convertite in altro formato.

La terza categoria è vietata in maniera non sanabile. La copia e l’archiviazione di libri provenienti da fonti pirata costituisce una violazione dei diritti d’autore, trattasi di una provenienza illegittima. Inoltre trattandosi di una violazione dolosa del copyright comporta una richiesta risarcitoria .

Nel caso che ci occupa sarà il Tribunale, nell’udienza che si terrà a dicembre di quest’anno, a quantificare l’entità precisa del danno dovuto per l’uso delle copie pirata. Questa sentenza costituirà il precedente cruciale per il risarcimento in casi analoghi nell’ambito di IA training.

Quello che ci interessa è evidenziare, oltre il caso specifico, i criteri che le aziende di IA dovranno necessariamente implementare per agire correttamente.

Occorre una specifica due diligence sulla provenienza dei dataset per verificare la legalità delle fonti.

La documentazione della catena di acquisizione deve garantire la tracciabilità completa.

Sarà requisito fondamentale differenziare i contenuti di origine legittima da quelli potenzialmente problematici, effettuando audit periodici sulla conformità dei processi di training.

E l’Europa?

Il nostro AI Act impone obblighi normativi facilmente esercitabili dagli aventi diritto.

L’opzione di esclusione esercitata dall’autore attraverso la pubblicazione delle condizioni generali d’uso del proprio sito web impedisce in maniera chiara l’utilizzo dei propri contenuti protetti dal diritto d’autore ad opera di società che addestrano IA .

Sarà quindi indispensabile per chi vuole tutelare i propri diritti adottare una gestione contrattuale chiara e vincolante circa le condizioni applicabili agli utenti e ai soggetti che acquisiscono i contenuti protetti dei dataset. L’Unione Europea attribuisce pieno valore alla volontà dell’autore, anche se espressa al di fuori di un atto di diniego diretto.




Questa volta è Forbes che paga per le sue classifiche

Questa volta è Forbes che paga per le sue classifiche

Il 20 marzo del 2023 ho condiviso sul mio profilo Linkedin un post intitolato “se non hai 1500 euro per comparire nelle liste di Forbes, rivolgiti a Furbes”, corredato con l’immagine della copertina di FURBES (con la “u”) con il mio faccione in bella vista.

Furbes (con la “u”) è la geniale idea di Danilo Spanu, esperto di comunicazione, che ha coinvolto una serie di amici, liberi professionisti in vari settori, totalmente invisibili (per ovvi motivi) dalla stampa manageriale, per realizzare una parodia delle copertine di FORBES (con la “o”).

Si tratta di un’innocua presa in giro di termini e situazioni tipiche di un certo tipo di management imbruttito e autoreferenziale alimentato proprio da quel tipo di giornali. Che questa operazione sia puro divertimento, lo capirebbe anche un bambino leggendo i titoli dei finti articoli: “Cambi spesso posizione lavorativa? Si, ogni tanto mi sdraio” “assumere più candidati e meno carboidrati” e “Dubai: i posti migliori per le dirette

Ma evidentemente gli avvocati della “boutique legale” (così si definiscono) di Forbes (con la “o”) devono avere il senso dell’humour di un elettricista polacco al punto tale da dare corda al loro autorevole cliente, intimandomi di cancellare il post in cui si ravvedeva un’evidente intento diffamatorio.

Fermo restando che se come dicono loro, la Costituzione tutela le persone dalla diffamazione, la legge le tutela anche dalle truffe più o meno celate e la deontologia professionale imporrebbe ai giornali e ai loro editori e direttori di essere trasparenti quando pubblicano certi contenuti, chiamandoli col loro nome: pubblicità. Esiste infatti un termine preciso per gli articoli che promuovono servizi, prodotti o persone: quel termine è “publiredazionale” e deve essere chiaramente segnalato su ogni testata.

Ciò che evidentemente dà davvero fastidio a Forbes (con la “O”) è che si venga a sapere quale sia il modello di business con cui questo genere di testate si sostengono. Parlo al plurale perché Forbes è solo la più nota, ma non l’unica.

Alla fine si è espressa l’AGCM, sanzionando Forbes per “pubblicità occulta”, in quanto l’inserto in cui si mettevano in fila “i ristoranti più innovativi” era di fatto, in tutto e per tutto, un publiredazionale mascherato da guida, in cui i ristoratori hanno pagato, senza se e senza ma, per comparirvi.

L’inchiesta sui ristoranti innovativi, partita dalla Lucarelli

Il tutto nasce in seguito ad un’inchiesta della Lucarelli che ha sollevato il coperchio del pentolone.

Coperchio e pentolone in tutti i sensi, visto che l’oggetto della sua inchiesta riguardava un improbabile inserto di Forbes Italia, in collaborazione con Il Forchettiere, in cui si elencano i 100 ristoranti più innovativi.

Alcuni ristoratori sono usciti allo scoperto e hanno dichiarato di essersi rifiutati di pagare 2500 euro per comparire nell’inserto curato da Marco Gemelli, ideatore della guida, al punto tale da costringere il direttore di Forbes Alessandro Mauro Rossi ad ammettere che (effettivamente) QUALCHE ristorante ha pagato per la sua presenza. Ma – secondo il direttore di Forbes – non c’è dolo perché comunque sono tutti ristoranti di qualità. Ah, beh….

Sul fatto poi che l’ideatore dell’inserto curi anche l’ufficio stampa di alcuni di quei ristoranti, che il direttore del giornale abbia pubblicato un editoriale chilometrico senza segnalare che tutti i nominati avessero pagato e che quindi si trattasse di un publiredazionale fatto e finito e che siccome l’inserto è in regalo – parole sue – ad un lettore non cambia nulla sapere se un brand o un professionista ha pagato per essere inserito in una listala dice lunga sulla deontologia professionale e la credibilità di Forbes.

Mi piacerebbe sapere cosa ne pensa la boutique legale & professionale che manda le lettere minatorie a chi si permette di affermare la pura verità e difende invece chi ritiene irrilevante ciò che differenzia un articolo da una pubblicità.

Il “metodo Forbes”

Ma guardiamo oltre, come fanno notare molti lettori che hanno commentato il mio post su Linkedin, il modus operandi di queste testate è più noto di quanto non si pensi, e le classifiche a pagamento non si circoscrivono all’inserto sui ristoranti ma si estendono anche e di più alle aziende più innovativealle donne più influentigli startupper che cambieranno il mondo, i manager più più più… E il format é sempre lo stesso.

Si inserisce nella lista uno specchietto per le allodole che in genere è uno sportivo importante, un brand rilevante, un caso di successo stranoto, l’Amministratore Delegato di un’azienda di largo consumo utili a referenziare il resto della lista composta da semi-perfetti sconosciuti senza arte né parte che invece pagano una cifretta molto accessibile per comparire nella lista. Io sapevo 1500 euro – come ricorda la lettera minatoria degli avvocati di Forbes – ma si vede che l’inflazione galoppa e c’è stata una ritoccatina al prezzario.

Viene da domandarsi: se tutti sanno che quelle liste sono palesemente farlocche, per quale motivo ci sono avvocati, manager d’azienda, CEO e startappari che spendono soldi per comparirci?

Ma che reputazione è, una reputazione che si compra?

A quanto pare c’è qualcuno che crede che comparire su quelle pagine e in quelle classifiche convinca i lettori, gli amici (che evidentemente non hanno), le fidanzate e le mogli, i compagni e i mariti, i colleghi e i clienti di essere “i migliori”.

Una domanda in più però va fatta e riguarda tutti coloro che sui social applaudono e si congratulano con chi adotta un sistema simile per ottenere visibilità.

Perché se è vero che da una parte ci sono centinaia di commenti sui social in cui quelle classifiche vengono puntualmente derise (per usare un termine elegante), non è difficile ritrovare gli stessi, meschini, che la settimana prima perculavano il giovane startupper dell’anno, che oggi si spellano le mani sui post dei loro capi, conoscenti, clienti o il più delle volte solo aspiranti clienti, nella speranza chissà, un giorno, di ottenere un favore, un mandato, un lavoretto, un minimo di patetica attenzione.

Ecco.
Miserabili i primi, ma anche i secondi.




Anatomia di una caduta: cosa insegna il caso Amabile

Anatomia di una caduta: cosa insegna il caso Amabile

In caso di dibattito pubblico, il nostro cervello tende a utilizzare scorciatoie cognitive che ci rassicurano circa la nostra preparazione e competenza, e il nostro “titolo” a parlare. È un fenomeno ampiamente studiato dalla psicologia cognitiva, al quale si riferisce anche il Dunning-Kruger effect (Kruger & Dunning, 1999): paradossalmente, in molti casi, meno l’essere umano pradroneggia un argomento, più tende a sopravvalutare la propria competenza a riguardo, al punto che durante la pandemia di Covid-19 nel 2020 abbiamo assistito a una moltiplicazione di virologi, mentre se il dibattito si sposta sul Ponte sullo Stretto, improvvisamente spuntano ingegnere ed esperte di viabilità (avviso alle lettrici e ai lettori: in questo articolo mescolerò maschile e femminile sovraesteso).

Uno dei tanti temi caldi sono gli scivoloni reputazionali, meglio se legati ad aziende guidate da donne. L’accanimento, inutile negarlo, è sempre più severo quando si tratta di un volto femminile e piacente (Eagly & Karau, 2002; Rudman & Phelan, 2008), e su questo vi invito a leggere autrici esperte sul tema. L’ultimo caso iper-commentato è quello di Martina Strazzer e della sua azienda, Amabile.

Come professionista, amo documentarmi, studiare i dossier, analizzare i casi, piuttosto che rincorrere il commento estemporaneo “pur di esserci a tutti i costi”.

Eppure mentre scrivo questo articolo, la mia natura pacifica e la scarsa inclinazione a litigare con i tanti fuffaguru che si auto-attribuiscono il titolo di esperti è evaporata di colpo aprendo TikTok, quando sono stata investita una valanga di contenuti di una tale sciatteria che sono balzata dalla sedia. Impossibile, per etica e responsabilità professionale, tacere oltre.

Prima di addentrarci nell’analisi conviene mettere ordine. La trama è assai nota, ma un breve riassunto dei fatti può essere utile (chi già conosce la storia potrà saltare a piè pari il prossimo paragrafo).

Il caso Amabile: i fatti ad oggi

La storia di Amabile è un classico esempio di successo digitale che tanto piace raccontare ai giornali: Martina Strazzer, giovanissima, fonda il marchio di gioielli nel 2020 con poche risorse, direttamente dalla sua cameretta, e in pochi anni porta i ricavi a quasi dieci milioni di euro. Un percorso che si regge non tanto sul prodotto quanto su una strategia comunicativa centrata sulla persona: il volto della fondatrice diventa la garanzia di autenticità, la crescita del brand viene raccontata passo dopo passo, la quotidianità della vita in ufficio è trasformata in contenuto. In un’intervista a Repubblica Strazzer aveva riassunto così la formula del successo di Amabile: “Mostrare l’azienda come è, un posto di lavoro diverso, le persone che ci sono dentro, la quotidianità di quello che facciamo, dare ai clienti la sensazione di crescere insieme con loro, davanti ai loro occhi”.

Oggi Martina e Amabile contano quasi un milione di follower su Instagram e oltre due milioni su TikTok. Il target è quello delle giovanissime: una community che ritrova nel brand i valori e i linguaggi della Gen Z, dai riferimenti alla salute mentale all’inclusività sul lavoro. Uno stile imprenditoriale aperto e co-partecipato, che può risultare virtuoso se costruito con coerenza, ma altrettanto fragile se la narrazione non trova riscontro nella pratica. Ed è proprio in questa tensione tra promessa e realtà che sono nati i primi attriti: già nel 2023 la collezione benefica Amore Dannoso era stata accusata di purpose washing: lanciata proprio nei giorni del femminicidio di Giulia Cecchettin, con un nome giudicato inopportuno e senza un impegno iniziale chiaro. Solo dopo le critiche, Strazzer aveva promesso che il 100% dei ricavi sarebbe stato destinato a un’associazione di Modena impegnata contro la violenza di genere.

L’ultimo scivolone arriva però da un’inchiesta giornalistica delle scorse settimane. Charlotte Matteini – collaboratrice de Il Fatto Quotidiano ed esperta d’inchieste sul mondo del lavoro e dei diritti dei lavoratori – pubblica sul suo sito un articolo dal titolo eloquente: “Che fine ha fatto la ragazza incinta assunta ad Amabile da Martina Strazzer?”. Al centro c’è la vicenda di Sara, ex dipendente diventata popolare sui Social come “la prima donna incinta assunta dal brand”. A novembre 2024 Martina e il profilo TikTok di Amabile avevano celebrato (con molta enfasi) l’assunzione di una contabile al quarto mese di gravidanza, presentandola come una scelta di coraggio e inclusione. Il video diventò virale, raccolse migliaia di consensi e portò perfino a un’intervista lusinghiera su Fortune Italia, che consacrò l’approccio innovativo della founder.

Matteini non si fida della narrazione patinata del brand, approfondisce, chiede. Sara aveva un contratto a tempo determinato in scadenza a luglio 2025: non solo non è mai stato trasformato in tempo indeterminato, ma non è stato nemmeno rinnovato (!), diversamente dalle rassicurazioni ricevute direttamente da Strazzer. L’ex dipendente racconta inoltre di aver ricevuto richieste di aggiornamenti quotidiani, scadenze e perfino la partecipazione a riunioni durante il periodo di maternità obbligatoria (pratica di per sé illegale).

Inizialmente, Strazzer tace. La risposta ufficiale dell’azienda arriva con grave ritardo, ben otto giorni dopo la pubblicazione dell’inchiesta, non su TikTok – il canale su cui Amabile ha costruito gran parte del proprio successo – né sul profilo personale di Strazzer, che da sempre è stata volto e portavoce del brand. Il messaggio, diffuso sulla pagina Instagram dell’azienda Amabile, si concentra sulle presunte “gravi mancanze” professionali della lavoratrice, di fatto accusandola pubblicamente di inadeguatezza, senza tuttavia entrare nel merito delle contestazioni. Un testo che lascia la sensazione di un giudizio sommario, con toni freddi e distanti rispetto alla narrazione precedente, ed evidenzia un cambio di rotta nelle modalità comunicative.

L’onda d’urto si misura grazie ai numeri: in un mese Strazzer perde oltre 15 mila follower su Instagram, un’emorragia non tale da mettere in crisi il suo digital body ma comunque significativa, che certifica un palese crollo di fiducia. Soprattutto, i Social si trasformano in un tribunale, e la sua improvvisa sparizione dalle piattaforme alimenta ulteriormente i sospetti. Se i conti di Amabile restano per ora positivi – con un fatturato stimato di sette milioni e mezzo di euro nel 2024, ma bisognerà fare due conti post crisi – è la reputazione della fondatrice ad apparire oggi in pericolo e, indissolubilmente legata ad essa, quella del brand.

Gli errori nella gestione della crisi… e gli esperti di reputazione improvvisati

Torniamo a noi, e a me che salto come una rana dalla sedia. Tra le molteplici analisi di Social Media Manager, e presunti esperti di gestione della crisi l’algoritmo mi propone il video TikTok di Martina Ricca, Art Director, Social Media Strategist e fondatrice di Mea Agency, realtà specializzata nella consulenza nel digital.

Ricca apre il suo video così: “Vi dirò una cosa sul caso Amabile che non è quello che vorreste sentire. […] Ho letto di tante persone indignate per il fatto che Martina non ci abbia messo il volto in questa comunicazione. Ma vi dico una cosa che appunto non vorreste sentire, cioè che nessun esperto di crisi di comunicazione di un brand avrebbe mai permesso a Martina di mettere la faccia in un comunicato del genere. Questo ve lo dico perché io e la mia socia Alice allo IED abbiamo un corso In cui parliamo anche di crisi di comunicazione. Una delle cose che diciamo sempre a tal proposito è che è una follia pensare di fare un video così per scusarsi o come in questo caso dare delle comunicazioni in una situazione tanto complicata. Nessuno gliela avrebbe consigliato, nessuno. Basti guardare che cosa è capitato a Chiara Ferragni con quel video di scuse, lei si è ancora di più affossata.”

Ebbene, lo sconcerto è forte. Non perché sia scandaloso esprimere opinioni – ci mancherebbe – ma perché per buona parte dei nove minuti di Ricca vengono presentate come dogmi affermazioni che non hanno alcun fondamento né nella letteratura scientifica né nella pratica professionale. E qui la questione non è personale: non conosco Ricca, che sono certa sia un’eccellente professionista nel suo campo; ma quando concetti errati vengono spacciati per verità assolute, chi fa questo mestiere ha il dovere di intervenire.

Il Prof. Luca Poma, stimato collega – nonché crisis manager di alcune delle più eclatanti crisi reputazionali nazionali degli ultimi 20 anni – che ho consultato durante la stesura di questo articolo, ha detto:

“reputation e crisis management stanno alla comunicazione d’impresa come la neurochirurgia di precisione sta alla chirurgia generale. Si tratta di materie specialistiche, sostenute da imponente letteratura scientifica e da un numero enorme di case study. Può essere legittimo discutere sull’ordine delle priorità, ma ribaltare i fondamentali e proporre come modello idee che ricerca e prassi hanno già da tempo smentito clamorosamente, no, non è accettabile. Le affermazioni della Ricca, per come mi sono state riportate, sono completamente destituite di fondamento e sono anzi molto pericolose se spacciate per verità e insegnate in corsi di formazione a giovani studenti e professionisti ad inizio carriera”.

Per anni la nostra professione è rimasta quasi invisibile al grande pubblico: fu anche per questo che, agli inizi della mia carriera accademica e professionale, scrissi proprio con il professor Luca Poma il poderoso volume Il reputation management spiegato semplice, in parte per offrire un manuale aggiornato alle studentesse, in parte – lo confesso – per spiegare a parenti e familiari che lavoro facessi. Poi è arrivato il caso Ferragni, e c’è un prima e un dopo il Pandoro Gate: quella crisi ha reso improvvisamente visibile al grande pubblico una professione che fino ad allora era di nicchia.

E allora proviamo a sezionarla davvero, questa “anatomia della caduta”: dove Amabile ha inciampato, cosa dice la teoria, cosa mostra la pratica, e soprattutto perché la gestione di una crisi non si può mai improvvisare.

1) La prevenzione, questa sconosciuta

Parto dall’unico punto in cui io e Ricca concordiamo. Otto giorni di silenzio sono il sintomo lampante di una grave mancanza organizzativa: la pressoché totale assenza di cultura di prevenzione del rischio. Chi si occupa di crisi conosce bene una regola non scritta, derivata da una battuta di spirito, ma sempre attuale: “la sfiga ci vede benissimo”. In ossequio a quella che un divertente libretto pubblicato da uno scrittore e umorista americano chiamava La legge di Murphy, le crisi reputazionali paiono non scoppiare quasi mai quando il team è al completo e in piena operatività, ma deflagrano il venerdì sera, nei weekend, durante ponti o festività, quando l’attenzione del pubblico si sposta dal lavoro ai feed e il tempo per commentare aumenta. Ovviamente, dal punto di vista scientifico non è così, ma è un dato di fatto che molte crisi aumentano il proprio impatto proprio in estate (ricordiamo il caso Segre–Seimandi, esploso nella settimana di ferragosto ’23, seguito proprio dal Prof. Poma lato Seymandi) o sotto le festività natalizie (Pandoro-gate docet).

Qui la prevenzione, in qualunque azienda un minimo strutturata, avrebbe richiesto almeno i “minimi vitali”: una matrice dei rischi, procedure di escalation rapide, turni di reperibilità (sì, anche in ferie!), un portavoce designato e formato con media training, Q&A e holding statement pronti. Non si tratta di un lusso da multinazionale, ma di strumenti base che anche una realtà giovane dovrebbe approntare.

È evidente che Amabile non abbia saputo sfruttare nemmeno l’indubbio vantaggio che ha avuto grazie al fatto che Charlotte Matteini contattò l’azienda ben prima della pubblicazione dell’inchiesta (altra analogia con il caso Ferragni, l’apertura dell’istruttoria del Garante data 6 mesi circa prima della deflagrazione pubblica della crisi): non un fulmine a ciel sereno quindi, bensì, di una finestra temporale in cui poter predisporre almeno una risposta iniziale. Invece, la scelta è stata di rimanere in silenzio, giustificandosi con il fatto che gran parte del personale era in ferie.

Strazzer si è fatta trovare impreparata al momento dello scoppio – annunciato – della crisi. Un piano di gestione, redatto in tempo di pace, avrebbe consentito di arrivare preparati; una cultura del rischio avrebbe permesso almeno di anticipare il danno con un’operazione di stealing thunder (Arpan & Roskos-Ewoldsen, 2005) ossia prendere parola per primi e ridurre l’impatto della notizia, governando parzialmente la narrazione. La scelta opposta – restare in silenzio e poi reagire tardivamente – non ha fatto che amplificare il danno reputazionale.

2) Il costo del silenzio

Il ritardo nella gestione della crisi è certamente un moltiplicatore del danno. Premesso che se non prendiamo la parola, altri soggetti interverranno sicuramente al posto nostro (come sostiene il prof. Poma ricollegandosi alla scuola Aristotelica, “in natura il vuoto non esiste, quindi verrà colmato da qualcun’altro”), la framing theory (Goffman, 1974) ci spiega che il modo nel quale alle persone viene presentato un certo fatto (la “cornice”, secondo Goffman) ne condizionerà la percezione e i convincimenti che in corso d’opera si verranno a formare da parte dell’opinione pubblica. Chong e Druckman (2007), peraltro, in una delle sistematizzazioni più rilevanti della teoria, sottolineano che il framing non si limita a descrivere la cornice cognitiva, ma individua anche i meccanismi psicologici e comunicativi attraverso cui tali cornici plasmano concretamente le opinioni e le scelte, distinguendo così tra il livello dell’identificazione dei frame nella comunicazione e quello degli effetti sull’elaborazione individuale. Le prime versioni degli eventi hanno spesso la forza di ancorare nella mente delle persone percezioni e giudizi: chi per primo interverrà costruendo un “frame”, avrà la chance di decidere quali elementi porre in evidenza e mettere in risalto, e quali, per contro, deliberatemente ignorare. Dunque più si aspetta, più altri fissano cornici e significati, mentre l’organizzazione perde – potenzialmente – la possibilità di guidare la narrazione. Nel caso Amabile, la risposta è arrivata ben otto giorni dopo, e inoltre su un canale percepito come “freddo” rispetto all’habitus comunicativo del brand, in più con un testo piuttosto tecnico che non entrava nel merito delle contestazioni. Il risultato? Dissonanza: il racconto caldo, inclusivo e personale che aveva costruito il brand si è scontrato con una comunicazione distante e impersonale.

Gli effetti del ritardo comunicativo hanno un costo documentato. Il benchmark più celebre resta Cambridge Analytica: lo scandalo esplode il 17 marzo 2018, e Zuckerberg rompe il silenzio solo il 21 marzo. Nel frattempo Facebook brucia quasi 75 miliardi di dollari di capitalizzazione.

Nessun dato ufficiale mostra ancora un impatto diretto sulle vendite o sui bilanci di Amabile, ma la letteratura insegna che segnali come calo di fiducia, sentiment negativo, assenza del portavoce sono spesso il preludio a successive conseguenze economiche ben più concrete, a meno di non spendere risorse per compensarli (il che rappresenta comunque di per sé una perdita).

3) Metterci la faccia o non metterci la faccia? Questo è il dilemma

Uno dei passaggi più controversi del video di Ricca è proprio questo: “nessun esperto di crisi di comunicazione di un brand avrebbe mai permesso a Martina di mettere la faccia in un comunicato del genere”. L’affermazione è perentoria, quasi dogmatica.

Peccato che la letteratura scientifica e la pratica professionale raccontino esattamente il contrario: la Situational Crisis Communication Theory (SCCT) di W. Timothy Coombs (2007; Coombs & Holladay, 2012) dimostra che, soprattutto nei casi di alta responsabilità percepita (le cosiddette preventable crises), la strategia di risposta più efficace è quella di ricostruzione, fondata su scuse sincere e azioni concrete. In questi scenari, il portavoce ideale è proprio chi ha responsabilità diretta e un legame visibile con il brand. È una questione di accountability: se sei tu il volto della tua azienda, nel momento della crisi non puoi sparire. Questa prospettiva teorica peraltro è stata anche confermata da evidenze empiriche recenti: Lee, Kim e Wertz (2014), ad esempio, hanno confrontato l’efficacia delle dichiarazioni di un CEO rispetto a rispetto ai portavoce di rango inferiore durante una crisi, i risultati mostrano che le parole del CEO sono significativamente più efficaci nel diminuire l’attribuzione di responsabilità da parte del pubblico. Ancora, uno studio del 2024 di Beldad e von Rosenstiel richiamato nella bibliografia in calce a questo articolo, ha dimostrato che, in caso di crisi, un messaggio divulgato da un CEO tramite video genera maggiore fiducia e intenzione d’acquisto, nonché livelli inferiori di rabbia, rispetto a uno veicolato da un ufficio stampa o via testo.

Una comunicazione fredda e impersonale, al contrario, accentua la percezione di colpa e genera sfiducia. È proprio ciò che è accaduto nel caso Amabile: la nota su Instagram, senza Strazzer, ha creato dissonanza con anni di narrazione fondata sulla sua presenza.

Perciò no, non è vero che “nessun esperto” avrebbe consigliato di metterci la faccia. Anzi, è vero esattamente l’opposto: quando il volto sei tu, la tua assenza diventa il messaggio più rumoroso. E quel messaggio dice: sto scappando.

Altro che “recitazione” o “poker face clamorosa”. Un altro virgolettato di Ricca recita: “per fare quel tipo di video bisogna essere degli attori nati […] non è una cosa da tutti”, come se l’unica opzione fosse coprire delle bugie o delle situazioni inautentiche con un atteggiamento artefatto e costruito a tavolino. L’opzione di dire la verità in modo schietto e genuino non è prevista? Inoltre qui il punto non è recitare, bensì essere ben preparati. Il media training professionale esiste per questo: simulazioni accurate, gestione delle domande ostili, controllo del linguaggio non verbale. Non è “teatro”: è tecnica.

4) Affidarsi agli esperti… per tempo

Pare che dopo la deflagrazione del caso, Martina Strazzer abbia contattato diversi professionisti di brand reputation per tentare di contenere i danni. Una mossa inevitabile, corretta, ancorché tardiva: se chiami i consulenti quando la crisi è già esplosa, il margine di manovra si restringe drasticamente e la strategia possibile è solo reattiva. 

Stando a fonti qualificate, Strazzer avrebbe poi deciso di ascoltare i consigli di Sparkle Agency, l’agenzia di talent management con sede a Milano che la segue come influencer. Secondo tali ricostruzioni, gli account di quest’agenzia – che non risulta abbiano alcuna specializzazione in crisis management & communication – le avrebbero suggerito di non presentare scuse pubbliche, e comunque di non presentarle in prima persona, una scelta che apparirebbe in tutta controtendenza rispetto alla tutta la letteratura e alla prassi professionali consolidate nel crisis management.

Manuale minimo di sopravvivenza reputazionale (che Amabile avrebbe potuto seguire)

A questo punto, più che proseguire con l’elenco degli errori, può rivelarsi costruttivo illustrare cosa si sarebbe dovuto fare in un’ottica di corretta gestione di corretta gestione di crisi.

1) Le scuse

Il solvente universale di una crisi reputazionale è innanzitutto la capacità di saper chiedere scusa, un’azione catartica e un gesto di per sé dalla portata straordinaria. L’essere umano, come l’organizzazione che sa farlo, dimostra di aver ‘la schiena dritta’, è in grado di guardare l’interlocutore e la audience negli occhi, capire il perché dei propri errori e impegnarsi a cambiare, affinché quanto è successo non accada mai più. Presentare scuse inoltre non include necessariamente un’assunzione diretta di responsabilità intesa come “colpa”: con le scuse l’azienda dimostra di essere empaticamente dispiaciuta in quanto il proprio brand è “parte dell’equazione” in uno scenario che sta generando dolore o anche solo disagio a qualcuno.

Nel suo secondo video, Ricca afferma che le scuse arrivate a crisi deflagrata non avrebbero avuto senso, in quanto sarebbero parse inautentiche. Nulla nella crisis communication – di nuovo – ci indica questa interpretazione come corretta, anzi: le scuse, se sincere, funzionano anche se tardive, purché accompagnate da assunzione di responsabilità e da un impegno concreto a migliorarsi anche per evitare il ripresentarsi di problemi simili in futuro.

Molte delle regole che governano il crisis management trovano corrispondenza diretta nelle dinamiche proprie delle scienze sociali: siamo esseri umani, dopotutto. Quante volte ci è capitato di ricevere avvertimenti da persone vicine e, per orgoglio o paura, ignorarli? Poi, quando la vita ci mette di fronte alle conseguenze del nostro errore, arriva lo “schiaffo”, che costringe a prendere coscienza. È lì che ci si sveglia davvero, che si comprende la portata delle proprie azioni, che si prova un senso di desolazione e si sente – a quel punto – la necessità di chiedere scusa.

Le organizzazioni non sono diverse dalle persone: anche loro sbagliano, e anche per loro le scuse sincere hanno un effetto catartico. Le ricerche lo dimostrano con chiarezza: il pubblico è disposto a perdonare un’organizzazione quando questa dimostra consapevolezza, esprime rammarico e accompagna le parole a un impegno concreto di correzione (Lee & Chung, 2012; Haigh, Brubaker & Whiteside, 2015). Studi recenti (Georgiadou, 2023) confermano inoltre che le scuse intensificate – quelle che includono non solo un “ci dispiace”, ma anche un’ammissione di colpa, promessa di riparazione o impegno a non ripetere l’errore – aumentano la percezione di rimorso sincero e, attraverso questa, rafforzano fiducia e intenzione di acquisto da parte del pubblico, che pare dire “posso riprendere a darti fiducia”.

In altre parole, ciò che conta non è solo – pur importante – il momento in cui le scuse arrivano, ma la loro autenticità e il legame di esse con azioni tangibili. È questo a fare la differenza tra un gesto percepito come mera “tattica” e un atto riconosciuto come segnale credibile di matura responsabilità.

2) Imparare dagli errori (anziché negarli)

Un passaggio obbligato sarebbe stato anche quello di analizzare l’anatomia dell’errore: che cosa non ha funzionato, dove si è inceppata la macchina, come evitare che accada di nuovo. Dirlo pubblicamente, senza giri di parole. La letteratura sull’Organizational learning from crises in tal senso è univoca: ammettere le criticità accelera il recupero reputazionale e rafforza la percezione di competenza (Bundy et al., 2017). Qui invece si è scelta la via della rimozione, che ha prodotto l’effetto opposto: moltiplicare i sospetti.

3) Il confronto con la giornalista

Piuttosto che trincerarsi nel silenzio, avrebbe avuto senso immaginare un dialogo aperto e trasparente con Charlotte Matteini, la giornalista che ha portato in emersione la vicenda. Ammettere la complessità del caso, spiegare le proprie scelte, dimostrare apertura. Accuse gravi, come il fatto che la dipendente Sara abbia dovuto lavorare durante il congedo di maternità, e anche molte altre domande poste dalla giornalista, sono rimaste senza risposta, anche dopo l’intervento pubblico – tardivo – dell’azienda, alimentando così gli interrogativi collettivi. Si sarebbe potuto, anzi, valorizzare l’expertise della giornalista coinvolgendola anche in un processo di assessment interno, dimostrando quindi di non aver nulla da nascondere.

4) Curare la propria community

La community è stata il vero asset del brand. Analizzando il sentiment online emerge una community coesa, spesso pronta a difendere Amabile e la sua integrità. Se quindi il grande pubblico si è mostrato scettico, la fanbase è rimasta in larga parte dalla parte di Strazzer, riconoscendo il lavoro positivo svolto in questi anni e attendendo però una risposta convincente. Amabile ha costruito il proprio capitale simbolico sulla narrazione condivisa, sui video di quotidianità, sul linguaggio diretto della Gen Z. Nel momento della crisi, tuttavia, quella stessa community è stata lasciata sola, senza una voce riconoscibile. Qui sta la vera frattura: se fai della prossimità il tuo DNA, non puoi sparire proprio quando dovresti esserci.

5) Intervenire proattivamente sulla cultura aziendale

Ogni crisi può e deve diventare un’occasione di sviluppo e miglioramento per la cultura aziendale. È il momento in cui un’organizzazione è chiamata a guardarsi dentro, a mettersi davanti allo specchio e a interrogarsi su ciò che non ha funzionato. Le aziende non sono entità astratte: sono fatte di persone, e le persone sono fallibili. Per di più Amabile è una realtà giovane, in evoluzione. L’errore è inevitabile, ma ciò che fa la differenza è la capacità di riconoscerlo e gestirlo, lavorando in modo sistematico e proattivo sul miglioramento. Crisi come quella di Amabile, per quanto dolorose, possono trasformarsi in un booster culturale: una spinta potente per rivedere valori, processi, meccanismi organizzativi e pratiche quotidiane. Attualmente, la leadership dell’azienda non pare aver colto quest’opportunità, o quanto meno non ha rendicontato di averlo fatto.

Una crisi conclusa… o un capitolo due già in arrivo?

Il caso Amabile pare non concludersi qui, anzi, sembra destinato ad aprirsi un vero e proprio “capitolo due”. La giornalista Charlotte Matteini, nella seconda parte della sua inchiesta, ha infatti riacceso i riflettori sulla vicenda della collezione benefica Amore Dannoso.

Secondo quanto riportato, la promessa di devolvere il 100% dei ricavi a un’associazione modenese impegnata contro la violenza di genere non sarebbe ancora stata accompagnata da dati verificabili. Matteini ha preannunciato un esposto all’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), esposto che – come per il caso Ferragni – potrebbe aprire un nuovo fronte di criticità per l’azienda, anche legale. Se la prima crisi ha minato la fiducia nella dimensione interna (il rapporto con le persone che lavorano in Amabile), questa seconda rischia di spostare l’attenzione sull’integrità esterna e la conformità alle norme di legge.

È un passaggio che conferma una regola basilare della crisis communication: una crisi non si esaurisce necessariamente con l’emissione di un comunicato stampa o con il calo dell’attenzione mediatica, ma può riattivarsi ogni volta che emergono incoerenze tra dichiarazioni e realtà.

È anche un promemoria del perché servano competenze solide e approcci strutturati: la reputazione non è mai un “tema di costume”, ma un ambito complesso che intreccia molteplici dimensioni comunicative e organizzative. In questo senso, più che puntare il dito, può essere utile cogliere l’occasione per ribadire quanto il caso Amabile – come molti altri prima di esso – dimostri l’urgenza dell’affermarsi di una cultura manageriale capace di affrontare le crisi non come imprevisti, ma come tappe inevitabili di un percorso di crescita.

In conclusione, ironia a parte, sono quasi grata a questa improvvisa stagione che ha visto fiorire di esperti occasionali di gestione della reputazione: hanno reso un argomento tecnico un poco più pop, e l’hanno trasformato in un tema da feed, costringendo tutti a parlarne. E va bene così: il dibattito è utile, stimola, incuriosisce. E se questo articolo ha un obiettivo, non è certo quello di “zittire” nessuno, bensì quello di offrire stimoli di riflessione e strumenti di analisi, di fare chiarezza, di arricchire la cultura comune su una materia che è molto più affascinante – e molto più complessa – di quanto possa sembrare a prima vista.


NOTA: nessuna parte di questo articolo è stata redatta da strumenti di intelligenza artificiale. L’AI è stata impiegata esclusivamente per attività accessorie di editing, senza incidere su stile, contenuti e idee espresse, nonché per alcune ricerche bibliografiche, la cui coerenza con le tesi dell’autore è stata comunque verificata da un operatore umano.

Bibliografia essenziale

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Martina Strazzer nella bufera: dopo le accuse sparisce dai social

Martina Strazzer nella bufera: dopo le accuse sparisce dai social

Martina Strazzer, giovane imprenditrice e fondatrice del brand milionario Amabile Jewels, è finita al centro di una bufera mediatica che ricorda, per proporzioni, il caso che aveva travolto Chiara Ferragni, il famoso “Pandoro-gate”. E non è la prima volta.

Dopo le accuse legate alla gestione di una dipendente incinta, Strazzer è scomparsa dai social, mentre la polemica continua a crescere senza sosta. Ma scopriamo che cosa sta succedendo.

Martina Strazzer e il caso della dipendente incinta

La vicenda è esplosa quando la giornalista Charlotte Matteini ha raccontato la storia di una dipendente incinta che, inizialmente assunta e utilizzata come volto promozionale per l’azienda, si è vista lasciare a casa al termine del contratto.

 

 
 
 
 
 
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Un post condiviso da Charlotte Matteini (@charlymatt)

Un fatto che, pur non configurando illeciti, ha sollevato una forte indignazione pubblica.

In tanti hanno accusato Martina Strazzer di aver sfruttato la situazione per promuovere il brand, salvo poi interrompere il rapporto di lavoro senza alcuna sensibilità verso la condizione della lavoratrice.

L’impatto sull’immagine dell’imprenditrice è stato immediato: centinaia di commenti critici hanno invaso i suoi canali social, fino a spingerla a un silenzio che dura ormai dal 10 agosto.

Follower in fuga e critiche sulla reputazione

Secondo i dati, dal momento in cui la notizia è stata resa pubblica, il profilo Instagram di Martina Strazzer ha perso circa 10mila follower.

Alla fuga del pubblico si sono aggiunti insulti e accuse pesanti, con paragoni espliciti al “Pandoro-gate” di Chiara Ferragni.

Tuttavia, a differenza dell’influencer cremonese, Strazzer non ha ancora rilasciato dichiarazioni né chiesto scusa. Una scelta che, secondo gli esperti, potrebbe rivelarsi un errore strategico.

L’autenticità è uno dei pilastri fondamentali per costruire una buona reputazione, e in questo caso è venuta a mancare“, ha dichiarato Luca Poma, professore di Reputation Management all’Università Lumsa di Roma. “Ad oggi non mi risulta nemmeno che abbia chiesto scusa; quindi, è impossibile perdonare qualcuno che non chiede scusa“.