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Un algoritmo per i valori dell’Occidente

In Divertirsi da morire, un saggio sulla televisione scritto nel 1985, quando Internet era ancora roba per scienziati, il critico americano Neil Postman diceva che dei due grandi romanzi distopici del Novecento, 1984 e Il Mondo Nuovo, il più realistico non era quello di George Orwell, come si credeva, ma quello scritto da Aldous Huxley.
Per ricapitolare la tesi analogica di Postman sulla società occidentale, e aggiornarla al nostro tempo digitale, un recente articolo del Guardian ricordava che Orwell, con 1984, immaginava che la civiltà moderna sarebbe stata distrutta dalle nostre paure.

Siamo davvero arrivati al punto in cui Internet è diventato lo strumento di demolizione della nostra civiltà? L’egemonia del web ha seriamente compromesso il futuro della società liberale? Gli argomenti catastrofisti sono sotto gli occhi di tutti e non bisogna essere luddisti o reazionari per accorgersi che l’ideologia dell’algoritmo, l’abuso e la manipolazione dei dati personali e le tecniche di persuasione digitali stiano modificando comportamenti, abitudini e tessuto sociale del mondo occidentale. La lista delle recriminazioni è lunga: il disordine creato da Wikileaks negli apparati diplomatici e di sicurezza, la diffusione delle fake news, l’ininfluenza dei dati di fatto nel dibattito pubblico, l’automazione che riduce i posti di lavoro, le ideologie politiche sostituite da algoritmi che pescano i sentiment sulla Rete. E, ancora, l’interferenza cibernetica di Mosca nei processi democratici dell’Occidente, il caso dei 50 milioni di profili Facebook finiti a insaputa degli utenti nei server di Cambridge Analytica e poi utilizzati per indirizzare il voto negli Stati Uniti e altrove, forse anche in Italia.
Tutto vero, e molto pericoloso. Ma non si può negare che la Rete sia una delle più strabilianti innovazioni di sempre. Il culto del web è il prodotto dell’etica libertaria degli Anni Sessanta e dello spirito del capitalismo delle origini; è l’antidoto al mondo scongiurato da Orwell e Huxley; è lo strumento congegnato per sconfiggere il totalitarismo e poi sviluppatosi intorno all’idea che la libera circolazione delle informazioni fosse di per sé un fattore di progresso, di conoscenza e di partecipazione alla vita pubblica. Il problema è che ci accorgiamo soltanto adesso che con l’informazione circola anche la disinformazione e che l’accesso istantaneo a questa massa non filtrata di dati attenua la capacità dell’individuo di selezionare, di valutare, di discernere. Paradossalmente oggi siamo più ignoranti di prima, le società dispotiche sono più solide, quelle aperte più manipolabili e l’indebolimento dei corpi intermedi ha plasmato un sistema modernissimo, ma impaurito e senza punti di riferimento.
Questa è la questione decisiva della nostra epoca e il guaio è che non si vede ancora una classe dirigente in grado di codificare le nuove consuetudini digitali, di rimettere in carreggiata il futuro e di riconciliare il progresso tecnologico con il rispetto dello Stato di diritto. Di sicuro c’è che non si può tornare indietro, perché la formula «innovazione più globalizzazione» ha creato opportunità, distribuito benessere e liberato miliardi di persone dalla povertà. Questa formula, oggi sotto accusa, è l’algoritmo dell’Occidente: avete presente le alternative?




La sostenibilità conta per la busta paga? Ecco chi paga i manager (anche) per gli obiettivi sociali e ambientali

Oltre ai bilanci di sostenibilità e alle azioni di corporate social responsibility, alcune aziende si impegnano su collettività e Pianeta legando i compensi variabili dei loro top manager ai risultati raggiunti sociali e ambientali. L’indagine di Buone Notizie fra le 40 maggiori società quotate in Borsa

A parole, quasi tutte dicono di avere a cuore la responsabilità sociale e ambientale. Alcune hanno cominciato a «misurare» il loro impegno, per esempio nella riduzione delle emissioni di anidride carbonica e nell’utilizzo di acqua (le cosiddette carbon e water footprint), e infatti redigono un bilancio sociale. Ma quante hanno «integrato» la sostenibilità e la Corporate social responsibility nelle loro attività e non la tengono confinata a una funzione aziendale separata dall’attività principale?
Un criterio per capire quanto le aziende si sforzino è quello di valutare il coinvolgimento nella responsabilità sociale d’impresa non soltanto dei Csr manager (che di lavoro fanno questo), ma anche degli altri dirigenti. Le aziende, in genere, danno ai dipendenti obiettivi di business e legano la retribuzione variabile a un meccanismo chiamato «Management by Objectives» (Mbo) determinato in funzione del raggiungimento di risultati economici, come per esempio gli utili raggiunti dall’azienda o l’andamento del titolo in Borsa. Ma perché non dare a livello individuale obiettivi sociali e ambientali per incentivare i manager a raggiungere risultati anche in questi campi?

Apripista a livello mondiale a legare le remunerazioni agli obiettivi Csr è stata Intel. Quando, nel 2008, lanciò i sustainability goals per il 2012, la multinazionale Usa produttrice di microprocessori prese una decisione inedita: incoraggiare i dipendenti a raggiungere gli obiettivi legando parte del loro stipendio a risultati ambientali. E funzionò: per il 2012, Intel riuscì ad abbassare del 35 per cento le emissioni. Accade anche in Italia? «Buone Notizie» a dicembre 2017 ha condotto un’inchiesta contattando tutte le 40 società quotate sul listino principale di Piazza Affari (il Ftse Mib). Due le domande rivolte: «I vostri top manager hanno obiettivi legati alla Csr/sostenibilità?». «Se sì, i risultati legati a tali obiettivi sono presi in considerazione nei criteri utilizzati per assegnare i bonus e/o la parte variabile del compenso?». Dalle risposte (si veda l’infografica qui sopra), emerge che 23 hanno dato ai manager obiettivi di Csr o di sostenibilità e, tra queste, 20 prendono in considerazione tali obiettivi per assegnare parte del compenso variabile. Ecco alcuni esempi.

Eni nell’ambito dei Piani di Performance collegati al sistema di incentivazione variabile ha introdotto obiettivi di sostenibilità focalizzati sulla sicurezza delle persone, l’ambiente e lo sviluppo delle comunità locali nei Paesi in cui è presente. Per l’amministratore delegato e il direttore generale gli obiettivi sono focalizzati sulle tematiche di maggiore strategicità ed impatto socio-ambientale costituite dalle emissioni di gas serra e dalla sicurezza e salute delle persone. Per il top management, oltre a questi obiettivi opportunamente declinati in relazione alle responsabilità ricoperte, ne sono assegnati altri specifici relativi a progetti di sviluppo di servizi e strutture sanitarie e/o di infrastrutture per l’accesso all’energia nei Paesi in via di sviluppo, di controllo ambientale e bonifiche, di sviluppo delle energie rinnovabili, nonché di monitoraggio del rispetto dei diritti umani. Complessivamente, gli obiettivi di sostenibilità hanno un peso non inferiore al 25 per cento nel sistema di incentivazione dei massimi dirigenti Eni. Gli obiettivi di sostenibilità sono declinati per tutti i livelli di management con un peso minimo del 10 per cento.

In Snam per il 2017 l’obiettivo di sostenibilità societario e del top management era composto da due aspetti: l’indice di frequenza degli infortuni di dipendenti e contrattisti e la conferma dell’inclusione nonché il miglioramento del posizionamento di Snam rispetto agli indici di sostenibilità Dow Jones Sustainability Index, FTSE4GOOD e VigeoEurope. Poi c’è un Piano di Lungo Termine a base azionaria che prevede, quale obiettivo di sostenibilità, la riduzione delle emissioni di gas naturale. Sia l’incentivazione variabile di breve termine sia l’incentivazione di lungo termine 2017-2019 garantiscono un parametro legato alla sostenibilità pari al 10 per cento per l’amministratore delegato e per tutti i dirigenti.

Gli obiettivi di sostenibilità rappresentano una quota importante nella definizione degli obiettivi aziendali assegnati al Ceo di Saipem e a tutti i livelli manageriali. Il raggiungimento o meno degli obiettivi è strettamente connesso ai processi di incentivazione. Gli obiettivi di sostenibilità aziendali costituiscono il 10 per cento degli obiettivi annuali assegnati al Ceo. Come indicatori sono utilizzati, per esempio, la frequenza degli infortuni sul lavoro e il rispetto dei diritti umani verificato con i controlli audit.

Per sostenere la realizzazione degli impegni che A2A si è prefissata per un business sempre più sostenibile, la multi-utility ha definito un modello per assegnare, a partire dal 2017, a tutti i dirigenti un obiettivo sulla sostenibilità, che sia misurabile: il loro peso varia tra il 5 e il 10 per cento e A2A sta valutando un incremento di tale percentuale. Nel «Performance Management» di tutti i country manager di Pirelli sono presenti obiettivi di sostenibilità sociale e ambientale (per esempio la riduzione degli indici di frequenza degli infortuni, la riduzione dei consumi energetici e del prelievo idrico, l’aumento del recupero di rifiuti e il controllo della sostenibilità della catena di fornitura).




Il Caso Cambridge Analytica Spiegato al di là degli Interessi di Parte

La scorsa settimana solamente le principali testate online in lingua anglosassone hanno pubblicato 683 articoli relativamente alla questione Facebook – Cambridge Analytica. Complessivamente fiumi di inchiostro e zettabyte [10 alla 21esima byte, pari a 1 triliardo di byte] hanno riempito le cronache di questi ultimi giorni sul tema. Per provare a fare chiarezza al riguardo abbiamo raccolto i contributi e la visione di professionisti con professionalità diverse ed integrate.

Pierluigi Vitale [Social Media Analyst  DataMediaHub / PhD Student Università di Salerno]:

Siamo di fronte probabilmente di fronte a una delle più grandi “rivolte” mediatiche degli ultimi anni. Al di là delle supposizioni, o congetture, di carattere politico e strategico, c’è bisogno di dissipare ed abbassare i toni di un’opera di terrorismo [tra molte virgolette] nei confronti di Facebook, su cui sembrano essersi avventati i media tradizionali che tra una dinamica di sostituzione fisiologica e un’altra di incapacità di adattamento vedono in Facebook il grande nemico. Lo stesso nemico che, se dovesse chiudere come da molti paventato, li risucchierebbe in un baratro che al momento sembrano non aver prefigurato.
Facebook mette a disposizione, non semplicemente e non senza competenze particolari, la possibilità di raccogliere dati dalla propria piattaforma. Questi dati, nel corso degli anni sempre più circoscritti e sempre meno “personali”, rappresentano una importante risorsa per le imprese; per la ricerca e per Facebook stessa, che offre uno strumento quale Facebook Advertising che è, al momento, uno dei primissimi canali a cui si affidano le aziende di questi tempi.
Il caso Cambrige Analytica nasce da una prima fase in cui la raccolta dati consentiva di arrivare a livelli di profondità forse troppo specifici, ma affonda le responsabilità e le ragioni principalmente in altri due aspetti: il primo è l’uso poco consapevole delle persone degli strumenti con cui si interfacciano; il secondo è la condotta scorretta di un soggetto terzo, e quindi non Facebook, che ne ha fatto un uso non dichiarato, non legale, non previsto.
Facebook, da sempre, consente a soggetti la creazione di applicazioni native a cui si accede, da sempre, cedendo alcuni dei nostri dati. Chiunque partecipa a una di queste, come il quiz da cui nasce tutta la storia di Cambridge Analytica, accetta palesemente di rilasciare alcune informazioni. Le stesse che accetta quando sceglie di registrarsi a Facebook. Una doppia approvazione che ci lascia senza il diritto di appello. Se non abbiamo avuto tempo e voglia di leggere ciò che abbiamo sottoscritto, sarebbe etico non aver tempo e voglia di criticare, anzitutto, il nostro lassismo. Questa miscela diventa esplosiva perché correlata a una fase storica di Facebook in cui tra gli endpoint delle API c’era la possibilità di interrogare l’ID dei singoli utenti per evincerne le liste di amici. Oltre alla possibilità di avere nomi e cognomi di chiunque interagisse su qualsiasi pagina da cui si intendessero raccogliere dati.
Dati che, in portata e quantità decisamente inferiori, ho avuto anche io tra le mani, regolarmente e semplicemente raccolti per finalità di ricerca.  L’errore di Facebook? Concedere agli sviluppatori di raccogliere non solo gli id degli utenti [non convertibili in nomi e cognomi] ma anche i nomi e cognomi stessi. Una follia pagata a caro prezzo e recentemente  – prima che esplodesse il caso –  risolta.
In soldoni: Cambrige Analytica disponeva di una serie di informazioni di un bel po’ di persone [tecnicamente consenzienti] che avevano partecipato al “giochino”; aveva la lista degli amici di ciascuna di queste persone; aveva la lista [e il dettaglio] delle interazioni delle stesse su molte e molte pagine. Insomma Cambridge Analytica poteva conoscere non solo le tue informazioni e le tue opinioni inserite o rilasciate mediante il quiz, ma anche se il cugino che hai tra gli amici avesse una passione per i gatti, le trebbiatrici benzina e Belen Rodriguez.
Tutta una serie di informazioni molto capillari ma che non necessariamente bastano a mettere le mani nei tuoi circuiti cerebrali. Arrivare a parlare di “influenzare il voto” e “manipolare le persone” è, a mio avviso, decisamente fuori da ogni logica. È una logica che offende e tratta le persone (e i pubblici) alla stregua di esseri non in grado di avere idee personali e legittime. Una dinamica figlia più di una narrazione reazionaria, nei confronti degli esiti di un risultato politico che mai li aveva visti prima così uniformemente schierati da una sola parte, e nei confronti del [non più] nuovo media di cui non si è mai compreso il reale utilizzo e che ancor viene ritenuto essere il nemico, in una logica del tutto bieca.
I media tradizionali sono parte del problema, perché non sono stati in grado né di fare il nobile ruolo degli alfabetizzatori digitali, che mettessero le persone in condizione di fare un uso consapevole delle suddette app e di quanto stavano rilasciando al gioco [o al social] a cui intendevano partecipare. Ma soprattutto hanno la grave colpa di perseverare in un approccio insopportabile nei confronti del pubblico, ancora una volta, ancora di più, ritenuto influenzabile, manipolabile e per questo incapace di scegliere, proprio come hanno fatto quando hanno avuto l’onere e l’onore di giocare la parte del gigante.

 

Daniele MInotti [Contributor DataMediaHub / Avvocato Specializzato in Diritto Penale dell’Informatica, Diritto d’Autore e Diritto delle Nuove Tecnologie]

Gli esiti sono noti, i fatti un po’ meno. Scoppia la bomba dei dati degli utenti Facebook trattati per profilazione politica da Cambridge Analytica.  E le implicazioni politiche ed economiche non sono da poco. Tuttavia, è lecito domandarsi quali ricadute giuridiche possano avere i pur non chiarissimi fatti, in particolare per gli utenti italiani, visto il gran can-can dei media del nostro Paese al riguardo.
Anzitutto, occorre, ovviamente, accertare se i dati – diciamo così – sfuggiti al controllo di Facebook siano relativi ad utenti italiani. Se, come sembra, i dati sono stati utilizzati per influenzare le elezioni USA e il referendum sulla Brexit, è difficile pensare che siano stati elaborati dati di nostri concittadini. Sicché, banalmente, se non fossero coinvolti cittadini italiani, qui da noi non si potrebbe pretendere molto. Ma andiamo oltre.
Supponiamo che, in effetti, per amor di ragionamento, la vicenda riguardi anche gli utenti italiani. Va subito detto che non ne discenderebbe necessariamente una qualche forma di tutela. Per cui, occorre procedere con ordine.
Come anticipato, i fatti non sono del tutto chiari. E’ evidente che i protagonisti della scottante vicenda hanno interesse a rilasciare dichiarazioni non confessorie, preferendo comunicati accomodanti. Lo stesso Mark Zuckerberg, ha ammesso alcune responsabilità, tuttavia lo ha fatto precisando di essere stato, con Facebook, la prima vittima. Il che, per la verità, equivale alla negazione di ogni colpa.
Sembra, però, abbastanza chiaro che dalla “pancia” del social network i dati siano stati prelevati da Cambridge Analytica, con o senza il concorso di Facebook. Ma tale trasferimento deve  essere approvato da noi utenti mediante un “consenso informato”. Lo prevedono la nostra legge nazionale e, ancora prima, le norme europee. Per tacere del piu’ circostanziato Regolamento Europeo sulla privacy che sarà pienamente esecutivo il prossimo 25 maggio.
In sostanza, chi raccoglie i nostri dati non può farne ciò che vuole, ma, tra le altre cose, deve preventivamente indicare le finalità di raccolta e trattamento, in particolare se i dati saranno ceduti a terzi. Cosa che, ancora una volta, non sembra essere avvenuta. Certo è che questo incombente non esaurisce la questione.
Quando parliamo di “preferenze politiche”, entrano in gioco i “dati sensibili” che tutte le regole vigenti tutelano in modo particolarmente rigoroso, fatto che non può essere sottostimato. In piu’, sembra ci sia stata una vera e propria “profilazione”, particolare attività di trattamento dei dati che penetra in modo assai incisivo nella sfera privata dei singoli.
Secondo il già citato Regolamento europeo, per profilazione deve intendersi  una “qualsiasi forma di trattamento automatizzato di dati personali consistente nell’utilizzo di tali dati personali per valutare determinati aspetti personali relativi a una persona fisica, in particolare per analizzare o prevedere aspetti riguardanti il rendimento professionale, la situazione economica, la salute, le preferenze personali, gli interessi, l’affidabilità, il comportamento, l’ubicazione o gli spostamenti di detta persona fisica”. Si comprende, pertanto, come questa attività particolarmente invasiva debba essere necessariamente arginata da una stretta disciplina che parrebbe essere stata elusa.
E’ dunque possibile che un cittadino italiano possa  intentare una causa [civile] a Facebook per l’affare Cambridge Analytica? Ammesso e – come si dice – non concesso che siano stati violati i dati di un utente italiano, occorre, ovviamente, che si sia verificato un danno [risarcibile]. Ma non diamolo per scontato.
Sappiamo che il diritto al risarcimento del danno da trattamento di dati personali gode di un regime privilegiato. Per la legge italiana [ed europea] quella del titolare del trattamento è considerata una vera e propria “attività pericolosa”. Il che inverte l’onere della prova: se il danno si verifica è il titolare che deve dimostrare di aver fatto tutto il possibile per evitarlo. Cosa non certo facile.
Tuttavia, a carico del presunto danneggiato rimane pur sempre la prova del danno che, quando si parla degli esiti di un trattamento di dati, non è sempre agevole.
Premesso che è sempre dovuto il risarcimento dei danni non patrimoniali [che è ciò di cui si discute], la semplice elaborazione chiaramente non comporta le conseguenze, ad esempio, di una diffusione. Ma oggi parliamo di qualcosa di piu’ perché ci troviamo di fronte ad un caso di profilazione, come visto attività particolarmente critica.
Ma la violazione delle norme sul trattamento non comporta immediatamente la risarcibilità del danno. Occorre – come è oramai pacifico per i nostri tribunali – la gravità della lesione e della serietà del danno che devono essere provati dall’utente.
Ciò chiarito, astrattamente, come sembra stia accadendo negli Stati Uniti, si potrebbe anche prospettare un’azione collettiva [“class action”], sempre che, ovviamente, siano presenti i requisiti del codice del consumo, vale a dire “i diritti individuali omogenei dei consumatori e degli utenti … nonché gli interessi collettivi”.
Probabilmente, però, a parte le questioni di risarcimento, se saranno accertati trattamenti illeciti di rilevanza europea, le Autorità non mancheranno di farsi sentire. Come, in effetti, sembra stia già avvenendo.

 

Luca Poma [Docente Universitario e Specialista in Reputation management – Full Bio]

La gestione di questa crisi reputazionale, senza precedenti per Facebook, ha violato per interminabili giorni i più elementari principi del crisis management e della crisis communication – dalla anticipata previsione di scenario, alla necessità di assumersi le proprie responsabilità, al coinvolgimento del CEO in prima persona a fini di rassicurazione del mercato, e molto altro – come appare chiaro analizzando pur sinteticamente quanto segue.
Zuckerberg è stato per circa una settimana come “assente”, ha emesso pochissime dichiarazioni, non incisive, delegando quasi sempre le risposte ai comunicati stampa dell’azienda e ai suoi sottoposti, sottostimando nei fatti la portata della crisi, e rinunciando anche a pubblicare alcunché di rassicurante sui suoi canali social.
Facebook ha inizialmente tentato di giustificare lo scandalo spiegando che il permesso all’uso dei dati a favore di Cambridge Analytica era stato concesso “per fini di studio accademico”, circostanza immediatamente smentita dei vertici della società di consulenza e analisi, il cui CEO ha dichiarato:“Non abbiamo mai detto che il nostro progetto era finalizzato a una ricerca universitaria”, contraddicendo quindi palesemente Zuckerberg e in qualche modo rivendicando lo spregiudicato uso commerciale dei big-data che Facebook gli avrebbe in qualche modo permesso di utilizzare.
Facebook, secondo le rivelazioni delle inchieste in corso, sarebbe stata a conoscenza dell’utilizzo illecito dei dati già dal 2015, tanto che all’epoca si sarebbe attivata per chiedere a Cambridge Analityca l’immediata cancellazione di essi, senza però informare gli utenti della violazione dei loro diritti.
Facebook si è affidata assai tardivamente alla Stroz Friedberg, società specializzata nelle indagini digitali forensi, per verificare se la Cambridge Analytica fosse ancora in possesso dei dati che 3 anni Facebook fa gli aveva chiesto di cancellare.
L’autorità della Gran Bretagna – che intende passare al setaccio i database e i server utilizzati dalla Cambridge Analytica, anche evidentemente per svelare il grado di coinvolgimento di Facebook – aveva chiesto accesso alle informazioni già la scorsa settimana, ponendo come termine ultimo le ore 18 di ieri, ma non ha ottenuto alcuna risposta.L’incapacità di Facebook di orientare, a crisi conclamata, il comportamento di un suo ex inserzionista/cliente di rilievo, e di gestire il rebound comunicazionale negativo, appare francamente sconcertante.
Zuckerberg ha rotto il lungo silenzio pubblicando un post sul proprio profilo, e affermando tra le altre cose: “Sono io che ho lanciato Facebook e sono io il responsabile di tutto ciò che accade sulla nostra piattaforma. Abbiamo fatto degli errori: c’è stata una violazione del rapporto di fiducia tra Facebook e le persone che condividono con noi i propri dati. Questa fiducia va recuperata, per questo bandiremo tutti gli sviluppatori che non sono in regola”.
La situazione pare essersi leggermente stabilizzata dopo che il consiglio di amministrazione di Facebook – all’interno del quale oltre a persone fisiche con pacchetti azionari di rilievo come Sheryl Sandberg, Chief Operating Officer di Facebook, o il CTO Michael Schroepfer, vi sono anche investitori istituzionali come Vanguard Group e Blackrock – ha dichiarato “di essere al fianco di Mark Zuckerberg”, fiducia che il CEO non ha caso ha incassato poco dopo la sua uscita ufficiale via social, dichiarazione ovviamente concordata con i principali azionisti e in controtendenza rispetto all’iniziale strategia di attesa.
L’intero scenario fa emergere una domanda, netta e chiara: o la società di Menlo Park non si è mai interrogata circa la necessità di strutturare un efficace crisis plan – per giunta su una issue i cui contorni erano internamente noti da tempo – oppure in tutta evidenza ne ha violato scientemente – e inspiegabilmente – tutti i “fondamentali” per un periodo insolitamente lungo, considerato il pregiudizio reputazionale e finanziario arrecato all’azienda da questi avvenimenti. In entrambi i casi – e ben vengano altre interpretazioni da parte dei colleghi – le ricadute sul valore del titolo sono state pesanti, e, in prospettiva, la quantità di risorse necessarie per una completa ed efficace azione di recovery reputazionale paiono sempre più ingenti. Lanny Davis, crisis manager e consigliere di Clinton per alcuni anni durante la sua Presidenza, commenta: «Zuckerberg ci ha messo così tanto a parlare perché di fronte allo scandalo ha pensato fosse opportuno “non nutrire la bestia”, non dare materiale ai giornalisti, nella speranza – del tutto vana – che il problema si risolvesse da solo. E’ una cosa già vista in altri casi, e non c’è niente di più sbagliato».

Alessio Cimarelli [Co-Founder DataMediaHub & Dataninja / Data Scientist]

Quando il nostro browser si collega a una pagina appartenente al dominio facebook.com [e domini affiliati], invia una richiesta ai server di proprietà di Facebook Inc. trasmettendo automaticamente una serie di informazioni: il percorso della pagina a cui si vuole accedere, dati sul browser e sul sistema operativo, l’indirizzo del device che stiamo usando e altri dati eventualmente memorizzati in precedenza, per esempio nei cookies.
Facebook risponde alla richiesta in base a tutte queste informazioni che riceve. Ci riconosce come utenti anonimi? Ci limita l’accesso alle informazioni pubbliche [e ci invita a registrarci]. Abbiamo effettuato il login con il nostro account registrato? Personalizza il contenuto della pagina che visualizziamo e ci assicura un accesso più ampio ai contenuti, per esempio dei nostri amici. Questo vale anche se richiediamo una pagina che nulla a che fare con Facebook [per esempio un articolo di una testata online], ma che ha installato uno dei suoi plugin: il pulsante di condivisione, l’embedding di una timeline, il pulsante di social login, il facebook pixel [uno strumento di tracking].
Ogni volta che il nostro browser, direttamente o indirettamente, invia una richiesta ai domini di Facebook Inc., l’azienda riceve informazioni da noi. Se non siamo loggati, si tratta di informazioni sostanzialmente anonime, cioè non direttamente riconducibili a noi come persone. Altrimenti sono direttamente collegate alla nostra identità su Facebook [che ricordiamolo, ha molte informazioni reali] e possono influire su ciò che facebook ci propone, per esempio sotto forma di advertising oppure di criteri di selezione dei post nella nostra timeline. Proprio questo Facebook vende ai propri inserzionisti: non permette loro di accedere ai dati personali del target scelto, ma promette loro che proprio quel target vedrà la pubblicità proposta.
Quanto detto fin qui vale per qualsiasi sito web, non solo per Facebook. Facebook però non è solo un semplice sito, ma una vera e propria piattaforma nella quale soggetti terzi [quindi né Facebook, né noi utenti] possono sviluppare applicazioni e lasciare che sia facebook a distribuirle ed eseguirle. Quando usiamo applicazioni di terze parti su Facebook, quindi, gli attori in gioco sono sempre tre: Facebook, il produttore dell’applicazione e noi. Nel tempo le regole di ingaggio di questi attori sono cambiate più volte per iniziativa della stessa Facebook, che fa da padrone di casa. In particolare è sempre richiesto un consenso informato esplicito da parte dell’utente, che può verificare in anticipo le informazioni a cui la terza parte può avere accesso nel caso accetti le condizioni d’uso.
L’utente può sempre rifiutarsi [o ritirare il consenso in qualsiasi momento], ma naturalmente così facendo si preclude l’uso dell’applicazione stessa. Il produttore dell’applicazione sceglie in autonomia a quali informazioni degli utenti vuole accedere in caso di consenso [scegliendole da una lista che gli propone Facebook] e nella maggioranza dei casi si limita a quelle strettamente necessarie al buon funzionamento dell’applicazione stessa. Ma può anche sceglierle tutte, sta poi all’utente verificare prima di fornire il consenso e chiedersi: “perché l’applicazione ‘vota il gattino più teneroso’ dovrebbe voler accedere alla mia posizione lavorativa?”. La situazione dei produttori di applicazioni è diversa da quella degli inserzionisti: i primi possono accedere alle informazioni delle singole persone, perché chiedono loro il consenso uno a uno, mentre i secondi no, al massimo possono solo accedere a statistiche aggregate del target raggiunto dalla propria campagna pubblicitaria.
Anche una volta ottenuto il consenso dell’utente e avuto accesso ai suoi dati, però, il produttore di applicazioni è tenuto a rispettare altre regole, per esempio che limitano il riuso di quelle informazioni o la loro cessione a ulteriori soggetti. Far rispettare queste regole per Facebook, però, è molto più difficile: una volta che i dati degli utenti, con il loro consenso, sono stati ceduti a soggetti terzi, non è tecnologicamente possibile impedirne del tutto un uso scorretto. Si possono solo fare verifiche ex post e in caso di violazione Facebook può chiudere gli account e le applicazioni coinvolte, oltre che denunciare l’accaduto alle autorità competenti. La questione è ancora più complicata se si considera anche che queste regole sono in evoluzione, per cui va chiarito cosa è retroattivo e cosa no.
Il caso Cambridge Analytica, comunque vada a finire per Facebook Inc., per l’azienda incriminata, per il gruppo di ricerca universitario, si inquadra in questo contesto tecnologico e normativo, in continua evoluzione, che non è [e non può esser] solo appannaggio di Facebook Inc. o dei suoi clienti, ma viste le dimensioni non può che coinvolgere gli Stati e i loro cittadini.
 

Pier Luca Santoro [Project Manager DataMediaHub / Consulente di Marketing, Comunicazione & Sales Intelligence]

I giornali degli altri Paesi europei – ad esclusione di quelli del Regno Unito [dove ha sede Cambridge Analytica] – hanno dato scarsa, o nulla rilevanza, alla questione, e quando l’hanno fatto, dedicandovi i titoli di un giorno solamente, il “j’accuse” ha coinvolto non solo Facebook ma anche Trump, con anche i giornali tedeschi, nazione che come sappiamo ha introdotto di recente una legislazione molto severa su “fake news” ed “hate speech”, con pesanti sanzioni per i social, hanno dedicato spazi marginali alla questione.
Così non è stato invece per l’informazione italiana che per l’intera settimana ha dedicato invece quotidianamente ampio spazio al tema toccando il fondo, probabilmente, con la pagina intera del Corsera di Venerdì 23 Marzo scorso. Un’insistenza, un accanimento, che difficilmente si spiega, visto che tra l’altro la questione, come noto, non riguarda direttamente il nostro Paese, se non come un “regolamento di conti” tra i publisher, infuriati per la recente stretta dell’algoritmo che frustra la loro cattiva gestione della piattaforma social, e delusi dalle tante aspettative di guadagni, sin qui disattese, e Facebook.
Una ipotesi, un “sospetto” che sembra essere avvalorato dalla nostra analisi delle conversazioni sui social relativamente a #DeleteFacebook [con un’altra “perla” del giornale di Via Solferino in cui il giornalista che firma l’articolo sulla questione ammette candidamente di non aver mai usato Facebook]. Infatti, se già rispetto alle citazioni di “Cambridge Analytica”, che sono state circa 4 milioni nell’ultima settimana a livello internazionale, quelle relative all’invito di cancellarsi da Facebook complessivamente sono meno del 10% [376mila], nel nostro Paese l’incidenza è ancor più marginale. Dai nostri dati solamente poco più di 5mila citazioni di #DeleteFacebook riguardano l’Italia, come mostra l’infografica sottostante.
Insomma, gli italiani non  sembrano davvero intenzionati a cancellarsi da Facebook, come dimostra un sondaggio sul tema dal quale emerge che otto italiani su dieci hanno intenzione di andare avanti come prima nell’utilizzo della piattaforma social, ed anche la proposta dei direttori creativi dell’agenzia M&C Saatchi Italia, che per il lancio della nuova BMW X2 da parte di BMW Italia hanno realizzato un’installazione che raffigura un  gigantesco “like” a MIlano è un segnale in tal senso.
Dunque se il tema interessa marginalmente i lettori, le persone, l’accanimento dei nostri media è quantomeno, appunto, “sospetto”, diciamo. Del resto che l’idea di Facebook di stringere i cordoni della borsa dell’algoritmo anche per i newsbrand fosse un errore tattico – oltre che strategico –  che prestava il fianco a possibili “rappresaglie”, è una parte di quanto avevo scritto poco più di un mese fa analizzando il ciclo di vita della piattaforma social.
Se a questo si aggiunge che molte testate tracciano e profilano i loro lettori, spesso consentendo proprio a Facebook di farlo sui loro siti [vale anche per i newsbrand nostrani], si capisce quanto la campagna mediatica sia pretestuosa ad essere magnanimi.
Anche la paventata “fuga degli inserzionisti” da Facebook appare fortemente esagerata, per usare un eufemismo, ed allo stato attuale vede coinvolte poche aziende e non certo di grande rilevanza. Secondo BuzzFeed su l’app store l’applicazione di Facebook sarebbe addirittura passata dal dodicesimo al ottavo posto, e molti analisti, visto il calo in borsa, consigliano l’acquisto delle azioni.
Insomma, in ultima analisi non è assolutamente prevedibile che quello che avvenne tempo addietro con MySpace si ripeta per Facebook, almeno per quanto riguarda il breve-medio periodo. Ed anche coloro che, per una porzione ridotta di pubblico, avranno cancellato l’app di Facebook, sfrutteranno ben presto la possibilità di ripristino, come del resto avvenne con Uber dopo “lo scandalo” che lo vide coinvolto.
E allora, tanto rumore per niente? Non esattamente. Sicuramente, come annunciato, ci sarà una stretta significativa sui dati che sarà possibile ottenere attraverso Facebook, che comunque erano già sensibilmente inferiori a quanto possibile rispetto ad altre piattaforme social, quali Twitter in primis.
Anche la profilazione delle audience per gli ads su Facebook sarà riveduta. Processo già in atto, anche in Italia, con le “custom audience” e le “saved audience” che per i micro-target che già allo stato attuale nella maggior parte dei casi non sono più disponibili.
Nell’economia dei dati, che le persone da lungo tempo cedono senza di fatto alcuna preoccupazione per la privacy, giusto o sbagliato che sia tale atteggiamento, non avere accesso ai dati di Facebook potrebbe costituire un problema ben più grave di quello che apparentemente, al netto delle speculazioni sulla contesa del mercato pubblicitario, si vorrebbe risolvere.
I “tecno-scettici”, siano questi per ignoranza, partito preso o interesse specifico, che accusano i big data di minare pesantemente la libertà degli individui pare che in realtà abbiano di quella stessa libertà che apparentemente difendono una ben bassa opinione. Certamente ci vuole trasparenza su come vengono utilizzati i dati da parte delle aziende ma la “crociata” in corso è assolutamente dannosa. Non a caso Nova24 di ieri titola a tutta pagina “la redistribuzione dei dati è un valore”.
Si tratta di un tema sul quale tutte le parti, gli stakeholders, Facebook incluso ovviamente, devono discutere ed approfondire con calma e serenamente, a mente lucida, senza farsi prendere dall’eccitazione del momento contingente del linciaggio al cattivo di turno. Se così non fosse potremmo pentircene amaramente in futuro.

Update del 28/03 – Riceviamo e volentieri pubblichiamo il contributo di Emilio Gelosi [ ‎Responsabile Comunicazione  ‎Legacoop Romagna – Full Bio]

Il caso Cambridge Analytica ci pone di fronte a due archetipi millenari. Quello del prodotto della tecnologia che sfugge di mano al proprio creatore, il Golem, e quello del santuario in grado di dare indicazioni sul futuro, l’Oracolo.
Del primo non c’è molto da dire di nuovo, è ampiamente sdoganato in un mondo in cui il Golem è non solo accettato, ma accudito e riverito, tenuto a stretta portata di mano come il migliore amico dell’uomo e della donna, amato finanche nella sua capacità di ribellarsi e provocare la scomparsa del suo creatore. Nuova è, forse, la tecnologia che viene introdotta alle scarse competenze informatiche del cittadino medio: la massa informe di dati che diventa dapprima viva e utile attraverso la parola [l’algoritmo di analisi semantica? la psicometria?] quindi cresce a dismisura fino a diventare minacciosa per il suo stesso padrone. Big Data e Big Golem, ma la metafora è stata utilizzata con ogni nuova tecnologia che diventa pervasiva.
E se il Golem diventasse anche oracolo? Qui sta la novità letteraria, il “mash up” del caso Cambridge Analytica. L’oracolo, lo svelamento del varco sul domani, è finora stato Google e il suo straordinario sistema di catalogazione dell’esistente. Ma un motore di ricerca è davvero un oracolo? Le masse adoranti si accalcavano di fronte al tripode di Delfi per interrogare il futuro. La semplicità con cui otteniamo risposte dal prodotto di Mountain View non c’entra nulla. La user experience era complessa ed esoterica, comprendeva purificazioni rituali, corone d’alloro e stati di estasi indotti che conducevano a risposte in esametri da parte della sacerdotessa Pizia.
Altro che design minimale e “materiale”. L’oracolo è permeato di spiritualità perché traduce l’indicibile. Persino l’I Ching della tradizione cinese, ancora più antico, raccomanda ai suoi fruitori cautela e moderazione nella query ai suoi 64 bit – esagrammi. Il Golem-Google non può diventare oracolo perché ormai è servo del sarcofago del mostro Pitone, ha perso la sua carica di rivoluzione.
Mentre Facebook e Cambridge Analytica, nella sostanziale segretezza e incomprensione dei loro meccanismi, non promettono solo risposte. Vere? Forse: chi se ne importa se Trump è stato eletto grazie a loro. Quello che conta è la magia, la suggestione, la sensazione di potere che inducono alle deboli menti degli uomini. Incapaci. Eventuali responsi errati sono già attribuiti all’incapacità di comprendere, piuttosto che a quella di prevedere. E quindi l’Oracolo ha già vinto sul Golem.




Biorfarm

L’ospite di questa settimana del mio blog è Osvaldo De Falcocofondatore diBiorfarm, una start up che aiuta domanda e offerta ad incontrarsi di prodotti agricoli sostenibili.

Ciao Osvaldo e benvenuto sul mio blog. Come funziona Biorfarm e quando è nata l’idea?
Ciao Rossella, grazie per l’invito a raccontarci!
Immagina di poter coltivare il tuo cibo in modo biologico ovunque ti trovi, per gustare ciò che conosci e di cui sei sicuro, proprio come un agricoltore. Noi facciamo in modo che tu lo possa fare! Siamo un social-marketplace che mette in contatto diretto chi produce il cibo in modo sostenibile con chi lo porta a tavola: puoi adottare o regalare alberi da frutta e creare un tuo campo digitale, seguirne online la coltivazione biologica e ricevere a casa i frutti freschi appena raccolti.
Con qualsiasi dispositivo, accedendo a Biorfarm è possibile adottare diversi tipi di alberi in base ai propri gusti, creando un proprio campo digitale, ottenere informazioni in tempo reale sullo stato degli alberi tramite foto e video condivisi dagli agricoltori locali e ricevere i prodotti biologici direttamente a casa, secondo la quantità e la frequenza che si preferisce.
L’idea, come spesso accade, nasce da una crisi. Non riuscivo ad accettare che mio padre, agricoltore locale in Calabria, vendesse clementine bio fresche a 0,20€ al kilo e che in corso Genova a Milano il fruttivendolo le vendesse a 3,90€/kg. Allo stesso tempo, mi rendevo conto che sempre più persone preferivano acquistare direttamente dai contadini e ricercando le motivazioni, ho scoperto che quasi il 20% degli Italiani nel 2017 si è rivolto direttamente al produttore per gli acquisti di frutta e verdura. I motivi di questa tendenza sono molti, riconducibili però a due caratteristiche comuni a quasi tutti i consumatori, innanzitutto la percezione della maggior qualità dei prodotti dovuta ad un contatto con l’agricoltore che crea fiducia. La seconda è una motivazione puramente etica, perché acquistando dal contadino locale sappiamo di far qualcosa di buono non solo per noi ma anche per coloro che coltivano la nostra terra.
Il settore del biologico sta crescendo su tutti i mercati: è anche grazie a questo trend che la vostra iniziativa si sta rapidamente affermando?
La nostra start up opera in un mercato, quello del biologico, in crescita e molto importante per dimensione. Ma i trend per noi più interessanti sono quelli relativi alla crescita degli acquisti diretti e online. Da una recente ricerca Nielsen è emerso che il 54% delle persone nel mondo pensa che nel breve futuro acquisterà la spesa completamente online. Sicuramente il cavalcare la tendenza di un mercato in crescita ha contribuito a farci conoscere, ma questo non basta. Alla base c’è la forza di realizzare un sistema nuovo, sostenibile e innovativo, spinti dalla passione comune per il digitale e l’agricoltura. Oggi, grazie ai nuovi mezzi di comunicazione, è più semplice trasmettere e far conoscere le idee!
Definisci i vostri agricoltori come “un’unica grande famiglia”. Quali sono stati i problemi per coordinare tra loro anche realtà molto diverse?
La nostra grande famiglia è composta da agricoltori locali e agricoltori digitali, ovvero gli utenti che creano i loro campi su Biorfarm. Come in tutte le famiglie numerose possono esserci complicazioni dovute alle diversità individuali che vengono superate dalla consapevolezza che uniti si è più forti, che i membri della famiglia saranno sempre pronti a sostenersi l’uno con l’altro. È lo stesso approccio che utilizziamo noi. Gli agricoltori sono una categoria particolare, diffidente e aperta allo stesso tempo, e una volta che entrano in Biorfarm ne percepiscono subito i benefici e l’importanza di farne parte. Fin ora non abbiamo avuto particolari problemi perché sia noi che gli agricoltori sappiamo di essere all’inizio del percorso di crescita e le eventuali difficoltà cerchiamo di trasformarle in feedback, da recepire e usare per migliorare.
Vivere e presidiare il territorio: possiamo considerarla una delle missioni più importanti di Biorfarm?
Tra gli obbiettivi di Biorfarm, la salvaguardia e la promozione dei territori ricoprono un ruolo molto importante. Non siamo noi direttamente a vivere e presidiare i territori, ma facciamo in modo di supportare chi lo fa, gli agricoltori locali. L’Italia è il paese con la più importante biodiversità in Europa e sono proprio gli agricoltori locali che si occupano di custodire questo tesoro. Sono loro che coltivano quei frutti antichi, autoctoni, che caratterizzano i territori. Sono loro che conservano i semi dei grani antichi, come reliquie tramandandole di generazione in generazione. Non sono le grandi aziende che coltivano in modo intensivo ed esclusivamente varietà geneticamente modificate in laboratorio per aumentarne la produzione e la resistenza. Sia ben chiaro, noi non siamo contro le nuove varietà, importanti in un’ottica di alimentazione globale, ma sappiamo che se i guardiani storici dei nostri territori venissero a mancare, perderemmo l’identità agroalimentare che caratterizza il nostro paese. E anche se non se ne parla molto, questo è un serio problema. Pensa che ogni giorno solo in Italia 60 agricoltori abbandonano i campi, parliamo di oltre 20.000 contadini all’anno! Questo perché non riescono ad essere economicamente sostenibili, a causa sia della filiera distorta che caratterizza il mercato, sia della difficoltà di competere con grandi aziende internazionali. Per noi quindi, vivere e presidiare il territorio si concretizza nel dare agli agricoltori locali gli strumenti, economici e digitali, per poter continuare a fare il loro lavoro e proteggere il territorio.
Per concludere, quali sono i vostri programmi per il 2018?
Abbiamo appena chiuso una campagna di crowdfunding che ha riscosso molto successo, dandoci la possibilità di aumentare la visibilità e reperire le risorse necessarie per crescere. Quest’anno sarà ricco di novità. In primis, allargheremo la famiglia con 30 nuovi agricoltori locali e faremo un test inserendo anche gli ortaggi. Quindi, gli utenti potranno non solo crearsi un campo digitale adottando gli alberi da cui ricevere i frutti freschi bio, ma anche adottare un orto e scegliere cosa farci coltivare per poi ricevere settimanalmente la propria verdura di stagione, sana, genuina e fresca di campagna!
Stiamo poi lavorando per migliorare l’interazione con gli agricoltori, con una user experience tutta nuova ed, entro la fine dell’anno, il lancio di una App.
In fine, ma non per importanza, stiamo sviluppando il canale B2B. Abbiamo riscontrato molto interesse da parte di diverse aziende che iniziano a sceglierci perché, creando un campo aziendale possono regalare gli alberi a clienti, dipendenti o fornitori, che oltre a ricevere un dono o benefit gradito, come la frutta fresca e la verdura di campagna, vivono un’esperienza unica a contatto con gli agricoltori grazie all’azienda. Inoltre, in ottica di CSR e Green Marketing, adottando gli alberi come dono possiamo comunicare l’impegno dell’azienda nel sociale e nella sostenibilità ambientale. Infatti, oltre a dimostrare quanti piccoli agricoltori locali ci stanno supportando, siamo in grado di attestare l’impatto ambientale, in termini di CO2 assorbita per ogni albero adottato e coltivato con metodi biologici, grazie ad una partnership con ReteClima, ente non profit impegnato in campo ambientale.
Insomma, nel 2018 ci saranno tante novità e la nostra visione di una grande azienda agricola condivisa sarà sempre più vicina!




The Phoenix, l’auto fatta di “rifiuti elettronici”, batte la Tesla: 1.600 km con una ricarica

The Phoenix è costruita con il 90% di rifiuti elettronici ed è costata solo 13 mila dollari. La sua mega batteria da 165 kWh le ha permesso di girare in pista per due giorni

È americana, e costruita in gran parte con rifiuti elettronici, l’auto che ha strappato il record mondiale di percorrenza detenuto al 2013 da una Tesla Model S: ribattezzata The Phoenix, la fenice, è stato costruita utilizzando il 90% di componenti usate, dal motore alla batteria passando per il telaio, ed è stata in grado di percorrere 990 miglia, circa 1.600 km, con una singola carica.

 A costruire le Phoenix sullo scheletro di una Bmw 528i del 1997 “tirata fuori da un cassonetto” è stato Eric Lundgrendiscusso amministratore delegato dalla IT Asset Parteners, che gli scorsi 16 e 17 ottobre ha girato sulla “Auto Club Speedway” di Los Angeles tagliando l’abito traguardo. E superando di fatto il suo precedente record e, soprattutto, il risultato ottenuto dalla Tesla Model S, che lo scorso settembre aveva festeggiato le 670 miglia percorse con una singola carica.

L’auto ha richiesto un investimento di 14mila dollari, e si basa interamente sul principio del “riciclo ibrido”: lo scopo, ha spiegato Lundgren, è svelare al mondo cosa è possibile fare con i veicoli elettrici, e soprattutto quanto è possibile riutilizzare in un mondo in cui lo “spreco elettronico” è destinato a crescere via via che il mercato diventa sempre più ampio.

 “Il riciclo ibrido consiste nel riutilizzare parte e componenti elettroniche. Con la mia compagnia abbiamo iniziato a prendere le batterie di vecchi veicoli e a trasformarli, per esempio, in quelli per sedie a rotelle, o ancora a sfruttare vecchi pannelli solari per adattarli alle necessità di alcune famiglie in Cambogiaconvincendole a smettere di bruciare cherosene. In generale il nostro scopo è sensibilizzare l’opinione pubblica sui rischi legati allo spreco elettronico, e convincere le persone a impegnarsi di più”, ha spiegato Lundgren in un’intervista con Renewable Energy Magazine.

Il gesto più eclatante, per portare avanti la missione, è stato dunque quello di costruire la Phoenix, un’auto con batterie agli ioni di litio da 165 kWh, un motore AC-50 e la centralina di un vecchio carrello elevatore.

 L’auto è stata costruita in appena 40 giorni con il 90% di componenti riciclate,ed è riuscita a viaggiare per due giorni consecutivi con una sola carica e a percorrere 1.600 km: un record certificato dal giudice Michael Empiric del Guinness Book of World Records, che è volato in California per assegnare alla Phoenix il titolo.