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Dall'oracolo all'analista Prevedere è tornato di moda

Le aziende assumono specialisti per sapere in anticipo cosa accadrà. Niente fantasia, solo probabilità e dati

Quando si parla di tecnologia, il tempo è relativo e scorre più veloce. In pochi anni abbiamo fatto progressi incredibili.

I telefoni, per esempio, da molto grandi sono diventati sempre più piccoli per poi tornare sempre più grandi e più piatti per contenere la crescita delle dimensioni degli schermi. Abbiamo tra le mani gli schermi giganti degli smartphone e solo 20 anni fa, nel 1997, avevamo tra le mani dei Nokia 6110. Se ci pensiamo, i progressi tecnologici sono stati rapidissimi.

Controllare un computer con la mente sembra non sia una cosa molto lontana. Pare che Microsoft stia sviluppando questa tecnologia e che abbia depositato 4 brevetti per Hololens e Surface. I brevetti di Microsoft sarebbero stati registrati su Wipo, l’organizzazione mondiale che si occupa di proprietà intellettuale. Un brevetto riguarderebbe l’input che verrà dato alle applicazioni: non ci saranno più tasti fisici, ma le applicazioni potranno ricevere dati direttamente dalla mente. Un altro brevetto parlerebbe dell’input visivo: le lenti potranno inquadrare un soggetto e trasmettere i dati alle nostre menti. Ma non si sa ancora quando Microsoft intenderà utilizzare i brevetti e non si conosce l’uso che ne farà Microsoft: li userà, non li userà?
L’uomo è sempre stato teso verso il futuro: ci affascina scoprire cosa sarà, quando accadrà. Prima esistevano gli oracoli, la Pizia, quello di Delfi, la Sibilla Cumana, oggi esistono i futurologi. La futurologia sta diventando uno dei mestieri dell’avvenire. In realtà, prevedere quello che accadrà, non è una professione recente. Se ci chiediamo cosa sia un futurologo, possiamo pensare a un moderno indovino, capace di coniugare scienza e previsione, con un pizzico di sociologia. Ma la futurologia non si basa sulla fantasia: si basa sui dati. Probabilità e dati verificabili, misurabili, proiettabili. La futurologia è una disciplina recente: il primo futurologo, in senso stretto, può essere Thomas Robert Malthus. Così come Malthus, nel 1798, nel suo «saggio sul principio della popolazione e i suoi effetti nello sviluppo della società», prevedeva che l’incremento demografico (la popolazione umana può raddoppiare ogni 25 anni) avrebbe generato una penuria di mezzi di sussistenza per la popolazione; i futurologi moderni si avvalgono di dati per esplorare mondi di futuri possibili.
Raymond Kurzweil, il futurologo di Google considerato come uno dei più grandi informatici al mondo, ha predetto che l’anno della «singolarità tecnologica» sarà il 2045. La stessa cosa di cui si parla nel libro Origin di Dan Brown. Ed esattamente come si legge nelle pagine di Origin, secondo Ray Kurzweil, nel 2030 i nostri corpi arriveranno a ospitare minuscoli nanorobot che ci consentiranno di mantenerci in salute. Il 2045, sempre secondo Ray, sarà l’anno in cui avverrà la transizione dall’intelligenza di tipo umano a un’intelligenza ibrida uomo-macchina. In pratica, ci fonderemo con le macchine: domani questi dispositivi saranno integrati nel nostro corpo.
Ma dove lavorano i futurologi? Spesso si tratta di consulenti aziendali, che prevedendo delle tendenze in atto, aiutano le aziende a programmare mosse future e a cogliere le opportunità emergenti nei mercati. Ian Pearson, ingegnere, fisico teorico e futurologo, prevede che «nel 2050 il cervello umano sarà immortale. Potremo scaricarlo su un computer, copiarlo su un dischetto, inserirlo su un robot, farlo vivere per sempre». Sempre Pearson, dice «il nostro lavoro è scrutare il futuro, immaginarlo, provare ad anticiparlo».




Uber, maxi furto (taciuto) di dati

New York. Due pirati informatici. Il furto di dati su decine di milioni di persone da un leader della new – e sharing – economy. Un ricatto e un riscatto pagato in gran segreto; un complotto per coprire le tracce dello scandalo. Nonché la possibile violazione di norme e leggi federali.


Negli Stati Uniti è esploso un nuovo, drammatico caso-Uber: questa volta al centro è la violazione di 57 milioni di account di clienti e autisti avvenuta nel 2016 e rivelata soltanto ora. Una rivelazione che ha messo in dubbio la credibilità, le pratiche etiche e l’immagine del gigante da 70 miliardi di dollari del ride-sharing, dei taxi alternativi, mentre è tuttora alla ricerca di un rilancio da recenti crisi sotto nuova leadership in vista di uno sbarco in Borsa forse nel 2019. Ma la posta in gioco è ancora più alta del solo gruppo di San Francisco: la vicenda ha esposto sia le continue, profonde vulnerabilità del settore high-tech e Internet, sia il pericolo di risposte fallaci o inadeguate alle sfide da parte delle imprese. Ha sollevato lo spettro di un “Selvaggio West” lontano dall’essere domato quando si tratta della frontiera digitale.
Uber ha reagito alla debacle con una nuova mini-purga: subito cacciato il chief security officer, Joe Sullivan, veterano del settore in passato responsabile della sicurezza a Facebook e prima procuratore federale specializzato proprio nel crimine cibernetico. Fuori anche il responsabile dell’ufficio legale, Craig Clark. Il board, che ha scoperto l’operazione degli hacker nel corso di inchieste interne, ha ingaggiato quale consulente speciale Matt Olsen, ex legale dell’agenzia di intelligence elettronica National Security Agency, e gli specialisti di sicurezza della Mandiant per fare piena luce con un’indagine indipendente.
Dara Khosrowshahi, chief executive di Uber da agosto al posto dell’estromesso Travis Kalanick, sul sito dell’azienda ha sottolineato che quanto avvenuto «non avrebbe mai dovuto accadere. Non posso cancellare il passato ma posso impegnarmi a nome di tutti i dipendenti di Uber a imparare dagli errori. Stiamo cambiando il modo di fare business, mettendo al centro l’integrità».
Lo scandalo si è consumato durante la gestione di Kalanich, che resta nel cda dopo essere uscito dal management sotto accusa per abusi di potere e per aver spinto una cultura ultra-aggressiva e dannosa per l’azienda, compreso il ricorso a software irregolari per evitare controlli della polizia. Nella vicenda in questione l’ex capo della sicurezza, Sullivan, fu contattato da una coppia di hacker che asserì di essersi impadronita di una copia di dati di 57 milioni di persone – nomi, e-mail, numeri di telefono – chiedendo oltre 100mila dollari per distruggerla. Sullivan pagò.
La violazione di dati, per dimensioni e delicatezza, appare inferiore agli scandali moltiplicatisi negli ultimi anni, da Yahoo, dove finirono nel mirino 3 miliardi di account globali, alla società di valutazione del credito Equifax, dove furono compromesse informazioni finanziarie su 145,5 milioni di americani. Ma l’aspetto più preoccupante della saga di Uber è che trascende il furto: per nascondere del tutto lo scandalo l’azienda rintracciò in realtà i pirati e fece loro firmare un accordo di non-disclosure. Poi occultò il patto creando ad arte una versione falsa degli eventi: il pagamento alla coppia sarebbe stato in cambio di servizi, di un “bug bounty” che li remunerava per attacchi-test ai sistemi informatici.




Leghisti e grillini, ecco i siti e le pagine Facebook imparentate

Il report informatico citato dal Nyt: “Hanno lo stesso codice”. Il social manager di Salvini: lo cambierò

Mentre il Movimento smentiva furiosamente la notizia di un incontro con Matteo Salvini, un sito web che sostiene in modo ufficiale Salvini risultava condividere i codici analytics di Goo gle e l’Id di Google adsense (con cui viene monetizzata la pubblicità online) con siti pro M5S, e siti pro Putin. L’analisi, resa nota dal New York Times, è in un report della società dell’informatico Andrea Stroppa, consulente tra gli altri di Matteo Renzi, che La Stampa ha potuto consultare, e aggiunge importanti dettagli sull’esistenza nei social italiani di sovrapposizioni de facto tra aree politiche diverse in Italia, all’insegna di un nemico comune: il governo, le élite liberal, il Pd, Renzi, la Boschi, la Boldrini, ma anche Monti, Napolitano, la Bonino, Gentiloni, gli immigrati, la società multietnica, gli Stati Uniti, l’euro, l’Europa. Una propaganda spesso xenofoba, sempre anticasta, centrata sull’idea che i politici siano tutti corrotti tranne grillini e leghisti, o sull’esaltazione di Putin. Oggi possiamo fare alcuni passi avanti, fornendo i nomi dei due siti grillini citati nel report.
Si tratta, ci ha confermato Stroppa, di Videoa5stelle.info (ha una relativa pagina Facebook da 21 mila follower) e infoa5stelle.info (e relativa pagina Facebook da 95 mila follower). Luca Morisi, il social media manager di Salvini, che inizialmente aveva declinato ogni commento al Nyt, in serata ha riconosciuto che i codici coincidono per i diversi siti. Ha spiegato però che un ex attivista M5S ha lavorato assieme a lui alla costruzione del sito ufficiale “Noi con Salvini”, e ci ha copiato gli stessi codici informatici dei siti grillini e putiniani; «ma non abbiamo nulla a che fare con i siti pro M5S o pro Putin», dice Morisi. Ha promesso che tutto sarà bonificato nel weekend. A una richiesta di ulteriore chiarimento inviata da La Stampa non ha risposto. In alcuni paesi, come l’Inghilterra, la coordinazione delle propagande è illegale secondo la legge elettorale (in Uk c’è un’inchiesta su presunto coordinamento illegale tra la campagna per la Brexit di Farage e quella di Cameron). In Italia non lo è, non si è mai neanche ben capito il problema. Per ora, continuiamo a non sapere – Google non aiuta – chi sia l’intestatario dell’account Adsense.
Un’analisi dei contenuti, di questi siti, aiuta a capire alcuni “mediatori”, tra network diversi (i mediatori sono come i tubi di un impianto idraulico): usando il grafo di Facebook scopriamo che i post di un sito grillino in questione, “Infoa5stelle”, vengono rilanciati alacremente (quattro volte nei primi quattro post della colonna ordinata per ampiezza delle condivisioni) dal Fan club Luigi Di Maio, una pagina non ufficiale di 75 mila seguaci, di cui abbiamo scritto in passato, molto centrale nel network pro M5S su Facebook, e gestita da personaggi intrecciatissimi (nelle amicizie Facebook) a profili di big grillini. La Stampa scrisse un anno fa di un vero network pro M5S, ben costruito, 550 pagine, sei grossi cluster, profilati per temi. Traduzione: la sovrapposizione Lega-mondo M5S, dai codici coincidenti, entra facilmente nei rispettivi network.
La seconda storia di questi giorni riguarda un caso di falso interessante perché anche qui c’è un errore, della catena, che fa venire alla luce connessioni: Maria Elena Boschi ha denunciato giorni fa un profilo Facebook (tale Mario De Luise) e una pagina (Virus5stelle) che postavano diffamazione violenta contro lei e Boldrini, tra gli altri, accostandole a Riina (oltre a cose come foto di Renzi in una bara, e foto di Napolitano schiacciato in un pozzo; così, per fare due soli esempi). Uno dei due gestori della pagina, Adriano Valente, esibisce nei suoi post sui social una foto con Di Maio a una marcia grillina (la foto è stata ritrovata e pubblicata su twitter da Lorenzo Romani, un social consultant che ad agosto aveva per primo lanciato l’allarme documentato su sovrapposizioni di codici tra siti leghisti e grillini). Valente indossa il laccio nero da badge riservato agli organizzatori del corteo. La foto è vera? Nardelli, reporter di Buzzfeed, ha poi pubblicato che Di Maio dal suo profilo ufficiale Facebook, in passato, ha taggato Valente. Boschi aveva sfidato Di Maio a dire qualcosa; ieri nel suo post sulle fake news il candidato premier M5S non ha detto nulla sui due casi specifici, ha solo condannato in generale le fake news. Valente dice di cadere dalle nuvole: «Giusto per chiarire, gestisco sei pagine numerose in rete (sic) assieme ad altri ragazzi, un certo Mario De Luise pare abbia postato ieri dal suo profilo una bufala del funerale di Riina. Pare poi l’abbia pure pubblicata sulla pagina Virus 5 stelle. Io personalmente sono estraneo». Ma è lui il gestore di quella pagina. E poi: chi sono gli «altri ragazzi» di cui parla? Esistono persone che fanno gli intestatari di pagine e gruppi?
Infine, il profilo di De Luise: è stato chiuso su Facebook, ma ne aveva almeno un altro identico (col nome scritto attaccato) che posta contenuti da pagine o gruppi Facebook del network pro M5S: Tutti con il M5S (146.114 seguaci), Adesso basta (473 mila), Noi sosteniamo il M5S (99.870). È una guerra; che, senza nessun problema, raggiunge più di tre milioni di profili di italiani.




Dal Lego al Monopoli: l’era digitale inizia ad arrancare

Nel giorno del Cyber Monday ci scopriamo a giocare con i Lego e non è un corto circuito, solo un ibrido di cui c’è un dichiarato bisogno. Una necessità che ha un suo indice di mercato. L’era del digitale, così come l’abbiamo vissuta nella sua prima ondata, è finita. Non torneremo indietro, ma ci mancava qualcosa e abbiamo trovato il coraggio di dirlo.

Il revival non è recente, la libertà di sfruttarlo e rivederlo a piacimento invece sì. Fino all’anno scorso questo mondo riemerso veniva nascosto sotto l’etichetta vintage, una moda, un genere, un capriccio eccentrico. Il vintage è sempre guardato con pregiudizio perché sa di reticenza alla contemporaneità, smania di stare altrove. Ma il ritorno all’analogico non è un atteggiamento anticonformista, è la pace con i desideri insoddisfatti, un pezzo di noi archiviato troppo in fretta.
Non torneremo ad aprire scomode cartine quando possiamo cercare l’indirizzo sulla mappa dello smartphone, useremo tutte le app che ci sono utili per prenotare una vacanza o organizzare il lavoro e contemporaneamente regaleremo costruzioni. Non è obsoleto, è umano. Distratti dalla curiosità per i nuovi giocattoli abbiamo ceduto alla logica binaria tipica del computer: se prenoto la cena con un clic poi è vietato perdere tempo al mercato, se voglio comprare un libro vero e non trovo gusto nel pur comodo ebook, poi non sembra coerente sbloccare una bici a tempo con il codice a barre, inviato da un sistema al mio telefono. Il digitale ha preteso una radicalità che ora lo penalizza. È efficiente e quindi indispensabile, però è limitato. Va contaminato da un’intelligenza meno artificiale, vanno bene anche dei pezzi di plastica colorata.



Google contro la disinformazione: «Russia Today e Sputnik fuori dalle News»

Google contro la disinformazione: «Russia Today e Sputnik fuori dalle News»

Lo ha annunciato il presidente Eric Schmidt: su Google News verranno deindicizzate le notizie dei media vicini al Cremlino e accusati di campagne di disinformazione

Google dichiara guerra alle fake news diffuse da media vicino al Cremlino. A farlo è stato Eric Schmidt in persona: l’ex Ceo, e ora presidente del Consiglio di amministrazione del colosso di Mountain View, ha promesso che Russia Today Sputnik verranno deindicizzati da Google News per combattere la propaganda che stanno facendo con messaggi «ripetitivi, falsi o strumentalizzabili».  Schmidt ha citato espressamente l’emittente televisiva e il sito, tradotto in più di 30 diverse lingue in tutto il mondo, durante un forum sulla sicurezza internazionale, sostenendo di essere impegnato nel modificare l’algoritmo alla base di Google News per prevenire le campagne di disinformazione. Questo senza però ricorrere alla censura: l’ex Ceo ha assicurato che non verrà impedito l’accesso ai rispettivi siti. 

Google coinvolta nel Russiagate

Si tratta di una mossa frutto di una maggiore consapevolezza del motore di ricerca nella battaglia contro le fake news. Va ricordato che recentemente l’azienda è stata chiamata a rispondere davanti alle commissioni del Congresso che si occupavano di indagare sul Russiagate, pur essendo stata oggettivamente meno coinvolta rispetto a Facebook.  Se le pubblicità acquistate dai russi erano di scarsa entità, gli inquirenti avevano però puntato il dito soprattutto sui video caricati dall’emittente Russia Today sulla piattaforma Youtube.

Le mosse di Twitter e Facebook

Proprio poche settimane fa Twitter aveva invece annunciato la rimozione della pubblicità di Rt e Sputnik per via delle interferenze riscontrate durante la campagna presidenziale. Ma lo stesso social era stato anche accusato di aver deliberatamente offerto più spazi pubblicitari all’emittente russa.  Ma anche Facebook, il gigante che più di tutti è sembrato coinvolto nelle vicenda delle pubblicità acquistate dai russi, ha modificato da poco le sue linee guida per la monetizzazione sul social, garantendo maggiore trasparenza su chi compra le inserzioni pubblicitarie.