Le emozioni non fanno mai per finta – Risultati di una ricerca empirica

La seguente ricerca è stata costruita e realizzata da Real Way of Life per valutare l’impatto emotivo di un evento di esclusione sociale (un bambino non viene coinvolto da altri due in un gioco a palla), valutando le reazioni emotive e mentali sia a livello qualitativo (osservazione, intervista) sia a livello quantitativo (con alcuni biomarker tra cui: cortisolo salivare, battito cardiaco, coerenza cardiaca, ecc.).Inoltre sono state valutate diverse reazioni da parte degli adulti (essere indifferenti, consolare, contatto fisico, sgridare, ecc.) per esaminare quelle più efficaci e i livelli di impatto di ognuna.
Segue una presentazione sintetica della ricerca in attesa dell’uscita a novembre del report completo di tutte le ricerche svolte nel primo semestre 2014 da Real Way of Life. Se desideri essere aggiornato sull’uscita del documento completo, del convegno di presentazione e delle prossime ricerche lascia mail e nominativo nell’apposito modulo in fondo a questa pagina.

 Campione

Abbiamo preso in considerazione 732 bambini che sono stati divisi in gruppi di tre, per un totale di 244 gruppi. Il campione era diviso equamente tra maschi e femmine e tra bambini italiani e inglesi (183 maschi italiani, 183 maschi inglesi, 183 femmine italiane e 183 femmine inglesi). I gruppi erano sia misti che solo di maschi e solo di femmine. L’età era compresa tra gli 8 e i 14 anni.

Metodo di Analisi

Abbiamo rilevato indicatori di stress qualitativi (intervista ai bambini e osservazione di professionisti specializzati in osservazione del comportamento infantile e di dinamiche emotive e relazionali) e quantitativi (battito cardiaco, coerenza cardiaca, cortisolo salivare, tipo di onde cerebrali, ecc.). Abbiamo scelto analisi non invasive che potessero essere indossate dai bambini senza essere percepite (caschetto EEG ultra-leggero e wireless, rilevatore di battito cardiaco e coerenza cardiaca ultra-leggero, ecc.). Sia le analisi qualitative che quantitative sono state eseguite da professionisti appositamente formati tramite training mirati.

Descrizione dell’esperimento – Fase 1

A tutti i gruppi di bambini veniva chiesto di giocare a palla.
Metà campione – Alfa: due bambini venivano istruiti in segreto e gli veniva chiesto di escludere progressivamente il terzo dal gioco (veniva coinvolto sempre meno nel gioco fino a non ricevere più la palla).
Metà campione – Beta: tutti e tre i bambini venivano istruiti pubblicamente di escludere progressivamente dal gioco uno di loro, veniva detto loro esplicitamente che era una finta per fare un esperimento.

Risultati Fase 1

cortisolo ricerca esclusione socialeL’esclusione sociale, sia reale (Alfa) che per finta (Beta), provocava praticamente gli stessi livelli di stress. Infatti le rilevazioni sia qualitative che quantitative hanno avuto risultati pressoché identici.
Le rilevazioni fatte dagli osservatori sono state confrontate da un gruppo di professionisti estraneo all’esperimento senza sapere se riguardassero gruppi Alfa e Beta. Solo in 12 casi su 244 gruppi gli osservatori sono riusciti a distinguere chiaramente se si trattava di Alfa o Beta.
Dal punto di vista quantitativo i valori di cortisolo (noto anche come Ormone dello stress) hanno avuto variazioni con differenze statisticamente non significative nei gruppi Alfa e Beta.
Il tipo di onde cerebrali e di battito cardiaco creava profili simili per il 90% dei casi. L’unica differenza si poteva notare nel tempo di inizio: nei Beta i segnali di stress si mostravano mediamente un paio di minuti dopo agli Alfa.

 Descrizione dell’esperimento – Fase 2

Finito di giocare ai bambini esclusi sono state proposte diverse forme di reazioni da parte degli adulti, con lo scopo di individuare le reazioni immediate e a lungo termine che queste generavano nei bambini. I comportamenti proposti sono stati: indifferenza, conforto emotivo, distrazione, contatto fisico, spronare ad essere superiori, sminuire i bambini che hanno escluso, riflessione sul valore del bambini in altri contesti, intervento per obbligare i due bambini ad includerlo durante il prossimo gioco.

 Risultati fase 2

efficacia interventoI bambini hanno trovato maggior conforto dal contatto fisico nel breve periodo, trovando contenimento emotivo e un rapido recupero di una visione positiva e costruttiva. Il contatto fisico è una modalità di comunicazione ancestrale comune a tutti i mammiferi, per questo è così efficace e rapido, by-passando qualsiasi parole in tempi brevi.
Nel lungo periodo è stata più rilevante la riflessione sul proprio valore in altri ambiti, che ha fornito ai bambini la possibilità di distinguere tra il senso di frustrazione immediato e il il giudizio su di sé come persone nel complesso.
L’intervento da parte dell’adulto con gli altri due bambini e l’indifferenza sono state reazioni vissute come più dannose che utili.

Considerazioni conclusive

Questa ricerca ci dimostra che le emozioni “non fanno per finta”. Anche facendo finta che qualcosa sia negativo mente e corpo, con i loro correlati biochimici, si attivano. Questo ci porta a rivalutare il peso di scherzi e battute, di giochi in cui si recita sempre lo stesso ruolo, di persone che imitano o simulano un comportamento non reale (ad esempio essere tristi) per avere un vantaggio, ecc. Interrompere questi meccanismi, almeno nella maggior parte dei casi, è fondamentale per non attivare reazioni di mente e corpo che possono essere dannose per la costruzione dell’identità, per le proprie competenze relazionali e per lo svilupparsi di automatismi emotivi.
Di contro questa ricerca ci dimostra che si può fare molto con il nostro semplice comportamento. Infatti, se le emozioni reagiscono in modo reale anche a stimoli che sappiamo essere finti, possiamo essere più sicuri di noi stessi comportandoci come fanno le persone sicure, avendo il loro atteggiamento non verbale. Su questo ultimo punto abbiamo svolto un’altra interessante ricerca. Qui cominciamo ad anticipare che assumendo una specifica postura (fatta di 7 componenti) per pochi minuti al giorno per un mese si ottengono importanti cambiamenti nella propria sicurezza personale, sostenuti da modificazioni significative a livello di testosterone e cortisolo. Leggi tutto l’articolo che descrive questa ricerca.


TESI DI LAUREA. "Normativity and Power in International Relations: The Character of the World Order to Come"

Università degli Studi di Torino – Dipartimento di culture, politica e società
Corso di Laurea in Scienze internazionali, dello sviluppo e della cooperazione

Normativity and Power in International Relations: The Character of the World Order to Come

Tesi di Vladislav Krassilnikov – Relatore Prof.ssa Anna CaffarenaA questo link, il testo integrale della Tesi (52 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUCTION

The purpose of this thesis is to investigate the changing logic and character of world order by critically assessing the main scientific contributions to this study area in the field of International Relations. Order is a central concept in political thought. Since ancient times, philosophers, scholars, and policy-makers have investigated the problem of order in a dynamic, often turbulent, and at times even chaotic world. Nowadays the academic debate on this issue is controversial and the political praxis is contradictory.

The theory of International Relations boasts a long-standing tradition of studies on the question of world order. A wide array of different schools of thought have come to diverse conclusions to the problem of whether and how world order is to be attained, managed, and preserved. Liberal Internationalism and Realism are two of the most prominently influential political approaches to the study of International Relations. The question of world order has been addressed both by liberal and realist experts, whose research output is more relevant than ever at a time of sweeping structural change and great political uncertainty.

World order is currently facing major challenges. A profound power shift is bound to have crucial consequences on the distribution of roles, rights, and authority in the international system. Rising powers aspire to be recognized as responsible stakeholders in the international community, but the capacity of the current system to accommodate their ambitions and to transform accordingly remains dubious. The eternal quest to strike a balance between legitimacy and power seems to be acquiring renewed relevance at this critical juncture. It does not therefore come as a surprise that competing views of world order are emerging and are expressed with increasing assertion in political discourse and practice, whereas the perceived universality of the Western system and values in the wake of the end of the Cold War appears to be more and more precarious. The impetuous forces of globalization bring nations together, but rival approaches of governing elites to global governance need to be reconciled, lest international peace and stability be jeopardized.

It shall be clearly stated from the very outset of this dissertation that addressing the problem of world order in terms of acceptance or subversion of the currently dominant model is simplistic. Multiple variables come into play in determining the possible outcomes of the epochal transformation underway, which may result in just as many multilayered realities. It is hence safe to say that room for reflexion on the issue of the management of the evolution of world order is wider than commonly assumed and a sophisticated account, capable of critically assessing the most significant studies on this subject by drawing attention to their weaknesses and capitalizing on their strengths, can be a welcome and innovative contribution to the academic debate and the political praxis.

More recently, John G. Ikenberry and Walter R. Mead – among the foremost scholars of the discipline – published two enlightening articles in Foreign Affairs, reigniting a lively and vibrant scientific debate on the future of world order. Ikenberry is widely regarded as one of the leading global thinkers of International Relations. Most of his work is focused on American liberal order building in the aftermath of World War II. His latest major book, “Liberal Leviathan: The Origins, Crisis, and Transformation of the American World Order”, offers a compelling account of the history and fundamental logic of the US-led international system through the last sixty years. This volume is to be thoroughly scrutinized in Chapter One of the present work, in order to highlight the shortcomings of the liberal internationalist perspective in evaluating the current state of the legitimacy of the American world order and of the power relations underpinning it and in answering to the dilemmas instrumental in predicting the pathways the transforming world order is most likely to take.

Chapter Two is to be devoted to the study of the realist analysis of the evolving character of world order. This approach to the theory and practice of International Relations has arguably found remarkable success both in terms of scientific production and in terms of policy implementation. Walter R. Mead’s major writings on the subject of world order make for an appropriate starting point of the critical study of the realist position, which is to take into account the contributions of other prominent authors, as well, namely Richard N. Haass, Charles A. Kupchan, and Henry A. Kissinger, in order to provide the reader with a systematic, precise, and broad perspective on a heterogeneous school of thought and ultimately on its inadequacies, limitations, and failings at accounting for some of the most complex, profound, and significant dynamics shaping the character of the changing world order today.

Liberal Internationalism and Realism are often conceptualized as antithetical and irreconcilable theoretical approaches. In Chapter Three this generally accepted claim is not called into question, but rather it is demonstrated through an accurate empirical analysis how both schools of thought can together be conducive to a proper comprehension of the changing logic and character of world order. The ultimate aim of this chapter is to take advantage of the varied modern literature on the issue of world order for the purpose of studying the tension between normativity and power in the theory and practice of International Relations in a cautiously previsional perspective.


TESI DI LAUREA. "Corporate Social Responsibility e stakeholder value, la best practice del Social Hub"

Università degli Studi di Roma “La Sapienza” – Facoltà di Scienze della Comunicazione

Corporate Social Responsibility e stakeholder value, la best practice del Social Hub: un bilancio integrato digitale aggiornato 365 giorni all’anno

Tesi di Giovanni Ierfone – Relatore Dott. Marcello Incognito

Scarica da questo link il testo integrale della tesi (118 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Non si può non comunicare: l’assioma di Watzlawick è alla base delle comunicazioni umane. La comunicazione, che sia volontaria o involontaria, formale o informale, esplicita o tacita, interna o esterna, si configura come il vettore necessario per la creazione di significati (valori) riferiti ai diversi sistemi, o sotto sistemi, che in diverso modo intervengono nella dinamica evolutiva di ogni impresa.

L’impresa che crea valore è un “soggetto comunicante”, artefice insieme ai propri stakeholders di un processo iterativo (e interattivo) di creazione di significati economico-finanziari, etico-sociali, commerciali e simbolici.

Ora, l’etica e la responsabilità sociale sono davvero un vantaggio competitivo per le imprese e le organizzazioni? Questo lavoro cercherà di rispondere alla domanda.

Attraverso riflessioni, modelli, strumenti e casi di best practice si dimostra come politiche consapevoli di Corporate Social Responsibility – se comunicate con sobrietà, tempestività ed efficacia a soggetti attentamente identificati – possono costituire la leva più importante per conquistare quella fiducia e quella “licenza ad operare” di cui tutte le imprese hanno bisogno per crescere.

Il tema attualissimo della socialità d’impresa sta spingendo la comunicazione delle organizzazioni dai territori dell’immagine ai territori della reputazione e della relazione.

Pertanto, il governo della comunicazione d’impresa, nei suoi aspetti più innovativi, costitutivi sia del contenuto sia della relazione, è l’altro tema di fondo di questo lavoro.

La sua articolazione ha l’obiettivo di rappresentare nel modo il più possibile completo, la complessità del ruolo, dei livelli e delle forme della CSR.

Tale complessità è indagata adottando un’ottica imprenditoriale, con l’intento di proporre soluzioni diverse, presentando case histories e best practices originali, con lo scopo di elaborare un lavoro aggiornato, del tutto inedito, corredato da riscontri empirici e che, sebbene sia focalizzato sulla CSR, sia il risultato di un approccio multidisciplinare. Su quest’ultimo versante, a testimoniare il continuo sviluppo del cammino di ricerca, si dà riscontro dei cambiamenti in atto e prospettici, cambiamenti di cui vengono colte in primo luogo le implicazioni manageriali, anche grazie al contributo diretto di qualificati esponenti del mondo aziendale.

Il lavoro si sviluppa in tre parti.

Nella prima parte ci s’interroga sulle origini della disciplina delle Relazioni pubbliche, che è non più oggi pura divagazione teorica, ma rappresenta una questione centrale. Altrettanto vale per la CSR, troppo spesso vista come un mero strumento delle Rp. Ma una visione del genere è, spesso, molto riduttiva.

Il marketing e la comunicazione unidirezionali stanno ridimensionando significativamente il proprio peso a favore di discipline come la CSR e il web 2.0, che mostrano una dimensione strategica di forte condivisione con gli utenti. Ma anche la configurazione di un nuovo modello di business, sempre più orientato alla Human Social Responsibility (1. HSR).

Nella seconda parte è stato illustrato il concetto, fortemente innovativo, della rete neurale complessa, a partire dalla definizione di aziende contro-corrente, non convenzionali, definite anche “mancine”, perché come i “mancini” sviluppano particolari predisposizioni e ampliano le loro prospettive operative. La lateralizzazione, infatti, è la “scelta” che ogni essere vivente compie nell’utilizzare il lato destro o sinistro del corpo come dominante per la propria sopravvivenza.

Alcune ricerche hanno dimostrato come adottare comportamenti anomali possa determinare la salvezza di un soggetto. Il modello matematico di questa teoria, applicato alla comunicazione e alla CSR, mostra come il successo di un’azienda possa essere legato a scelte innovative.

E, dal momento che l’esigenza di misurazione della CSR è sempre più sentita nel mondo delle Rp, partendo dal concetto che “tutti i pubblici sono stakeholder”, si affronta, inoltre, un’analisi per un’organizzazione non solo degli stakeholder – che rivestono un ruolo fondamentale – ma anche degli “stakeholder degli stakeholder”. In quest’ottica è possibile creare un organigramma all’interno del quale inserire tutte le funzioni aziendali in ragione dei tipi di stakeholder con i quali maggiormente si dialoga.

Per concludere, la terza parte è dedicata alle nuove forme di CSR. Le aziende sono costituite in primo luogo da persone e il loro benessere psico-fisico è un presupposto fondamentale dell’esistenza e dell’efficienza di un’organizzazione. Le neuroscienze e la biopsicologia hanno innegabili connessioni con la CSR ed è proprio da questo rapporto che potrebbe nascere una nuova declinazione di responsabilità sociale.

Non solo. Un’ulteriore evoluzione degli strumenti per la rendicontazione delle imprese transita dalla “voce narrante” alla costruzione condivisa del messaggio. In questo segmento si propone una nuova modalità di sviluppare il bilancio sociale: non più unidirezionale, ma scritto a più mani con gli stakeholder in tempo reale. Focus della terza parte sarà dunque il Social Hub: un bilancio integrato digitale aggiornato quotidianamente. Una nuova sfida per i comunicatori e per le imprese come Guna, azienda leader nella produzione di farmaci biologici d’avanguardia.

Il “Social Hub” di GUNA rappresenta uno strumento innovativo di rendicontazione, unico in Italia, che garantisce un flusso di dati totalmente disintermediati 365 giorni all’anno, senza soluzione di continuità, imputati direttamente on-line dai singoli dipendenti GUNA responsabili dell’aggiornamento delle singole tabelle del cruscotto di indicatori “Web-cam”. Il Bilancio integrato di GUNA è riportato solo sul Social-Hub elettronico all’indirizzo web socialhub.guna.it, mentre la situazione economico-finanziaria è pubblicata come capitolo all’interno del Social Hub.

1. Human Social Responsibility è termine coniato dall’autore Luca Poma nel suo omonimo saggio del 2012


TESI. "LA DIPLOMAZIA INTERNAZIONALE SU TWITTER"

Università di Padova
LA DIPLOMAZIA INTERNAZIONALE SU TWITTER
EVOLUZIONE DELLA COMUNICAZIONE POLITICA E ISTITUZIONALE SUI SOCIAL NETWORK: OPPORTUNITÀ, EFFETTI E RISCHI
Corso di Linguaggio delle Relazioni Pubbliche – Prog. Giampietro Vecchiato
Tesi di fine corso di Martina Gazzieri

Scarica il file con il testo completo dell’elaborato (12 pagine), qui di seguito, le prime righe del testo della tesi:


È bastato un tweet di Carl Icahn, noto speculatore di Wall Street, che annunciava di
aver acquisito «un posizione importante» in Apple e di considerare la società
«estremamente sottovalutata». Twitter ha fatto da cassa di risonanza suggerendo un
buyback (riacquisto di azioni proprie) facendo aumentare in pochi minuti di 17,1
miliardi di dollari il valore complessivo di Cupertino che ora ammonta a 444 miliardi.
Wall Street non è nuova a questo “effetto Icahn”, in passato altri annunci di un suo
interessamento ad altre società, Herbalife e Netflix, avevano comportato repentini
rialzi dei titoli….


L’In-fallibile scienza

Uno straordinario articolo sul settimanale inglese “The Economist” ha garbatamente spogliato, fino a renderlo quasi del tutto nudo, il paradigma della “scienza basata sulle prove di efficacia”, per difendere il quale non pochi ricercatori sarebbero probabilmente pronti a gettarsi nel fuoco. E – sorpresa – l’ha fatto con metodo scientifico.


Negli ultimi secoli, la scienza ha prodotto innumerevoli scoperte che hanno di gran lunga migliorato la qualità della vita dell’uomo, ma ha anche generato un certo autocompiacimento tra gli addetti ai lavori.

Quante volte abbiamo letto in appassionati – a volte rabbiosi – thread di commento a qualche articolo sul web “…la scienza dice che”, o “è ridicolo, non è provato scientificamente”, o ancora “se è scritto su PubMed è così!” …?
Sacrosanto. Se fosse tutto vero, e se il sistema fosse perfetto.

Ecco allora alcune riflessioni alla ricerca di nuove verità: nulla in realtà è veramente come sembra, in scienza. Pillola blu: la tua vita resta tranquilla, le tue certezze incrollabili, la tua fiducia nella scienza assoluta, e ti assicuriamo anche l’immunità totale da ogni tipo di preoccupazione. Pillola rossa: la tua vita cambia, non sai se in meglio o in peggio, ma ti diamo l’opportunità di metterti in gioco, abbandonando molte certezze e riacquistando la capacità di porti domande…

L’EBM non gode di buona salute

Iniziamo dal ricordare – come chiunque investa in biotecnologie sa bene – che almeno il 50% degli studi pubblicati in quel settore non è ripetibile, e questa potrebbe essere una stima ottimistica. Gli esempi non mancano: ad esempio, nel 2012 – ricorda un articolo di “Nature” – i ricercatori dell’azienda biotecnologica “Amgen” hanno scoperto non senza sorpresa che erano in grado di replicare solo 6 dei loro 53 studi oncologici definiti “fondamentali”.

Neppure nella medicina il paradigma della “ripetibilità” degli studi gode di buona salute: l’inquietante dato è stato confermato dalla multinazionale farmaceutica Bayer, che – sulla base delle risultanze di una verifica pubblicata su “Nature Reviews Drugs Discovery” – è riuscita a ripetere solo il 25% di 67 esperimenti altrettanto importanti, sui quali aveva in parte basato le richieste di approvazione alla messa in commercio di una serie di farmaci.

Un’ulteriore ricerca ha dimostrato che – nel decennio 2000/2010 – circa 80.000 pazienti hanno partecipato a test clinici basati su studi che poi sono stati “ritrattati” a causa di errori o procedure inappropriate.

Non pochi degli studi alla base delle richieste di Autorizzazione all’Immissione in Commercio dei farmaci sono svolte in Cina, a causa dei minori costi dei trial clinici. Tuttavia, un indagine condotta dalla FDA cinese (Chfda) su 1622 sperimentazioni, ha rilevato mancanza di documenti e esiti negativi nei test di bioequivalenza: l’80% dei test clinici sui farmaci condotti in Cina sarebbe fasullo, con dati incompleti, irrintracciabili o che non soddisfano gli standard minimi di qualità o creati ad hoc per confermare le tesi iniziali.

Il quotatissimo British Medical Journal ha recentemente denunciato un vero e proprio ‘buco nero’ nella pubblicazione trial clinici. Secondo lo studio dal titolo Publication and reporting of clinical trial results: cross sectional analysis across academic medical centers”, condotto dalla Yale School of Medicine, emerge come le decisioni sull’efficacia dei farmaci, e quindi sulla loro approvazione, “siano fino ad oggi state prese sulla base di informazioni incomplete, dato che i risultati di quasi tre quarti degli studi clinici non vengono pubblicati entro due anni dal loro completamento (…), una situazione che mette a rischio soprattutto i pazienti e distorce i risultati di ogni ricerca sulle banche dati mediche”. Pare che meno di una sperimentazione completata su tre venga pubblicata entro due anni dal completamento e che solo il 13% appaia sul più grande database degli studi clinici degli Stati Uniti, che è ClinicalTrials.gov.  Harlan Krumholz ha esaminato il suo team i tassi di pubblicazione e comunicazione dei risultati entro due anni di più di 4.300 studi condotti in 3 anni da oltre 51 istituzioni leader americane: nessun centro accademico ha pubblicato oltre il 40% degli studi clinici entro due anni dal completamento. “La mancanza di comunicazione e pubblicazione tempestiva danneggia nel profondo la ricerca, viola l’impegno assunto dai ricercatori con pazienti e finanziatori, sperpera tempo e risorse preziose, e rischia di compromettere il processo decisionale clinico basato sull’evidenza”, hanno dichiarato gli autori dello studio.

Un caso eclatante di mistificazione apparentemente rispettosa dei criteri dell’EBM, è quello della multinazionale farmaceutica Glaxo e del Paxil, antidepressivo blockbuster da 2 miliardi di dollari di vendite l’anno: venne poi fuori a distanza di anni – con l’azienda tutt’altro che collaborativa con la Magistratura – che il famigerato “Studio 329”, sul quale era stata basato l’ottenimento dell’autorizzazione alla messa in commercio del farmaco, era stato manipolato nella sua essenza, non senza l’aiuto di “ghostwriter” pagati dalla multinazionale stessa. E la tecnica, nota nel settore del giornalismo scientifico investigativo, dello “scambio di risultato”: i quesiti ai quali lo studio scientifico dovrebbe rispondere, in caso di problemi e di risposte non confacenti, vengono semplicemente “modificati in corso d’opera”, adattando quindi lo studio ai risultati che man mano emergono in itinere. Glaxo, dopo un estenuante battaglia legale – promossa forse dall’azienda per rivendicare il proprio diritto a stimolare idee suicidarie nei pazienti al fine di fare più soldi – pagò la più alta multa mai comminata a una farmaceutica, oltre 3 miliardi di dollari, con buona pace dei familiari dei malati poi deceduti che, sulla base delle “evidenze scientifiche disponibili”, avevano optato per una strategia terapeutica a base di Paroxetina.

Più in generale, l’Università di Edimburgo, ha esaminato nel dettaglio inchieste e sondaggi svolti all’interno della comunità accademica nel ventennio 1988-2008: un poco rassicurante 2% dei ricercatori ha ammesso “di aver falsificato i dati”, mentre il 28% di essi ha confessato di “conoscere personalmente colleghi che hanno utilizzato metodi discutibili durante la progettazione o l’esecuzione dei loro esperimenti”.
Come possiamo riporre cieca fiducia in un sistema di valutazione spacciato per “verbo” e invece tale da evidenziare falle di queste proporzioni?

Ritrovare credibilità: quali soluzioni?

Da anni si discute – invano – dell’ipotesi di rendere obbligatoria la registrazione in anticipo dei protocolli di ricerca, rendendoli controllabili on-line, al fine di non far cadere i ricercatori nella tentazione – molto più diffusa di quanto si pensi – di modificare la struttura dell’esperimento a metà strada per far apparire i risultati più significativi di quanto non siano in realtà. Ma neppure in medicina, dove in molti Stati questa prassi è formalmente obbligatoria, essa è applicata con rigore: prova ne sia che ben 1/3 degli studi finanziati dai National Institute of Health in USA non erano ancora stati pubblicati dopo ben 50 mesi dal loro avvio, e questo è statisticamente ancor più vero per tutte le altre discipline scientifiche, mentre un analogo studio di BMC Medicine ha dimostrato che oltre il 30% dei trial clinici non si atteneva alle indicazioni prestabilite prima dell’inizio dei test.

A tutto ciò aggiungiamo che i “risultati negativi” rappresentano solo il 14% degli articoli pubblicati, rispetto al 30% degli anni ’90, come conferma uno studio della già citata Università di Edimburgo svolto comparando ben 4.600 lavori scientifici, con il risultato che – a causa della mancata pubblicazione dei “fallimenti” – altri ricercatori continuano a sprecare fatica e denaro nel percorrere vicoli ciechi che altri hanno già precedentemente esplorato.

Gli ostacoli all’effettiva “ripetizione” degli esperimenti sono poi molteplici: da uno studio pubblicato pochi mesi fa su PeerJ emerge ad esempio che più del 50% degli articoli di biomedicina pubblicati su ben 84 riviste scientifiche non riportavano l’indicazione dei reagenti chimici necessari per ripetere l’esperimento e verificarne i risultati (!). E in ogni caso, gli esperti e soprattutto gli enti finanziatori, ammettono che “la ripetizione di esperimenti già conclusi a scopo di verifica non rientra tra le prirorità”, come conferma Elga Nowotny, Presidente del European Research Council.
E c’è un dato ancor più evidente: la verifica a posteriori dei risultati ottenuti da altri, di per se – al contrario – non aiuta per nulla la carriera: non rileva, e soprattutto non interessa a nessuno, con il risultato che esiti di esperimenti spacciati per buoni, e invece per nulla rilevanti o addirittura negativi, ma non verificati in profondità, portano fuori strada l’intera comunità accademica, “dopando” i risultati sulle banche dati, e dando un’illusione di “solidità di risultanze” in realtà inesistente.

Anche il mondo delle riviste specializzate, che “nutrono” le più importanti banche dati scientifiche online, stimola preoccupanti riflessioni. Per mantenere il proprio – presunto – alto profilo qualitativo, le riviste più importanti sono ansiose di pubblicare notizie eclatanti, e rifiutano più del 90% dei lavori che ricevono: quelli con più probabilità di finire sulle loro pagine sono però quelli più “singolari”, in grado di “far parlare di più” all’interno della comunità scientifica e non solo, e – di conseguenza – c’è poco da meravigliarsi per la pratica diffusa da parte degli autori di rendere “più interessante” un articolo escludendo dai risultati i “dati scomodi”, indebolendo però così la pubblicazione stessa, che alla lunga può non reggere alla disamina della stessa comunità scientifica. Prova ne sia che negli ultimi 10 anni il numero di “ritrattazioni” di articoli da parte dei loro stessi autori è decuplicato.

I limiti della peer review

Ma quanti sono gli articoli “adulterati” che non vengono scoperti? Neanche il tanto decantato metodo peer review è utile per scoprirlo. Il biologo e giornalista scientifico John Bohannon ha fatto un test al riguardo, inviando a ben 304 riviste scientifiche indicizzate uno studio sugli effetti di alcuni licheni sulle cellule cancerogene, firmandosi con uno pseudonimo. Ebbene, l’intero studio era totalmente inventato, conteneva errori di progettazione evidenti, e addirittura risultava redatto da un ricercatore di un’Università inesistente. Clamoroso: 157 riviste scientifiche accettarono di pubblicarlo.

Tempo prima, l’allora direttrice del BMJ, Dr. sa Fiona Goodle azzardò un provocatorio ma significativo test di questo genere, inviando a 200 revisori della rivista, l’uno all’insaputa dell’altro, un articolo contenente – volutamente – 8 errori di analisi e interpretazione: non solo nessuno dei 200 esperti individuò tutti gli errori, ma la desolante media degli errori individuati si fermò a due.

Pare che uno dei problemi – paradossalmente – sia la crescita esponenziale del numero dei ricercatori, passati dalle poche migliaia degli anni ’50 ai 7 milioni di oggi: l’obbligo di “pubblicare a qualsiasi costo” ormai governa l’intera vita accademica. La concorrenza è folle, perché – come noto – gli avanzamenti di carriera sono legati anche al numero di pubblicazioni scientifiche firmate.

Un equipe dell’Università di Oxford ha ideato il progetto ComPare, proprio per studiare questi fenomeni fortemente distorsivi della “Evidence-Base Medicine” – che, è bene ricordarlo, non traduce “medicina basata sull’evidenza”, bensì “medicina basata sull’efficacia”, due terminologie ben differenti dal punto di vista epistemologico – e ha analizzato tutti gli studi clinici pubblicati in un periodo di 5 mesi dalle 5 riviste mediche più prestigiose del mondo: solo il 14% era conforme ai protocolli, e nel restante 86% erano stati inseriti “silenziosamente in corso d’opera” ben 357 alterazioni ai quesiti iniziali degli studi. Pazientemente, per ogni trial “truccato” il team coordinato da Ben Goldacre ha scritto una lettera formale al Direttore della rivista “imputata”, evidenziando la non genuinità del processo di definizione dei risultati delle ricerche e chiedendo quindi delle rettifiche, con i seguenti – desolanti – risultati: nel 12% dei casi si sono apportate le doverose modifiche agli studi; nel 60% dei casi il problema è stato ignorato o vi è stato un rifiuto a prenderlo in carico; nel restante 28% dei casi è stata formalizzata per iscritto la più surreale delle risposte, ovvero che “non era necessario intervenire per rettificare, in quanto qualunque lettore attento e diligente si sarebbe accorto lui da solo dell’errore”.

Goldacre – annunciando la futura pubblicazione di uno studio sugli effetti distorsivi di queste pratiche – ha commentato così questo test, prendendo in prestito dei termini dal vocabolario dell’immunologia: “Quando si ‘provoca’ il sistema, le reazioni dicono molto del suo funzionamento. Il nostro intento però non è ‘maligno’: noi vogliamo solo comprendere la patologia”.

Il ruolo delle agenzie di controllo sanitario

Poi c’è capitolo delle agenzie nazionali di controllo sanitario, percepite da molti come un importante baluardo dell’indipendenza scientifica, sono fonte di preoccupazione. Tralasciando il tema sempre attuale – e assai dibattuto – dei conflitti di interessi, limitiamoci ad esaminare quanto è accaduto circa il glifosfato, l’erbicida in assoluto più usato al mondo, sospettato di essere cancerogeno. La IARC – Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, ha recentemente conferrmato questi dubbi, in esito a un’analisi della letteratura scientifica durata un anno, dalla quale sono emerse “prove convincenti” che il glifosfato causasse cancro alle cavie da laboratorio e “prove significative” che esso possa danneggiare il DNA e i cromosomi delle cellule umane. La IARC – che ha tra i suoi compiti quello di fornire all’Organizzazione Mondiale della Sanità elementi solidi per formulare i propri pareri – è nota per il suo altissimo rigore scientifico e per la sua indipendenza, lavora con i migliori scienziati ed esperti di regolamentazione del mondo, e ha una politica sul conflitto di interessi severissima: il suo parere sta facendo molto discutere, soprattutto perché – sullo stesso tema – le più importanti agenzie di controllo sanitario del mondo – quella tedesca, anch’essa serissima, non più tardi di pochi mesi fa – avevano evidenziato risultati esattamente opposti, ovvero contrari a ogni ipotesi di pericolosità e mutagenicità della sostanza. Il punto è che la maggior parte degli enti di regolamentazione è restia ad ammettere che le valutazioni scientifiche implichino comunque delle “scelte” – con riguardo ad esempio alla valutazione di prove contraddittorie, o al grado di obiettiva affidabilità riconosciuto a uno studio, e questo per vari motivi: perché la scienza è un autorevole fonte di auto-legittimazione; perché il desiderio implicito della scienza stessa è che ogni valutazione basata su evidenze appaia sempre obiettiva, affidabile e consensuale; perché – infine – riconoscere questi bias equivarrebbe a stendere un allarmante velo di dubbio su centinaia di migliaia di precedenti pareri, scenario rischiosissimo anche in termini di potenziale impatto sulla pubblica opinione.

Un orizzonte lontano

Concludendo, il dibattito sui “correttivi” da apportare al sistema è acceso, e i suggerimenti si sprecano: dalla pubblicazione obbligatoria dei risultati negativi, a linee di finanziamento finalizzate appositamente alla verifica dei risultati di precedenti studi, a codici etici impegnativi per i ricercatori, a criteri più rigidi per le riviste scientifiche. Ma l’orizzonte di una scienza sempre davvero “credibile” pare ancora lontano.

Il rispetto – sacrosanto – dovuto al metodo scientifico si basa anche sulla presunzione che la scienza sia capace di “correggersi da sola” quando sbaglia.
Lo scenario che abbiamo dinnanzi pare invece essere quello di una comunità scientifica autoreferenziale, affannata dalla corsa ai finanziamenti e concentrata quindi sull’ottenere risultati positivi “costi quel che costi”; di ricercatori al governo di una scienza esatta in virtù non già di risultati obiettivi, bensì della percezione stessa che la scienza ha di se; di un “mercato” della ricerca non genuino, che restituisce a tutti noi risultati inautentici, sui quali poi noi stessi dovremmo basare le nostre quotidiane certezze.

La speranza è che questo sistema di cose prima o poi possa cambiare. Grazie alla scienza stessa, ovviamente. Infallibile per molti, ma invece intrinsecamente fallace, come il metodo scientifico e le statistiche dimostrano “al di la di ogni ragionevole dubbio”.


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