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DATAGATE: UN GIGANTE DAI PIEDI DI ARGILLA?

Mentre il gigante di Menlo Park pare navigare a vista attraversando uno dei “giorni più lunghi” dei suoi primi 14 anni di esistenza, con una perdita secca in borsa che ha sfiorato l’8%, gli analisti internazionali iniziano a interrogarsi sull’effettiva capacità del management di Facebook di gestire quella che sta prendendo – ad ogni nuova mezz’ora – i contorni di una vera e propria crisi reputazionale senza precedenti, crisi peraltro – incedibile a dirsi – come vedremo da tempo “annunciata”.  Un breve riepilogo dei fatti:

  • le prime “schermaglie” relative alle modalità di trattamento dei dati da parte di Facebook sono assai datate, in quanto il Social aveva ottenuto già nel 2011 il consenso degli utenti per alcuni modifiche alle impostazioni sulla privacy, ma secondo l’accusa potrebbe aver ingannato i cittadini, costringendoli a condividere più informazioni personali rispetto a quanto essi avessero reale percezione. L’Agenzia USA per la tutela dei consumatori (FTC) aveva infatti richiamato Facebook per aver modificato alcune impostazioni dell’utente senza avvisare in modo adeguato i suoi clienti: se queste violazioni venissero confermate, la Federal Trade Commission avrebbe il potere di multare la società per migliaia di dollari per ogni giorno di mancato rispetto delle norme
  • più recentemente, sempre la FTC ha aperto un’indagine su Facebook per la possibile violazione dei termini sulla protezione dei dati personali in merito allo scandalo “Cambridge Analytica”, la società che – attraverso vari stratagemmi che hanno coinvolto circa 270.000 ignari utenti di Facebook stesso – grazie a un effetto moltiplicatore si sarebbe appropriata dei dati di oltre 51 milioni di profili del social network per condizionare il sentiment della popolazione inglese sulla Brexit – le cui trattative per l’uscita dall’Unione Europea potrebbero tradursi in un danno ingente per le casse del Regno Unito – come il voto sulle elezioni che hanno portato Donald Trump al posto di Commander in Chief, ma anche in decine di altre consultazioni elettorali. La società parrebbe coinvolta in accuse molto gravi, al fine di condizionare alcune votazioni, come tangenti, uso di ex spie, creazione di false identità e ricatti sessuali: in ogni caso, secondo quanto riporta Bloomberg, l’indagine in corso punterebbe a chiarire se il social media USA ha permesso alla Cambridge Analytica di ricevere i dati degli utenti in violazione delle norme, o comunque quale sia l’esatto il grado di coinvolgimento del social di Zuckerberg in questa vicenda;
  • i rumors si sono presto fatti incontenibili, e la situazione è deflagrata in tutta la sua gravità finendo in prima pagina sui mass-media di tutto il mondo;
  • la Commissione parlamentare britannica sulla Cultura, i Media e il Digitale ha convocato fa Mark Zuckerberg a testimoniare personalmente sul caso;
  • nel frattempo le autorità britanniche hanno accusato Cambridge Analityca di non collaborare all’indagine, mentre la BBC ha confermato che il Garante britannico per l’informazione Elizabeth Denham ha chiesto all’autorità giudiziaria un mandato per perquisire la sede di Cambridge, con l’intenzione di scandagliare anche i server della società, e con il rischio per Facebook di far emergere “inconfessabili relazioni” tra le due realtà (o anche solo – e più probabilmente, aggiungo io – gravi inadeguatezze da parte del social USA);
  • anche il Parlamento Europeo attende solleciti chiarimenti: “Abbiamo invitato Mark Zuckerberg al Parlamento europeo– scrive in un tweet il Presidente On. Antonio Tajani, “… Facebook chiarisca davanti ai rappresentanti di 500 milioni di europei che i dati personali non vengono utilizzati per manipolare la democrazia”;
  • in esito a queste turbolenze, è caduta la prima testa: si è dimesso il responsabile per la sicurezza delle informazioni di Facebook Alex Stamos, che ha parlato di “disaccordi interni” su come affrontare la vicenda e su come i vertici del gigante dei social media hanno gestito l’intera questione. Stamos – come riporta il New York Times – ha annunciato di lasciare il posto anche in polemica con il Direttore generale del gruppo Sheryl Sandberg, dopo aver più volte esortato i vertici di Facebook a mostrare la massima trasparenza nello scoprire e svelare le passate attività di disinformazione operate sulla piattaforma. L’addio di Stamos – secondo l’ANSA – viene letto come un chiaro segnale delle tensioni che stanno attraversando in queste ore il gruppo dirigente di Facebook, nel periodo più tempestoso che il colosso dei Social network sta vivendo dalla sua nascita nel 2004;
  • dopo due giorni di crescenti polemiche, è intervenuta anche una voce da Washington: “Il presidente americano Donald Trump ritiene che i diritti alla privacy degli americani dovrebbero essere tutelati, e saremo lieti se il Congresso o altre agenzie americane vorranno esaminare il caso“, ha riferito un portavoce della Casa Bianca, Raj Shah;
  • secondo la Commissaria alla Giustizia Vera Jourova“… Da una prospettiva UE, il cattivo uso per fini politici di dati personali appartenenti agli utenti di Facebook, se confermato, è inaccettabile e orripilante”. La Jourova è appena atterrata in USA, dove incontrerà i responsabili della società e i rappresentanti del governo, in particolare i segretari Wilbur Ross e Jeff Sessions, con i quali dovrà discutere dell’applicazione dell’accordo UE-USA sulla protezione della privacy e delle nuove regole su Internet e iCloud, in un clima per nulla sereno, alla luce dello svilupparsi di questa crisi;
  • anche il Procuratore speciale Robert Mueller, che sta gestendo la delicatissima questione “Russiagate/Trump”, ha aperto in questi giorni un’indagine sul dossier Cambridge Analytica. Un modo per arrivare indirettamente a Zuckerberg? Il quale, in tutta risposta, ha dichiarato ieri alla CNN di essere disponibile a riferire al Congresso USA “… se sarà la cosa giusta da fare” (?);
  • in tutto ciò, Facebook e arrivata a perdere nel giorno più nero, mercoledì di questa settimana, ore l’8% in borsa, pari ad oltre 36 miliardi di dollari di capitalizzazione. La perdita a capo direttamente di Mark Zuckerberg, che detiene il 16% di Facebook, si è attestata a 5,5 miliardi di dollari in Borsa, seppure il fondatore pare sia riuscito – secondo Repubblica Economia – a contenere le proprie perdite vendendo pacchetti azionari prima del crollo del titolo, dimostrando una certa spregiudicatezza verso i cittadini azionisti.

La gestione di questa crisi reputazionale, senza precedenti per Facebook, ha violato per interminabili giorni i più elementari principi del crisis management e della crisis communication – dalla anticipata previsione di scenario, alla necessità di assumersi le proprie responsabilità, al coinvolgimento del CEO in prima persona a fini di rassicurazione del mercato, e molto altro – come appare chiaro analizzando pur sinteticamente quanto segue:

  1. Zuckerberg è stato per circa 1 settimana come “assente”, ha emesso pochissime dichiarazioni, non incisive, delegando quasi sempre le risposte ai comunicati stampa dell’azienda e ai suoi sottoposti, sottostimando nei fatti la portata della crisi, e rinunciando anche a pubblicare alcunché di rassicurante sui suoi canali Social;
  2. Facebook ha inizialmente tentato di giustificare lo scandalo spiegando che il permesso all’uso dei dati a favore di Cambridge Analytica era stato concesso “per fini di studio accademico”, circostanza immediatamente smentita dei vertici della società di consulenza e analisi, il cui CEO ha dichiarato:“Non abbiamo mai detto che il nostro progetto era finalizzato a una ricerca universitaria”, contraddicendo quindi palesemente Zuckerberg e in qualche modo rivendicando lo spregiudicato uso commerciale dei big-data che Facebook gli avrebbe in qualche modo permesso di utilizzare;
  3.  Facebook, secondo le rivelazioni delle inchieste in corso, sarebbe stata a conoscenza dell’utilizzo illecito dei dati già dal 2015tanto che all’epoca si sarebbe attivata per chiedere a Cambridge Analityca l’immediata cancellazione di essi, senza però informare gli utenti della violazione dei loro diritti;
  4. Facebook si è affidata assai tardivamente alla Stroz Friedberg, società specializzata nelle indagini digitali forensi, per verificare se la Cambridge Analytica fosse ancora in possesso dei dati che 3 anni Facebook fa gli aveva chiesto di cancellare;
  5. l’autorità della Gran Bretagna – che intende passare al setaccio i database e i server utilizzati dalla Cambridge Analytica, anche evidentemente per svelare il grado di coinvolgimento di Facebook – aveva chiesto accesso alle informazioni già la scorsa settimana, ponendo come termine ultimo le ore 18 di ieri, ma non ha ottenuto alcuna risposta.L’incapacità di Facebook di orientare, a crisi conclamata, il comportamento di un suo ex inserzionista/cliente di rilievo, e di gestire il rebound comunicazionale negativo, appare francamente sconcertante;
  6. solo ieri, Zuckerberg ha rotto il lungo silenzio pubblicando un post sul proprio profilo, e affermando tra le altre cose: “Sono io che ho lanciato Facebook e sono io il responsabile di tutto ciò che accade sulla nostra piattaforma. Abbiamo fatto degli errori: c’è stata una violazione del rapporto di fiducia tra Facebook e le persone che condividono con noi i propri dati. Questa fiducia va recuperata, per questo bandiremo tutti gli sviluppatori che non sono in regola”;
  7. nel frattempo le perdite in borsa per il colosso dei social sono arrivate a sfiorare i 50 miliardi di dollari;
  8. la situazione pare essersi leggermente stabilizzata dopo che il consiglio di amministrazione di Facebook – all’interno del quale oltre a persone fisiche con pacchetti azionari di rilievo come Sheryl Sandberg, Chief Operating Officer di Facebook, o il CTO Michael Schroepfer, vi sono anche investitori istituzionali come Vanguard Group e Blackrock – ha dichiarato “di essere al fianco di Mark Zuckerberg”, fiducia che il CEO non ha caso ha incassato poco dopo la sua uscita ufficiale via social, dichiarazione ovviamente concordata con i principali azionisti e in controtendenza rispetto all’iniziale strategia di attesa;
  9. su Twitter in queste ore è diventato virale l’hashtag #deletefacebook, che invita a cancellarsi dal social network. Tra i più accesi sostenitori di questa campagna, c’è anche Brian Acton, il fondatore di Whatsapp, App di messaggistica venduta proprio a Zuckerberg nel 2014, che ha dichiarato, riferendosi a Facebook: “Ora è giunto il momento di andarsene”.
  10. L’intero scenario – al di là dei preoccupanti risvolti di cronaca, in aggiornamento ora dopo ora  – fa emergere una domanda, netta e chiara: o la società di Menlo Park non si è mai interrogata circa la necessità di strutturare un efficace crisis plan – per giunta su una issue i cui contorni erano internamente noti da tempo – oppure in tutta evidenza ne ha violato scientemente – e inspiegabilmente – tutti i “fondamentali” per un periodo insolitamente lungo, considerato il pregiudizio reputazionale e finanziario arrecato all’azienda da questi avvenimenti. In entrambi i casi – e ben vengano altre interpretazioni da parte dei colleghi – le ricadute sul valore del titolo sono state pesanti, e, in prospettiva, la quantità di risorse necessarie per una completa ed efficace azione di recovery reputazionale paiono sempre più ingenti.

Lanny Davis, crisis manager e consigliere di Clinton per alcuni anni durante la sua Presidenza, commenta:

“Zuckerberg ci ha messo così tanto a parlare perché di fronte allo scandalo ha pensato fosse opportuno ‘non nutrire la bestia’, non dare materiale ai giornalisti, nella speranza – del tutto vana – che il problema si risolvesse da solo. E’ una cosa già vista in altri casi, e non c’è niente di più sbagliato”.

Nel frattempo, i commenti negli hotel per ricchi nerd attorno a Menlo Park si sprecano:

“Nelle Sue dichiarazioni Mark non ha mai pronunciato la parola ‘azienda’ o ‘pubblicità’, ma sempre solo la parola ‘community’: forse è convinto di essere ancora all’Università di Harvard…?”.

Prima nessuno nella Silicon Valley aveva il coraggio di criticare la compagnia, riporta un cronista, ora la gente parla:

“Le persone si conoscono, si sposano, fanno figli sulla piattaforma, e Zuckerberg è per tutti una specie di amico. Ora il mondo intero si sente tradito: l’amico e il CEO senza scrupoli sono due posizioni in contrasto, gli è andata bene fino ad oggi, ma il muro si è rotto, e nel futuro gli sarà impossibile ricoprirle entrambe”.

Più possibilista – e nel contempo illuminante nella sua semplicità – il commento di una mamma intervistata nei dintorni del quartier generale di Facebook mentre accompagnava il figlio a visitare un campus universitario:

“Sa qual è il paradosso di questo scandalo? Che la gente è offesa dal comportamento di Zuckerberg, critica, si indigna e promette boicottaggi. Ma dove lo fa? Su Facebook, ovviamente, perché semplicemente non c’è alternativa”

Luca Poma




Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica?

Secondo le rivelazioni di Nyt e Guardian, la società un tempo presieduta dall’ex consigliere di Trump (e coordinatore della sua campagna elettorale) Steve Bannon, ha violato 50 milioni di profili Facebook per utilizzarli a fini elettorali. E il social network sapeva

C’è un partito italiano che ha lavorato con Cambridge Analytica. Qual è? Quella che fino a qualche giorno fa poteva essere solo una curiosità, diventa una domanda fondamentale dopo l’inchiesta condotta dal New York Timese dal Guardian che ha svelato come Cambridge Analytica abbia ottenuto in maniera scorretta i profili Facebook di circa 50 milioni di elettori americani per utilizzarli a fini elettorali.

Cambridge Analytica è la società che ha lavorato per Donald Trump nella corsa alla Casa Bianca. Fondata nel 2013, Cambridge Analytica è stata creata con l’obiettivo di supportare le campagne elettorali utilizzando una profilazione molto precisa degli elettori a partire dai loro dati Facebook. Ma c’è un dettaglio importante: nelle sfide elettorali gioca sempre dalla stessa parte del campo, quella dei populisti. Oltre alla campagna di  Trump, è stata coinvolta nel referendum britannico della Brexit e nella corsa all’Eliseo di Marine Le Pen. Sul sito web, dove si citano oltre cento campagne elettorali in cinque continenti in 25 anni, a dispetto del fatto che è stata fondata appena 5 anni fa, tra le pratiche di successo è in evidenza l’Italia. “Nel 2012”, si legge, “CA ha realizzato un progetto per un partito italiano che stava rinascendo e che aveva avuto successo per l’ultima volta negli anni ‘80”. Usando – prosegue la nota – l’Analisi della Audience Target, CA ha rimesso gli attuali e i passati membri del partito assieme con i potenziali simpatizzanti per sviluppare una riorganizzazione della strategia che soddisfaceva i bisogni di entrambi i gruppi. La struttura organizzativa moderna e flessibile che è risultata dal lavoro di CA ha suggerito riforme che hanno consentito al partito di ottenere risultati molto superiori alle aspettative in un momento di grande turbolenza politica in Italia”. Di chi stiamo parlando? Per capirlo, occorre fare un passo indietro e ricostruire l’intera storia.

La storia inizia a Londra nel 1990 quando Nigel Oakes, che in precedenza era stato un produttore di TeleMontecarlo e poi un dirigente della compagnia di comunicazione pubblicitaria Saatchi & Saatchi, fonda l’Istituto per Dinamiche Comportamentali. L’obiettivo era studiare il funzionamento dei comportamenti di massa e come manipolarli. Nel 1993 Oakes fonda la SLC, i Laboratori di Comunicazione Strategica che si specializzano come cliente della Difesa britannica e che dal 1994 sostengono di aver seguito 25 campagne elettorali in diversi paesi del mondo (soprattutto paesi in via di sviluppo) con l’obiettivo di condizionare l’opinione pubblica usando i social media e strumenti di persuasione tipici del mondo pubblicitario (uno dei mantra che ripeteranno i dirigenti di Cambridge Analytica è questo: “Convincere qualcuno a votare un partito non è molto diverso da convincerlo a comprare una certa marca di dentrificio”).

Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica?
 Alexander Nix

Qui cresce e si forma uno dei personaggi chiave della storia:Alexander Nix. Lo ritroviamo alla fine del 2013 al Palace Hotel di Manhattan a New York che brinda con il suo team. Ha appena convinto due importanti uomini di affari americani a usare le tecniche di SLC per condizionare le elezioni americane. E fondare Cambridge Analytica. I due americani sono Steve Bannon e Bob Mercer. Il primo è molto più noto, essendo stato il responsabile della corsa alla Casa Bianca di Donald Trump. Il secondo è più importante. Bob Mercer non è soltanto un miliardario. È un matematico. Lavorava alla IBM, al progetto di intelligenza artificiale Watson. Ha lasciato IBM per entrare nel fondo Renaissance Technologies. Anche qui: non un hedge fund qualunque. È considerata una delle più formidabili macchine per fare soldi del mondo. Usano i dati e l’intelligenza artificiale per decidere gli investimenti e nel tempo garantiscono un rendimento che secondo alcuni arriva al 40 per cento. È così che Mercer è diventato miliardario. Con la matematica e la finanza. Ma la sua passione è la politica.

È un repubblicano convinto e sogna di poter usare i dati per condizionare la politica. Si fa convincere a finanziare la nascita di Cambridge Analytica (il nome lo ha trovato Bannon però). Mette subito un milione e mezzo di dollari per il progetto test: le elezioni di governatore della Virginia. Il candidato repubblicano perde, ma Mercer e Bannon – che nel frattempo prende la guida di CA – decidono di insistere. Sta per partire la corsa alla Casa Bianca: dopo gli otto anni di Barack Obama, la democratica Hillary Clinton è superfavorita contro una mezza dozzina di non irresistibili candidati repubblicani. Mercer e Bannon vogliono vincere e Nix ha un problema: per funzionare i modelli di CA hanno bisogno di dati, i dati di milioni di profili di utenti Facebook. E qui entra in scena un altro protagonista. Aleksandr Kogan.

Aleksandr Kogan è un giovane matematico russo-americano che fa il ricercatore a Cambridge. Esperto in big data, analisi dei comportamenti sociali e neuroscienze, ha un curriculum accademico impeccabile: laurea a Berkeley, master a Hong Kong, decine di pubblicazioni. Tutte con il suo vecchio nome: Kogan. In realtà dopo il matrimonio con la moglie hanno deciso di cambiare. Una scelta che sembra uscire da una sceneggiatura di Hollywood: il suo nome è Aleksandr, Aleksandr Spectre. Spectre, come il servizio servizio che si oppone a James Bond (ma lui dirà che lo ha scelto perché ama la luce e il suo spettro di colori).

È sua l’idea per risolvere il problema di CA: se servono milioni di profili di utenti Facebook, lui sa come fare. Crea una società ad hoc, la Global Science Research, e inizialmente prova attraverso Amazon. Va sulla piattaforma Mechanical Turk, dove per alcuni lavoretti digitali gli utenti vengono retribuiti con pochi centesimi, e offre un dollaro per chi compila un questionario online con i propri dati personali. Per un po’ funziona ma Amazon se ne accorge e lo blocca. A quel punto prova con Facebook: crea un app che sembra un gioco, tu rispondi alle domande e ottieni un tuo identikit digitale, ma nel frattempo Kogan accumula dati, ufficialmente per fini scientifici, è un ricercatore di una delle più prestigiose università del mondo in fondo; e li passa a Cambridge Analytica. Quei dati sono un tesoro: sono 50 milioni di elettori, su 30 milioni si sa praticamente tutto, solo 270 mila avevano dato il consenso. Cosa vuol dire “tutto”? Gusti, paure, speranze. Quei dati consentono di creare profili molto precisi e mandare messaggi mirati. A quel punto Mercer decide di investire 15 milioni di dollari in una partnership con SLC in vista della corsa alla Casa Bianca. E inizia a giocare.

Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica?
 Robert Mercer

Robert Mercer è un personaggio curioso. È di una riservatezza proverbiale. Quasi maniacale. Vive praticamente recluso a Long Island, non lontano dal blindatissimo quartiere generale dell’hedge fund di cui è stato leader indiscusso fino a qualche mese fa. A dispetto del fatto di essere uno dei “re” di Wall Street, ci sono pochissime sue foto in giro (in compenso il suo yacht “The Sea Owl” è fotografatissimo). In uno dei suoi rari interventi pubblici ha detto: “Amo la solitudine dei laboratori di computer di notte. L’odore dell’aria condizionata negli uffici vuoti. Il rumore che fanno i dischi nei computer e il clac delle stampanti”.

Questa immagine da eremita informatico va combinata con due altri elementi: uno noto, è il fondatore di Cambridge Analytica appunto; l’altro nuovo, sua figlia Rebekah Mercer è alla testa del più importante comitato elettorale dei repubblicani. E i Mercer sono i principali donatori di fondi per la corsa alla Casa Bianca, naturalmente contro i democratici. Inizialmente i Mercer (e Cambridge Analytica) si schierano con Ted Cruz, che sembrava il favorito. Ma subito dopo i primi test elettorali, cambiano cliente – in circostanze non del tutto chiare come vedremo – e puntano sull’outsider Donald Trump. In campagna elettorale così si verifica un singolare processo: Mercer finanzia la campagna di Trump; a capo della campagna c’è il suo amico Steve Bannon il quale assolda Cambridge Analytica (di Mercer) che viene pagata molti milioni di euro per i suoi servizi; gli assegni vengono recapitati ad un indirizzo di Beverly Hills dello stesso Bannon – che era stato uno dei primi capi di CA oltre che azionista della società fino a qualche mese fa. Un ingranaggio anche troppo perfetto.

Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica?
 Steve Bannon

La corsa per la Casa Bianca come è noto viene segnata da voci su presunte interferenze russe (sulla quali è in corso una indagine federale). Non si tratta solo delle cosiddette fake news. In molti casi si tratterebbe di centinaia bot, profili finti gestiti attraverso un algoritmo e diretti dalla misteriosa Internet Research Agency di San Pietroburgo. In diversi casi si registrano attacchi hacker ai database dei partito democratico. Vengono rubati moltissimi dati anche al responsabile  della campagna, John Podesta); l’ipotesi è che possa esserci materiale compromettente sulla candidata democratica Hillary Clinton e la sua gestione scorretta delle email quando era al Dipartimento di Stato. Il “malloppo” viene passato dagli hacker (tuttora ignoti) a WikiLeaks, l’organizzazione di Julian Assange. E qui torna in campo Cambridge Analytica: si scoprirà mesi dopo che l’amministratore delegato Alexander Nix era andato direttamente da Assange a chiedere di avere quei dati. Ma Assange sostiene di avergli risposto di no.

Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica?
Un manifesto pro-Leave per il referendum sulla Brexit (Afp)

Intanto nel Regno Unito si svolge una battaglia decisiva: il referendum che doveva decidere se restare o no nell’Unione Europea. Come è noto il 23 giugno 2016 vincerà la scelta della Brexit. Un successo anche per Steve Bannon che dal 2012 è un amico e sodale di Nigel Farage, il leader del partito Ukip che ha guidato il movimento per la Brexit (nel 2014 Bannon aprirà a Londra la sede britannica del suo sito Breitbart dicendo al New York Times che quello era “l’ultimo fronte della guerra politica e culturale in corso”). Vince la Brexit insomma e solo qualche mese dopo il quotidiano The Guardian scopre che dietro la campagna ufficiale per il “Vote Leave” c’è una oscura società di analisi di dati web, basata a Victoria, nella Columbia Britannica. In Canada. Ha un piccolo ufficio sopra un negozio, si chiama Aggregate IQ ed è stata la destinataria della metà del budget totale di “Vote Leave”: quattro milioni e mezzo di euro. Ma anche altri tre gruppi di sostenitori della Brexit si sono rivolti ad Aggregate IQ. Come è possibile che una società così piccola e marginale abbia giocato un ruolo così importante nel referendum britannico?

L’inchiesta del Guardian è durata mesi e alla fine è stata ottenuta questa spiegazione ufficiale: “Li abbiamo trovati su Internet, li abbiamo sentiti al telefono e li abbiamo scelti perché erano i più bravi”. Solo che il Guardian ha verificato questa affermazione su Google, e al tempo della campagna referendaria non c’era nessuna referenza su Aggregate IQ, nessun articolo, nessun link. Era introvabile. Poi improvvisamente una traccia è emersa: durante le primarie americane Aggregate IQ ha ceduto l’uso di alcuni suoi brevetti: solo che non appartenevano alla società canadese. Appartenevano a Robert Mercer.

Qual è il partito politico italiano per cui ha lavorato Cambridge Analytica?
 Christopher Wylie

Nei mesi scorsi sono usciti moltissimi articoli sul ruolo di Cambridge Analytica nelle elezioni americane e nel referendum britannico. Alexander Nix inizialmente si vantava del successo (anche nel corso di una conferenza lo scorso novembre a Milano per esempio); poi ha capito l’aria ed è passato sulla difensiva. A proposito della Brexit per esempio ha sostenuto giustamente di non aver avuto alcun ruolo (in effetti è stata Aggregate IQ come abbiamo visto). Ma nel frattempo uno dei primi dipendenti di Cambridge Analytica decide di parlare e contatta il New York Times e il Guardian. Si chiama Christopher Wylie, era con Nix in quel bar di Manhattan alla fine del 2013 quando il capo brindava perché aveva convinto Mercer e Bannon a fondare CA. Nelle foto che girano da ieri si vede un giovane nerd con i capelli a spazzola rosa e un orecchino al naso. Ma nella vita reale Wylie non ha però  “l’anello al naso” e nel 2014, dopo aver trovato Kogan a Cambridge e aver gestito quella partita delicatissima che è stata la raccolta dati di 50 milioni di persone, lascia Cambridge Analytica perché non ne condivide gli obiettivi e soprattutto i metodi: “Le regole per loro non contano nulla”, dice adesso.

https://twitter.com/alexstamos/status/975069709140877312

Wylie per settimane aiuta i giornalisti del New York Times e del Guardian a collegare molti dei puntini di questa storia. Emerge con chiarezza che Facebook sapeva del problema dalla fine del 2015; che nell’agosto 2016 ha chiesto che venissero distrutti i dati ma non ha verificato che fosse stato fatto; e non ha informato nessuno. Anzi, ufficialmente ha negato il problema (così come Nix ha negato tutto davanti al procuratore federale a dicembre). Facebook ha minimizzato fino a venerdì 16 marzo, qualche ora prima della pubblicazione della doppia inchiesta. Solo allora il vice presidente Paul Grewal ha scritto un lungo post per informare che Cambridge Analytica, Aleksandr Kogan e Christopher Wylie sono stati sospesi dall’uso della piattaforma. Secondo Grewal in questa vicenda sono state violate le regole di Facebook: la app di Kogan è stata scaricato 270 mila volte, ma è stato possibile risalire ai profili degli amici di questi 270 mila utenti per arrivare a 50 milioni.

 Passare i dati a Cambridge Analytica costituisce la vera violazione che ora non sarebbe più possibile perché il processo di approvazione delle app è diventato più rigido. Intanto su Twitter il responsabile della sicurezza di Facebook Alex Stamos, ha cancellato i molti tweet che aveva fatto subito dopo la pubblicazione dell’inchiesta e in un altro tweet ha spiegato di averlo fatto non perché fossero scorretti dal punto di vista dei fatti, ma perché prima di scriverli “sarebbe stato meglio rifletterci con più attenzione”. Una frase perfetta per chiudere questa parte della storia.



MiMoto, il primo scooter sharing elettrico senza stazioni

Nasce a Milano MiMoto, il primo ed unico servizio di scooter sharing elettrico ed ecosostenibile della città. Un’idea semplice che unisce in sé rispetto per l’ambiente, Made in Italy, sicurezza stradale, condivisione ed efficienza.
MiMoto oltre a essere una start up innovativa, è un servizio che ha l’obiettivo primario di offrire ai propri clienti finali un’esperienza smart, green e unica nel suo genere e, allo stesso tempo, migliorare la vita dei milanesi. Infatti vuole anche essere un alleato dell’amministrazione comunale che fin da subito si è dimostrata aperta e sensibile nei confronti del progetto.
“La sharing mobility milanese si arricchisce di un nuovo mezzo con il servizio di scooter sharing MiMoto, che ha anche il vantaggio di essere a zero impatto ambientale.” – dichiara Marco Granelli, Assessore a Mobilità e Ambiente del Comune di Milano – “I milanesi e i city user hanno dimostrato di apprezzare molto questa tipologia di servizi e di usarli quotidianamente. Con il loro sviluppo diventa sempre più importante che tutti rispettino le regole della convivenza e della condivisione in strada”.
Dal 14 ottobre 2017 residenti, pendolari e turisti potranno dimenticarsi lunghe code e attese: districarsi nel traffico milanese sarà molto più facile, grazie agli eScooter di Askoll scelti da MiMoto, omologati per due e con due caschi posizionati nel bauletto. Elettrici e Easy-to-usegrazie alla leggerezza del mezzo, facile da guidare e progettato per la mobilità urbana; ma anche Economico, con tariffe alla portata di tutti ed Efficiente, perché abbatte i tempi di viaggio, facendo risparmiare tempo e denaro.
Last but not leastnon c’è alcun vincolo di stazioni di ricarica. MiMoto è un servizio free floating e senza chiavi: localizzi l’eScooter più vicino tramite App, disponibile per iOS e Android, lo prenoti, parti e una volta terminata la corsa lo lasci dove vuoi all’interno dell’area operativa. Quest’ultima comprende tutto il centro della Città di Milano: le principali zone di interesse (Navigli, Città Studi, Lambrate, Morivione, Calvariate, De Angeli, San Siro e Bovisa Politecnico) e i principali distretti universitari tra cui Cattolica, Bocconi, Bovisa, Città Studi/Politecnico e IULM.
Un progetto dunque smart, user oriented e giovane, come giovani (under 35) sono i tre founders di MiMoto, Alessandro, Gianluca e Vittorio che hanno lavorato senza sosta fino ad oggi con metodo, ambizione e minuziosità al fine di offrire, all’esigente pubblico milanese, il miglior servizio possibile. I tre founders hanno cercato e trovato imprenditori e professionisti in grado di apportare al progetto un valore aggiunto, non solo dal punto di vista finanziario, ma in termini di expertise e know how, conseguendo un club deal di imprenditori di successo del settore.
MiMoto non è per noi una semplice idea che stiamo realizzando: è una sfida personale e professionale” – dichiarano i tre founders – “Lanciare sul mercato italiano un servizio di scooter sharing (che stiamo già progettando di implementare su scala nazionale ed internazionale) completamente ecosostenibile e Made in Italy, vuol dire posizionarsi come una realtà proiettata al futuro. Fin dall’inizio abbiamo deciso che MiMoto si sarebbe distinto per due plus principali: la sostenibilità e il Made in Italy. Un servizio dunque a zero emissioni, in grado di salvaguardare la salute dell’ambiente e di tutti i cittadini milanesi già sensibili a questa tematica, che contemporaneamente si renda portavoce dell’italianità dei materiali, dei servizi e delle aziende”.
I partner meticolosamente scelti sono un’ulteriore conferma di ciò: primo fra tutti Askoll, realtà italiana fornitrice degli scooter completamente elettrici. Sarà invece PLT puregreen, partner energetico emiliano-romagnolo, ad alimentare il servizio con la sua energia, prodotta esclusivamente da fonti 100% rinnovabili, mentre come partner assicurativo MiMoto ha scelto la torinese Nobis, realtà anch’essa attenta alle tematiche ambientali e supporter di progetti innovativi.
Utilizzare MiMoto significa dunque non solo usufruire di un servizio di sharing, ma adottare un preciso stile di vita e diventare ambassador di un cambiamento che mira a migliorare la qualità della vita dei cittadini, facilitando gli spostamenti urbani e fornendo, allo stesso tempo, un valido e concreto aiuto per migliorare l’aria che quotidianamente respiriamo.




La lezione di Shell a chi sottovaluta la Csr

DALLA FIGURACCIA BRENT SPAR A UNO DEI PRIMI IMPEGNI ETICI MESSI PER ISCRITTO DA UNA GRANDE AZIENDA: LA LEZIONE DI CORPORATE SOCIAL RESPONSIBILITY DI SHELL


Corporate social responsibility: il caso Shell. Incredibile ma vero, il colosso petrolifero Shell è stata un pioniere della Csr nel mondo aziendale, ancor di più nel settore dei combustili fossili. Shell infatti ha sottoscritto uno dei primi impegni scritti di impegno etico per il rispetto dell’ambiente. Ma come nasce questo impegno? Da una figuraccia, che porta il nome di Brent Spar

Corporate social responsibility: il caso Shell

L’impegno nella corporate social responsibility di Shell è indissolubilmente legato a questa piattaforma petrolifera, la Brent Spar, che ha chiuso il suo ciclo di vita nel 1995. Chissà quanti ricorderanno le proteste che partirono in quel momento, in seguito alla decisione di Shell di affondare la struttura a 150 miglia al largo delle coste delle coste scozzesi, in un fondale di 2.000 metri. Attenzione, quella era ritenuta la scelta non solo più economica, ma anche più sicura dal punto di vista ambientale.
Gli attivisti di Greenpeace non erano d’accordo e iniziarono a protestare tentando anche l’assalto alla piattaforma, dalla quale vennero respinti con i getti dei cannoni d’acqua. La scena, trasmessa dalle tv di tutto il mondo, fece scalpore. Gli ambientalisti proponevano lo smantellamento sulla terraferma, recuperando i residui petroliferi contenuti nelle cisterne e riciclando le struttura metallica per evitare la dispersione di metalli pesanti e carburante (anche se poi si scoprì che i dati erano pesantemente inesatti). Per contro, la Shell sosteneva che la demolizione a terra sarebbe stata più pericolosa, dannosa per l’ambiente e soprattutto molto più costosa.

Le proteste per la Brent Spar

A maggio del 1995, la piattaforma Brent Spar, scortata da una nave da guerra britannica e da tre navi della compagnia petrolifera, comincia ad essere rimorchiata verso il punto definito per l’affondamento. Ma la protesta era partita in tutto il mondo: in Germania e Paesi Bassi gli automobilisti boicottavano le stazioni di servizio della Shell (si perse fino al 20% del giro d’affari), seguite da molte alte aziende. Persino Helmut Kohl fece pressioni per lo smantellamento. Alla fine gli attivisti di Greenpeace riuscirono a salire a bordo e a incatenarsi alla piattaforma.
Nonostante il governo britannico rimanesse fermo sulla propria decisione, alla fine Shell decise che la propria posizione non era più difendibile e rinunciò al proposito di affondare la Brent Spar. «La posizione della Shell come grande impresa europea è diventata insostenibile. La Spar ha acquisito un significato simbolico del tutto sproporzionato al suo impatto ambientale. Per conseguenza, le società del gruppo Shell hanno dovuto affrontare critiche di dominio pubblico sempre più intense, soprattutto nell’Europa continentale settentrionale. Molti politici e ministri sono stati apertamente ostili e molti hanno fatto appello al boicottaggio da parte dei consumatori. C’è stata violenza contro le stazioni di servizio Shell, accompagnato da minacce nei confronti del personale della Shell», fu la nota emessa dalla società. 

L’impegno per l’ambiente

Proprio dalle proteste per la Brent Spar è nato l’impegno nella corporate social responsibility di Shell che di lì a poco pubblicòil primo rapporto di sostenibilità nella storia della compagnia anglo-olandese. Nel frattempo, la convenzione OSPAR, ratificata nel 1998, prevede che tutte le piattaforme del mare del Nord debbano essere smantellate sull’esempio della Brent Spar (smantellata poi in Norvegia). «La Brent Spar ha modificato il nostro punto di vista. La Spar non costituisce, come molti ritengono, una minaccia ambientale, ma resterà nella storia come un simbolo dell’incapacità dell’industria di relazionarsi con il mondo esterno», commentò Heinz Rothermund, amministratore delegato della Shell UK exploration).
Rothemund riconobbe che la Shell non aveva preso in considerazione l’effetto delle proprie azioni sull’opinione pubblica, cosa che in futuro avrebbe sempre dovuto fare. Alla Shell conclusero che quanto era avvenuto avrebbe potuto ripetersi e che bisognava prendere decisioni in altro modo. Dovette inoltre accettare che molti non erano disposti a credere alle dichiarazioni che faceva sul proprio modo di agire in campo ambientale. «Vogliamo che in futuro le nostre azioni mostrino che gli interessi fondamentali delle imprese e della società sono del tutto compatibili; che non è necessario scegliere tra profitti e principi», concluse Cor Herckstroter, allora presidente del comitato degli amministratori. 

Il principio dell’impegno

Un’altra conseguenza dell’affare Brent Spar fu che Shell sposò il principio dell’impegno, il che significava coinvolgere nelle proprie decisioni organizzazioni diverse ed esterne all’azienda. Tali organizzazioni esterne non hanno un’autorità ufficiale sulle decisioni che la Shell stabilisce di prendere ma esercitano una forte influenza, poiché la Shell ascolta attentamente le loro opinioni.
In un articolo scritto dieci anni dopo la vicenda di Brent Spar, il presidente della Shell UK Jame Smith affermò: «Imparammo che per quanto essenziali scienza e approvazione governativa non sono sufficienti. Dovemmo impegnarci con la società, capire e rispondere alle preoccupazioni e alle aspettative della gente. Dobbiamo consultarci con loro per tempo e senza remore, pronti ad ascoltare e a cambiare. Dobbiamo ammettere gli errori e dimostrare che tentiamo di risistemare le cose e al contempo di imparare».




Anonymous torna alle origini e invita all’azione contro corruzione e povertà

L’operazione #Paperstorm chiama “alla battaglia globale per conquistare la tua libertà e la verità”. Con volantini, foto e bombolette spray sulla scia dei movimenti artistici d’opposizione della Silicon Valley pre-Amazon


Anonymous è tornato alle origini. il collettivo di hacker attivisti con la maschera del rivoluzionario inglese Guy Fawkes ha ricominciato a scorazzare in rete. In Italia, dove era rimasto piuttosto silente per parecchi mesi, le varie crew che di volta in volta avviano le operazioni di disturbo contro poteri vecchi e nuovi, chiamano all’azione per ridicolizzare i potenti e trasformare la protesta in azione politica. Così, dopo gli attacchi al Miur, ai siti di Libero e del Giornale, al blog di Salvini, adesso invitano alla protesta creativa.

Riaperto il blog di Anonymous Italia

Riaperto il blog di anon-news italia chiuso per dissidi interni, gli Anonymous italiani lanciano l’operazione #Paperstorm per invitare tutti “alla battaglia globale per conquistare la tua libertà e la verità”, con l’obiettivo di “far arrivare la nostra voce nelle orecchie di tutti i politici ed in tutte le stanze del parlamento, riguardo alla libertà di parola, la guerra contro la corruzione e l’uguaglianza.”
Tornano insomma alle origini dell’attivismo fatto di azioni dirette via computer dove il volantinaggio dalle strade si sposta in rete, le performance di strada riempiono i social e i banchetti delle firme sono rimpiazzati dalle petizioni digitali. E viceversa. Oggi Anonymous chiede di agire nella real life: “Le piazze, i luoghi comuni e le strade saranno i nostri media!”
Non sembra casuale il recupero dell’appello che fece nascere Indymedia, il collettivo di gestione dell’Indipendent Media Center nato a Seattle nel 1999 durante le proteste contro gli accordi di libero scambio del Gatt/Wto: “Don’t hate the media, become the media”. Cioè: “Sii tu stesso i media, crea i tuoi canali personali in rete, fai arrivare le tue parole ai tuoi compagni di battaglia e anche ai tuoi nemici.”

Irriverenti ed ironico come con Scientology

Gli Anonymous invitano alla creatività e all’ironia, con messaggi diretti sullo stile del Billboard liberation front, i culture jammer, i guastatori culturali che riscrivevano i manifesti delle strade della California con messaggi irriverenti e ironici. Per questo chiedono di “preparare volantini, striscioni, poster, adesivi, pennarelli indelebili o bombolette di colore”, di stampare immagini e pubblicare tutto su Imgur .
Usando questo social tornano alle origini della loro nascita quando nel 2004 usavano 4Chan, un social forum giapponese e poi americano che consentiva di pubblicare soltanto immagini e di commentarle. È li che nasce la loro battaglia contro la chiesa di Scientology, la loro prima operazione globale per denunciare l’imbroglio di sette e ideologie, ma sempre con uno spirito goliardico.
Solo dopo diventeranno un attore globale con le proteste contro la Sony e il copyright e l’operazione Payback per denunciare la censura contro Wikileaks e Julian Assange, il matematico cypherpunk creatore del sito anti-corruzione e pro-trasparenza che aveva denunciato il massacro americano dei civili in Iraq grazie ai documenti fatti trapelare da Chelsea Manning.

Hacker e attivisti goliardici

Gli Anonymous tornano quindi alle origini perché nonostante abbiamo usato le proprie capacità di sabotatori informatici per attaccare l’Isis e cacciarlo dal web con una lotta senza quartiere al Cybercaliphate dopo gli attentati di Parigi, riconoscono la loro antica vocazione, quella di occupare temporaneamente degli spazi di protesta e comunicazione e poi ritirarsi, nella speranza di aver lasciato un messaggio nelle coscienze addormentate dai social.