TESI DI LAUREA. "Corporate Social Responsibility e stakeholder value, la best practice del Social Hub"

Università degli Studi di Roma “La Sapienza” – Facoltà di Scienze della Comunicazione

Corporate Social Responsibility e stakeholder value, la best practice del Social Hub: un bilancio integrato digitale aggiornato 365 giorni all’anno

Tesi di Giovanni Ierfone – Relatore Dott. Marcello Incognito

Scarica da questo link il testo integrale della tesi (118 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Non si può non comunicare: l’assioma di Watzlawick è alla base delle comunicazioni umane. La comunicazione, che sia volontaria o involontaria, formale o informale, esplicita o tacita, interna o esterna, si configura come il vettore necessario per la creazione di significati (valori) riferiti ai diversi sistemi, o sotto sistemi, che in diverso modo intervengono nella dinamica evolutiva di ogni impresa.

L’impresa che crea valore è un “soggetto comunicante”, artefice insieme ai propri stakeholders di un processo iterativo (e interattivo) di creazione di significati economico-finanziari, etico-sociali, commerciali e simbolici.

Ora, l’etica e la responsabilità sociale sono davvero un vantaggio competitivo per le imprese e le organizzazioni? Questo lavoro cercherà di rispondere alla domanda.

Attraverso riflessioni, modelli, strumenti e casi di best practice si dimostra come politiche consapevoli di Corporate Social Responsibility – se comunicate con sobrietà, tempestività ed efficacia a soggetti attentamente identificati – possono costituire la leva più importante per conquistare quella fiducia e quella “licenza ad operare” di cui tutte le imprese hanno bisogno per crescere.

Il tema attualissimo della socialità d’impresa sta spingendo la comunicazione delle organizzazioni dai territori dell’immagine ai territori della reputazione e della relazione.

Pertanto, il governo della comunicazione d’impresa, nei suoi aspetti più innovativi, costitutivi sia del contenuto sia della relazione, è l’altro tema di fondo di questo lavoro.

La sua articolazione ha l’obiettivo di rappresentare nel modo il più possibile completo, la complessità del ruolo, dei livelli e delle forme della CSR.

Tale complessità è indagata adottando un’ottica imprenditoriale, con l’intento di proporre soluzioni diverse, presentando case histories e best practices originali, con lo scopo di elaborare un lavoro aggiornato, del tutto inedito, corredato da riscontri empirici e che, sebbene sia focalizzato sulla CSR, sia il risultato di un approccio multidisciplinare. Su quest’ultimo versante, a testimoniare il continuo sviluppo del cammino di ricerca, si dà riscontro dei cambiamenti in atto e prospettici, cambiamenti di cui vengono colte in primo luogo le implicazioni manageriali, anche grazie al contributo diretto di qualificati esponenti del mondo aziendale.

Il lavoro si sviluppa in tre parti.

Nella prima parte ci s’interroga sulle origini della disciplina delle Relazioni pubbliche, che è non più oggi pura divagazione teorica, ma rappresenta una questione centrale. Altrettanto vale per la CSR, troppo spesso vista come un mero strumento delle Rp. Ma una visione del genere è, spesso, molto riduttiva.

Il marketing e la comunicazione unidirezionali stanno ridimensionando significativamente il proprio peso a favore di discipline come la CSR e il web 2.0, che mostrano una dimensione strategica di forte condivisione con gli utenti. Ma anche la configurazione di un nuovo modello di business, sempre più orientato alla Human Social Responsibility (1. HSR).

Nella seconda parte è stato illustrato il concetto, fortemente innovativo, della rete neurale complessa, a partire dalla definizione di aziende contro-corrente, non convenzionali, definite anche “mancine”, perché come i “mancini” sviluppano particolari predisposizioni e ampliano le loro prospettive operative. La lateralizzazione, infatti, è la “scelta” che ogni essere vivente compie nell’utilizzare il lato destro o sinistro del corpo come dominante per la propria sopravvivenza.

Alcune ricerche hanno dimostrato come adottare comportamenti anomali possa determinare la salvezza di un soggetto. Il modello matematico di questa teoria, applicato alla comunicazione e alla CSR, mostra come il successo di un’azienda possa essere legato a scelte innovative.

E, dal momento che l’esigenza di misurazione della CSR è sempre più sentita nel mondo delle Rp, partendo dal concetto che “tutti i pubblici sono stakeholder”, si affronta, inoltre, un’analisi per un’organizzazione non solo degli stakeholder – che rivestono un ruolo fondamentale – ma anche degli “stakeholder degli stakeholder”. In quest’ottica è possibile creare un organigramma all’interno del quale inserire tutte le funzioni aziendali in ragione dei tipi di stakeholder con i quali maggiormente si dialoga.

Per concludere, la terza parte è dedicata alle nuove forme di CSR. Le aziende sono costituite in primo luogo da persone e il loro benessere psico-fisico è un presupposto fondamentale dell’esistenza e dell’efficienza di un’organizzazione. Le neuroscienze e la biopsicologia hanno innegabili connessioni con la CSR ed è proprio da questo rapporto che potrebbe nascere una nuova declinazione di responsabilità sociale.

Non solo. Un’ulteriore evoluzione degli strumenti per la rendicontazione delle imprese transita dalla “voce narrante” alla costruzione condivisa del messaggio. In questo segmento si propone una nuova modalità di sviluppare il bilancio sociale: non più unidirezionale, ma scritto a più mani con gli stakeholder in tempo reale. Focus della terza parte sarà dunque il Social Hub: un bilancio integrato digitale aggiornato quotidianamente. Una nuova sfida per i comunicatori e per le imprese come Guna, azienda leader nella produzione di farmaci biologici d’avanguardia.

Il “Social Hub” di GUNA rappresenta uno strumento innovativo di rendicontazione, unico in Italia, che garantisce un flusso di dati totalmente disintermediati 365 giorni all’anno, senza soluzione di continuità, imputati direttamente on-line dai singoli dipendenti GUNA responsabili dell’aggiornamento delle singole tabelle del cruscotto di indicatori “Web-cam”. Il Bilancio integrato di GUNA è riportato solo sul Social-Hub elettronico all’indirizzo web socialhub.guna.it, mentre la situazione economico-finanziaria è pubblicata come capitolo all’interno del Social Hub.

1. Human Social Responsibility è termine coniato dall’autore Luca Poma nel suo omonimo saggio del 2012


TESI. "LA DIPLOMAZIA INTERNAZIONALE SU TWITTER"

Università di Padova
LA DIPLOMAZIA INTERNAZIONALE SU TWITTER
EVOLUZIONE DELLA COMUNICAZIONE POLITICA E ISTITUZIONALE SUI SOCIAL NETWORK: OPPORTUNITÀ, EFFETTI E RISCHI
Corso di Linguaggio delle Relazioni Pubbliche – Prog. Giampietro Vecchiato
Tesi di fine corso di Martina Gazzieri

Scarica il file con il testo completo dell’elaborato (12 pagine), qui di seguito, le prime righe del testo della tesi:


È bastato un tweet di Carl Icahn, noto speculatore di Wall Street, che annunciava di
aver acquisito «un posizione importante» in Apple e di considerare la società
«estremamente sottovalutata». Twitter ha fatto da cassa di risonanza suggerendo un
buyback (riacquisto di azioni proprie) facendo aumentare in pochi minuti di 17,1
miliardi di dollari il valore complessivo di Cupertino che ora ammonta a 444 miliardi.
Wall Street non è nuova a questo “effetto Icahn”, in passato altri annunci di un suo
interessamento ad altre società, Herbalife e Netflix, avevano comportato repentini
rialzi dei titoli….


L’In-fallibile scienza

Uno straordinario articolo sul settimanale inglese “The Economist” ha garbatamente spogliato, fino a renderlo quasi del tutto nudo, il paradigma della “scienza basata sulle prove di efficacia”, per difendere il quale non pochi ricercatori sarebbero probabilmente pronti a gettarsi nel fuoco. E – sorpresa – l’ha fatto con metodo scientifico.


Negli ultimi secoli, la scienza ha prodotto innumerevoli scoperte che hanno di gran lunga migliorato la qualità della vita dell’uomo, ma ha anche generato un certo autocompiacimento tra gli addetti ai lavori.

Quante volte abbiamo letto in appassionati – a volte rabbiosi – thread di commento a qualche articolo sul web “…la scienza dice che”, o “è ridicolo, non è provato scientificamente”, o ancora “se è scritto su PubMed è così!” …?
Sacrosanto. Se fosse tutto vero, e se il sistema fosse perfetto.

Ecco allora alcune riflessioni alla ricerca di nuove verità: nulla in realtà è veramente come sembra, in scienza. Pillola blu: la tua vita resta tranquilla, le tue certezze incrollabili, la tua fiducia nella scienza assoluta, e ti assicuriamo anche l’immunità totale da ogni tipo di preoccupazione. Pillola rossa: la tua vita cambia, non sai se in meglio o in peggio, ma ti diamo l’opportunità di metterti in gioco, abbandonando molte certezze e riacquistando la capacità di porti domande…

L’EBM non gode di buona salute

Iniziamo dal ricordare – come chiunque investa in biotecnologie sa bene – che almeno il 50% degli studi pubblicati in quel settore non è ripetibile, e questa potrebbe essere una stima ottimistica. Gli esempi non mancano: ad esempio, nel 2012 – ricorda un articolo di “Nature” – i ricercatori dell’azienda biotecnologica “Amgen” hanno scoperto non senza sorpresa che erano in grado di replicare solo 6 dei loro 53 studi oncologici definiti “fondamentali”.

Neppure nella medicina il paradigma della “ripetibilità” degli studi gode di buona salute: l’inquietante dato è stato confermato dalla multinazionale farmaceutica Bayer, che – sulla base delle risultanze di una verifica pubblicata su “Nature Reviews Drugs Discovery” – è riuscita a ripetere solo il 25% di 67 esperimenti altrettanto importanti, sui quali aveva in parte basato le richieste di approvazione alla messa in commercio di una serie di farmaci.

Un’ulteriore ricerca ha dimostrato che – nel decennio 2000/2010 – circa 80.000 pazienti hanno partecipato a test clinici basati su studi che poi sono stati “ritrattati” a causa di errori o procedure inappropriate.

Non pochi degli studi alla base delle richieste di Autorizzazione all’Immissione in Commercio dei farmaci sono svolte in Cina, a causa dei minori costi dei trial clinici. Tuttavia, un indagine condotta dalla FDA cinese (Chfda) su 1622 sperimentazioni, ha rilevato mancanza di documenti e esiti negativi nei test di bioequivalenza: l’80% dei test clinici sui farmaci condotti in Cina sarebbe fasullo, con dati incompleti, irrintracciabili o che non soddisfano gli standard minimi di qualità o creati ad hoc per confermare le tesi iniziali.

Il quotatissimo British Medical Journal ha recentemente denunciato un vero e proprio ‘buco nero’ nella pubblicazione trial clinici. Secondo lo studio dal titolo Publication and reporting of clinical trial results: cross sectional analysis across academic medical centers”, condotto dalla Yale School of Medicine, emerge come le decisioni sull’efficacia dei farmaci, e quindi sulla loro approvazione, “siano fino ad oggi state prese sulla base di informazioni incomplete, dato che i risultati di quasi tre quarti degli studi clinici non vengono pubblicati entro due anni dal loro completamento (…), una situazione che mette a rischio soprattutto i pazienti e distorce i risultati di ogni ricerca sulle banche dati mediche”. Pare che meno di una sperimentazione completata su tre venga pubblicata entro due anni dal completamento e che solo il 13% appaia sul più grande database degli studi clinici degli Stati Uniti, che è ClinicalTrials.gov.  Harlan Krumholz ha esaminato il suo team i tassi di pubblicazione e comunicazione dei risultati entro due anni di più di 4.300 studi condotti in 3 anni da oltre 51 istituzioni leader americane: nessun centro accademico ha pubblicato oltre il 40% degli studi clinici entro due anni dal completamento. “La mancanza di comunicazione e pubblicazione tempestiva danneggia nel profondo la ricerca, viola l’impegno assunto dai ricercatori con pazienti e finanziatori, sperpera tempo e risorse preziose, e rischia di compromettere il processo decisionale clinico basato sull’evidenza”, hanno dichiarato gli autori dello studio.

Un caso eclatante di mistificazione apparentemente rispettosa dei criteri dell’EBM, è quello della multinazionale farmaceutica Glaxo e del Paxil, antidepressivo blockbuster da 2 miliardi di dollari di vendite l’anno: venne poi fuori a distanza di anni – con l’azienda tutt’altro che collaborativa con la Magistratura – che il famigerato “Studio 329”, sul quale era stata basato l’ottenimento dell’autorizzazione alla messa in commercio del farmaco, era stato manipolato nella sua essenza, non senza l’aiuto di “ghostwriter” pagati dalla multinazionale stessa. E la tecnica, nota nel settore del giornalismo scientifico investigativo, dello “scambio di risultato”: i quesiti ai quali lo studio scientifico dovrebbe rispondere, in caso di problemi e di risposte non confacenti, vengono semplicemente “modificati in corso d’opera”, adattando quindi lo studio ai risultati che man mano emergono in itinere. Glaxo, dopo un estenuante battaglia legale – promossa forse dall’azienda per rivendicare il proprio diritto a stimolare idee suicidarie nei pazienti al fine di fare più soldi – pagò la più alta multa mai comminata a una farmaceutica, oltre 3 miliardi di dollari, con buona pace dei familiari dei malati poi deceduti che, sulla base delle “evidenze scientifiche disponibili”, avevano optato per una strategia terapeutica a base di Paroxetina.

Più in generale, l’Università di Edimburgo, ha esaminato nel dettaglio inchieste e sondaggi svolti all’interno della comunità accademica nel ventennio 1988-2008: un poco rassicurante 2% dei ricercatori ha ammesso “di aver falsificato i dati”, mentre il 28% di essi ha confessato di “conoscere personalmente colleghi che hanno utilizzato metodi discutibili durante la progettazione o l’esecuzione dei loro esperimenti”.
Come possiamo riporre cieca fiducia in un sistema di valutazione spacciato per “verbo” e invece tale da evidenziare falle di queste proporzioni?

Ritrovare credibilità: quali soluzioni?

Da anni si discute – invano – dell’ipotesi di rendere obbligatoria la registrazione in anticipo dei protocolli di ricerca, rendendoli controllabili on-line, al fine di non far cadere i ricercatori nella tentazione – molto più diffusa di quanto si pensi – di modificare la struttura dell’esperimento a metà strada per far apparire i risultati più significativi di quanto non siano in realtà. Ma neppure in medicina, dove in molti Stati questa prassi è formalmente obbligatoria, essa è applicata con rigore: prova ne sia che ben 1/3 degli studi finanziati dai National Institute of Health in USA non erano ancora stati pubblicati dopo ben 50 mesi dal loro avvio, e questo è statisticamente ancor più vero per tutte le altre discipline scientifiche, mentre un analogo studio di BMC Medicine ha dimostrato che oltre il 30% dei trial clinici non si atteneva alle indicazioni prestabilite prima dell’inizio dei test.

A tutto ciò aggiungiamo che i “risultati negativi” rappresentano solo il 14% degli articoli pubblicati, rispetto al 30% degli anni ’90, come conferma uno studio della già citata Università di Edimburgo svolto comparando ben 4.600 lavori scientifici, con il risultato che – a causa della mancata pubblicazione dei “fallimenti” – altri ricercatori continuano a sprecare fatica e denaro nel percorrere vicoli ciechi che altri hanno già precedentemente esplorato.

Gli ostacoli all’effettiva “ripetizione” degli esperimenti sono poi molteplici: da uno studio pubblicato pochi mesi fa su PeerJ emerge ad esempio che più del 50% degli articoli di biomedicina pubblicati su ben 84 riviste scientifiche non riportavano l’indicazione dei reagenti chimici necessari per ripetere l’esperimento e verificarne i risultati (!). E in ogni caso, gli esperti e soprattutto gli enti finanziatori, ammettono che “la ripetizione di esperimenti già conclusi a scopo di verifica non rientra tra le prirorità”, come conferma Elga Nowotny, Presidente del European Research Council.
E c’è un dato ancor più evidente: la verifica a posteriori dei risultati ottenuti da altri, di per se – al contrario – non aiuta per nulla la carriera: non rileva, e soprattutto non interessa a nessuno, con il risultato che esiti di esperimenti spacciati per buoni, e invece per nulla rilevanti o addirittura negativi, ma non verificati in profondità, portano fuori strada l’intera comunità accademica, “dopando” i risultati sulle banche dati, e dando un’illusione di “solidità di risultanze” in realtà inesistente.

Anche il mondo delle riviste specializzate, che “nutrono” le più importanti banche dati scientifiche online, stimola preoccupanti riflessioni. Per mantenere il proprio – presunto – alto profilo qualitativo, le riviste più importanti sono ansiose di pubblicare notizie eclatanti, e rifiutano più del 90% dei lavori che ricevono: quelli con più probabilità di finire sulle loro pagine sono però quelli più “singolari”, in grado di “far parlare di più” all’interno della comunità scientifica e non solo, e – di conseguenza – c’è poco da meravigliarsi per la pratica diffusa da parte degli autori di rendere “più interessante” un articolo escludendo dai risultati i “dati scomodi”, indebolendo però così la pubblicazione stessa, che alla lunga può non reggere alla disamina della stessa comunità scientifica. Prova ne sia che negli ultimi 10 anni il numero di “ritrattazioni” di articoli da parte dei loro stessi autori è decuplicato.

I limiti della peer review

Ma quanti sono gli articoli “adulterati” che non vengono scoperti? Neanche il tanto decantato metodo peer review è utile per scoprirlo. Il biologo e giornalista scientifico John Bohannon ha fatto un test al riguardo, inviando a ben 304 riviste scientifiche indicizzate uno studio sugli effetti di alcuni licheni sulle cellule cancerogene, firmandosi con uno pseudonimo. Ebbene, l’intero studio era totalmente inventato, conteneva errori di progettazione evidenti, e addirittura risultava redatto da un ricercatore di un’Università inesistente. Clamoroso: 157 riviste scientifiche accettarono di pubblicarlo.

Tempo prima, l’allora direttrice del BMJ, Dr. sa Fiona Goodle azzardò un provocatorio ma significativo test di questo genere, inviando a 200 revisori della rivista, l’uno all’insaputa dell’altro, un articolo contenente – volutamente – 8 errori di analisi e interpretazione: non solo nessuno dei 200 esperti individuò tutti gli errori, ma la desolante media degli errori individuati si fermò a due.

Pare che uno dei problemi – paradossalmente – sia la crescita esponenziale del numero dei ricercatori, passati dalle poche migliaia degli anni ’50 ai 7 milioni di oggi: l’obbligo di “pubblicare a qualsiasi costo” ormai governa l’intera vita accademica. La concorrenza è folle, perché – come noto – gli avanzamenti di carriera sono legati anche al numero di pubblicazioni scientifiche firmate.

Un equipe dell’Università di Oxford ha ideato il progetto ComPare, proprio per studiare questi fenomeni fortemente distorsivi della “Evidence-Base Medicine” – che, è bene ricordarlo, non traduce “medicina basata sull’evidenza”, bensì “medicina basata sull’efficacia”, due terminologie ben differenti dal punto di vista epistemologico – e ha analizzato tutti gli studi clinici pubblicati in un periodo di 5 mesi dalle 5 riviste mediche più prestigiose del mondo: solo il 14% era conforme ai protocolli, e nel restante 86% erano stati inseriti “silenziosamente in corso d’opera” ben 357 alterazioni ai quesiti iniziali degli studi. Pazientemente, per ogni trial “truccato” il team coordinato da Ben Goldacre ha scritto una lettera formale al Direttore della rivista “imputata”, evidenziando la non genuinità del processo di definizione dei risultati delle ricerche e chiedendo quindi delle rettifiche, con i seguenti – desolanti – risultati: nel 12% dei casi si sono apportate le doverose modifiche agli studi; nel 60% dei casi il problema è stato ignorato o vi è stato un rifiuto a prenderlo in carico; nel restante 28% dei casi è stata formalizzata per iscritto la più surreale delle risposte, ovvero che “non era necessario intervenire per rettificare, in quanto qualunque lettore attento e diligente si sarebbe accorto lui da solo dell’errore”.

Goldacre – annunciando la futura pubblicazione di uno studio sugli effetti distorsivi di queste pratiche – ha commentato così questo test, prendendo in prestito dei termini dal vocabolario dell’immunologia: “Quando si ‘provoca’ il sistema, le reazioni dicono molto del suo funzionamento. Il nostro intento però non è ‘maligno’: noi vogliamo solo comprendere la patologia”.

Il ruolo delle agenzie di controllo sanitario

Poi c’è capitolo delle agenzie nazionali di controllo sanitario, percepite da molti come un importante baluardo dell’indipendenza scientifica, sono fonte di preoccupazione. Tralasciando il tema sempre attuale – e assai dibattuto – dei conflitti di interessi, limitiamoci ad esaminare quanto è accaduto circa il glifosfato, l’erbicida in assoluto più usato al mondo, sospettato di essere cancerogeno. La IARC – Agenzia Internazionale per la Ricerca sul Cancro, ha recentemente conferrmato questi dubbi, in esito a un’analisi della letteratura scientifica durata un anno, dalla quale sono emerse “prove convincenti” che il glifosfato causasse cancro alle cavie da laboratorio e “prove significative” che esso possa danneggiare il DNA e i cromosomi delle cellule umane. La IARC – che ha tra i suoi compiti quello di fornire all’Organizzazione Mondiale della Sanità elementi solidi per formulare i propri pareri – è nota per il suo altissimo rigore scientifico e per la sua indipendenza, lavora con i migliori scienziati ed esperti di regolamentazione del mondo, e ha una politica sul conflitto di interessi severissima: il suo parere sta facendo molto discutere, soprattutto perché – sullo stesso tema – le più importanti agenzie di controllo sanitario del mondo – quella tedesca, anch’essa serissima, non più tardi di pochi mesi fa – avevano evidenziato risultati esattamente opposti, ovvero contrari a ogni ipotesi di pericolosità e mutagenicità della sostanza. Il punto è che la maggior parte degli enti di regolamentazione è restia ad ammettere che le valutazioni scientifiche implichino comunque delle “scelte” – con riguardo ad esempio alla valutazione di prove contraddittorie, o al grado di obiettiva affidabilità riconosciuto a uno studio, e questo per vari motivi: perché la scienza è un autorevole fonte di auto-legittimazione; perché il desiderio implicito della scienza stessa è che ogni valutazione basata su evidenze appaia sempre obiettiva, affidabile e consensuale; perché – infine – riconoscere questi bias equivarrebbe a stendere un allarmante velo di dubbio su centinaia di migliaia di precedenti pareri, scenario rischiosissimo anche in termini di potenziale impatto sulla pubblica opinione.

Un orizzonte lontano

Concludendo, il dibattito sui “correttivi” da apportare al sistema è acceso, e i suggerimenti si sprecano: dalla pubblicazione obbligatoria dei risultati negativi, a linee di finanziamento finalizzate appositamente alla verifica dei risultati di precedenti studi, a codici etici impegnativi per i ricercatori, a criteri più rigidi per le riviste scientifiche. Ma l’orizzonte di una scienza sempre davvero “credibile” pare ancora lontano.

Il rispetto – sacrosanto – dovuto al metodo scientifico si basa anche sulla presunzione che la scienza sia capace di “correggersi da sola” quando sbaglia.
Lo scenario che abbiamo dinnanzi pare invece essere quello di una comunità scientifica autoreferenziale, affannata dalla corsa ai finanziamenti e concentrata quindi sull’ottenere risultati positivi “costi quel che costi”; di ricercatori al governo di una scienza esatta in virtù non già di risultati obiettivi, bensì della percezione stessa che la scienza ha di se; di un “mercato” della ricerca non genuino, che restituisce a tutti noi risultati inautentici, sui quali poi noi stessi dovremmo basare le nostre quotidiane certezze.

La speranza è che questo sistema di cose prima o poi possa cambiare. Grazie alla scienza stessa, ovviamente. Infallibile per molti, ma invece intrinsecamente fallace, come il metodo scientifico e le statistiche dimostrano “al di la di ogni ragionevole dubbio”.


EPIFANIA, OMOFOBIA PORTALA VIA…

Ha al centro un forte concetto di responsabilità sociale – e una particolare sensibilità per la comunicazione non convenzionale – l’iniziativa della squadra di basket e rugby di Bassano del Grappa, che lanciò il calendario “Basta il Colore” e a 1 anno dall’avvio del progetto continua a gestire la propria pagina Facebook, facendo informazione sul tema dell’omofobia e della difesa dei diritti delle persone con diverso orientamento sessuale.
Tutto iniziò con la morte per suicidio di un ragazzo – peraltro pare eterosessuale – di un liceo di Roma: Andrea, un adolescente con una irrituale passione per il colore rosa, che gli costò derisioni, offese e minacce, fino alla sua decisione di compiere il tragico ed estremo gesto, uccidendosi a quindici anni.
Nessuna delle iperattive associazioni a favore della famiglia tradizionale emise un solo comunicato stampa di cordoglio: si sa, le persone in odore di “diversità” sono cittadini di serie B, il concetto a certe latitudini è dato per acquisito.
Ci pensarono però i ragazzi sportivi di Bassano a conquistare l’onore delle cronache, con un gesto spontaneo e molto fresco: crearono un calendario dedicato proprio a gay, lesbiche e bisex. Loro, prototipo del maschio etero palestrato e sportivo, al grido di “Basta il Colore” si sono fatti immortalare a torso nudo in una serie di scatti ironici e simpaticissimi, utilissimi per far riflettere su quanto essere “diversi” – che si tratti di omosessuali, anziani, neri, transessuali – possa ancora nella società italiana di oggi costituire un problema, un handicap. Sul sito www.bastailcolore.it dopo il progetto del calendario, purtroppo non ripetuto per il 2016 – perché? È un vero peccato… – resta però la possibilità di acquistare una t-shirt celebrativa – rosa, ovviamente – i cui proventi vanno interamente in beneficenza – e di connettersi ai loro Social dove prosegue l’attività di sensibilizzazione.
La campagna era centrata sull’azzeccatissima frase “Non esistono persone diverse, esiste solo un modo diverso di guardarle”, utile risposta per quell’amministratore locale del Lazio che pochi giorni fa sosteneva che – udite udite – la colpa dello stigma e delle violente discriminazioni a danni di bambini figli di coppie non tradizionali è attribuibile non già a chi le compie – processo di auto-assolvimento dalle responsabilità…? – bensì ai bambini stessi: se non fossero figli di “quella gente” il problema non esisterebbe. Quindi la colpa non è di frammenti di una società retrograda, incivile e razzista, bensì di chi le offese le subisce: in che modo strano devono guardare dal nord-Europa questo nostro modo così poco cristiano di giocare sulla vita e la dignità delle persone…
“In una società come la nostra – ha dichiarato un portavoce della squadra – costruita intorno all’apparenza, serve davvero molto coraggio per essere se stessi. Non importa che tu sia una bella ragazza con i capelli biondi o un adolescente a cui piace studiare, non importa che tu sia un signora anziana, o una donna incinta, non importa nemmeno che la gente pensi che chi è affetto da sindrome di Down è limitato, o che fare le pulizie sia un lavoro umiliante, da perdenti. Tutti rischiano di non essere accettati per come sono, ma la persona che deve imparare ad accettarsi innanzitutto sei Tu”.
La risposta di segno uguale ma opposto a questa straordinaria operazione di speranza è stata la recente istituzione in Lombardia – da parte delle associazioni contro le coppie gay, sostenute da alcuni politici pronti a qualunque cosa pur di accrescere il proprio bacino elettorale – di un numero verde non già a favore dei maltrattati, bensì, in un perfetto rovesciamento di scenario, per “segnalare qualunque iniziativa nelle scuole che metta a rischio il concetto di famiglia tradizionale”.
Già, la scuola, la soluzione di ogni problema: se solo nelle nostre aule si promuovesse un’educazione civica e sessuale degna di questo nome e inclusiva del concetto di diversità e di libera scelta in campo sessuale, pur nel giusto rispetto dei “tempi” di ogni fascia d’età, forse certi concetti non suonerebbero più così “strani” – la diversità, si sa, fa paura… – e certe persone retrograde e attaccate con le unghie alla loro visione medioevale del mondo non avrebbero più lo spazio che neppure nella cattolicissima Spagna oggi hanno più, e siederebbero finalmente al loro posto: dalla parte sbagliata della storia.
In Italia, invece, continuano ad assillarci con i loro vergognosi distinguo: “L’hanno picchiato, ma se l’è cercata”, “Si è ucciso, ma guarda a che punto era arrivato”, “E’ normale che un bimbo venga offeso e discriminato, guarda com’è gay!” e via discorrendo, rallentando lo sviluppo dell’intera nazione e facendoci guardare con commiserazione da tutti i paesi sviluppati nella comunità internazionale. Rispondono a questo atteggiamento proprio i ragazzoni di Bassano, quando dicono: Per questi motivi abbiamo deciso di trasmettere un messaggio e di investire nel nostro territorio, sulla salute della nostra società, che di fronte ad un’omofobia e a un bullismo che uccidono, semplicemente resta a guardare.
Noi abbiamo scelto di fare qualcosa di simbolico ma concreto per dare il nostro piccolo contributo affinché il nostro Paese impari ad essere più civile e accogliente”
Tutto ciò acquista un significato particolare oggi, giorno dell’Epifania, che nella tradizione Cristiana coincide con la prima “manifestazione” di Gesù in pubblico, la rivelazione dinnanzi ai Re Magi. Un fenomeno in senso laico ben rappresentato ad esempio dalla raccolta di racconti di James Joice “Dubliner”, perchè nella vita accade sempre qualcosa, una rivelazione improvvisa, piccole e grandi cose in grado di riportarci a una profonda riconsiderazione di noi e della nostra vita: l’epifania sulla nostra salute causata da una grave malattia della quale abbiamo patito gli effetti, l’epifania sulla bellezza del mondo suscitata da un paesaggio mozzafiato, l’epifania sull’importanza degli affetti familiari causata da un brutto incidente nel quale è stato coinvolto un nostro parente.
La speranza è che ci riflettano tutti, specie coloro che bestemmiano ogni giorno il nome di Dio con il loro razzismo intollerante.
 


COMUNICAZIONE SOCIALE: COSA È CAMBIATO?

Risale al 2005 la pubblicazione da parte della RAI (ERI) del contributo di Toni Muzi Falconi al primo atlante italiano della comunicazione sociale, cosa è cambiato?  La rilettura, a dieci anni di distanza, rimane ancora di forte attualità.
In genere considero di cattivo gusto pubblicare a dieci anni di distanza un testo, come se intendessi dimostrare che oggi nulla è cambiato e che se avevo ragione allora, a maggior ragione, ho ragione anche oggi. Nulla di più lontano dalle mie intenzioni. Mentirebbe sapendo di mentire chi sostenesse che nulla è cambiato nella comunicazione sociale nell’ultimo decennio. E’ cambiato tutto (soggetti, canali, piattaforme, strumenti, tempi… quasi tutto, salvo i vizi culturali). Mi è capitato di rileggere il testo qualche giorno fa inviatomi da una amica che l’aveva conservato e che mi ha scritto: “Caro Toni, forse ricordi questo articolo di dieci anni fa. Te lo rimando perché ti so disordinato e forse neppure ti ricordi di averlo scritto. Io invece l’ho conservato e me lo sono tenuto stretto perché, al di là dei tuoi usuali paradossi, mi è stato da guida e di ispirazione in questo decennio e ritengo che, pur tenendo conto dei tanti cambiamenti, la sua struttura culturale e informativa possa essere ancora di guida e ispirazione per tanti giovani. Grazie”. L’autrice, che preferisce non essere citata, è oggi responsabile esecutiva (CEO) di una delle migliori e più reputate organizzazioni non profit in Italia. Me lo sono riletto e certamente oggi scriverei cose diverse, ma penso che tutto sommato una lettura possa essere utile, e non solo ai giovani.


 
Dieci anni fa (2005), nel primo rapporto sulla comunicazione sociale in Italia edito dalla Rai, scrissi:
Se per comunicazione sociale (1) intendiamo (anche) le campagne di informazione di massa realizzate da amministrazioni e organizzazioni pubbliche, orientate per lo più a modificare opinioni, atteggiamenti, decisioni e comportamenti dei destinatari, possiamo tranquillamente affermare che (con le dovute eccezioni che confermano la regola) si tratta in larga parte di attività che oggi potremmo definire socialmente irresponsabili poiché:

  • drenano inutilmente risorse economiche pubbliche
  • sono prive di indicatori di valutazione e non sono soggette a dimostrazione empirica di efficacia
  • contribuiscono ad aggravare l’inquinamento già elevato dell’ambiente comunicativo (2).

Ecco due fra le principali ragioni dell’inefficacia di questo modo di fare comunicazione sociale (meglio sarebbe dire pubblicità):

  • un messaggio è efficace (contribuisce cioè a modificare opinione, atteggiamento, decisione e comportamento del destinatario) quando la fonte è credibile nell’ambito tematico richiamato dal messaggio: circostanzadavvero rara per i soggetti che fanno comunicazione sociale. Per capirci, non sarà credibile se la campagna contro il fumo la fanno i medici, categoria professionale a maggior tasso di tabagismo o lo Stato, che ricava il 70% circa del valore di ciascun pacchetto di sigarette venduto e finanzia la coltivazione del tabacco;
  • si tratta quasi sempre di campagne imperniate su messaggi che usano comunicazione a e non con. Uni direzionalità e asimmetria – anche per la crescente saturazione indotta dall’inquinamento comunicativo – richiedono, peraltro, risorse sempre più ingenti per attirare l’attenzione dei destinatari e normalmente queste risorse non ci sono.

Per molti anni e in molte, troppe circostanze, governi, enti territoriali, associazioni hanno ritenuto utile tematizzare erga omnes, nella perversa convinzione che la tambureggiante ripetizione avrebbe alla fine giovato: da qui le ripetute e inutili (quando non dannose) campagne contro il fumo, la droga, l’alcool, la guida pericolosa, i rifiuti, la raccolta differenziata, l’obesità … tutte iniziative da stato etico con obiettivi decisi a priori che – nella migliore delle ipotesi e secondo la migliore e antica teoria del marketing – “ascoltano” le aspettative del destinatario soltanto per meglio confezionare il messaggio unilaterale e persuasivo da inviare.
Da questo punto di vista, la cosa più stupefacente è lo sguardo talvolta interrogativo di operatori di marketing e di pubblicitari, come a dire: ma se non si ascoltano i destinatari per sapere come meglio confezionare il messaggio, che si ascoltano a fare?
Domanda pienamente legittima, ma che la dice lunga sul livello raggiunto di pervasività di una cultura della comunicazione diretta a e non con.
Sfera pubblica, relazioni pubbliche e comunicazione sociale
Nelle lingue germaniche e slave il termine relazioni pubbliche indica relazioni con il pubblico, ma per alcuni studiosi europei (3), il termine pubblico detiene valenze diverse rispetto a quelle implicite nell’espressione anglosassone public relationsintese come relationships with publics. Infatti, la corretta espressione tedesca è offentlichkeitsarbeit, che letteralmente vuol dire “lavoro pubblico”, declinato come “lavorare in pubblico, con il pubblico e per il pubblico” (4).
È una questione non solo linguistica, ma soprattutto culturale. Offentlichkeit in realtà è sfera pubblica, e la sua equiparazione al termine pubblico ne fa perdere una essenziale dimensione analitica, come affermano il danese Jensen (5), prima ancora il tedesco Oeckl (6): una dimensione riferita a valori ritenuti pubblicamente rilevanti.
Il ragionamento sottostante è che in Europa le relazioni pubbliche non trattano solo di relazioni con i diversi pubblici, ma sviluppano questi rapporti in pubblico nel pubblico e per il pubblico. In più, come hanno teorizzato Ronnenberger e Rohl (7), le relazioni pubbliche vanno anche misurate in base alla qualità e alla quantità di sfera pubblica che contribuiscono a produrre.
Si tratta di indicatori che, a loro volta, hanno a che fare con il concetto di Offentliche Meinung, che si traduce come “opinione pubblica”, intesa come figura di autorità politica, sviluppatasi nel diciannovesimo secolo in opposizione alla dominazione monarchica, e che ha costituito il fondamento per la creazione delle democrazie (Habermas) (8), e non come aggregazione di opinioni individuali emergente dagli studi di Lippmann (9) o dai sondaggi di opinione (Price) (10).
Le relazioni pubbliche dunque, secondo gli studiosi europei, svolgerebbero una funzione democratica analoga al giornalismo poiché entrambi contribuiscono alla libera diffusione di informazioni e allo sviluppo della sfera pubblica sia nella sua quantità (quante persone sono coinvolte nella vita pubblica?) sia nella sua qualità (qual è il livello al quale discutiamo di argomenti di interesse comune?).
Se vogliamo riferirci alla situazione italiana, si potrebbe tracciare un parallelo fra quest’accezione di sfera pubblica e quella dicapitale sociale.
Lo stretto rapporto fra relazioni pubbliche e sfera pubblica porta a focalizzare l’attenzione sul concetto di legittimità sociale, un concetto centrale alle relazioni pubbliche. In realtà, se la legittimità sociale viene considerata dal punto di vista dell’organizzazione e quindi della teoria sistemica (11) delle relazioni pubbliche, è possibile affermare che quest’apparente specificità europea – pur legittimata dalla stereotipata e sempre meno convincente distinzione fra un’anglosassoneshareholder society e una stakeholder society di matrice europea – proprio non ha ragione di essere, a maggior ragione se ci si riferisce ai concetti come la license to operate e, ancor di più, la social responsibility delle organizzazioni che, per quanti sforzi facciano gli studiosi europei, derivano entrambi dalla cultura anglosassone, così come anche la piattaforma politica -non casualmente definita stakeholder society – con la quale Tony Blair ha vinto per due volte le elezioni nel Regno Unito.
Sfera pubblica, relazioni pubbliche e comunicazione del settore pubblico e privato
È peraltro sicuro che nei paesi anglosassoni, per tutto il secolo scorso, le relazioni pubbliche hanno privilegiato il settore privato (Olaski) (12), ma questo non vuol dire che non abbiano contribuito a produrre quantità e qualità di sfera pubblica. Infatti, il parallelo: settore pubblico dell’economia =  produzione di sfera pubblica e settore privato dell’economia = produzione di sfera privata, rappresenta un equivoco inaccettabile e denota una visione molto semplificata, quando non semplicistica, della realtà.
In sostanza, l’accentuazione di una specificità europea delle relazioni pubbliche legata alla produzione di sfera pubblica è una argomentazione forse buona per aggregare una comunità scientifica e professionale un po’ dispersa del vecchio continente e stringerla intorno a una pretesa distinzione da quella anglosassone, ma è poco fondata nei fatti.
Basti ricordare che il presidente Wilson, eletto su una piattaforma non interventista, ha potuto decidere l’intervento americano nella prima guerra mondiale soltanto a seguito degli ottimi risultati di un’articolata e capillare iniziativa di comunicazione (promossa dal Governo, ma con ampi apporti del settore privato) durata un anno e promossa dal CPI (Committee for Public Information) con il supporto professionale di alcuni dei migliori relatori pubblici dell’epoca (George Creel, Carl Byor, Edward Bernays).
Il progetto si imperniava sui four minute men, 250 mila volontari di ogni ceto e livello sociale, appositamente formati, che coglievano ogni occasione per trasferire a vicini, commensali, co-spettatori di teatro o cinema, collaboratori, amici ecc., e in quattro minuti, convincenti argomentazioni sulle ragioni di un intervento ormai indilazionabile (13).
Oggi il modello four minute men, opportunamente adattato alle varie circostanze e agli obiettivi fissati, viene adottato dalle migliori organizzazioni sociali, pubbliche e private perché ritenuto capace di mobilitare i pubblici influenti intorno a finalità e traguardi condivisi, producendo così un formato assai efficace di comunicazione sociale nel senso di produzione di quantità e di qualità di sfera pubblica.
Per non parlare del New Deal del presidente Roosevelt, il cui successo fu in buona parte da attribuire allo sforzo capillare di rivisitazione e rivalutazione narrativo/comunicativa della vita agra e di main street America; o del Piano Marshall, attuato nella seconda metà degli anni quaranta e primi cinquanta; oppure ancora della pervasiva attività, si direbbe oggi di “esportazione” dei valori dell’american way of life nei Paesi europei, realizzata dal United States Information Service (Usis), e della quale l’Italia è certamente stata soggetto stabile dal 1943 fino almeno ai primi anni ’70.
Detto questo, è certo verosimile che in Europa (e sicuramente in Italia) i relatori pubblici che operano nel settore pubblico sono più numerosi di quelli che operano nel settore privato, così com’è altrettanto verosimile che le risorse complessive investite per comunicare dal settore pubblico europeo (e sicuramente in Italia) sono superiori di quelle investite dal settore privato.
Ma questa non pare essere una ragione sufficiente per sostenere il principio generale che la comunicazione del settore pubblico contribuisce ad accrescere qualità e quantità della nostra sfera pubblica (o, se si preferisce, del nostro capitale sociale) più di quanto non faccia la comunicazione del settore privato.
Un possibile approccio alla comunicazione capace di incrementare la sfera pubblica
L’organizzazione (privata, pubblica o sociale) che si pone una finalità sociale – nel senso di voler contribuire ad arricchire la “sfera pubblica” – farebbe meglio, per prima cosa, a distinguere nettamente fra finalità e obiettivi:

  • finalità sono le ragioni che la tengono insieme:
    – missione (cosa sono oggi)
    – visione (dove voglio essere fra tre/cinque anni)
    – strategia (come intendo passare dalla prima alla seconda)
    – valori (che intendo rispettare nell’attuazione della strategia)
  • obiettivi sono invece i diversi traguardi, raggiungendo i quali l’Organizzazione persegue coerentemente le sue finalità.

Normalmente un’organizzazione è ben consapevole che la finalità perseguita produce conseguenze (negative o positive) su altri soggetti, altrimenti non si capirebbe cosa ci stia a fare, e che le finalità di questi o di altri, a loro volta, producono o possono produrre conseguenze sull’Organizzazione.
Quindi, prima di definire gli obiettivi specifici da perseguire, conviene ascoltare quei soggetti sui quali produce conseguenze, per tenere conto (ove possibile) delle loro aspettative, riducendo così le complessità e i tempi di attuazione degli obiettivi stessi.
Non sempre l’organizzazione, ascoltati questi soggetti, potrà o vorrà tenere conto delle loro aspettative, ma sicuramente non potrà non esserne consapevole, in questo modo facendosi un’idea abbastanza verosimile degli ostacoli cui andrà incontro per raggiungere gli obiettivi stabiliti. Questi soggetti, sui quali l’Organizzazione produce conseguenze in virtù della sua finalità, detengono per ciò stesso (o pensano di detenere) un titolo ad interloquire e si chiamano quindi stakeholder, soggetti consapevoli della finalità dell’Organizzazione e interessati (in positivo o in negativo) a relazionarvisi.
Quest’accezione di stakeholder ha poco a che vedere con quella generica e olistica, oggi di moda, che comprende indistintamente tutti e che, dal punto di vista della comunicazione, non aiuta la sempre più indispensabile individuazioneuno-a-uno degli interlocutori rilevanti dell’Organizzazione: non solo per ridurre l’inquinamento comunicativo, ma anche e soprattutto per aumentare l’efficacia della comunicazione.
Proseguendo nel ragionamento, se poi l’Organizzazione manifesta la sua finalità con un messaggio (sia pure) unilaterale, pushe persuasivo – sempre trasparente secondo i quattro criteri già segnalati (identità del mittente, interesse rappresentato, obiettivo fissato, modalità operative nel perseguirlo), potrà anche risvegliare consapevolezza e interesse in ulteriori potenziali soggetti stakeholder.
Con gli stakeholder così accuratamente identificati, proprio perché consapevoli e interessati, la relazione sarà diretta, pull, interattiva, tendenzialmente simmetrica e richiederà l’impiego di limitate risorse economiche.
Definito l’obiettivo da perseguire, l’organizzazione identificherà e comunicherà con (e non a) altri interlocutori:

  • coloro che influenzano le dinamiche delle variabili esterne che vanno a determinare se l’obiettivo specifico viene raggiunto (influenti);
  • coloro che, in quanto considerati leader di opinione, possono direttamente influenzare i comportamenti dei destinatari finali (leader di opinione);
  • i destinatari finali stessi.

I primi sono rilevanti poiché nessun ambiente comunicativo si realizza sotto vuoto, esente dall’influenza delle sempre più intense dinamiche sociali, economiche, culturali e tecnologiche. È quindi importante identificare le variabili prioritarie che determinano il raggiungimento dell’obiettivo fissato e per ciascuna di queste, i soggetti che ne possono influenzare le dinamiche (influenti).
I secondi sono rilevanti poiché riconosciuti dai destinatari finali come “modelli” e “testimoni” della cui opinione e dei cui comportamenti conviene tener conto.
I terzi sono coloro a cui l’organizzazione in ultima analisi si rivolge affinché mutino opinioni, atteggiamenti, comportamenti o decisioni (utenti, clienti, consumatori, elettori, cittadini…) facendo conto sull’evoluzione favorevole delle variabili esterne, ottenuta anche grazie alle relazioni intrattenute con gli influenti, e sulla capacità di orientamento esercitata dagli opinion leader, con i quali l’organizzazione ha nel frattempo dialogato.
Se per gli stakeholder attivi era sufficiente una relazione diretta, un dialogo negoziale e per quelli potenziali era necessario un solo primo messaggio persuasivo e unidirezionale per attirarne l’attenzione e convincerli ad emigrare fra i primi, per gli altri tre gruppi d’interlocutori indicati, le modalità comunicative sono inevitabilmente diverse e maggiormente articolate.
Per gli influenzatori delle issue e per i leader d’opinione dei destinatari finali, è necessaria certamente una comunicazione persuasiva e retorica che si proponga di attirare la loro attenzione, ma è anche opportuno che, per entrambi, si tratti il più possibile di una comunicazione interattiva e tendenzialmente simmetrica, poiché gli argomenti dovranno essere molto fattuali (per i primi), se si desidera che gli influenti decidano di orientare le dinamiche delle variabili, e molto convincenti per i secondi, se si vuole che, a loro volta, gli opinion leader si rendano attivamente portavoce del cambiamento presso i destinatari finali.
L’organizzazione dovrà sforzarsi di mobilitare influenzatori e opinion leader, con l’aiuto e il supporto degli stakeholder, affinché orientino verso l’obiettivo da perseguire le dinamiche delle issue rilevanti e le opinioni dei destinatari finali.
La mobilitazione degli interlocutori (in gergo call to action) è il terreno professionale prediletto del cosiddetto below the line(le discipline della comunicazione d’impresa come le relazioni pubbliche, la promozione, il direct response), anche se talvolta supportato, in una visione integrata della comunicazione, dalla pubblicità.
Infine, nella fase ultima di comunicazione con i destinatari finali, l’organizzazione farà bene a sostenere l’azione degliopinion leader con iniziative di comunicazione integrata, e questa volta sarà verosimilmente la pubblicità ad essere prevalente e le altre discipline ad operare di supporto. Questo purchè sia sempre garantita al destinatario finale, con opportuni richiami e incentivi, la possibilità di interagire e di restituire un feed-back alla comunicazione ricevuta.
Anche se il marketing virale – che prevede la mobilitazione dei “moltiplicatori” – è oggi in auge fra i “pentiti” della pubblicità commerciale unidirezionale, erga omnes e asimmetrica, sono in pochi a ricordare che, fin dall’episodio dei four minute mengià citato e risalente alla prima guerra mondiale, l’attivazione di “influenti”, di opinion leader, di moltiplicatori o di attivisti, rientra fra le più classiche leve operative delle relazioni pubbliche e connota oggi la migliore comunicazione sociale: meno visibile erga omnes, e quindi più efficace e meno inquinante.
Un esempio recente è il mutamento di strategia e gli straordinari risultati ottenuti negli Stati Uniti dal NAMI (National Association of Mental Illness).
Per decenni l’attività comunicativa del NAMI si era concentrata prevalentemente sulla raccolta di disponibilità dei media a concedere spazi e tempi per l’attivazione di campagne di educazione al rispetto dei malati mentali e di sensibilizzazione sulle loro condizioni di vita. Erano campagne che usavano testimonial famosi anche per raccogliere fondi, così come fanno la gran parte delle organizzazioni non profit nel nostro Paese.
Da qualche tempo la strategia nel NAMI è cambiata ed è diventata assai più diretta e aggressiva: in ogni sede locale i malati e le loro famiglie vengono mobilitati per premere sugli eletti del territorio, affinché producano leggi che stanzino i fondi necessari a supplire alla drammatica carenza di assistenza.
Gli eletti che rispondono positivamente, vengono mobilitati affinché orientino le issue verso gli obiettivi dati. La rete internet, usata anche come Intranet (si pensi ai 2 mila bloggers del candidato democratico Dean e ai 200 milioni di dollari raccolti grass root via Internet per la sua campagna elettorale) rappresenta il principale canale di comunicazione degli attivisti della NAMI. Una comunicazione che in questo caso è pull, interattiva e simmetrica.
Insomma, una modalità assai più impegnativa, meno affidata alla bontà d’animo dei mass media e alla pigrizia dei responsabili delle organizzazioni, ma assai più incidente ed efficace.
Come si può arguire dal percorso appena descritto, il modello proposto per un’efficace comunicazione sociale è assai più complesso di quello classicamente unidirezionale e asimmetrico erga omnes, al quale si è quasi sempre fatto riferimento, ma non per questo è più oneroso: al contrario!
È un modello “inclusivo” che:

  • tiene conto delle opportunità offerte dalle tecnologie dell’informazione e della comunicazione e, soprattutto, da Internet come nuovo ambiente di relazione
  • assorbe le spinte esterne verso una maggiore responsabilità sociale della comunicazione, e quelle dei soggetti committenti verso una maggiore rendicontazione e misurazione delle attività comunicative – stimola la graduale e inevitabile trasformazione delle organizzazioni da “comunicative” a “comunicanti”. Infatti, anziché limitarsi a rafforzare (in parte ghettizzandola) la funzione organizzativa verticale dedicata espressamente alla comunicazione, l’organizzazione dovrà trasferire a ogni sua funzione trasversale, competenze e abilità comunicative che le rendano capaci di sviluppare i rispettivi sistemi di relazione con modalità coerenti e condivise.

Le pratiche migliori tendono quindi, oggi, a considerare la comunicazione come strumento operativo per sviluppare e governare sistemi di relazione interattivi e tendenzialmente simmetrici, che mutano tanto i comportamenti dei pubblici influenti, quanto quelli della stessa Organizzazione.
Il coinvolgimento diretto degli stakeholder, degli influenti e degli opinion leader, richiede all’operatore di comunicazione sociale forti competenze di natura relazionale, ed è assodato che la relazione uno-a-uno o uno-a-pochi è di gran lunga la modalità più efficace per indurre consapevolezza, comportamenti e per modificare opinioni, atteggiamenti e decisioni.
L’obiettivo di un’efficace comunicazione sociale, dunque, è duplice: non soltanto aumentare genericamente la consapevolezza di qualcosa affinché mutino i comportamenti, ma anche effettuare una ‘call to action’ specifica mobilitando alla causa tutti i possibili soggetti moltiplicatori.
Di conseguenza, anche la valutazione/misurazione della singola iniziativa non si misurerà più soltanto con gli output (quanti annunci, quanti ritagli) o con gli outakes (quanti ricordi spontanei o guidati di messaggi), ma anche con gli outcome (quanti fondi raccolti, quante sigarette consumate in meno, quale regolamentazione ottenuta o modificata, quanti comportamenti mutati) e, soprattutto, con gli outgrowth (come è cambiata la qualità della singola relazione e quindi, quanta e quale sfera pubblica in più è stata prodotta).


Note
(1) Che cosa s’intende per comunicazione sociale? Per Mancini “proviene dalle istituzioni pubbliche, private e semipubbliche e si occupa di argomenti di interesse generale sui quali esiste una controversia relativa”. Faccioli distingue fra “comunicazione sociale attuata dai soggetti pubblici e comunicazione di solidarietà sociale attuata da soggetti non profit”, mentre Marsocci parla di “attività che riguardano la circolazione delle informazioni attivata da parti sociali – le associazioni – e che abbia per oggetto, temi d’interesse generale”. Per l’autore comunicazione sociale è quella che va ampliare e ad arricchire la “sfera pubblica”, chiunque ne sia protagonista, organizzazione sociale, privata o pubblica.
(2) Da anni studiosi e operatori parlano di saturazione e di overdose da comunicazione, ma i dati più allarmanti provengono annualmente dalla ricerca how much info, pubblicata da www.sims.berkeley.edu/research/projetcs/how-much-info-2003, dalla quale si desume che ciascun essere umano del nostro pianeta, nel solo 2003, è stato esposto a 800 milioni di bytes di informazione con un incremento annuo del 30% dal 2001! Fra le tante implicazioni sulle persone (accorciamento dei tempi di attenzione, disincentivazione dagli approfondimenti, riduzione delle capacità di selezionare priorità…), vi è anche una seria preoccupazione verso la diffusione di una dipendenza comportamentale dai media: passiva da parte del pubblico e attiva da parte di celebrities di ogni tipo (politici, attori, imprenditori, manager…), con i comunicatori in veste di untori quando non di spacciatori-pusher (www.mediapost.com/dtls_dsp_mediamag.cfm?magID=250554). Pur senza aderire a crescenti posizioniluddiste di rifiuto aprioristico verso questa recente esplosione quanti/qualitativa di comunicazione/informazione, è comunque importante per studiosi e operatori essere pienamente consapevoli del fenomeno, ancora tutto da studiare e approfondire, anche per definire, condividere e adottare processi sostenibili di progressivo disinquinamento. Una sicura implicazione è l’esigenza di operare affinché un sempre maggior numero di pratiche comunicative migri dall’essere, come sono oggi, prevalentemente uno-a-molti, unilaterali, asimmetriche, push e orientate ai destinatari finali, fino a diventare pratiche uno-a-pochi, multilaterali, tendenzialmente simmetriche con i pubblici influenti (soggetti non necessariamente consapevoli e interessati a una relazione, ma che l’organizzazione ritiene influenti sul raggiungimento dei suoi obiettivi) e che si sforza di coinvolgere con modalità trasparenti: declinando sempre la propria identità, l’interesse rappresentato, l’obiettivo perseguito e il percorso che intende attuare per raggiungerlo). E questo in parallelo ad una comunicazione uno-a-uno, bilaterale, pull e simmetrica con gli stakeholder (soggetti già consapevoli e interessati ad una relazione con l’organizzazione: they hold a stake).
(3) Vedi Bled Manifesto di B. Van Rule e D. Vercic 2002, accessibile, anche in lingua italiana digitando Bled Manifesto dal motore di ricerca del sito www.ferpi.it.
(4) Nessmann K. (2000), “The origins and development of Public Relations in Germany and Austria in Perspectives in Public Relations research” Routledge, London-New York
(5) Jensen J. (2000), “Legitimacy and Strategy of different companies. Public Relations research. An International Perspective”. London
(6) Oeckl A. (1976), Handbuch der Public Relations. Munchen, Suddeutscher Verlag
(7) Ronnenberg F., e Rohl M. (1992), Theorie der Public Relations, Westdeutscher Verlag
(8) Habermas J. (1962), Strukturwandel der Offentlichkeit, Darmstadt, Hermann Luchterhand Verlag
(9) Lippmann W. (1930), Public Opinion, McMillan, New York
(10) Price V. (1992), Public Opinion, Newbury Park, Sage
(11) La teoria sistemica è una delle tre principali teorie delle relazioni pubbliche. Le altre due sono quella critica e quella retorica. Per il “sistemico” Grunig ogni organizzazione, per avere successo deve integrarsi armonicamente nell’ambiente circostante e per fare questo con efficacia deve conoscere e interpretare i valori e le aspettative dei suoi pubblici influenti prima ancora di definire i traguardi specifici dell’organizzazione, così da selezionare obiettivi effettivamente raggiungibili. Per il “retorico” Heath, la “rappresentazione di un argomento” (advocacy) da parte di una organizzazione è parte necessaria della creazione di senso e conoscenza, ha a che fare sia con i processi che con i contenuti del “discorso pubblico” attribuendo voce paritaria a tutti i partecipanti con interesse al dialogo. Un dialogo imperniato su fatti (epistemologia), valutazioni (assiologia) e scelte politiche, di prodotti e di servizi (ontologia). Per i “critici” Ewen, L’Etang, Olasky, nessuna teoria potrà mai impedire ai poteri “forti” di piegare e di manipolare le coscienze delle persone e le relazioni pubbliche rappresentano nella nostra società la massima espressione di questo esercizio. Nel 2001, pubblicato da Sage Publications Inc., e curato da Robert L. Heath (campione riconosciuto dell’approccio ‘retorico’, professore all’Università di Houston), è uscito un fondamentale volume dal titolo – assai poco pretenzioso – “Handbook of Public Relations”, nel quale i massimi esponenti delle tre ‘scuole’ tentano di individuare i “paletti” per un approccio teorico comune. Il volume, non casualmente, si apre con un efficace saggio di James Grunig, il maggior teorico contemporaneo delle relazioni pubbliche, nel quale rivede il suo celebre modello “simmetrico” accogliendo le giuste osservazioni critiche dei suoi colleghi sia “retori” e “critici”, fino a sostenere – lui che ha teorizzato l’approccio “sistemico” (1984) partendo dalle relazioni pubbliche come scienza della comunicazione – che il cuore delle relazioni pubbliche è – in effetti – nella “relazione” (e con questo dando soddisfazione ai “retori”) e che la “simmetria” (la condizione che a suo avviso rende davvero efficaci le relazioni pubbliche) è solo tendenziale e si ottiene soltanto se e quando il relatore pubblico esercita in eguale misura le sue abilità persuasive nel convincere la coalizione dominante interna ad adeguarsi alle aspettative dei pubblici influenti come nel convincere i pubblici influenti ad adeguarsi alle aspettative della coalizione dominante interna (dando così soddisfazione ai seguaci dell’approccio “critico”). La teoria generale di Grunig (elaborata inizialmente nel 1984, poi rielaborata nel 1992 e infine rivisitata e ripresentata nel 2002) parte da una analisi storica delle relazioni pubbliche che identifica quattro modelli applicativi prevalenti, tutti ancora oggi largamente praticati (salvo l’ultimo, si intende). Il primo modello è quello “press agentry” o “publicity”, largamente presente nella pratica odierna, avviato a metà ottocento da P.T. Barnum. Non c’è attore, sportivo, cantante, imprenditore di grido, politico, che non abbia il suo “press agent” per “occupare” lo spazio dei media – facendo leva sulla relazione con il giornalista – e, indirettamente, l’attenzione del pubblico, ma non necessariamente il suo consenso o la sua comprensione. È un modello che esalta – sì – il ruolo dei media, ma che denota implicitamente una considerazione piuttosto limitata dell’autonomia professionale del giornalista e della sua funzione di “quarto potere” – a tutela della integrità del lettore in una moderna democrazia rappresentativa. L’importante, infatti, è che la notizia diffusa sia perlomeno verosimile, poiché quando anche in un secondo momento si rivelasse non vera, raramente un giornale ci ritornerà su per avvertire il lettore dell’errore commesso. Si pensi ad esempio alla cosiddetta “politica dell’annuncio”, politica prevalente ancora oggi in molte organizzazioni, società finanziarie e, soprattutto, forze politiche, o alla pervasività del gossip… Il modello è a una via (l’informazione viaggia dal press agent al giornalista) ed è asimmetrico (il giornalista dipende, sotto molti aspetti, dal press agent). Il secondo modello è quello della “public information”, avviato ai primi del secolo scorso da Ivy Lee, considerato uno dei padri fondatori delle relazioni pubbliche. In questo modello la funzione del professionista delle relazioni pubbliche è, ancora una volta, soprattutto quello di produrre e diffondere informazioni ai giornalisti: ma questa volta le informazioni devono essere fattuali e consapevolmente orientate non solo a catturare l’attenzione, ma anche a influenzare l’opinione pubblica in favore degli obiettivi dell’organizzazione committente. Oggi si può dire che questo sia il modello prevalente nella parte più avanzata del settore pubblico, delle istituzioni e fra gli operatori finanziari più avveduti. In questo modello, il ruolo del giornalista è di chiedere e ricevere le informazioni più dettagliate possibili, di valutarle, di interpretarle e di decidere se e come, sia pure nell’ambito di determinate regole condivise, renderle note ai suoi lettori. Fra operatore di relazioni pubbliche e giornalista si innesca una relazione di fiducia e di interdipendenza. È un modello sempre a una via (chi comunica persegue soltanto il suo obiettivo e attribuisce scarso peso al feed-back se non in chiave di miglioramento per la performance successiva), ma è comunque un modello maggiormente simmetrico rispetto al primo. Infatti, il giornalista non è soltanto strumento nelle mani della fonte che controlla la relazione, poiché gli viene riconosciuto un ruolo di tutela dell’interesse dei suoi lettori. La parte migliore della comunicazione pubblica odierna può essere ascritta a questo modello. Il terzo modello è quello che per una buona parte del secolo scorso è stato impersonato da Edward Bernays e che rappresenta il modello ancora oggi prevalente nelle grandi imprese internazionali e, da qualche tempo, anche italiane: è orientato alla relazione a due vie, ma sempre abbastanza asimmetrico. È un modello che assume integralmente i parametri della psicologia e della sociologia e si propone la persuasione scientifica di determinati segmenti di pubblico, in funzione degli obiettivi dell’organizzazione. Alla base delle elaborazioni di Bernays sono, soprattutto, le opere di Sigmund Freud, di Walter Lippman e del sociologo francese di fine secolo Gustave Le Bon. È un modello che prevede un intenso uso delle ricerche sociali (sondaggi di opinione e focus group) e, in questo senso, è un modello a due vie: l’interlocutore viene, infatti, continuamente “ascoltato”. Tuttavia è un modello asimmetrico poiché quell’ascolto si propone la persuasione scientifica, in funzione di obiettivi unicamente unilaterali e trascura la soddisfazione dei possibili obiettivi dell’interlocutore. Da questo punto di vista, il modello di Bernays è quasi-ideologico: nel senso che implica che le relazioni pubbliche, proprio per il fatto di essere tali, siano comunque un bene per la società e quindi anche per i pubblici influenti, oltre che, naturalmente, per il soggetto committente. È un modello che, per la prima volta, postula che le relazioni pubbliche non si rivolgono esclusivamente ai giornalisti o ai decisori pubblici (lobby): si riconosce, infatti, che ciascun segmento di pubblico, anche e soprattutto quello rappresentato dai consumatori, può essere influenzato da diversi altri soggetti, gruppi di pressione e opinion leader. Il quarto modello, detto di Grunig, dall’accademico americano che l’ha razionalizzato, è anch’esso “a due vie”, come quello di Bernays, ma è più simmetrico. È un modello che postula per un’Organizzazione l’importa
nza preventiva dell’ascolto, prevalentemente tramite la ricerca sociale e l’analisi attenta dei soggetti influenti e la relazione interattiva con loro. Ma un ascolto inteso non come esclusivamente orientato – è il caso di Bernay – alla costruzione di messaggi efficaci da trasferire in funzione di obiettivi specifici dell’organizzazione, ma anche e soprattutto inteso ad aiutare quest’ultima a raggiungere un posizionamento dinamico dei rispettivi sistemi di relazione con gli stakeholder – influenti, così da indurla a perseguire obiettivi che tengano anche pienamente conto dei loro interessi e dei loro valori, incorporandoli nei propri. Il professionista di relazioni pubbliche assume così un ruolo di “interprete attivo” (sia pure sempre ed esplicitamente di parte) fra una Organizzazione e i suoi pubblici influenti, ed opera così per attivare e sviluppare quel dialogo, quella reciproca comprensione che consente all’organizzazione di raggiungere più agevolmente i suoi obiettivi, proprio perché consente ai pubblici influenti di ricavarne un percepibile ed effettivo valore aggiunto. Per una qualsiasi organizzazione, infatti, si apre una “questione” di relazioni pubbliche ogniqualvolta una sua decisione può produrre conseguenze su altri soggetti (interni o esterni), oppure, al contrario, quando il comportamento di altri soggetti (interni o esterni) può produrre conseguenze sulle modalità e sul successo con cui quella stessa decisione viene realizzata. Queste “conseguenze” possono dunque derivare sia dai comportamenti dei pubblici influenti che dai comportamenti dell’organizzazione.
(12) Olaski M. (1987), Corporate Public Relations, a new historical perspective, Lawrence, Erlbaum
(13) Fasce F. (2001), Democrazia degli Affari, Carocci Editore


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