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Il Cattivo di Turno – AKA Facebook – & il suo Ciclo di Vita

La scorsa settimana la copertina di Wired, e la relativa “cover story” dei «due anni che hanno scosso Facebook, e il mondo intero», di feroce critica al social più popoloso del pianeta, sono state riprese, commentate e enfatizzate, da tutti i media del mondo.
Altrettanto è avvenuto con i dati di eMarketer dai quali emergeva una flessione significativa nell’utilizzo di Facebook da parte dei giovani statunitensi e britannici. Notizia anche in questo caso ripresa ed amplificata dai media a livello internazionale, e naturalmente anche in Italia, con evidente malcelato gaudio dei segnali di difficoltà della piattaforma social.
Un j’accuse così potente da spingere Campbell Brown, l’ex giornalista della CNN assunta poco più di un anno fa per occuparsi delle “news partnership”,  a sentenziare che «Voglio essere molto chiara rispetto al fatto che il mio lavoro non è di reclutare persone dai publisher per mettere le loro cose su Facebook. Il mio lavoro non è convincerli a rimanere su Facebook. Se qualcuno ritiene che essere su Facebook non sia adatto alla sua attività, non dovrebbe essere su Facebook. Parliamoci chiaro. Il mio lavoro non è rendere felici gli editori. Il mio compito è garantire che ci siano notizie di qualità su Facebook e che gli editori che vogliono essere su Facebook e vogliano fare notizie di qualità su Facebook abbiano un modello di business che funzioni. È molto diverso. Quindi se qualcuno sente che questa non è la piattaforma giusta per loro, allora non dovrebbe essere su Facebook. Non ci consideriamo la risposta al problema».
Risposta frutto, anche, delle ulteriori accuse giunte dal Brasile da parte del “Folha de S Paulo”, che pochi giorni prima aveva annunciato che non pubblicherà più i propri contenuti sulla sua fanpage mantenendola aperta [la pagina ha 6 milioni di fan] ma senza aggiungere nuovi contenuti, dando voce ad una chiara ostilità, che potrebbe allargarsi a macchia d’olio visto quel che succede anche in altri Paesi,  e resa, appunto, ancor più manifesta da Wired e dall’enfasi sui dati di eMarketer succitati, con alcuni organi d’informazione economico- finanziaria del nostro Paese che addirittura dedicano la loro copertina al “declino di Facebook”, con un punto interrogativo messo lì più per dovere che per convinzione, citando anche altri elementi con possibili ripercussioni negative emersi negli ultimi giorni.
Se a questo si aggiungono, in particolare in Europa ma non solo, la “Netzwerkdurchsetzungsgesetz”, legge tedesca entrata in vigore dal 1 Gennaio di quest’anno con multe sino a 50 milioni di euro se i social non rimuovono tempestivamente “fake news” e incitamenti all’odio, che pare Macron in Francia voglia “copiare”, e la sentenza in Belgio che minaccia di multare Facebook per un importo sino a 125 milioni di euro se non si adeguerà alla legge sulla privacy del Paese, si capisce come non sia certo un  buon  periodo per Zuckerberg  & Co.
Se sulle attuali difficoltà di Facebook non ci possono essere dubbi, come ha riconosciuto lo stesso Zuckerberg nella recente presentazione dei risultati 2017, da qui a predire la “Facebook apocalypse”, il declino e la scomparsa della piattaforma social ce ne passa. Vediamo di mettere ordine al riguardo partendo da quello che è uno dei “basic” del marketing: il ciclo di vita di un prodotto/servizio, come anticipavo nella mia intervista a  Radio InBlu, il network radiofonico nazionale di matrice cattolica.

Il ciclo di vita, per dovere di cronaca nei confronti di coloro che non fossero familiari con il tema, viene tradizionalmente caratterizzato da quattro fasi: introduzione, sviluppo, maturità e declino o, in alternativa, rivitalizzazione. E qui sta il punto.

I prodotti o i servizi, quale Facebook semplificando per sintesi, hanno un loro ciclo di vita che ricorda un po’ quello umano. I prodotti/servizi hanno però il vantaggio di poter rinascere in uno stadio della loro vita e, utilizzando nella maniera giusta gli ingredienti del marketing mix, possono anche evitare il loro declino.
A 14 anni dalla nascita, al di là delle singole questioni, non vi è dubbio che Facebook sia entrato, con oltre due miliardi di utenti attivi nel mese secondo gli ultimi dati, nella fase di maturità e quindi potenzialmente sia prossimo alla fase di declino [che evidentemente può avere comunque tempi più o meno dilatati o, altrettanto, più o meno rapidi].
Se si osserva il trend del numero di utenti attivi – vedi grafico sottostante – si vede come negli ultimi due anni la crescita non sia generata, se non in maniera relativamente marginale, da USA/Canada e Europa, con addirittura un calo di 700mila iscritti oltreoceano nell’ultimo trimestre. Il problema è che anche nel resto del mondo sinché non riuscirà ad entrare nel mercato cinese, cosa tentata più volte e si qui mai realizzata, la crescita e lo sviluppo, almeno sotto il profilo quantitativo, sono plafonati, suscettibili di incrementi relativamente modesti.

Per quanto riguarda i giovani la perdita è fisiologica, e molto sicuramente continuerà, almeno a livello di frequenza di uso se non di valori assoluti, poiché ovviamente i teenager non vogliono trascorrere il loro tempo nello stesso luogo dove stanno i loro genitori e forse anche i loro nonni. Avviene nella vita reale ed ancora una volta quel che accade con Facebook dimostra quanto debole sia ormai la separazione tra online e offline. Altro elemento che per quanto riguarda USA/Canada ed Europa, i mercati a maggior redditività per Facebook, non gioca a favore della piattaforma social.
È in funzione di questi elementi, giustificati da una ricerca la cui irrilevanza è evidente fosse solo per il fatto che Facebook non ha bisogno di farne sapendo precisamente tutto su ciascuna persona iscritta, che Zuckerberg, come noto, ha scritto il 12 Gennaio scorso un post pubblicato sulla sua pagina Facebook nel quale ha annunciato maggior attenzione e priorità alle interazioni tra le persone. Raggiunta la fase di maturità, con ormai un livello molto vicino alla saturazione del news feed anche in termini di affollamento pubblicitario, che del resto Facebook considera come un pericolo da fine 2016, non resta che tentare la carta di far aumentare le interazioni tra coloro che sono già iscritti così da mantenerli “felici” ed al tempo stesso profilarli meglio e di riflesso vendere la pubblicità a prezzi maggiori.
Si tratta di “una scelta obbligata” che Facebook ha compiuto nel momento giusto per i propri interessi, almeno finché non potrà contare anche sul mercato cinese, cosa che potrebbe anche avvenire in tempi ancora molto lunghi, o non avvenire affatto naturalmente. Si deve certamente anche a questo nuovo indirizzo strategico la posizione espressa da Campbell Brown citata in apertura dell’articolo. Allo stato attuale, nel breve-medio periodo non vi è altra possibilità per rivitalizzare il ciclo di vita del social network, anche perché è evidente che l’alternativa, che qualcuno suggerisce, è assolutamente peregrina e non garantirebbe neppure lontanamente gli attuali ricavi, figurarsi una espansione/rivitalizzazione.

È però necessario fare dei distinguo che nell’ambito del piano di Facebook potrebbero fare la differenza, e naturalmente non solo per la piattaforma social ma anche per brand e newsbrand, seppur in modo distinto per ciascuna di queste macro-categorie.
Se infatti si comprendono, come detto, i motivi alla base delle recenti scelte di Facebook sono i dettagli e le modalità con cui questo avviene che lasciano quantomeno perplessi.
Le communities, quelle su cui ora Facebook preme l’acceleratore, qualsiasi community, vive dello scambio di informazioni senza le quali implode, cessa di esistere. Lo ha spiegato bene Manuel Castells quando ha parlato di “Informazionalismo”, dicendo che «La Rete è un ecosistema sociale che, abbattendo le barriere spazio temporali, favorisce la comunicazione. La sua stessa natura è lo scambio d’informazioni». Da questo punto di vista porre sullo stesso piano i newsbrand ed i brand, penalizzandoli in egual misura, è un errore sia tattico che strategico.
Si tratta di un errore tattico poiché, seppure il concetto di media è mutato completamente rispetto al passato, con l’ecosistema dell’informazione che è fatto sempre più non solo dai legacy media ma anche dalle piattaforme social, dagli “influencer”, e da molto altro ancora, è chiaro che il peso dei newsbrand, inclusi i broadcaster, resta importante e scontrarsi con loro in maniera diretta non è assolutamente conveniente e consigliato, come dimostra quanto riportato in apertura dell’articolo e, se necessario, conferma, per contro, l’ottimo lavoro svolto da Google in tal senso nell’ultimo triennio. Che da allora ad oggi le parti si siano invertite con Alphabet a giocare la parte del “buono” e Facebook sempre più quella del “cattivo” lo testimonia con estrema chiarezza.
É un errore strategico per almeno due motivi. In primis perché se si escludono pochi brand, dovendo azzardare una stima non più di 500 al mondo, gli altri non creano contenuti di qualità, non sviluppano una politica di relazione sui social, a cominciare da Facebook, e dunque effettivamente il loro valore è tendente a zero.  In tutto il mondo le piccole-medie imprese non hanno né le risorse né la cultura per creare valore attraverso la produzione di contenuti. Va bene che usino Facebook, ed eventualmente gli altri social, così come usano/usavano le televisioni ed i giornali locali, come un mezzo a pagamento dal quale possono trarre vantaggio pagando.
Ben diverso è invece il discorso per quanto riguarda i newsbrand che, al netto delle critiche, a volte anche “spietate”, mosse in questi spazi, possono avere un ruolo molto importante per Facebook, e viceversa. Come abbiamo detto, l’aumento di visibilità di contenuti che vengono dai vicini, dai propri contatti, può accentuare l’effetto chiusura in bolle di opinioni omogenee [deriva già da tempo presente su FB], mentre in questo il ruolo dei newsbrand, se svolto correttamente e non come invece prevalentemente finalizzato sin qui, può quantomeno attenuare il fenomeno.
Inoltre, l’idea di affidarsi, ed investire, su “community leaders”, può essere di contorno, di supporto alla nuova strategia di Facebook, ma è evidente che da sola non sia sufficiente. Se, come abbiamo detto, qualunque community vive di informazioni senza le quali implode, svanisce, il ruolo dei newsbrand, che guarda caso sono conosciuti anche come, appunto, industria dell’informazione, può essere cruciale per la rivitalizzazione del social network. É per questa ragione di fondo che penalizzarli in egual misura come i brand, oltre ad essere un errore tattico è un errore strategico.
Certo, come abbiamo scritto più volte, anche di recente, i newsbrand dal canto loro devono cessare una volta per tutte l’attuale approccio basato sui click e mettere, finalmente, al centro le persone. Uscire dalle loro “paginette” ed entrare in relazione veramente con le persone e le diverse communities d’interesse. É necessario entrare nelle communities, nei gruppi e fornire loro notizie, informazioni, argomenti di loro interesse. Stabilendo veramente una relazione e creando nuovi spazi di confronto e discussione nei propri siti web per valorizzarla, come ho provato a spiegare in maniera approfondita, non più tardi di ieri, sul sito della FERPI, la Federazione Relazioni Pubbliche Italiane, con cui collaboro attivamente in qualità di membro del comitato scientifico di “InspiringPR”
Facebook senza informazioni rischia seriamente di diventare sempre meno importante e interessante ed anche l‘idea di superare il problema delle “fake news” chiedendo direttamente alle persone se conoscono una certa fonte giornalistica [un sito, un giornale, una tv] e  se si fidano di quel media, comunicata il 19 Gennaio scorso, è pessima. Se infatti teoricamente sarebbe meraviglioso concettualmente affidare direttamente alle persone la valutazione dell’affidabilità dei media, compiendo così finalmente un percorso di “democrazia dal basso”, non è per nulla certa la capacità di giudizio e di discernere sull’affidabilità delle fonti, sia per il ben noto fenomeno del “confirmation bias” che per limiti culturali, diciamo, che del resto sono proprio quelli che contribuiscono alla diffusione delle “fake news”. Lo ha spiegato bene in una battuta Massimo Russo, Managing Director, Digital Division GEDI e Ceo HuffPostItalia, che al riguardo ha scritto: «Vi prego, qualcuno dica a Mark che la folla è quella che, messa di fronte alla scelta da Ponzio Pilato, decise compatta di liberare Barabba #nonimpariamonulla?»
É insomma giunta davvero l’ora che Facebook ed i newsbrand stabiliscano una relazione “win-win”, basata su regole condivise. Non possono che guadagnarne entrambi se questo avverrà.
 

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Paolo Bellavite. Vaccini sì, obblighi no: la prospettiva della nostra Costituzione

Primo nella classifica bestseller di Ibs del settore “Medicina”, nell’ambito di un dibattito infuocato in Italia sull’obbligatorietà dei vaccini Paolo Bellavite offre nel libro ‘Vaccini sì, obblighi no’ un contributo chiaro, completo, nell’ottica della Costituzione italiana.

Autore del libro ‘Vaccini sì, obblighi no’, volume assai interessante, Paolo Bellavite è autore di oltre 250 pubblicazioni scientifiche, oltre 140 delle quali citate nella banca dati PubMed, e diversi libri pubblicati anche all’estero, dagli Usa al Brasile.
Il titolo per esteso del libro che è balzato al numero uno dei bestseller di Ibsnel settore ‘medicina’ è ‘Vaccini sì, obblighi no. Le vaccinazioni pediatriche tra evidenze scientifiche e diritti previsti nella costituzione italiana’. Qui spiega la sua posizione: i vaccini sono utili mezzi di prevenzione delle malattie infettive e vanno raccomandati nell’ambito di un consiglio terapeutico che prevede il consenso informato del paziente o dei genitori. Tuttavia, l’imposizione di vaccini all’intera fascia pediatrica della popolazione desta perplessità per varie ragioni di tipo tecnico-scientifico, essendovi la possibilità che si riveli inutile al fine della salute della collettività o persino controproducente.
Poiché la Costituzione tutela la salute del singolo e l’interesse della collettività, ciò che va verificato nel concreto è in primo luogo se l’imposizione di un determinato trattamento sanitario sia veramente necessaria e, in subordine, se questo trattamento non presenti delle conseguenze che, per il prolungarsi dell’effetto nel tempo e per l’entità delle stesse, eccedano una normale e tollerabile intensità.
Queste problematiche sono affrontate, nel libro, utilizzando le più recenti conoscenze di epidemiologia, immunologia e patologia generale. I principali filoni di studio di Bellavite e collaboratori hanno riguardato difatti gli aspetti molecolari e cellulari dell’infiammazione, con particolare riguardo a struttura, biochimica e funzione delle cellule del sangue, con competenze che spaziano dalla nutraceutica alla storia della medicina e alla bioetica.

Le caratteristiche dei vaccini della legge 119/17

Le caratteristiche dei vaccini della legge 119/17

Professor Bellavite, il suo libro è stato ferocemente criticato, con attacchi personali anche pesanti, da persone – inclusi alcuni colleghi – che hanno ammesso di non averlo neppure letto, e per contro elogiato come una “rivelazione” da cittadini – segnatamente, genitori – fermamente contrari ai vaccini per partito preso. Cosa si sente di rispondere agli uni e gli altri?
A chi mi critica senza neanche leggere ciò che scrivo, non ho davvero nulla da dire. Ai cittadini interessanti a questi temi, parlo ogni giorno soprattutto tramite i social network, e facendolo mi sono reso conto che i genitori contrari ai vaccini “per partito preso” sono pochissimi; la gran parte di coloro che sono “esitanti” oppure “critici” verso i vaccini lo sono diventati per esperienze negative di tipo personale o per essere venuti a conoscenza di tali criticità da altri, e semplicemente vogliono delle risposte. Le grandi associazioni dei “free-vax” – che purtroppo tendono facilmente a diventare alfieri dei “no-vax” – sono sorte per tutelare e sostenere le cause di risarcimento di coloro che, a torto o a ragione, ritengono di aver avuto danni da vaccinazione. In questo scenario, una cosa è certa: la legge voluta dal ministro Lorenzin non ha certo risolto il problema degli “esitanti”, ma invece lo ha acutizzato, ha dato ulteriori argomenti di protesta per questi gruppi di persone.
Quando scrive – non senza ragioni a supporto – che la situazione italiana non è a suo avviso tale da richiedere un Decreto per l’obbligatorietà di certi vaccini, in quanto non vi sono state – né vi sono all’orizzonte – delle epidemie, non considera che tali epidemie non hanno avuto luogo proprio grazie al fatto che la copertura vaccinale è stata in passato molto alta? Molti specialisti affermano “Meglio prevenire, che correre ai ripari quando gli ospedali sono saturi d’infetti”…
Per quanto riguarda la prima parte della domanda, una cosa è certa: l’unica “epidemia” negli ultimi cinque anni è stata quella del 2017, di morbillo, che ha interessato meno di 5.000 italiani ed ha toccato l’apogeo in una settimana in aprile, quando si sono ammalati circa 200 italiani, di cui solo circa 50 bambini. Quindi, la più “grave” di tutte le epidemie degli ultimi anni (a parte l’influenza, ovviamente) ha interessato al massimo un bambino per settimana ogni milione di abitanti, qualcuno di più a Roma, qualcuno di meno a Milano. Qualche Regione è stata più coinvolta (Lazio, Piemonte, Abruzzo), altre meno (Val d’Aosta, Puglia, Molise), senza alcuna correlazione col numero dei vaccinati. Come morbilità elevata (circa 50,000 casi/anno) esiste anche la varicella, che però è molto meno grave del morbillo ed il cui vaccino ha peraltro dei suoi particolari problemi. Nel mio libro ho affrontato analiticamente la questione dell’efficacia dei diversi vaccini nella prevenzione delle epidemie. Certo che è meglio prevenire che curare, sono io il primo a dirlo. Quello che contesto è la utilità, a tal fine, di un obbligo generalizzato per 10 vaccini imposto alla sola fascia pediatrica, con – e questo è assurdo – scappatoie comunque con pagamento della sanzione. A nessuno è vietato vaccinarsi, anzi è consigliabile farlo: il piano vaccinale aveva persino già previsto la gratuità. Il Veneto, senza obblighi di nessun tipo, aveva le più alte coperture.

L’immunità di gregge, o di gruppo, è il fenomeno per cui raggiunto un certo livello di copertura vaccinale tra la popolazione, di solito il 95%, anche gli individui non vaccinati (perché troppo piccoli, o immunodepressi, o deboli in quanto malati) godono dei benefici dell’immunizzazione ugualmente, in quanto circondati da individui vaccinati e che quindi non trasmettono la malattia ed evitano anche il propagarsi delle patologie infettive .

L’immunità di gregge, o di gruppo, è il fenomeno per cui raggiunto un certo livello di copertura vaccinale tra la popolazione, di solito il 95%, anche gli individui non vaccinati (perché troppo piccoli, o immunodepressi, o deboli in quanto malati) godono dei benefici dell’immunizzazione ugualmente, in quanto circondati da individui vaccinati e che quindi non trasmettono la malattia ed evitano anche il propagarsi delle patologie infettive .

I dubbi di costituzionalità sul Decreto Vaccini da lei espressi nel libro paiono ormai superati dalla recente pubblicazione delle motivazioni della corte costituzionale. Da ricercatore attento a questa tematica, come commenta la decisione della Corte?
Ho scorso velocemente il lungo documento. Vi sono riportate in maniera meticolosa le motivazioni dell’Avvocatura della Regione Veneto e di altri ricorrenti e poi quelle, opposte, dell’Avvocatura dello Stato. Alla fine, la Corte sposa la versione della Avvocatura dello Stato. In estrema sintesi, secondo la Consulta non è “irragionevole”, nell’attuale contesto e allo stato “delle condizioni epidemiologiche e delle conoscenze scientifiche”, l’intervento del legislatore che “ha ritenuto di dover rafforzare la cogenza degli strumenti della profilassi vaccinale”. Ma, conclude la Corte, “nulla esclude che, mutate le condizioni, la scelta possa essere rivalutata e riconsiderata”. In pratica, ha dato una lettura politica in cui prevale la tesi dello Stato. La motivazione per cui sarebbe legittima la imposizione di una volontà statale in materia di vaccini si baserebbe, semplificando, sul fatto che lo Stato stabilisce i Livelli Essenziali di Assistenza (LEA), i quali a loro volta comprendono i vaccini gratuiti.
Ergo, sarebbe legittimata anche la decisione di imporli per legge. Quello che era un “diritto” e prevedeva comunque un consenso al trattamento sanitario (LEA), diventa un “dovere”, in cui il consenso è un “optional”. Sul piano medico-scientifico, va osservato che le cosiddette “condizioni epidemiologiche e le conoscenze scientifiche” fatte proprie dalla Corte sono quelle descritte dalla Avvocatura dello Stato, la quale ovviamente riporta il parere del Ministero della Salute, che è l’ente che ha proposto il Decreto. Un perfetto corto-circuito di auto-referenzialità. Circa l’affidabilità di questi dati, venduti come incontrovertibili, basta ricordare che i vertici sanitari hanno dichiarato ripetutamente che in Inghilterra negli anni scorsi c’erano stati centinaia di morti di morbillo, cosa assolutamente falsa, hanno poi lanciato l’allarme del morbillo in Italia sostenendo che “l’epidemia” era dovuta al calo di coperture (calo che è stato minimo, e solo per due anni), prevedendo che le Regioni con bassa copertura sarebbero state le più a rischio, cosa che non si è verificata, stimando 670.000 bambini suscettibili (quando poi se ne sono ammalati meno di 1000 in tutto l’anno) e previsto una recrudescenza dell’epidemia in settembre, che non c’è stata. E il morbillo, in pratica, è l’unica emergenza con cui si giustificherebbe l’obbligo di molteplici iniezioni di 10 vaccini ai soli bambini, tra cui l’epatite B del De Lorenzo, pena la esclusione da scuola dei più piccolini o una multa ai genitori dei più grandi, la quale multa per legge estinguerebbe il pericolo epidemico. Ebbene, quando uno Stato basa le proprie decisioni in campo di politica sanitaria su delle bugie, a mio avviso abbiamo dei seri problemi.
Lei critica la scelta dell’Italia che ha interpretato le linee guida europee sui vaccini come “un’estensione dell’obbligatorietà”, mentre sono diversi i paesi europei dove da 6 a 11 vaccini sono obbligatori, e in Finlandia – dove pure non sussiste l’obbligatorietà, questa è richiesta a gran voce da un movimento di genitori preoccupati per i rischi in termini di salute pubblica. Come commenta?
A livello europeo esistono precise strategie coordinate di contenimento delle infezioni mediante i piani vaccinali. Gli obiettivi e i metodi di tali piani sono enunciati nell’”European Vaccine Action plan” 2015-2020, emanato dalla sezione europea dell’OMS. Gli obiettivi sono cinque: 1) Indicare la immunizzazione come priorità; 2) Le persone capiscono il valore dell’immunizzazione e domandano la vaccinazione; 3) I benefici sono equamente estesi a tutta la popolazione; 4) Forti sistemi di immunizzazione sono parte di un sistema sanitario efficiente; 5) I programmi di immunizzazione hanno adeguati finanziamenti e prodotti di alta qualità. Di particolare interesse è l’obiettivo “2” dove appare chiarissimo che la vaccinazione sia una “richiesta” da parte delle persone. L’indicatore del progresso di tale obiettivo è “la percentuale di Paesi che hanno sviluppato un piano di comunicazione in caso di una epidemia”, vale a dire la capacità di mettere in atto adeguati programmi di informazione per fronteggiare degli aumenti di malattie infettive prevenibili col vaccino, ed è bene ricordare che l’ultima campagna di informazione e sensibilizzazione in Italia data 14 anni fa. Alla fine (anno 2020) ci si pone come obiettivo finale che “tutti i 53 Paesi abbiano un piano di comunicazione”. Tutto il programma europeo è basato sulla informazione e la responsabilizzazione del cittadino; in nessuna parte del programma si parla di obblighi vaccinali da introdurre. L’Europa domanda che si organizzino programmi di informazione ai cittadini sui benefici e (cosa che in Italia pare una bestemmia solo a dirsi) sui rischi dei vaccini, particolarmente per ciò che concerne la possibilità di fronteggiare gli “outbreaks” (eventuali aumenti epidemici di malattie infettive prevenibili col vaccino). Qualcuno ha sollevato il dubbio che le decisioni in alcuni Stati membri possano essere “influenzate” da altre fonti e altri criteri, con vari “canali” attraverso cui le politiche vaccinali possono essere condizionate; al netto di queste osservazioni maliziose, pare piuttosto evidente che la strategia dell’obbligo decisa in Italia e in alcuni alti Paesi è contraria a quanto deciso e raccomandato a livello europeo.
I vaccini sono farmaci, possono quindi presentare degli effetti collaterali. Pur tuttavia, la frequenza di effetti avversi scientificamente documentati e ben inferiore a molti dei più comuni farmaci in commercio. Come mai allora questa “ipersensibilità” sui tema vaccini?
Il discorso sarebbe lunghissimo e delicato, cerco di riassumerlo in tre punti.
Uno. I vaccini non sono farmaci in senso stretto, perché i farmaci vengono dati a persone che già hanno una sofferenza e che cercano col farmaco di guarire o di alleviarla, mentre i vaccini vengono dati a persone sane (nel nostro caso bambini sanissimi) che potrebbero trarre un beneficio dalla somministrazione del vaccino stesso. Un eventuale effetto avverso del farmaco viene pertanto “messo nel conto” di un certo o quasi certo beneficio, mentre per il vaccino è visto come una “maledizione” e spesso è accompagnato dal senso di colpa del genitore che ha portato il bimbo a vaccinarsi.
Due. La vaccinovigilanza è estremamente carente, perché le segnalazioni di danni da vaccino non sono obbligatorie e pertanto molti casi inevitabilmente sfuggono: ne è prova la enorme differenza di segnalazioni tra le diverse Regioni italiane.
Tre. Anche se i vaccini sono sotto la “giurisdizione” dell’AIFA, la registrazione di questi prodotti farmaceutici segue delle vie “facilitate”, nel senso che non è richiesta né la prova di efficacia “sul campo” (studio clinico randomizzato che studi i casi di malattia e di effetti avversi casi nel gruppo vaccinato rispetto al non vaccinato), né la prova di farmacocinetica (quanto materiale è assorbito, dove va a finire nel corpo, quando viene eliminato). In presenza di queste incertezze, è impossibile rassicurare con prove inconfutabili coloro che hanno dei dubbi. Tengo a dire che questo è in primis un problema dei medici di famiglia e dei pediatri, i quali da una parte sono ben consci di queste incertezze e dall’altra non possono dirlo ai loro assistiti, perché rischierebbero provvedimenti disciplinari e anche l’eventuale radiazione dall’Albo dei medici.
Quali potrebbero essere a suo avviso le strategie più efficaci alternative all’obbligatorietà?
Se si volesse veramente agire con razionalità e con un sistema “evidence-based”, si dovrebbe riprendere il metodo del Veneto, che in 10 anni di esperienza ha dato ottimi risultati: informazione (ai medici e ai genitori), anagrafi vaccinali e farmacovigilanza efficienti. Si dice che non tutte le Regioni sarebbero pronte a utilizzare tale metodo, in quanto avrebbero dei sistemi sanitari più arretrati. Ammesso che ciò sia vero, e in taluni casi lo è, si deve rendere migliori i sistemi sanitari, non far pagare al cittadino la loro inefficienza. Un altro aspetto importante riguarda la produzione di vaccini singoli, e la ricerca attiva per vaccini migliori, vale a dire di maggiore durata sotto il profilo della copertura.
Lei conferma l’importanza di vaccini quali quelli per la poliomielite, il tetano e la difterite, fondamentali per la salute pubblica di intere popolazioni. Attualmente – sempre a seguito delle modalità attraverso le quali si è costruito questo acceso dibattito – gruppi di genitori si dicono completamente contrari a qualunque tipo di vaccino. Nell’ultimo anno in particolare pare essere stato scavato un “solco” tra favorevoli e contrari alle politiche di obbligatorietà vaccinale e ai vaccini stessi, senza distinzione. Come commenta questa situazione e come sarebbe possibile secondo Lei ripristinare quel rapporto di fiducia tra cittadini e classe medica, dopo una così forte “polarizzazione” del dibattito?
La polarizzazione del dibattito è iniziata con le radiazioni dei medici “dubbiosi” e si è accentuata enormemente dopo la introduzione dell’obbligo di legge. Sarà molto difficile tornare indietro e recuperare la fiducia dei cittadini contrari ai vaccini nelle istituzioni sanitarie e nei loro pediatri. L’unica via secondo me, è quella tracciata dal Veneto, in cui le cose funzionavano bene pur in presenza di un 10-12% di famiglie che vaccinavano poco o niente (come avviene comunque nelle altre Regioni). In Veneto peraltro era già prevista la possibilità di introdurre un obbligo vaccinale specifico, ma solo in caso di eventuali reali minacce epidemiche. Per recuperare la fiducia nelle Istituzioni bisogna che si apra un dibattito realmente libero, innanzitutto a livello medico-scientifico, e che a livello “centrale” si affidi la governance della vaccinologia non ad un Ministro con delle “belle idee” ma ad una commissione di esperti con molteplici competenze e totalmente liberi da conflitti di interesse con case farmaceutiche. Ma in Italia siamo lontanissimi da questo scenario.




Zuckerberg fa mea culpa: “Commettiamo ancora troppi errori”

Nella lista degli impegni il Ceo di Facebook mette in testa la risoluzione dei “troppi errori” commessi nell’evitare l’uso improprio della piattaforma. Poi, mette gli occhi sulle criptovalute


La pressione degli ultimi mesi si è fatta sentire e Mark Zuckerberg, che dal 2009 ha preso l’abitudine di fissare obiettivi annuali da raggiungere, quest’anno ha deciso di concentrarsi sui problemi che hanno tormentato l’azienda nel 2017: dall’hate speech alle molestie, passando alle inferenze della politica e della propaganda.
“Non riusciremo a impedire tutti gli abusi, ma attualmente commettiamo ancora troppi errori nel rafforzare le nostre policy e prevenire l’uso improprio dei nostri strumenti”, ha scritto il Ceo in un post.
Come avevamo scritto qui qualche giorno fa, per Facebook, come per le altre grandi piattaforme, il nuovo anno si preannuncia con un inizio in salita. E infatti gli sforzi di Zuckerberg saranno orientati a capire meglio dove andare, per ottenere una “migliore traiettoria”. E si rende bene conto, Zuckerberg, che nei problemi di cui sopra, la tecnologia è “solo” uno degli aspetti coinvolti. C’entrano la storia, l’educazione civica e la filosofia.
C’entra l’informazione e c’entra la politica. Per questo, parla di riunire “esperti” per dibattere delle prospettive e mettersi al lavoro.
Rispetto a imparare il mandarino (fatto), realizzare una casa zeppa di Intelligenza Artificiale (fatto) e visitare ogni stato degli Stati Uniti (fatto), l’impegno nella risoluzione delle falle potrebbe non sembrare un obiettivo “personale”, premette Zuckerberg, ma è convinto che concentrarsi su certi problemi gli farà apprendere di più sul tema che facendo qualcosa di completamente differente.
Rispetto agli intenti stilati all’inizio del 2017, il fondatore di Facebook disperde meno energie sulla visione del mondo e delle comunità e sembra ammettere una cosa: l’incanto dell’internet uguale per tutti si è rotto, la promessa della democrazia dal basso sgretolata, e ora tocca capire come correre ai ripari.
Facebook è un’azienda e ignorare queste pulsioni evidenti sarebbe a dir poco miope (e sicuramente i suoi utenti sono più interessati a questo che ai progressi di Zuckerberg nel mandarino).
“Una delle domande più interessanti della tecnologia riguarda la centralizzazione rispetto al decentramento […] Negli anni Novanta e Duemila, la maggior parte delle persone credeva che la tecnologia sarebbe stata una forza decentrata. Oggi, molte persone, hanno perso fiducia in questa promessa. Con l’ascesa di un piccolo numero di grandi aziende tech – e di governi che usano le tecnologie per osservare i propri cittadini  – molte persone ora credono che la tecnologia centralizzi, anziché decentralizzare”.
A riprova di questa crisi c’è lo sviluppo di sistemi “che prendono il potere dei sistemi centralizzati e lo rimettono nelle mani delle persone” come la crittografia e le criptovalute.
“Mi interessa approfondire e studiare gli aspetti positivi e negativi di queste tecnologie e il modo migliore di usarle nei nostri servizi” promette Zuckerberg.




Ecco come il governo americano continua a sorvegliare i cittadini

Sorveglianza a strascico, disprezzo dei diritti e pregiudizi: un nuovo documento di Human Rights Watch svela come la polizia americana spia i suoi cittadini

Se questa prova fosse stata ottenuta con un controllo illegale, sarebbe un problema per la Corte. Potenzialmente, potremmo definirlo il frutto di un albero avvelenato”, spiega al pubblico ministero un giudice statunitense, nel 2013. “Con rispetto, ma lo contesto”, replica il PM. “In verità, la cosa non mi crea nessun problema”.

Questo scambio di battute – riportato nel report “Dark Side” che Human Rights Watch ha da poco pubblicato – è la sintesi perfetta di uno dei più classici dilemmi della giustizia: è giusto condannare qualcuno se le prove che lo inchiodano sono state ottenute illegalmente?
Le leggi e le costituzioni di tutte le nazioni democratiche, ovviamente, vietano questa pratica; ma ciò non impedisce alle forze dell’ordine di nascondere spesso e volentieri le vere modalità con cui sono state ottenute le prove che hanno portato a un arresto. Il report di HRW, che si concentra sugli Stati Uniti, mette in luce la vasta diffusione di questa pratica – nonostante sia impossibile fare una stima numerica corretta – e come questa venga nascosta anche agli stessi giudici, attraverso la creazione di una costruzione parallela.

Nulla che non si sia già visto in chissà quanti film

Dopo aver eseguito, per esempio, un’intercettazione telefonica non autorizzata che ha confermato i sospetti su un presunto spacciatore, le forze dell’ordine mettono in scena un “casuale” controllo stradale che porterà alla scoperta della droga dell’auto del sospetto.

Sorveglianza nascosta

Ma a suscitare i maggiori timori sono gli strumenti tecnologici che spesso si nascondono dietro queste costruzioni parallele: dispositivi per la sorveglianza a strascico che consentono di raccogliere un enorme numero di informazioni in maniera illegale; intercettando le attività dei cittadini senza avere avuto il permesso di un giudice.
Il più noto di questi strumenti è chiamato in gergo Stingray (il nome tecnico è IMSI Catcher): un dispositivo che opera come fosse una cella telefonica e che consente di ottenere la geolocalizzazione delle persone controllate, l’elenco delle chiamate in uscita e in entrata e anche di poter ascoltare le telefonate e leggere i loro messaggi. L’utilizzo degli IMSI Catcher, la cui legalità è molto dubbia, viene spesso tenuto nascosto dalle forze dell’ordine (fino a poco fa, non si sapeva nemmeno della loro esistenza); per questo, nel caso in cui le informazioni ottenute portino a un arresto, si crea una costruzione parallela: una storia diversa su come sono state ottenute le prove necessarie.
È il caso di quanto è avvenuto in Florida nel 2013: il diciottenne Tadrae McKenzie rapina 130 dollari in marijuana a uno spacciatore usando una pistola ad aria compressa (ma che può sparare pallini di metallo e quindi viene considerata un’arma vera e propria). Dopo essere stato arrestato, patteggia quattro anni di galera. Alla fine del processo, però, il giudice riduce la pena a soli sei mesi.
Cos’è successo? Semplicemente, che l’accusa non era stata in grado di spiegare come avesse scoperto il luogo esatto in cui il ragazzo viveva e come avesse potuto conoscere i suoi spostamenti con tale precisione. Nel momento in cui il giudice, insospettito, ha chiesto alle forze dell’ordine di mostrare i dati del loro Stingray, la polizia si è rifiutata; convincendolo di trovarsi di fronte a un caso di costruzione parallela e provocando così la forte riduzione della pena.

Ma se queste azioni portano alla condanna di un colpevole, perché è sbagliato utilizzarle?

La costruzione parallela“, si legge nel report, “non permette agli avvocati della Difesa di venire a conoscenza, e di poter quindi contestare, le vere ragioni che hanno portato all’arresto di qualcuno, impedendo quindi l’equo processo che dev’essere garantito a tutti”.
In questo modo, eventuali violazioni dei diritti garantiti a ogni cittadino vengono nascosti e non possono essere utilizzati a favore dell’imputato nel processo; non consentendo al giudice di svolgere il proprio lavoro e imponendo la volontà delle forze dell’ordine sul potere giudiziario. Una prevaricazione che potrebbe avere conseguenze molto pericolose.
I diritti di tutti
Tutto ciò, però, non riguarda solo i diritti dei presunti criminali, ma di ognuno di noi: “Se agenti che lavorano per il governo (la polizia, anche in Italia, risponde al ministero dell’Interno, ndrpossono segretamente violare la privacy, svolgere pratiche discriminatorie e condurre altre operazioni illegali senza mai doversene assumere le responsabilità, i diritti di tutti i cittadini sono messi in pericolo”, si legge sempre nel report. “Portato alle sue estreme conseguenze, la costruzione parallela rischia di creare una società in cui le persone sono costantemente soggette a indagini basate magari su pregiudizi, operazioni illegali o negligenza professionale, senza avere mai modo di venirne a conoscenza e poter così chiedere agli agenti di rispondere delle loro azioni”.
Se non bastasse, l’utilizzo segreto di dispositivi come gli IMSI Catcher cela facilmente operazioni di sorveglianza a strascico con i quali vengono tenuti inevitabilmente sotto controllo anche le azioni di cittadini assolutamente innocenti e che non hanno fatto niente di male. E se credete che “chi non ha fatto nulla di male non ha niente da nascondere”, immaginate con che spirito potreste andare a manifestare, per esempio, contro gli abusi della polizia o contro il governo sapendo che potreste essere tenuti sotto controllo.

Una maschera di Edward Snowden, l'uomo che ha svelato al mondo le tecniche di sorveglianza Usa
Una maschera di Edward Snowden, l’uomo che ha svelato al mondo le tecniche di sorveglianza Usa

Dal programma di sorveglianza Hemisphere, svelato dal New York Times nel 2013, all’utilizzo da parte delle forze dell’ordine dei dati lasciati dagli utenti sui social network, fino al più noto Datagate, sono numerosi i casi in cui sono stati utilizzati segretamente strumenti illegali per sorvegliare i cittadini.
Questi strumenti danno la possibilità di identificare anche le relazioni sociali delle varie persone controllate”, ha spiegato Aaron Mackey dell’Electronic Frontier Foundation. “Ed è estremamente probabile che molti cittadini completamente innocenti siano finiti, con i loro dati, all’interno di qualche database”.
Non è tutto: i nuovi strumenti tecnologici – basti pensare ai software del riconoscimento facciale o di “polizia predittiva” – offrono grandi potenzialità, ma sono ancora molto imprecisi e nascondono non poche controindicazioni. Per questa ragione è fondamentale che la polizia consenta a esperti, giudici, media e cittadini di valutare i dispositivi che utilizza per il proprio lavoro; nella più completa trasparenza.




Un anno di Trump Presidente, la propaganda via Twitter funziona

Nell’utilizzo dei social media Donald Trump si pone anni luce avanti rispetto a un Salvini, a un Di Maio, a un Renzi e a un Berlusconi. Ecco come

Un anno fa, il 20 gennaio 2017, un baldanzoso Donald Trump giurava da 45° presidente degli Stati Uniti d’America sul palco di Capitol Hill, a Washington, dando inizio all’anno da incubo di tutti i liberal d’America e d’Europa. Nel suo discorso accusava il vecchio establishment di aver protetto se stesso, ma non i cittadini, e prometteva che quella data sarebbe stata ricordata come il giorno in cui il popolo era tornato di nuovo al potere. Poco dopo ribadirà il concetto in un tweet:
https://twitter.com/realDonaldTrump/status/822502270503972872

Da quel famoso 20 gennaio il ciclone Trump si è abbattuto su tutto ciò che poteva rappresentare un ostacolo per la sua avanzata. Il primo a essere spazzato via è stato il direttore dell’FBI James Comey che stava indagando sulle influenze russe nelle elezioni; l’ultimo a cadere, il fido stratega alt-right Steve Bannon, colui che dalla stampa era considerato come il deus ex machina del neo presidente. Nel mezzo, scontri su clima e immigrazioneconclusi da gare al bottone nucleare più grosso con il nordcoreano Kim Jong-Un, ma soprattutto sparate ad alzo zero contro i media, rei a suo dire di diffondere fake news per distruggerlo.
Lo strumento preferito per esprimere sentenze e lanciare accuse? Sempre Twitter. Moderni cinguettii che ricordano il metallico gracchiare di più tristi altoparlanti. È attraverso i 140 caratteri che Trump comunica decisioni, strizza occhiolini, inveisce, ammonisce e zittisce giornalisti.

E così, quelli che dovrebbero essere i watchdog della democrazia, finiscono per essere cani guardati a vista.
https://twitter.com/realDonaldTrump/status/949610896241946626

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/950023175907266560
https://twitter.com/realDonaldTrump/status/948202173049049088
 
Big Donald eccita gli animi dei suoi sostenitori e sgomenta quelli dei suoi detrattori. Come scrive Jason Stanley in “How propaganda works”, per Hitler “la propaganda doveva fare effetto sulle emozioni della gente, non sui suoi ragionamenti, magari ripetendo formule e stereotipi”. Trump sembra seguire il consiglio alla lettera, ed ecco che un “America First!”, buttato lì a caso, fa sempre la sua figura.
https://twitter.com/realDonaldTrump/status/952166927476183040

È proprio grazie a quel linguaggio diretto che mira alla pancia e non al cervello, più che per merito dei magheggi dell’intelligence russa che Trump è riuscito a convincere i suoi elettori. Una chiave di lettura rifiutata come una rimozione psicanalitica dai liberal d’America che erano già pronti a incoronare Hillary: la speranza democratica secchiona ma fredda, incapace di scaldare persino i cuori femminili di fronte al machismo trumpiano, ma soprattutto di convincere l’elettorato di Bernie Sanders, vera spiegazione politica della sconfitta.

Crooked Hillary, la corrotta Hillary, ama definirla Trump utilizzando un termine che ricorda Richard Nixon (“I’m not a crook”), al quale in America è spesso accostato. Un paragone che fa venire i brividi, ma che diventa addirittura inquietante se pensiamo che la stessa moglie di Nixon aveva predetto la carriera di Trump.

nix

Tante le similitudini con il famigerato presidente del Watergate, ma soprattutto la paranoia e le barricate difensive verso avversari politici e giornalisti, attaccati senza mezze misure da entrambi. Sfruttando i suoi quasi 50 milioni di follower, Trump ricorda ai media che li sta osservando, ne critica comportamenti, uscite e analisi, e li espone al pubblico ludibrio dell’uccellino lanciando addirittura Gli awards delle fake news

https://twitter.com/realDonaldTrump/status/953794085751574534
A farne le spese il premio Nobel 2008 per l’economia Paul Krugman, columnist del New York TimesBrian Ross di ABC News, il Time, il Washington Post, la CNNNewsweek, cioè i baluardi dell’informazione americana. Tutti concordi nel condannare l’atteggiamento, tutti incapaci però di opporre una reazione esemplare.
Coloro che non avrebbero scommesso un centesimo neanche su un suo passaggio alle primarie, probabilmente non avevano calcolato bene la natura del fenomeno. Trump si inserisce come un antigene nei nostri tempi: promette risposte ai delusi dal sistema, oppone il politicamente scorretto all’ipermoralismo dell’establishment, mette in dubbio l’informazione autorevole strizzando l’occhio ai complottisti, eleva i social media a comunicazione politica standard. Tutto ciò che nessun altro del suo livello riesce a fare, né in America né altrove.
Tanto per fare un paragonare con l’Italia, nell’utilizzo dei social Trump si pone anni luce avanti rispetto a un Salvini, a un Di Maio, a un Renzi e a un Berlusconi. Se anagraficamente solo dieci anni lo separano dal Silvio nazionale che ha imposto in politica i canoni della tv commerciale, sembrano quasi tre le generazioni di differenza nel modo di concepire e utilizzare i nuovi sistemi di comunicazione. Dove il biscione per difendersi dagli attacchi nemici preferisce schierare giornali e tv lasciando il compito a fidi scudieri, Trump ama occuparsene personalmente con il suo account.

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Nella giornata ufficiale del presidente americano la prima parte è definita “executive time”, ma secondo Axios, che giura di essere in possesso del vero programma, consiste principalmente nel guardare programmi televisivi e twittare. Un’attenzione ai media che occuperebbe almeno quattro ore della sua giornata tipica secondo il New York Times e che dimostrerebbe ancora una volta la paura che avrebbe dei giornalisti, gli unici nella sua visione che potrebbero togliergli il giocattolo.
Fu così con Nixon, lo sarà anche con Trump? Qualche dubbio c’è. Come i democratici non hanno saputo opporre un’alternativa valida alla sua scalata, così i giornalisti americani, spiazzati, non sembrano avere quel sacro fuoco che incendiò animi e pagine negli anni ’70. Anche questo in fondo è lo spirito dei tempi. Troppo moderati, troppo timorosi, troppo superficiali. È il conformismo da social media, quelli che invece Trump usa come una mitragliatrice inchiodando avversari in cerca di alibi.
Ridete, e un tweet vi seppellirà.