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Perché l’equità può fare la differenza negli affari

L’amministratore delegato di Snam, Marco Alverà, spiega come la fairness sia l’ingrediente chiave del successo di un’azienda. Negli Stati Uniti alle imprese l’ingiustizia costa 550 miliardi ogni anno


Quanto l’equità può influenzare il buon andamento degli affari? Per Marco Alverà, amministratore delegato di Snam, la più importante azienda delle infrastrutture del gas in Europa, molto. Non è sempre detto, insomma, che siano volpi e lupi a vincere. “Al lavoro, l’ingiustizia mette le persone sulla difensiva e le fa sentire demotivate” spiega il manager nel suo intervento di oggi al Talk of the Day di Ted (Technology Entertainment Design), la non profit statunitense che organizza conferenze con relatori di alto livello. Alverà cita una ricerca americana, che “rivela che il 70% dei lavoratori negli Stati Uniti sono demotivati. Ciò costa alle aziende 550 miliardi di dollari l’anno. È una cifra corrispondente a quasi la metà della spesa sostenuta dagli Stati Uniti in educazione, è pari al pil di un paese come l’Austria”. Per questo, insiste, “rimuovere l’ingiustizia e promuovere la “fairness”, l’equità, dovrebbe essere la nostra priorità”.
Alverà, già direttore generale di Snam, nell’aprile 2016 ha preso il timone come ad. “Guido una squadra di 3.000 persone e la differenza tra 3.000 giocatori di squadra motivati e felici e 3.000 persone demotivate è tutto”, osserva. La sua ricetta per la “crociata per l’equità”, come l’ha ribattezzata, si articola in più punti. “Cerchiamo di promuovere attivamente una cultura di diversità di opinioni e di diversità di caratteri”. Inoltre “guardiamo alle regole, ai processi e ai sistemi nella nostra società” e “cerchiamo di eliminare ciò che non è molto chiaro, che non è molto razionale o non ha molto senso”. L’ad spinge per “sistemare tutto ciò che limita la circolazione di informazioni dentro l’azienda”. Tuttavia, per raggiungere l’equità per Alverà serve un passo in più. “Ha a che fare con le emozioni delle persone, con le loro esigenze, con le loro vite private, con quello di cui ha bisogno la società. Sono tutte questioni difficili da inserire in un foglio di calcolo o in un algoritmo”, osserva, perciò “è molto difficile renderle parte di una decisione razionale”. Tuttavia, incalza, “se non ne teniamo conto, ci mancano elementi molto importanti, ed è probabile che il risultato sia quello di sentirsi ingiusti”.
Per spiegare la differenza tra equità e ingiustizia, Alverà parte da un’esperienza personale. Un invito mancato al matrimonio di un amico scatena una sensazione di malessere nel manager. Il piccolo episodio smaschera un problema che può costare denari alle aziende. Il manager se ne accorge dopo il suo ingresso in Snam, quando si confronta con i colleghi. “Queste persone lavoravano in un’azienda nella quale non dovevano preoccuparsi dei risultati di breve termine. Non sarebbero stati penalizzati per sfortuna o errori in buona fede”, approfondisce Alverà. E aggiunge: “Sapevano che sarebbero stati valutati per ciò che cercavano di fare, non per l’esito. Erano valutati come esseri umani. Erano parte di una comunità. Qualsiasi cosa fosse accaduta, l’azienda li avrebbe sostenuti. E per me questa è la definizione di fairness”.
L’equità, insomma, si presenta come un collante tra l’azienda e i suoi dipendenti. E come il motore di una serie di effetti positivi. “La scienza dimostra anche che quando vediamo o percepiamo equità il nostro cervello rilascia una sostanza che ci dà piacere, vera gioia. Ma quando percepiamo una ingiustizia sentiamo dolore, un dolore anche più grande di quello che proviamo quando ci feriamo”, chiosa l’ad. Allora, si domanda, “se l’equità è la pietra miliare della nostra vita, perché ogni leader non la considera una priorità? Non sarebbe più bello lavorare in un’azienda più equa?”. Per Alverà la scelta dell’equità è una strada obbligata e non solo per le grandi aziende: “Ho anche scoperto che questo può funzionare in tutte le aziende a tutti i livelli. Non c’è bisogno di stipendi fissi o carriere stabili, perché la scienza dimostra che gli uomini hanno un innato senso di equità.Sappiamo cosa è giusto e cosa è sbagliato, prima ancora che possiamo dirlo o pensarlo”.




Inclusione + Diversità = Valore

E’ una delle equazioni dell’innovazione: aggregare nelle imprese competenze, culture e sensibilità diverse costituisce un fattore evolutivo

Se l’iperspecializzazione tecnologica è un must necessario per un mondo dove l’innovazione corre in modo esponenziale, l’importanza delle persone nell’immaginare e concepire tutto ciò che sia “made for human” ma sostenibile è sempre maggiore. Per questo motivo le imprese hanno necessità di includere i più disparati punti di vista, le più ampie esperienze, i background più diversi. E parallelamente tutto questo si riflette in ciò che si porta sul mercato, sul posizionamento e sulla comunicazione. Tanto che oggi si comincia a parlare di brand inclusivi nel senso in cui riescono a posizionarsi in modo da rispondere a qualsiasi audience, senza distinzioni caratteristiche.
Sul tema è stato effettuata la ricerca Diversity Brand Index, uno studio approfondito di Focus Mgmt presentato all’evento Diversity Brand Summit a Milano il l’8 febbraio 2018.
Lo studio ha consentito di costruire un indice (il Diversity Brand Index) per misurare il livello di inclusione dei brand rispetto ai consumatori finali. Inoltre ha consentito di studiare l’impegno concreto delle imprese sul tema D&I mediante una ricerca avvenuta con una fase attraverso il web e una seconda fase con la valutazione di progetti e iniziative effettivamente realizzati dalle aziende. L’indagine via web è stata effettuata attraverso il metodo Cawi su un campione di 1.068 rispondenti.
Rispetto al concetto di diversità, la survey ha preso in considerazione una classificazione composta da 7 cluster: credo/religione, disabilità, età, etnia, genere, orientamento sessuale, status socio-economico. Le domande sono state precedute da una verifica circa il tema affinché i rispondenti avessero cognizione di causa. In particolare per ogni genere di diversità si è sondato il grado di familiarità al tema, di relazione e coinvolgimento attraverso una griglia analitica. Dal sondaggio effettuato è emersa una segmentazione della popolazione italiana in sei macro cluster. Il 24,6% sono gli “impegnati”. Si tratta di donne e uomini con età media di 42,5 anni, reddito e istruzione oltre la media che dimostrano di essere informate, coinvolte e vicine rispetto la diversità di tipo etico, religioso con risvolti etici. Si dichiarano socialmente responsabili. Il 27,3 costituisce il cluster dei “coinvolti”. Età media di 42 anni, reddito più alto della media sono molto orientati alla famiglia. Dichiarano un alta consapevolezza con le forma di diversità ma non hanno abitudine a interagire con queste. Un terzo cluster è quello degli “idealisti” (15,4%). Età media di 39 anni, prevalentemente uomini (57,3%) hanno un reddito più basso della media ma un tasso di istruzione universitaria più alta. Esprimono un senso superiore dell’etica e si sentono coinvolti dai temi della diversity solo a livello teorico. Con il 13% del campione troviamo i “consapevoli”. Si tratta prevalentemente di donne (55,9%) con età media di 41 anni. Hanno un reddito e un livello di istruzione dichiarato superiore alla media, sono consapevoli ma scarsamente coinvolti. Esprimo maggior vicinanza ai temi dell’invecchiamento e dell’orientamento sessuale. L’8,3% del campione è costituito dai “menefreghisti”. Sono uomini e donne con un’età media di 42 anni, un reddito dichiarato più basso della media, pensano solo a sé stessi o alla loro famiglia, non conoscono i temi della diversità e non sono interessati ad approfondirli. Infine con l’11,4% si trova il cluster degliarrabbiati. Sono donne e uomini con un età media di 47 anni e reddito nella media. Si confrontano frequentemente con la disabilità, con persone molto anziane e con indigenti a livello economico. Sono persone che si dimostrano spiccatamente individualiste e non hanno interesse verso la diversity.

Il tema della diversity è entrato nel sentire comune abbastanza profondamente, un po’ perché si trova nella vita reale delle persone, (invecchiamento, crisi economica, migrazioni ecc.), un po’ perché la società si è spontaneamente evoluta anche sotto l’influenza dei media e dei soggetti di riferimento dei vari segmenti. Tuttavia rimane la distanza tra la teoria e la pratica. La ricerca mette in luce un interesse degli italiani per la diversity ma allo stesso tempo, uno scarso comportamento proattivo con limitata relazione con le diverse forme di diversity. Le forme di diversità per le quali gli italiani dichiarano di essere più preparati sono la senilità, la disabilità, lo status socio-economico, aspetto con il quale si ha maggiore relazione mentre la distanza maggiore è con le minoranze etniche e religiose con le quali si interagisce poco. Appaiono significative alcune considerazioni che i ricercatori hanno effettuato sui vari cluster emersi. In particolare gli idealisti sembrando prevalentemente sorretti da un senso dell’etica ferreo che li porta ad essere “politicamente corretti”; tuttavia si applicano poco. Spicca la dimensione del cluster degli Impegnati che vale quasi un quarto di tutto il panel. Questi si spendono effettivamente nella relazione con la diversity. Tanti italiani sono sensibili sul tema diversity (la stragrande maggioranza), desiderano che se ne parli diffusamente ma solo una parte minoritaria interagisce, si impegna concretamente. Tuttavia questa parte vale sostanzialmente un italiano su quattro. Al di la dei dati della ricerca, vi sono alcuni macro trend generali che caratterizzano i tempi attuali, che impattano su tutto il vivere sociale e anche sulla diversity. Uno di questi è l’arretramento sociale di tipo economico che genera reazioni emotive predominanti in alcuni soggetti. Poi vi è un generale disimpegno trasversale ai Millennials e non solo, che favorisce la teoria a discapito della pratica.




La Csr nel Dna della stakeholder company

Luca Poma interviene sul tema di cosa significa oggi essere davvero “responsabili”. Un rapido excursus delle teorie, per arrivare a una proiezione dell’azienda misurata ai portatori di interesse. Per riuscire davvero a rispondere alla domanda posta da Benigni e Troisi

«Chi siete? Da dove venite? Cosa portate? Dove andate? Un fiorino!». Chi non ricorda una delle scene storiche dello straordinario “Non ci resta che piangere”, film scritto, diretto e interpretato da Roberto Benigni e Massimo Troisi?
Il tema del “chi siete”, ovvero dell’identità delle aziende, della coerenza tra le loro strategie di business e il loro Dna, e tra lo scopo codificato nel momento fondativo e l’oggi, è oggetto di continua analisi da parte dei relatori pubblici e degli specialisti di economia e scienze sociali.
A riguardo, il padre delle RP italiane, Toni Muzi Falconi, ha detto: «Secondo la mia valutazione, pur in una situazione generale dove il dubbio appare essere la sola possibile certezza, l’organizzazione di valore è quella che persegue consapevolmente il suo scopo facendo leva sui propri 6 diversi capitali (umano, relazionale, finanziario, produttivo, naturale e intellettuale) sviluppando sistemi consapevoli di relazioni, di ascolto e di dialogo con quegli stakeholder le cui decisioni e i cui comportamenti possono accelerare o ritardare il raggiungimento degli obiettivi dell’azienda stessa, monitorando man mano l’efficacia del percorso grazie a indicatori di attuazione predefiniti, sia quantitativi che qualitativi, sia materiali che intangibili».

VALORI TROPPO “FREDDI”

Il che è senza dubbio corretto: ma tra il dire e il fare c’è di mezzo la routine e l’ossessiva attenzione al raggiungimento di obiettivi “qui e ora”. Se è vero che sfogliando qualunque bilancio sociale, o navigando i siti web delle principali corporation, il “manifesto dei valori” è tra le prime voci del menù, trattasi a mio avviso di “piatto freddo”, se consideriamo che sono poche le aziende attrezzate efficacemente per misurare il grado di applicazione e concreto perseguimento di questi principi da parte del management e dei dipendenti e collaboratori. I cosiddetti “valori” sono più che altro un elenco di “buoni principi”, appunto, che ognuno formula secondo la propria sensibilità e storia, e ai quali aderisce in astratto, o che nella migliore delle ipotesi costituisce un framework di riferimento entro cui muoversi; ma quanto poi ogni membro del team contribuisca in concreto al raggiungimento di quegli obiettivi, resta confuso all’interno di cruscotti d’indicatori spesso strutturati per misurare gli aspetti quali-quantitativi della vita aziendale nel breve periodo, più che il raggiungimento di scopi di lungo periodo.

CIRCONDATI DA UN ORDINE SOCIALE

L’economista italiano Stefano Zamagni, professore ordinario di Economia all’Università di Bologna e di International Political Economy alla Johns Hopkins University, ha ricordato come, nel 1953, negli Stati Uniti un economista americano all’epoca non particolarmente noto, Howard Bowen, scrisse che «era giunto il momento per le imprese di farsi carico della responsabilità per ciò che le circondava». L’impresa socialmente responsabile è quindi quella che non si limita a immaginare come guadagnare di più per poi redistribuire parte dei propri profitti, ma che si adopera con i mezzi a sua disposizione per far sì che l’ordine sociale di cui è parte attiva evolva, migliorando tra l’altro l’efficienza dell’organizzazione politica e amministrativa, generando benessere per i cittadini e permettendo così a tanti nuovi soggetti di immettersi nel circuito del mercato, con conseguenti vantaggi anche per l’impresa stessa. Ogni azienda, aggiungo io, lo fa a modo proprio: in linea, appunto, con lo scopo codificato nel momento fondativo.
Uno stimolo che ha radici anche, nell’etica delle virtù, nata in Grecia all’epoca di Aristotele e poi perfezionata nel corso dei secoli, la quale sostiene che bisogna agire sulla base del convincimento che il “mio benessere deve andare di pari passo con il tuo”, e che si scontra con un modello post-ford-taylorista, di tipo gerarchico con struttura piramidale, che ancora pervade molte aziende, attente appunto soprattutto “al risultato” (di breve periodo, of course).

ALLARGARE IL CRUSCOTTO

Ma se, come afferma Zamagni, l’impresa non è solo un attore economico, bensì ha a che fare con la polis, la città-stato greca dove viveva la comunità, il “cruscotto di indicatori” che regola la vita d’impresa non può e non deve fermarsi solo alla misurazione dei risultati quanti-qualitativi raggiunti settimana dopo settimana: è l’aderenza ai valori fondativi nel lavoro quotidiano di ogni dipendente (tutti, dal magazziniere al Ceo) che bisogna trovare il modo di misurare concretamente. Così facendo, stimoleremmo ad esempio l’ufficio acquisti sia ad approvare contratti di fornitura derivanti solo da filiere realmente sostenibili (dimenticando l’inveterata prassi di porre al primo posto esclusivamente il criterio del “miglior prezzo”) come anche a porsi domande circa la situazione dell’etica del lavoro lungo la filiera, fino agli “stakeholder degli stakeholder”, invece di garantirsi tranquillità per la propria coscienza solo grazie al fatto che si “dimentica” di indagare circa gli standard etici dei produttori a monte, oltre al primo livello di fornitura.

LA SPINTA SOFT DEL NUDGING

Infine, aggiunge Muzi Falconi, s’impone anche un’altra seria riflessione: una volta riusciti a misurare il cambiamento di un comportamento, come giustificare un investimento qualsiasi per ottenere che esso duri nel tempo? «Qui – dice Falconi – c’è forse il valore effettivo del nudging: un’azione continuativa necessaria per sostenere un cambiamento virtuoso, che probabilmente non può prescindere da politiche aziendali di osservazione partecipata».

L’ORGANIGRAMMA PER STAKEHOLDER

Un ulteriore passaggio, a mio avviso, potrebbe sostanziarsi nella creazione di un “organigramma per stakeholder”, all’interno del quale inserire tutte le funzioni aziendali in ragione dei tipi di stakeholder con i quali maggiormente dialogano: solo così sarà possibile comunicare realmente, all’esterno ma soprattutto all’intero, “l’essenza” di una “stakeholder company”, educando inoltre il capitale umano dell’azienda a mettere al centro della propria attenzione i pubblici d’interesse dell’azienda stessa (senza la piena soddisfazione dei quali non esiste impresa) e non solo i prodotti e i servizi erogati.
Concludendo, ricordo come Benigni e Troisi dichiararono in un’intervista che la celebre scena in cui passano la dogana venne girata più e più volte, perché i due durante le riprese non riuscivano a restare seri… Un po’ come molti di noi, leggendo i bilanci sociali e integrati pubblicati online (centinaia di pagine a volte ancora stampate su carta) da molte aziende. Altro che KPI’s di scopo: nel 2017 è ancora, purtroppo, lo “short-termismo” a farla da padrone.




Gli USA mettono al bando Kaspersky

Vietato l’uso del software russo su ogni computer dell’amministrazione federale: potrebbe avvantaggiare le spie straniere.

La suite antivirus di Kaspersky è generalmente considerata come una delle migliori in circolazione.
Purtroppo (almeno dal punto di vista statunitense) è prodotta in Russia, e da qualche mese a questa parte è finita sotto accusa perché sarebbe fin troppo strettamente legata al Cremlino e ai servizi di intelligence di Mosca.
Addirittura c’è chi ritiene che i software di Kaspersky siano stati diffusi in America con il preciso scopo di fungere da cavalli di troia (il che è abbastanza ironico, per un antivirus) ai fini di spionaggio informatico.
Se a ciò si aggiunge la paura – più volte ventilata anche se tutta da provare- che la Russia abbia interferito con le più recenti elezioni americane, si capisce il clima di sospetto in cui si trova oggi a operare Kaspersky.
Meglio però sarebbe dire “si trovava”, poiché il presidente americano Donald Trump ha ora firmato una norma che vieta l’uso dei prodotti Kaspersky su tutti i sistemi informatici governativi, decisione per la quale ha ottenuto anche il plauso dell’opposizione democratica.

A nulla è servita l’offerta di Evgenij Kaspersky, il quale s’è detto pronto ad aprire il codice sorgente dei propri prodotti per fugare ogni dubbio circa la loro onestà e, confermando il proprio carattere impulsivo, ha definito «teoria del complotto senza alcun fondamento» nonché «str***ata colossale» ogni ipotesi di implicazione della sua azienda con le spie russe.

«Il rischio che il governo russo, sia che agisca da solo sia che agisca in collaborazione con Kaspersky, possa guadagnare dall’accesso fornito dai prodotti Kaspersky per compromettere le informazioni e i sistemi informatici federali è una minaccia diretta alla sicurezza nazionale degli Stati Uniti» ha fatto sapere il Dipartimento della Sicurezza Interna, chiudendo la questione.
Dal canto proprio, l’azienda s’è detta «molto preoccupata» per la decisione, che mostra un inquietante «approccio su base geografica alla sicurezza informatica».