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Whirlpool Emea, malore della presidente Berrozpe. Tensione alle stelle

Dal Blog “La casa di Paola” – La numero uno del gruppo di elettrodomestici si è sentita male mentre era già ricoverata in ospedale. Escalation di tensioni e duri confronti all’interno del gruppo proprietario di Embraco? Sono molte le partite aperte e c’è anche l’avanzata dei cinesi di Midea

Esther Berrozpe, 43 anni, spagnola-basca, sposata con un figlio, presidente di Whirlpool Emea dal 2013, prima donna in questa carica, è stata colta da malore nella giornata di mercoledì 7 mentre era già ricoverata in ospedale per accertamenti sanitari.
La notizia, già grave di per sé per il ruolo rivestito da Berrozpe, alla guida dell’area europea (Est e Ovest) della multinazionale e per la giovane età della Berrozpe stessa, ha mandato in panico manager e dipendenti, perché arriva in un momento che definire critico per le attività del gruppo in Europa, è dire poco. I dipendenti della multinazionale, già provata da forti contrasti tra i manager, tra il vertice americano e quello europeo, dalla crisi delle vendite in un mercato dove i competitor invece crescono, dalla minaccia dell’arrivo dei cinesi di Midea, sono in grande tensione da diverso tempo.
L’ultima delle cause di questo clima pesante che si respira a partire da Rho, la sede europea di recente inaugurata, riguarda la gestione dell’affare Embraco, dipendente sì dal management brasiliano ma facente parte del gruppo al 100 per cento. E solo l’intervento del governo italiano e del ministro Carlo Calenda in particolare, ha ottenuto l’intervento diretto del presidente mondiale di Whirlpool, lo svizzero-tedesco Mark Bitzer  – che peraltro ignorava in precedenza la reale gravità della situazione – ed ha parzialmente sbloccato l’impasse economica della vicenda (cassa integrazione, stipendi e altro).
Ma il malore di Berrozpe – anche in assenza di conferme che non verranno mai – ha una storia lunga alle spalle come abbiamo anticipato. Se ne  è andato, dopo una sorda, dura serie di contrasti, un carismatico e roccioso general manager di Whirlpool Italia, Lorenzo Paolini (i ricchi margini che aveva sempre messo in tasca agli azionisti rapaci sono diminuiti, non cessati, e questo oggi si paga). Il rapporto annuale sull’andamento del gruppo in Europa, arrivato mercoledì, segnala una forte controtendenza con perdite pesanti di quote storiche. Un esempio per tutti: la non gestione della comunicazione dei pesantissimi effetti delle cosiddette lavastoviglie assassine di Hotpoint, in Inghilterra e poi, a Londra, della tragedia della torre incendiata a causa – secondo la stampa britannica – di un incendio di un frigo Indesit. E la conseguente perdita di quote notevoli di quel 40% del mercato inglese sui cui contava da sempre la multinazionale. E la caduta del mercato russo, eredità dell’acquisizione di Indesit, ma colpito dalle sanzioni e da altro….
Ma ad  agitare l’intero gruppo è l’attesa di una news come smentita o come conferma delle mire pressanti della cinese Midea per appropriarsi del gigantesco ramo europeo di Whirlpool, che per gli azionisti non regala i profitti di prima. Attesa vana. Sembrerà incredibile ma una parte consistente dei problemi che si riflettono su vendite e immagine dell’azienda dipende – come è noto – dalla strategia di una comunicazione di crisi. “Ci vogliono anni – diceva Warren Buffett – per costruire una reputazione e 5 minuti per distruggerla”. E le criticità che Whirlpool ha dovuto affrontare  sono state e sono davvero troppe. Il malore di Esther Berrozpe probabilmente lo dimostra.




Gas serra: la moda emette quanto l’Europa

NUOVO STUDIO CHIARISCE IMPATTO AMBIENTALE DI FASHION E CALZATURE

Un nuovo studio di ClimateWorks Foundation e Quantis chiarisce l’impatto ambientale dei settori fashion e calzaturiero a livello globale: complessivamente sono responsabili dell’8% di tutte le emissioni di gas serra prodotte in tutto il mondo

L’industria dell’abbigliamento e quella delle calzature sono responsabiliinsieme dell’8% delle emissioni di gas serra nel mondo. Tanto quanto l’intera Unione europea. Il solo settore abbigliamento vale ben il 6,7 per cento. Oltre il 50% di queste emissioni è prodotto in tre fasi dell’attività: produzione di fibra (15%), preparazione del filato (28%) e, soprattutto, tintura e rifinitura (36%).
Sono alcuni dei risultati che emergono dal report “Measuring Fashion: Insights from the Environmental Impact of the Global Apparel and Footwear Industries study”, diffuso il 27 febbraio dalla ClimateWorks Foundation (una ong che si occupa di mobilizzare la filantropia per risolvere la crisi climatica) insieme al provider di servizi sulla sostenibilità Quantis.

IL PRIMO STUDIO DEL SUO GENERE

ClimateWorks Foundation e Quantis assicurano che si tratta di una ricerca innovativa. Innanzi tutto perché, dicono, è la prima in grado «di stimare gli impatti ambientali a livello globale delle industrie dell’abbigliamento e del calzaturiero». Andando oltre le stime parziali o gli annunci delle aziende.
In particolare, l’analisi considera il valore della catena del settore attraverso sette passi che vanno dalla produzione della fibra e l’estrazione del materiale fino al fine-vita del prodotto. Inoltre, include cinque diversi indicatori ambientali: cambiamento climatico, risorse, prelievo di acqua, qualità dell’ecosistema, salute umana.
Secondo gli studiosi, gli aspetti innovativi del documento sono tre: 1. si basa su dati specifici d’impatto di questa industria, così come indicati nel World Apparel Lifecycle Database, il che lo rende «completo, robusto e aggiornato»; 2. utilizza un approccio multi-indicatore per valutare diverse aree d’impatto, come il consumo di acqua e gli effetti sull’ecosistema, considerati insieme alle emissioni di gas serra, per assicurare una stima bilanciata sotto molteplici fronti; 3. fornisce una visione dell’evoluzione degli impatti nel tempo.
«C’è una pressione crescente sui brand della moda – ha detto Annabelle Stamm, Quantis senior sustainability consultant – perché dimostrino la propria sostenibilità. Sono state tentate molte simulazioni a proposito della reale performance ambientale dell’industria e della sua catena di valore, dove si trovano i suoi hotspot e quali soluzioni potenziali ci potrebbero essere»Evidentemente, secondo Quantis, si è trattato di simulazioni non complete. «Sapevamo che l’impatto del fashion (sull’ambiente, ndr) era maggiore, ma non avevamo metriche scientifiche su cosa questo significasse davvero. Questo studio ci permette di rispondere ad alcune di queste domande, rompere alcune delle nostre convinzioni collettive e fornire linee guida a chi è impegnato ad agire».

L’ANDAMENTO NEL TEMPO

Tornando ai dati emersi da questo studio, si scopre che senza un cambiamento radicale della situazione il settore peggiorerà di molto nei prossimi anni da un punto di vista dell’impatto ambientale prodotto. Secondo i ricercatori, infatti, se non interverranno cambiamenti, in uno scenario  di “business-as-usual”, l’impatto ambientale del settore dell’abbigliamento potrà arrivare a produrre il 49% dei gas serra emessi complessivamente sul nostro Pianeta entro il 2030, ossia quanto emesso ogni anno negli Stati Uniti d’America.
In estrema sintesi, per mettere in moto un cambio di rotta, lo studio identifica tre leve: “ripensare l’energia”; “disruption per ridurre”; e “design per il futuro”. E, in ogni caso, il report conclude chiedendosi: «Sarà sufficiente il passaggio verso un’economia circolare?».

LA PARTECIPAZIONE DELL’INDUSTRIA DELLA MODA

Lo studio, fanno sapere i ricercatori, si è avvalso anche dell’aiuto di uno “Steering Committee” di leader dell’industria ed esperti che hanno fornito feedback e input, poi utilizzati nella finalizzazione del lavoro.
A questo comitato, in particolare, hanno partecipato: Jason Kibbey, ceo della Sustainable Apparel Coalition; Debera Johnson, direttore esecutivo di Brooklyn Fashion e design accelerator di Pratt Center for Sustainable Design Strategies; Megan McGill, program manager di C&A Foundation; La Rhea Pepper, managing director a Textile Exchange; Linda Greer, senior scientist di Nrdc. 




Roberto, l'italiano scelto da Obama: "Un sogno essere nella sua top 500"

Pontecorvo oggi al summit dei leader innovatori per il progetto di salvare il Tevere. “Ho mandato una email, quando mi è arrivata la risposta non ci potevo credere”
Per il suo debutto, oggi a Chicago, la Fondazione Obama ha reclutato “i giovani leader innovatori civici di tutto il mondo perché si riuniscano, scambino idee ed esplorino soluzioni creative a problemi comuni”.
Tra gli invitati c’è anche un ragazzo italiano di 27 anni, Roberto Pontecorvo. È stato selezionato tra più di ventimila domande.
Complimenti, Roberto. Come si è guadagnato l’invito?
“Sono arrivato ieri a Chicago e sono ancora emozionatissimo. Tutto è nato nel 2013 da un’idea di sviluppo territoriale per il mio paese, Praiano, in costiera amalfitana. Lo abbiamo trasformato in un museo a cielo aperto, chi viene ha un’App e una guida per 150 opere esposte. Il risultato è andato oltre le aspettative. Così ne abbiamo tratto uno modello di sviluppo territoriale nazionale ed è nato Agenda Tevere”.
Cos’è Agenda Tevere?
“Un progetto che coinvolge nella gestione integrata del Tevere tante personalità e le 17 associazioni attive sul fiume. La condivisione ha dato risultati incredibili, stiamo ottenendo un ufficio di scopo in Comune per realizzarlo. In poco tempo è cambiato tutto, e mi sono trovato a dare interviste”.
E a partire per Chicago?
“Cercavano leader civici mondiali in riferimento a un progetto o un’esperienza vissuta su un territorio. Io ho parlato della mia, in maniera molto umile. Sono andato sul sito Obama.org , lo seguivo da quando è nata la Fondazione. Ho fatto domanda pensando al classico “figurati se mi prendono”. E invece è andata bene. La risposta è arrivata per mail il 30 settembre alle due del mattino: stavo guardando una serie tv, non ho più chiuso occhio”
Cosa diceva, la mail?
“Che erano lieti di informarmi… Non ci credevo: ho mandato un paio di email. Non sono scaramantico, ma stavolta da buon napoletano non ho resistito. Non ne ho parlato con nessuno, mi dicevo: fin che non sto lì non ci credo. Mi sono pure ammalato, ho dovuto prendere gastro protettori per reggere lo stress”.
Come si diventa “imprenditore sociale” e “innovatore”?
“Ho una laurea triennale in Relazioni internazionali a Forlì, poi un anno di Erasmus a Lione, un master in Studi europei a Siena, ricerca a Cracovia e a Bruxelles. Ora sto completando la magistrale a Siena: Manca la tesi, sull’impatto del progetto di Agenda Tevere: aspetto le conclusioni”.
Il successo a Praiano l’ha ottenuto giovanissimo. Come?
“L’intuizione è venuta al giornalista Claudio Gatti. Mi ha presentato l’idea, l’ho appoggiata e abbiamo costituito l’associazione Agenda Praiano. Abbiamo raccolto ventimila euro tra imprenditori locali e persone che avevano a cuore il paese; chi non poteva ha dedicato ore e mano d’opera. Abbiamo vinto un bando regionale da 250mila euro. Praiano, paese di pescatori e agricoltori, è riuscito a compiere un autentico miracolo gestendo un progetto in maniera trasparente, pulita e condivisa. Con gli stessi soldi, dalle mie parti al massimo si organizza una sagra, nulla di duraturo”.
La magia è metter d’accordo tutti?
“Sì, fare politica senza essere in politica, essere trasversali e non di parte. Se questo progetto fosse stato avanzato da una delle due liste civiche avrebbe subito trovato l’opposizione dell’altra”.
Vedrà Obama? Emozionato?
“Saremo 500, ma solo assorbire un po’ della sua energia sarà incredibile. E poi avremo conversazioni con Michelle, col principe Harry…”.
Cosa porterà a casa con sé?
“Lo scambio di idee. Abbiamo esperienze disparate che convergono: ci sono rappresentanti delle tribù indigene che lottano per i propri diritti, altri vengono da città difficili in Africa o in Messico”.
Cosa consiglierebbe ai ragazzi della sua età?
“Non sono bravo a lanciare messaggi, ma ho imparato a crederci.
Non ho nessuno alle spalle e non ho raccomandazioni. Non chiedevano referenti o recensioni, solo quello che avevamo fatto. Si basano sul progetto, poco sulla persona. L’Italia invece non sa dare il giusto valore all’aspetto artistico e culturale. Bisogna ripartire da lì”.




Way of the Future: l’intelligenza artificiale diventa una religione

Anthony Levandowsk, ex ingegnere e manager di Google e Uber, ha fondato una chiesa per “sviluppare e promuovere la realizzazione di una divinità basata sull’AI”. Perché Dio, a ben vedere, potrebbe essere una macchina

Dopo sette milioni e mezzo di anni, il supercomputer Pensiero Profondo fornisce la risposta alla «domanda fondamentale sulla vita, l’universo e tutto quanto»: 42. E se il concetto di divinità artificiale è stato trattato con ironia da Douglas Adams nel romanzo Guida galattica per autostoppisti, l’intento di Anthony Levandowski e della sua associazione religiosa senza scopo di lucro “Way of the Future”, sembrerebbe molto diverso.
Fondato dall’ex ingegnere e manager di Google e Uber, si tratta di un culto nato con l’obiettivo di «sviluppare e promuovere la realizzazione di una divinità basata sull’intelligenza artificiale», si può leggere nel suo statuto. Nata nel 2015, l’esistenza dell’associazione è stata rivelata in un articolo pubblicato su Wired .
Insomma, una religione che non può non rifarsi ai principi della singolarità tecnologica, la teoria in cui si ipotizza il probabile punto di non ritorno della tecnologia: capace di superare l’intelligenza in carne e ossa fino a livelli non comprensibili e prevedibili dagli esseri umani. E se da un lato Elon Musk eStephen Hawkins pensano che le macchine potrebbero diventare una minaccia concreta in grado di mettere a repentaglio l’umanità stessa, Lewandoski è decisamente dalla parte delle menti artificiali. Non è un caso che uno dei creatori delle incarnazioni più terrene e concrete dell’intelligenza artificiale: le auto autonome, abbia deciso di fondare una religione di questo tipo.
L’ingegnere è il fondatore di Otto, società specializzata nel settore dei veicoli che si guidano da soli. Ma prima aveva lavorato al progetto Waymo per Google. Dopo l’acquisizione della stessa Otto da parte di Uber, Lewandoski è stato accusato da Mountain View di aver sottratto e portato con se 14 mila file di segreti industriali. Tra cui la tecnologia LIDAR: un sistema in grado di misurare la distanza del veicolo da un oggetto puntando un raggio laser contro l’ostacolo. In poche parole, gli occhi del veicolo autonomo. In seguito alla causa legale, Uber ha deciso di licenziare l’uomo che nel frattempo era diventato il responsabile del dipartimento auto autonome della società di San Francisco.




Il robot che ricicla 200 iPhone all'ora per estrarne oro, argento e platino

Per prepararsi alla Giornata della Terra 2018 di domenica 22 aprile, Apple ha presentato Daisy, il robot che ricicla gli iPhone.Fino al prossimo 30 aprile, gli iPhone restituiti a Apple tramite il programma Giveback, con il quale si possono riconsegnare i vecchi smartphone in cambio di Gift Card, verranno dati in pasto a Daisy.
Il robot in sé non è una novità completa: è infatti il successore di Liam (di cui, in spirito ecologico, utilizza alcune parti), che già svolgeva il medesimo ruolo nel 2016.
Liam era più rapido di Daisy, ma quest’ultima ha un campo d’azione più vasto: riesce a riciclare 200 iPhone all’ora ed è in grado di smontare senza alcun problema nove diversi modelli dello smartphone di Apple.
L’idea di riciclare i dispositivi tecnologici non è soltanto una trovata pubblicitaria in vista della Giornata della Terra: all’interno di smartphone e compagni ci sono infatti diversi metalli (anche preziosi, quali oroargento e platino) che possono essere recuperati e riutilizzati, e componenti inquinanti che devono essere smaltiti con criterio.
Grazie a Daisy – sostiene Apple – si possono recuperare materiali che i sistemi tradizionali di riciclaggio non riescono ad estrarre dai dispositivi, e l’operazione viene svolta con una maggiore efficienza complessiva.

Daisy robot disassembles iPhone 04192018