Se il brand è social prezzi e acquisti ci guadagnano

Le aziende e i marchi che investono sulla responsabilità sociale d’impresa vengono premiate dal consumatore e ottengono quindi un ritorno economico. E’ quanto rivela la ricerca di Nielsen Global Survey of Corporate Social Responsibility and Sustainability, condotta mediante interviste a 30mila utenti internet di 60 Paesi, tra i quali l’Italia. Lanciata allo scopo di analizzare il comportamento dei consumatori verso i temi della responsabilità sociale, l’indagine svela che nell’ultimo anno i brand attivi sotto il profilo etico registrano vendite in crescita di oltre il 4% rispetto alle altre, che in media salgono di meno dell’1%.
Non solo: oggi arriva globalmente al 66% la quota di consumatori che dichiarano di essere disposti a pagare di più per un brand “responsabile” (un anno prima erano il 55% e nel 2013 il 50%). Gli italiani, in particolare, si allineano alla media europea: accetta un prezzo superiore sui prodotti sensibili al sociale il 52% dei consumatori di casa nostra, in crescita di addirittura venti punti rispetto alla rilevazione del 2013.
In Italia, poi, la freschezza e la presenza di ingredienti naturali/biologici risultano l’elemento più importante per identificare un prodotto socialmente responsabile (61%), seguiti dalla presenza di benefici salutistici (53%). Queste indicazioni trovano conferma nella continua crescita del comparto biologico in Italia (866 milioni di euro, +14% nell’ultimo anno), degli alimenti alleggeriti (senza glutine, 101 milioni di euro +31%; meno grassi, 25 milioni +10%) e dell’integrale (235 milioni +11%). La fiducia nel brand si ferma al 53%, contro il 62% a livello globale.
Per gli italiani poi i valori che ruotano attorno alla tutela ambientale prevalgono su quelli più prettamente sociali. Il 41% ha acquistato uno specifico prodotto perché l’azienda produttrice è nota per essere amica dell’ambiente e il 38% per la confezione a basso impatto ambientale. Il 33% invece ha scelto per l’impegno sociale dell’impresa produttrice e il 31% per l’impatto diretto sulla propria comunità. L’impegno etico ripaga anche in termini di messaggio pubblicitario: se il 17% ha acquistato per avere visto la pubblicità del prodotto, questa percentuale sale al 21% se la pubblicità riguardava l’impegno sociale/ambientale del produttore. «Il consumatore» è la conclusione dei ricercatori di Nielsen «richiede sempre più prodotti buoni: buoni per l’acquirente e buoni per la comunità e l’ambiente. Un trend in continua crescita che rappresenta un’opportunità in termini di maggior potenziale di fatturato e crescita sostenibile dell’azienda».


Perché Lego non vuole vendere i suoi mattoncini all’artista cinese Ai Weiwei

Quanta pubblicità si è fatta la Campbell grazie a Andy Warhol e alle sue serigrafie con i barattoli di zuppa di pomodoro? E quanta se ne potrebbe fare la Lego se uno dei più grandi artisti contemporanei del mondo gli chiedesse una valanga di mattoncini per realizzare la sua prossima opera d’arte? Un’infinità. Eppure proprio l’azienda danese di costruzioni per bambini ha rifiutato ad Ai Weiwei la fornitura richiesta dall’artista cinese per completare l’installazione che dovrebbe esporre alla National Gallery of Victoria, in Australia. La ragione? Lego non vuole che i mattoncini più famosi del mondo vengano utilizzati per realizzare «un’opera politica». 
A denunciare il gran rifiuto dell’azienda è stato lo stesso artista su Instagram qualche giorno fa, ricevendo di tutta risposta numerose offerte di mattoncini da parte di privati, anche grazie all’hashtag #legosforweiwei. Da Berlino, dove al momento si trova, Ai Weiwei ha potuto annunciare il trionfale raggiungimento del numero di pezzi necessario. Quindi il progetto sarà completato. Si tratta di una serie di ritratti di attivisti australiani realizzati proprio con i mattoncini Lego per la mostra “Andy Warhol/Ai Weiwei” in programma a Melbourne. «Ero praticamente spacciato», ha detto l’artista in una conferenza stampa, «anche perché si trattava di un lavoro piuttosto importante, ma internet è un po’ come una chiesa moderna, uno confessa al prete i suoi problemi e la comunità se ne fa carico e trova anche la soluzione».

Polemica a parte, però, non convince del tutto la risposta fornita dall’azienda danese. Stando a quanto dichiarato dal portavoce della Lego, infatti, «il gruppo si astiene dal prendere parte attivamente o appoggiare l’uso del marchio Lego in progetti o contesti legati all’agenda politica». Posto che Lego può scegliere liberamente di sostenere o meno Ai Weiwei (tanto più che nessuno vieta all’artista di comprare quello che gli serve in un qualsiasi negozio), quello che l’azienda non dice è che affiancare il proprio marchio al nome dell’artista più odiato dal regime di Pechino sarebbe una mossa azzardata, visti gli interessi del gruppo in Cina.
Ai Weiwei ha collegato il no dell’azienda alla sua richiesta al fatto che il presidente Xi Jinping ha annunciato durante il suo viaggio in Gran Bretagna cheLego aprirà presto un parco di divertimenti Legoland a Shanghai. Ma basta questo per decidere di fare una figuraccia a livello mondiale? Forse.
Più probabile, invece, è che sia sufficiente il fatto che Lego abbia scelto proprio la Cina per costruire una mega-fabbrica dove spostare parte della produzione in Asia. Lo stabilimento, in cui dovrebbero lavorare circa duemila operai, è in costruzione dal 2014 e dovrebbe essere operativo dal 2017. Stando a quanto dichiarato dall’azienda sul suo sito ufficiale, la fabbrica di Jiaxing rappresenterebbe un punto fondamentale «per portare la produzione vicino a uno dei nostri mercati principali». Insomma, la Lego ha tutto l’interesse a non far infuriare il vecchio Dragone cinese.


Le banche etiche battono le big, performance finanziarie migliori

Le banche etiche e sostenibili hanno performance migliori rispetto ai grandi istituti bancari, soprattutto per quanto riguarda l’accesso al credito. Lo rileva un rapporto della Global Alliance for Banking on Values (Gabv) che conta 27 banche al servizio di 20 milioni di clienti in 5 continenti con un giro d’affari di oltre 100 miliardi di dollari con il comune obiettivo di mettere la finanza al servizio di uno sviluppo economico sostenibile, rispettoso dei diritti umani e dell’ambiente.
La Gabv, il cui unico membro italiano è Banca popolare Etica, ha pubblicato oggi il rapporto aggiornato sui punti di forza della finanza sostenibile in occasione della giornata di mobilitazione mondiale per sensibilizzare sull’uso responsabile del denaro. In particolate, il report dimostra che le banche sostenibili ed eticamente orientate erogano quasi il doppio del credito in proporzione agli attivi di bilancio rispetto alle banche di sistema (75,2% per le banche sostenibili; 39,6% per le ‘too big to fail’).
I bilanci delle banche eticamente orientate si sostengono grazie alla raccolta di risparmio dalla clientela senza bisogno di attività speculative (78% per le banche etiche e sostenibili; 49% per le ‘too big to fail’). E ancora. Le banche etiche hanno una solidità patrimoniale maggiore rispetto alle banche di sistema (7,9% per le banche etiche e sostenibili;6,9% per le ‘too big to fail’) e segnano risultati migliori anche sotto il profilo degli impieghi: nel periodo 2010-2014 registrato in media una crescita degli impieghi pari a +12,2% contro lo + 5,4% delle too big to fail.
Anche la capacità di attrarre risparmio è cresciuta molto di più. Tra il 2010 e il 2014 le banche etiche hanno registrato nell’insieme un +12% contro il +5,9% delle banche di sistema. Più marcata anche la crescita del capitale sociale che nel periodo 2010-2014 ha segnato un +11,8% contro il +3,5% per le too big to fail.
La ricerca realizzata dalla Gabv evidenzia dunque che fare finanza al servizio dell’economia reale e sostenibile genera ritorni finanziari migliori rispetto a quelli raggiunti dalle più grandi banche del mondo.
“Essere una banca basata sui valori – spiega Marcos Eguigueren, direttore esecutivo della Gabv – significa molto di più che essere semplicemente attenti alla responsabilità sociale di impresa o fare della carità di tanto in tanto. Si tratta invece di abbracciare un modello strategico di attività bancaria che persegue i profitti in un’ottica di lungo periodo. Nel nostro modello i profitti non sono un obiettivo di per se ma il risultato del sostegno alla crescita dell’economia reale e delle comunità in cui il benessere e la salute sono diffuse”.


MULTINAZIONALE GLAXO, REPUTAZIONE IN CRISI? ALTERATI I DATI SCIENTIFICI PER FARE BUSINESS E VENDERE UN FARMACO CHE PUO' INDURRE AL SUICIDIO BAMBINI E ADOLESCENTI

BRITISH MEDICAL JOURNAL: IL “BLOCKBUSTER” DEGLI ANTIDEPRESSIVI PER MINORI, E’ INEFFICACE E PERICOLOSO, PUO’ STIMOLARE SUICIDI TRA BAMBINI E ADOLESCENTI

Nell’assordante silenzio di molti specialisti, una delle più autorevoli riviste mediche del mondo conferma i sospetti di parte della comunità scientifica: a fini di business, la multinazionale farmaceutica GlaxoSmithKline aveva alterato i dati sullo psicofarmaco. Appello al Ministro Lorenzin: serve un registro per monitorare queste prescrizioni. 

La recente revisione sistematica[1] promossa da una delle più autorevoli riviste mediche del mondo non lascia spazio a dubbi: i dati che finora hanno giustificato la prescrizione a bambini e adolescenti del potente antidepressivo paroxetina – usato anche in Italia – erano stati falsati dal produttore, la multinazionale farmaceutica GSK – GlaxoSmithKline, e quella molecola è “inefficace e pericolosa”.  Lo studio cosiddetto “329”[2] era stato pubblicato nel 2001, a firma di 22 ricercatori, e originariamente pareva confermare l’appropriatezza d’uso di questa molecola nei casi di depressione. In realtà la ricerca fu redatta da Sally K. Laden, una ghostwriter pagata dalla casa farmaceuticache aveva finanziato la ricerca allo scopo di dimostrare l’efficacia della molecola. Ci sono voluti poi 14 anni – e la tenacia di validi ricercatori – per ribaltare i risultati dello studio, e dimostrare che la paroxetina aumenta il rischio di suicidio per i minori che la assumono.
Dopo lo Studio 329 del 2001, le vendite della paroxetina e di altri SSRI subirono una fortissima impennata, grazie anche a prescrizioni di medici generici e pediatri, con il risultato che molti adolescenti subirono effetti negativi e alcuni morirono. La paroxetina divenne l’antidepressivo più venduto, con guadagni per centinaia di milioni di dollari e più di due milioni di ricette emesse ogni anno per i soli bambini e adolescenti, ha commentato[3] Paolo Migone, Medico specializzato in Psichiatria in Italia e in USA[4]. “Mentre la GlaxoSmithKline continuava a utilizzare lo Studio 329 come dimostrazione dell’efficacia e sicurezza della paroxetina – prosegue Migone – già nel 2004 la Procura Generale di New York denunciò la multinazionale per frode contro i consumatori per aver contraffatto i dati e diffuso informazioni false. La causa si concluse con un accordo: la GSK doveva pagava 2,5 milioni di dollari di sanzione e si impegnava a pubblicizzare sul suo sito internet i dati effettivi dello Studio 329. Successivamente, anche il Dipartimento di Giustizia americano denunciò la GSK per truffa nei confronti di Medicare e Medicaid – le principali agenzie assicuratrici pubbliche che finanziano la Sanità in America – in quanto aveva diffuso affermazioni false o fraudolente. La GSK si dichiarò colpevole e accettò di pagare 3 miliardi di dollari – conclude Migone –  ovvero la multa più alta comminata a una azienda farmaceutica nella storia americana”.
La GlaxoSmithKline fu allora definitivamente obbligata a rendere noti i dati relativi alla paroxetina, “Ma lo fece a modo suo – commentaLuca Poma, giornalista membro dell’Unione Nazionale Medico-Scientifica d’Informazione e portavoce nazionale di “Giù le Mani dai Bambini”®, il più rappresentativo comitato italiano per la farmacovigilanza pediatrica[5]: “La multinazionale pubblicò infatti oltre 77.000 pagine di resoconti clinici visibili solo in remoto a video, senza che i file potessero essere scaricati o stampati. Una scelta ridicola e aggiungo anche dannosa sia dal punto di vista reputazionale che sostanziale: di fatto questi manager intralciarono deliberatamente le verifiche scientifiche, danneggiando la salute di bambini e adolescenti pur di continuare a fare soldi”.
Il team guidato dal professor Jon Jureidini presso l’Università di Adelaide ha successivamente identificato lo studio finanziato da GlaxoSmithKline come un esempio di un processo autorizzativo da rivedere, e utilizzando documenti in precedenza riservati ha rianalizzato i dati originali e ha scoperto che i dati all’epoca forniti dalla casa farmaceutica erano fortemente fuorvianti, e che il pericolo per i minori che utilizzano questo psicofarmaco è “clinicamente significativo”.[6]
L’articolo pubblicato ora sul BMJ – reso accessibile a tutti senza restrizioni, in virtù dell’assoluta importanza del tema trattato – è accompagnato da un editoriale di Fiona Godlee, editor-in-chief del BMJ, da un duro intervento di Peter Doshi, editor del giornale, e da altri contributi tra i quali un editoriale di David Henry e Tiffany Fitzpatrick e una ricerca di Ingrid Torjesen sull’aumento di crimini violenti nei giovani che assumono farmaci antidepressivi SSRI, cioè gli “inibitori selettivi del re-uptake della serotonina”, categoria farmacologica cui appartiene sia la paroxetina – commercializzata come “Daparox”, “Dropaxin”, “Eutimil”, “Sereupin” e “Seroxat” – che l’altrettanto tristemente famoso “Prozac”, cioè la fluoxetina.
“Ciò che sconcerta di più – prosegue Poma – è l’assordante silenzio di una parte significativa della neuropsichiatria infantile, anche italiana: risultati così sconcertanti – e per certi versi sconvolgenti – non hanno meritato neanche una dichiarazione da parte del SINPIA, la società scientifica che raggruppa gli specialisti in disturbi mentali dei minori; anche l’Istituto Mario Negri tace, sul loro sito neanche un comunicato; stesso dicasi dello Stella Maris, come della maggior parte dei centri più attivi nella somministrazione di psicofarmaci ai bambini nel nostro paese. D’altra parte non stupisce: all’associazione gemella del SIMPIA in USA, l’American Academy of Child and Adolescent Psychiatry, è stato chiesto per anni di ritrattare lo Studio 329, ma inutilmente. Tutte queste realtà dovrebbero vigilare sulla salute mentale dei più piccoli. Dovrebbero, appunto – conclude Poma – mai condizionale fu più appropriato.”
“Giù le Mani dai Bambini”® ha lanciato un appello al Ministro della Salute Beatrice Lorenzin, da sempre molto sensibile al tema del diritto alla salute dell’infanzia, affinché valuti l’istituzione di un registro per il controllo e monitoraggio delle somministrazioni di antidepressivi ai minori, molto diffusi anche in Italia, come già in vigore per gli psicofarmaci per i bimbi iperattivi.


[1] Joanna Le Noury, John M Nardo, David Healy, Jon Jureidini, Melissa Raven, Catalin Tufanaru & Elia Abi-Jaoude, «Restoring Study 329: Efficacy and harms of paroxetine and imipramine in treatment of major depression in adolescence». BMJ, 351: h4320. DOI: 10.1136/bmj.h4320.
[2] Lo studio contestato è Efficacy of paroxetine in the treatment of adolescent major depression: A randomized, controller trial. JAACAP, 2001, 40, 7: 762-772, di Martin B. Keller e altri. (DOI: 10.1097/00004583-200107000-00010), scaricabile dal sito Internet www.justice.gov/sites/default/files/opa/legacy/2012/07/02/complaint-ex2.pdf.
[3] in un articolo sulla rivista Psicoterapia e Scienze Umane, 2015, volume 49, n. 4; www.psicoterapiaescienzeumane.it
[4] Medico e ricercatore, autore di oltre 300 pubblicazioni, tra le altre cose è fondatore della sezione italiana della Society for Psychotherapy Research (SPR) e condirettore della rivista Psicoterapia e Scienze Umane. Ha insegnato alle Università di Bologna, Parma, San Raffaele di Milano, Torino e Aosta.
[5] www.giulemanidaibambini.org
[6] link diretto: www.bmj.com/content/bmj/351/bmj.h4320.full.pdf


IMPIEGATI USA E GETTA

IMPIEGATI USA E GETTA

Ogni lunedì mattina i nuovi assunti fanno la fila per il corso di orientamento che li lancerà nel singolare mondo di Amazon. Innanzitutto, racconta uno di loro, si sentono dire che devono dimenticare le “brutte abitudini” prese in altri posti di lavoro. Poi gli viene spiegato che quando “si arriva al limite” a causa dei ritmi di lavoro implacabili, non c’è altra soluzione che “superarlo”. Per essere i migliori amazoniani possibili bisogna lasciarsi guidare dai princìpi della direzione: 14 regole scritte su pratici cartoncini plastificati. Qualche giorno dopo i nuovi assunti sono interrogati sull’argomento e chi ottiene il punteggio pieno vince un’onorifcenza virtuale con la scritta “Io sono speciale”, l’orgogliosa formula che l’azienda usa per capovolgere le convenzioni del mondo del lavoro.
Ad Amazon i dipendenti sono invitati a demolire le idee degli altri durante le riunioni, a lavorare fino a tardi (ricevono email anche dopo mezzanotte e, se non rispondono subito, un sms in cui si chiedono spiegazioni) e a raggiungere standard che la stessa azienda definisce con orgoglio “irragionevolmente alti”. Il centralino telefonico interno spiega come inviare ai superiori commenti anonimi sui colleghi. I dipendenti sostengono che questo sistema è spesso usato per sabotare il lavoro degli altri. Il software per i commenti propone esempi come questo: “Mi preoccupa la sua mancanza di flessibilità e il fatto che si lamenti apertamente di piccoli compiti”. Molti dei nuovi arrivati probabilmente tra qualche anno non ci saranno più.
I vincenti inventeranno nuovi servizi per 250 milioni di clienti e accumuleranno piccole fortune con l’aumento del valore delle azioni di Amazon. I perdenti se ne andranno spontaneamente o saranno licenziati nel corso dell’annuale sfoltimento del personale: “darwinismo calcolato”, lo definisce un ex responsabile delle risorse umane. Alcuni dipendenti che si sono ammalati di cancro, hanno avuto un aborto spontaneo o altri problemi personali hanno detto di aver ricevuto una valutazione negativa o di essere stati estromessi senza che gli fosse dato il tempo di riprendersi. Oltre a sperimentare la possibilità di usare i droni per le consegne, sembra che l’azienda stia anche conducendo un esperimento per capire fino a che punto può tirare la corda con gli impiegati dei suoi uffici e ridefinire i confini di quello che è accettabile in un posto di lavoro. L’azienda fondata da Jeff Bezos respinge molte delle regole dei sistemi di gestione del personale che altre imprese quantomeno fingono di accettare, e ha creato quella che molti suoi dipendenti chiamano una complicata macchina per costringerli a realizzare i progetti sempre più grandiosi di Bezos.
“La nostra azienda cerca di fare le cose in grande, di essere innovativa, e questo non è facile”, dice Susan Harker, che dirige l’ufficio assunzioni. “Quando miri molto in alto, il lavoro diventa davvero impegnativo. Alcuni non ce la fanno”. Bob Olson è uno di loro. Ha resistito un paio di anni nel settore del marketing editoriale e dice che non dimenticherà mai di aver visto persone piangere in ufficio, una scena che ricordano anche altri. “Esci da una sala riunioni e vedi un uomo adulto che si copre la faccia con le mani”, dice. “Ho visto piangere alla loro scrivania quasi tutte le persone con cui ho lavorato”. Amazon è più forte che mai grazie anche alla sua capacità di ottenere il massimo dai dipendenti. Il suo campus di South Lake Union, a Seattle, è in continua espansione e ha invaso un’intera zona della città. L’azienda scommette tre milioni di metri quadrati che le sue migliaia di nuovi dipendenti saranno in grado di vendere qualsiasi cosa a chiunque in tutto il mondo. A luglio Amazon ha superato Walmart diventando il più grande negozio al dettaglio del paese per valore di mercato, con una capitalizzazione di 250 miliardi di dollari. Secondo la rivista Forbes, inoltre, Bezos è il quinto uomo più ricco del mondo.
Decine di milioni di statunitensi sanno cosa vuol dire essere clienti di Amazon, ma quello che succede all’interno dei suoi uffici è in gran parte un mistero. La segretezza è obbligatoria: perfino i dipendenti di livello più basso devono firmare un lungo documento che li impegna alla riservatezza. L’azienda ha autorizzato solo pochissimi alti dirigenti a parlare con noi per questo articolo, respingendo qualsiasi richiesta di interviste a Bezos e ai suoi collaboratori più stretti. Tuttavia più di cento dipendenti ed ex dipendenti – dirigenti e programmatori che hanno lavorato a vari progetti – ci hanno raccontato come cercano di conciliare alcuni aspetti estenuanti del loro lavoro con quello che molti hanno definito il potere elettrizzante del creare qualcosa.
Nel corso delle interviste alcuni hanno detto di essere contenti di lavorare ad Amazon proprio perché sono costretti a superare quelli che credevano essere i loro limiti. Molti trovano stimolante “pensare in grande e sapere che ancora non abbiamo inventato neanche una minima parte del possibile”, come ha detto Elisabeth Rommel, una dirigente del reparto vendite. Altri che sono entrati e usciti dall’azienda hanno detto che quello che hanno imparato nel breve periodo trascorso ad Amazon ha fatto decollare la loro carriera. E non pochi di quelli che sono fuggiti, in seguito si sono resi conto che per loro il modo di lavorare di Amazon era diventato una droga. “Molti dipendenti provano questa tensione: è il più bel posto al mondo in cui odiano lavorare”, ha detto John Rossman, un ex dirigente che ha pubblicato un libro intitolato The Amazon way.

Dura e impietosa

Amazon può essere un’azienda singolare, ma forse non è tanto speciale quanto vuole far credere. Ha solo reagito con più prontezza a certi cambiamenti che stanno avvenendo in tutto il mondo: la maggiore disponibilità di dati, che consente di misurare continuamente le prestazioni individuali, la facilità con cui si cambia lavoro e la maggiore competizione globale, che fa nascere e morire interi imperi da un giorno all’altro.
Amazon è all’avanguardia se si considera la direzione in cui sta andando il lavoro d’ufficio con l’aiuto della tecnologia: è più agile e produttiva, ma anche più dura e impietosa. “Tutte le aziende stanno alzando il tiro, chiedendo ai dipendenti di fare di più per un salario più basso. Lo fanno per stare al passo con la concorrenza o semplicemente per sopravvivere”, dice Clay Parker Jones, un consulente che aiuta le aziende tradizionali ad adattarsi al cambiamento. Mentre i nuovi assunti di Amazon aspettavano di cominciare il corso di orientamento, pochi si rendevano conto dell’esperimento in cui erano coinvolti. Solo uno di loro, Keith Ketzle, un atleta texano lentigginoso con un master in gestione aziendale, sembrava esserne consapevole e ci ha spiegato di aver lasciato il suo vecchio lavoro proprio perché voleva qualcosa di più moderno e competitivo. Bezos è stato uno dei primi a usare i dati nella gestione aziendale.
Quando voleva che sua nonna smettesse di fumare, ha ricordato in un discorso del 2010 rivolto ai neolaureati di Princeton, non l’ha implorata, né ha fatto appello ai suoi sentimenti. Ha solo calcolato che ogni boccata le costava qualche minuto di vita. “Hai buttato via nove anni della tua vita”, le ha detto. E lei è scoppiata in lacrime. All’epoca Bezos aveva solo dieci anni. Una ventina d’anni dopo avrebbe creato un colosso spinto dallo stesso tipo di impulsi: il desiderio di dire agli altri quello che dovevano fare, la tendenza ad agire in modo brusco, al limite dell’aggressività, e una smisurata fiducia nel potere dei dati, rafforzata dall’esperienza fatta negli anni novanta alla D.E. Shaw, una società di consulenza fnanziaria che aveva stravolto le convenzioni di Wall street usando gli algoritmi per ottenere il massimo da ogni transazione. Secondo i suoi primi dirigenti e impiegati, fin dalla fondazione di Amazon, nel 1994, Bezos era deciso a opporsi a quei fattori che, secondo lui, con il tempo logoravano un’azienda: la burocrazia, le spese incontrollate, la mancanza di rigore. Quando l’azienda cominciò a crescere, decise di tradurre le sue idee sul metodo di lavoro in una serie di regole abbastanza semplici perché qualunque nuovo arrivato potesse capirle, abbastanza generiche da poter essere applicate al numero quasi illimitato di aziende con cui intendeva entrare in contatto e abbastanza rigorose da evitare la tanto temuta mediocrità. Il risultato furono i suoi princìpi della leadership, gli articoli di fede che definiscono il modo in cui ogni amazoniano dovrebbe comportarsi. Se la filosofa delle aziende è spesso costituita da una serie di banalità, le regole di Amazon invece fanno parte del suo linguaggio e dei suoi rituali quotidiani, vengono applicate al momento dell’assunzione, citate nelle riunioni e in ifla alla mensa. Alcuni amazoniani dicono che le insegnano addirittura ai figli.
Queste linee guida evocano un impero fatto di dipendenti d’élite (il principio numero 5 recita: “Assumi e coltiva i migliori”), che s’impongono a vicenda traguardi altissimi e sono liberi da quegli ostacoli – burocrazia e politica aziendale – che potrebbero impedirgli di dare il meglio. Gli impiegati devono dimostrare di essere “padroni” di tutti gli aspetti dell’azienda (regola numero 2) e di saper “scavare a fondo” (numero 12) per trovare idee che possano risolvere problemi o individuare possibili nuovi servizi prima ancora che i clienti li chiedano.
All’interno di Amazon l’impiegato ideale è spesso descritto come un “atleta” dotato di resistenza, velocità (numero 6 “agire rapidamente”), capacità di superare i propri limiti (numero 7 “pensare in grande”) e il cui rendimento può essere misurato. “Si può lavorare molto, duramente o in modo intelligente, ma ad Amazon non si possono scegliere solo due di queste tre cose”, scriveva Bezos in una lettera agli azionisti nel 1997, quando l’azienda vendeva solo libri, e questo è ancora il suo slogan. Bezos aggiungeva che nei colloqui con i potenziali nuovi dipendenti li avvertiva sempre che non era facile lavorare lì. Rossman, l’ex dirigente, ci ha raccontato che durante una conferenza del 2003 Bezos si è voltato in direzione della sede della Microsoft, dall’altra parte della baia di Seattle, e ha detto che non voleva che la sua azienda diventasse “un country club”. Se Amazon diventa come la Microsoft “morirà”.
Anche se somiglia a quelli di altri colossi tecnologici – con gli uffici in cui si possono portare i cani, una forza lavoro formata prevalentemente da maschi giovani, il mercatino di frutta e verdura biologica interno e i manifesti che invitano all’ottimismo – il campus di Amazon è un posto a parte. Google e Facebook incentivano i dipendenti con le palestre, le mense e le gratifiche, come quella per quando hanno un nuovo figlio, perché “vogliono prendersi cura di loro”, come dice Google. Amazon, invece, non cerca di far credere che prendersi cura dei dipendenti sia una sua priorità.
La retribuzione è legata al merito: un manager di medio livello che ottiene buoni risultati può arrivare a guadagnare uno stipendio extra sotto forma di azioni dell’azienda, il cui valore dal 2008 è aumentato di dieci volte. Ma ai dipendenti in generale è imposta la “frugalità” (regola numero 9), che va dalle scrivanie essenziali ai cellulari e alle spese di viaggio, che spesso si pagano da soli (non ci sono neanche pasti gratuiti o snack a disposizione negli uffici). Tutti devono concentrare l’attenzione sulla soddisfazione del cliente, devono essere “ossessionati dal cliente” (regola numero 1), e parole come “missione” sono usate anche a proposito della consegna fulminea di una confezione di corn fakes o di un bastoncino per i selfe. Man mano che l’azienda cresceva, Bezos è diventato sempre più attaccato alle sue idee originarie, vedendole quasi come norme morali, dicono persone che lavorano a stretto contatto con lui. “Il mio compito principale è mantenere quella cultura”, ha dichiarato Bezos l’anno scorso a un convegno di Business Insider, un sito d’informazione in cui ha investito.

Critica diretta

Tra tutte le sue teorie sulla gestione del personale, forse la più peculiare è la convinzione che nei posti di lavoro l’armonia sia sopravvalutata: secondo Bezos impedisce ogni tipo di critica diretta e favorisce l’approvazione di idee sbagliate per pura cortesia. Gli amazoniani, invece, prima di accettare una decisione sono incoraggiati a “dissentire” (regola numero 13), a cercare di demolire le idee dei colleghi con critiche che possono essere così taglienti da diventare dolorose. “Vogliamo sempre trovare la risposta giusta”, ci ha detto in un’email Tony Galbato, vicepresidente del settore risorse umane. “Senza dubbio sarebbe molto più facile e utile per la coesione tra i dipendenti arrivare a un compromesso senza discutere, ma questo potrebbe portarci a prendere una decisione sbagliata”. Nel migliore dei casi, hanno detto alcuni impiegati, Amazon può sembrare l’incarnazione della visione della vita di Bezos, un posto dove tutti sono disposti a correre rischi e a rafforzare le loro idee mettendole alla prova.
Molti dicono che i loro colleghi sono le persone più intelligenti con cui abbiano mai lavorato, che prendono sul serio princìpi come “mai accontentarsi” e “nessun compito è indegno”. Perfino quelli che hanno meno esperienza possono dare un contributo importante. L’idea delle consegne con i droni annunciata nel 2013, per esempio, è stata concepita insieme ad altri da Daniel Buchmueller, un programmatore che non appartiene ai vertici. L’anno scorso Stephenie Landry, una delle responsabili della logistica, ha partecipato alle discussioni su come abbreviare i tempi di consegna e ha avuto un’idea per far recapitare gli ordini nei centri urbani entro un’ora. Centoundici giorni dopo era a Brooklyn a dirigere il nuovo servizio, che si chiama Prime now. “Un cliente è riuscito ad avere una bambola Elsa che non riusciva a trovare in tutta New York e gli è arrivata a casa in 23 minuti”, ha detto Landry, che dopo mesi era ancora euforica. Questo è possibile, dicono lei e altri, quando tutti rispettano i princìpi della leadership. “Cerchiamo di risolvere qualsiasi necessità pratica dei clienti”, ha detto Landry. “In questo modo ci sentiamo davvero futuristici, magici”.
Molti veterani dell’azienda dicono che la genialità di Amazon consiste proprio nel modo in cui li spinge a superare sé stessi. “Se sei un buon amazoniano diventi un Amabot”, ha dichiarato un impiegato. Significa che sei tutt’uno con il sistema. Nei depositi di Amazon i magazzinieri sono sorvegliati da sofisticati sistemi elettronici per controllare che impacchettino abbastanza oggetti in un’ora (nel 2011 Amazon è stata presa di mira quando si è scoperto che in un magazzino della Pennsylvania i dipendenti lavoravano con una temperatura di 37 gradi e fuori c’erano le ambulanze in attesa di portare via quelli che svenivano. (Dopo un’inchiesta del giornale locale l’azienda ha installato i condizionatori).
Nei suoi uffici Amazon usa una combinazione di controlli, dati e strumenti psicologici per spingere le sue decine di migliaia di dipendenti a fare sempre di più. “L’azienda sfrutta un algoritmo per migliorare continuamente le prestazioni degli impiegati”, ci ha detto Amy Michaels, che un tempo si occupava della commercializzazione dei Kindle. Ogni anno il processo comincia quando le legioni di reclutatori di Amazon individuano migliaia di possibili nuovi dipendenti, che in seguito sono sottoposti a un ulteriore esame da parte di “quelli che alzano l’asticella”, cioè impiegati modello o intervistatori part time incaricati di assicurarsi che saranno assunti solo i migliori.
Mentre cercano di acclimatarsi, i nuovi arrivati spesso si sentono lusingati e intimiditi dalle grandi responsabilità che gli sono affidate e dal fatto che l’azienda collega direttamente la loro prestazione al successo dei progetti, che si tratti di vendere vino o verificare la consegna dei pacchi. Ogni aspetto del sistema Amazon rafforza gli altri per stimolare e tenere sotto controllo i venditori, i tecnici e gli esperti di finanza: i princìpi della leadership, la verifica continua e rigorosa sul rendimento e la competizione tra colleghi che temono di lasciarsi sfuggire un problema o un possibile miglioramento e si affrettano a rispondere a un’email prima che lo faccia qualcun altro. Alcuni impiegati che lavorano ad Amazon da molto tempo hanno detto che i superiori comprensivi li proteggono dall’eccessiva pressione o che lavorano in reparti dove la tensione è relativamente bassa. Ma molti altri hanno detto che la cultura dell’azienda alimenta la loro propensione ad andare oltre i confini della vita lavorativa, ad autoflagellarsi per gli errori (uno dei princìpi è “autocriticarsi apertamente”) e a cercare di fare colpo su un datore di lavoro che spesso sembra un aguzzino insaziabile. Perfino molti amazoniani che hanno lavorato a Wall street dicono che nel nuovo campus Amazon a South Lake Union la pressione è fortissima: riunioni fiume la domenica di Pasqua e il giorno del Ringraziamento, rimproveri dei capi perché non si collegano regolarmente a internet durante le vacanze e ore passate a lavorare a casa di sera e durante i fine settimana. “Una volta non ho dormito per quattro giorni di seguito”, ci ha detto Dina Vaccari, assunta nel 2008 per vendere buoni regalo Amazon ad altre aziende. Una volta Vaccari ha usato i suoi soldi, senza chiedere nessuna autorizzazione, per pagare un freelance che dall’India le mandava dati per permetterle di essere più produttiva. “Quelle aziende erano come miei figli e facevo tutto quello che potevo per garantire il loro successo”.
Lei e altri colleghi hanno ammesso che avrebbero potuto facilmente cambiare lavoro, ma che ormai avevano interiorizzato le priorità di Amazon. Il fidanzato di un’ex impiegata era così preoccupato per il fatto che lei lavorava fino a tardi che andava al campus alle dieci di sera e la chiamava al cellulare fino a quando non accettava di tornare a casa. Quando erano stati in vacanza in Florida, lei andava tutti i giorni da Starbucks per lavorare usando la connessione wifi. “È stato allora che mi è venuta l’ulcera”, ha detto.
Come diversi altri ex dipendenti, anche lei ha chiesto di non fare il suo nome perché l’azienda per cui lavora oggi ha rapporti con Amazon. Anche alcuni dei dipendenti attuali sono stati riluttanti a dire il loro nome, perché gli è stato vietato di parlare con i giornalisti. Amazon ha uno strumento molto potente per spronare i suoi dipendenti: una quantità di dati con cui nessuna azienda della distribuzione può competere. Il suo continuo flusso di dati dettagliati in tempo reale le consente di sapere quasi tutto quello che fanno i clienti: cosa mettono nei carrelli ma poi non comprano, a che punto i lettori “abbandonano” un libro che stanno leggendo su Kindle, cosa sceglieranno in base agli acquisti precedenti. È in grado anche di sapere quando i suoi programmatori creano pagine che non si caricano abbastanza rapidamente o quando un fornitore non ha una provvista sufficiente di guanti da giardinaggio. “I dati rendono la situazione più chiara quando bisogna prendere una decisione”, ha detto Sean Boyle, che dirige l’ufficio finanza di Amazon web services. “I dati sono una grande liberazione”.
I dipendenti di Amazon devono conoscere alla perfezione una vasta gamma di dati, che sono discussi in ansiogene riunioni settimanali o mensili tra i vari gruppi. Un giorno o due prima della riunione ricevono dei tabulati, a volte anche di 50 o 60 pagine, ci hanno detto alcuni di loro. Durante la riunione sono interrogati a sorpresa su una di quelle migliaia di cifre. Risposte del tipo, “Non siamo proprio sicuri” o “Ve lo faremo sapere” non sono accettabili, hanno detto in molti. A volte i dirigenti le definiscono “stupide” o dicono al dipendente di “smettere di dire sciocchezze”. Le domande più difficili spesso riguardano “le docce fredde”, per esempio come informare un cliente via email che quello che ha ordinato non arriverà nei tempi previsti. Il contrario delle “docce calde”, cioè la sensazione di aver soddisfatto un cliente. Secondo molti dipendenti, le riunioni tolgono tempo al lavoro. Ma pensano anche che siano importanti, perché li costringono a memorizzare i dati del loro settore e a tenere sempre a mente tutti i dettagli. “Una volta capito che qualcosa non funziona come potrebbe, perché non dovresti aver voglia di sistemare tutto?”, ha detto Julie Todaro, che si occupa di alcune delle principali categorie di prodotti. Gli impiegati sostengono di avere sempre la sensazione di non aver fatto abbastanza.
Un complesso di uffici è stato battezzato Day 1 per ricordare a tutti che si è solo all’inizio dell’era del commercio elettronico e che c’è ancora molto da fare. Nel 2012, mentre lavorava a un nuovo sito per la vendita di articoli di abbigliamento, Chris Brucia ha ricevuto una terribile lavata di capo dal suo superiore, una tirata di mezz’ora in cui gli ha elencato tutti gli obiettivi che non aveva raggiunto e tutte le competenze che non aveva ancora acquisito. Brucia ha ascoltato in silenzio le critiche, temendo di essere licenziato e chiedendosi cosa avrebbe detto a sua moglie. “Congratulazioni lei è stato promosso”, ha concluso il superiore, chinandosi verso di lui per un abbraccio che Brucia era troppo sconvolto per ricambiare.
Noelle Barnes, che ha lavorato nel reparto marketing di Amazon per nove anni, ci ha riferito una battuta che circola nel campus: “Amazon è il posto in cui vanno quelli che vogliono eccellere a tutti i costi per poi sentirsi inadeguati”. Nel 2013 Elizabeth Willet, un’ex capitana dell’esercito che aveva prestato servizio in Iraq, è stata assunta da Amazon per dirigere i venditori di articoli per la casa ed è stata felicissima di scoprire che una grande azienda poteva essere così energica e avere tanta capacità imprenditoriale. Dopo aver avuto un bambino, ha stabilito con il suo superiore che sarebbe stata in ufficio dalle sette di mattina alle quattro e mezzo del pomeriggio, sarebbe andata a prendere il figlio e qualche volta sarebbe tornata al lavoro più tardi. Il suo capo le ha assicurato che andava bene così, ma i colleghi, che non vedevano quando arrivava, si sono lamentati del fatto che andava via troppo presto. “Non la posso difendere se i suoi colleghi pensano che non stia facendo il suo lavoro”, le ha spiegato il capo. Dopo poco più di un anno Elizabeth ha dovuto andarsene. I colleghi l’avevano attaccata usando l’Anytime feedback tool, un’applicazione che consente ai dipendenti di inviare alla direzione commenti positivi o negativi sui colleghi (anche se i superiori sanno chi li manda, di solito il destinatario delle critiche non conosce l’identità dei mittenti).
Dato che viene stilata una classifica dei componenti dei vari gruppi di lavoro e ogni anno quelli in fondo alla lista sono licenziati, è nell’interesse di tutti fare meglio degli altri. Craig Berman, uno dei portavoce di Amazon, ha dichiarato che quello è uno dei tanti modi per tenere informata la direzione, come mandare un’email o andare nell’ufficio di un dirigente. La maggior parte dei commenti, ha detto, sono positivi. Ma molti dipendenti lo considerano un mezzo per ordire complotti. Hanno raccontato di patti segreti tra colleghi per attaccare contemporaneamente la stessa persona o per elogiarsi a vicenda. Molti altri, come Elizabeth Willet, hanno detto di essere stati sabotati dai commenti negativi di colleghi anonimi con cui non avevano la possibilità di discutere. In alcuni casi le critiche sono copiate e inserite direttamente nella valutazione di un dipendente, un metodo che, secondo Amy Michaels, l’ex direttrice di Kindle, i suoi colleghi chiamano “incolla tutto”. Presto questo sistema potrebbe essere introdotto in altri ufci. Workday, un’azienda che produce software per la gestione del personale, ofre un prodotto simile che si chiama Collaborative anytime feedback e promette di trasformare la valutazione annuale delle prestazioni in un evento quotidiano. Uno dei suoi primi fnanziatori è stato Bezos.
Ad Amazon la competizione non si limita ai commenti dietro le spalle. I dipendenti dicono che l’ideale di Bezos, una meritocrazia in cui le persone e le idee gareggiano tra loro e vincono le migliori, in cui i colleghi si sfdano a vicenda “anche quando farlo è spiacevole e logorante”, è la causa di frequenti scontri. Per creare un nuovo gruppo, ha detto un veterano, a volte “si affonda qualcuno” e si prende la sua squadra. A volte nelle riunioni le idee sono criticate con tale durezza che alcuni hanno paura di parlare. David Loftesness, uno sviluppatore esperto, approvava il fatto che tutta l’attenzione fosse concentrata sul cliente, ma non amava il linguaggio ostile usato nelle riunioni. Molti altri ci hanno detto la stessa cosa. Per anni Loftesness e i suoi colleghi si sono dedicati a migliorare le capacità di ricerca del sito di Amazon, per poi scoprire che Bezos aveva autorizzato un progetto segreto per sviluppare una tecnologia alternativa. “Non sono il tipo di persona che può lavorare in un ambiente simile”, ha detto in conclusione Loftesness. Ora lavora per Twitter.

Caselle di una matrice

Ogni anno la competizione interna culmina in un rituale chiamato Organization level review, in cui i dirigenti discutono i risultati dei loro sottoposti, inserendo e reinserendo nomi nelle caselle di una matrice proiettata su una parete. Negli ultimi anni altre grandi aziende, tra cui la Microsoft, la General Electric e l’Accenture Consulting, hanno rinunciato a questo sistema chiamato stacked ranking, cioè l’inserimento delle prestazioni dei dipendenti in tre fasce: i migliori, quelli nella media e i peggiori. Il motivo è che a volte costringe i dirigenti a rinunciare a persone di talento. La riunione comincia con un dibattito sui dipendenti di livello più basso, la cui prestazione è discussa davanti ai dirigenti. Con il passare delle ore i dirigenti lasciano via via la sala, sapendo che quelli che restano decideranno il loro destino.
La preparazione è simile a quella di un processo, dicono molti supervisori: per evitare di perdere bravi componenti della propria squadra bisogna andare armati di pacchi di documenti per difendere quelli ingiustamente accusati e incriminare il personale dei gruppi concorrenti. Oppure si decide di scegliere qualche capro espiatorio per proteggere i collaboratori indispensabili. “Si impara a spingere diplomaticamente qualcuno giù dall’autobus”, ha detto un dirigente che ha passato sei anni nel reparto vendite. “È una sensazione orribile”. Galbato, il capo delle risorse umane, ci ha spiegato la logica che c’è dietro i licenziamenti annuali. “Assumiamo molte persone eccezionali”, ha scritto in un’email. “Ma a volte ci sbagliamo”. Dick Finnegan, un esperto che consiglia alle aziende come tenersi i dipendenti, descrive i pericoli dei tagli obbligatori. “Se puoi costruire un’organizzazione senza pesi morti, perché non dovresti farlo?”, dice. “Ma non so quanto sia sostenibile sul lungo periodo.
Dovresti avere una fila infinita di persone altamente qualificate che vogliono lavorare per te”. Molte delle donne che lavorano ad Amazon – a differenza di quanto avviene a Facebook, Google e Walmart, attualmente ai vertici dell’azienda non c’è neanche una donna – pensano che la disparità tra uomini e donne derivi da questo sistema di competizione e di eliminazione. Diverse ex alte dirigenti e altre donne che hanno partecipato a una recente discussione online condivisa con il New York Times, sono convinte che alcuni dei princìpi della leadership andavano a loro svantaggio. Potevano non ottenere una promozione in base a criteri intangibili come l’incapacità di “guadagnarsi la fiducia degli altri” (principio numero 10) o al fatto che dissentivano dai colleghi. Per le donne può essere particolarmente pericoloso, hanno detto, essere troppo aggressive sul luogo di lavoro. Anche la maternità è un problema.
Michelle Williamson, una donna di 41 anni madre di tre bambini che ha contribuito a costruire il reparto di forniture ai ristoranti, ha raccontato che il suo capo, Shahrul Ladue, le aveva detto che avere tre figli probabilmente le avrebbe impedito di arrivare ai livelli più alti perché avrebbe sottratto ore al lavoro. Ladue ha confermato il suo racconto e ci ha spiegato che Williamson era in diretta competizione con colleghi più giovani e meno occupati, e quindi le aveva consigliato di trovarsi un posto meno impegnativo ad Amazon (ora entrambi hanno lasciato l’azienda). Ha anche aggiunto che lui lavorava come minimo 85 ore alla settimana e non andava quasi mai in vacanza.
Molly Jay, uno dei primi componenti della squadra di Kindle, ha detto di aver ottenuto ottime valutazioni per anni. Ma quando è stata costretta a viaggiare per occuparsi di suo padre, malato di cancro, e ha smesso di lavorare la sera e durante i fne settimana, le cose sono cambiate. Le hanno negato il trasferimento in un ufficio dove la pressione sarebbe stata minore e il suo capo le ha detto che era diventata “un problema”. Mentre suo padre stava morendo, Jay ha chiesto un’aspettativa non retribuita per poter stare con lui e non è mai tornata ad Amazon. “Quando non sei in grado di dare il massimo, cioè 80 ore alla settimana, la considerano una cosa imperdonabile”, ha detto. Una dipendente malata di cancro alla tiroide ha ricevuto una valutazione negativa quando è tornata dalla chemioterapia. Il suo superiore le ha spiegato che mentre lei non c’era, i suoi colleghi avevano lavorato sodo. Un’altra donna, che aveva avuto un aborto spontaneo, è dovuta partire per un viaggio di lavoro il giorno dopo l’intervento. “Mi dispiace, ma quel lavoro va fatto”, le ha detto il suo capo. “Se hai intenzione di mettere su famiglia, come sembra, non credo che questo sia il posto giusto per te”.
A un’altra, che aveva un cancro al seno, hanno detto di averla inserita in un “programma per il miglioramento delle prestazioni”. Nel gergo di Amazon significa che rischiava il licenziamento, perché le “difficoltà” della sua “vita privata” interferivano con il raggiungimento dei suoi obiettivi. Storie simili ci sono state raccontate da altre persone che hanno avuto problemi di salute e sono state giudicate negativamente. Un’ex responsabile delle risorse umane ha detto di essere stata costretta a inserire nel programma di miglioramento delle prestazioni una donna appena rientrata dopo un grave intervento chirurgico e un’altra che aveva appena partorito un bambino nato morto, informazioni che sono state confermate da una collega che lavora ancora ad Amazon. La madre del bambino nato morto se n’è andata quasi subito. “Avevo appena vissuto l’esperienza più devastante della mia vita”, ha raccontato in un’email.
Si era sentita dire che le sue prestazioni sarebbero state monitorate “per essere sicuri che continua a essere concentrata sul lavoro”. Secondo Berman, il portavoce, questo modo di affrontare i momenti di crisi dei dipendenti “non rientra nella politica che pratichiamo normalmente”. E ha aggiunto: “Se ci rendessimo conto che succede qualcosa del genere, interverremmo subito”. Amazon ha chiesto a Susan Harker, la principale responsabile delle assunzioni, di raccontarci quanto sostegno ha avuto dalla direzione negli ultimi due anni mentre suo marito lottava con il cancro. “Mi ha commosso”, ha detto. Diversi avvocati di Seattle specializzati in diritto del lavoro hanno detto di ricevere regolarmente telefonate dai dipendenti di Amazon che si lamentano di essere stati trattati ingiustamente. Alcuni sono stati licenziati perché non erano “sufficientemente devoti all’azienda”, ha detto uno di loro. Ma su questa base non si può intentare una causa.
“L’ingiustizia non è illegale”, ha aggiunto Sara Amies, un altro avvocato. Senza chiare prove di discriminazione è difficile vincere una causa contro una valutazione negativa, ha spiegato. Una parte del bonus Per tutti i dipendenti licenziati ce ne sono altrettanti che scappano, esausti o non più disposti a sopportare tanta fatica solo per consegnare in meno tempo ai clienti occhialini da nuoto o rotoli di scotch. Jason Merkoski, un programmatore di 42 anni, ha lavorato nel gruppo che ha creato il primo lettore Kindle e ha girato il mondo per vedere come la gente lo usava e poterlo migliorare. Ha lasciato Amazon nel 2010 e c’è tornato per un breve periodo nel 2014. “Dato l’enorme numero di nuovi servizi, è inevitabile che qualcosa vada storto, bisogna correggere e spiegare cos’è successo. Se ti arriva un’email da Jef sono guai”, ha detto. “È come avere l’amministratore dell’azienda a letto con te alle tre di notte che ti respira sul collo”.
Amazon riesce a trattenere i nuovi dipendenti anche perché se vanno via entro un anno gli chiede di restituire una parte del bonus ricevuto al momento dell’assunzione. Se lasciano entro due anni, chiede una percentuale delle spese di trasferimento. Alcuni padri di famiglia hanno detto che se n’erano andati o stavano pensando di farlo perché i loro superiori insistevano a chiedergli di passare meno tempo in famiglia. Ormai molte aziende tecnologiche fanno a gara per chi ha la migliore politica sulle aspettative per motivi di famiglia. Netfix ha cominciato da poco a offrire un anno di congedo di maternità o paternità retribuito, ma Amazon non prevede il congedo per i padri.
I quarantenni che abbiamo intervistato erano tutti convinti che Amazon prima o poi li avrebbe rimpiazzati con trentenni in grado di restare in ufcio più ore. I trentenni erano sicuri che l’azienda avrebbe preferito assumere dei ventenni che potevano lavorare più di loro. Dopo essersene andato la primavera scorsa, Max Shipley, che ha 25 anni e due bambini piccoli, si è chiesto se un giorno Amazon non comincerà ad “assumere studenti universitari che hanno meno impegni, non sono sposati e hanno più tempo per concentrarsi sul lavoro”.
Amazon ripete che la sua fama di azienda che logora i dipendenti è falsa. Ma da un sondaggio condotto nel 2013 da PayScale, una società di analisi dei livelli salariali, è emerso che la mediana di permanenza dei suoi dipendenti è un anno, tra le più brevi delle grandi aziende quotate in borsa. I dirigenti sostengono che la permanenza è breve perché le assunzioni sono continue, e hanno precisato che solo il 15 per cento dei dipendenti è lì da più di cinque anni. Nel settore tecnologico il ricambio è piuttosto comune, hanno aggiunto, ma non hanno portato alcun dato a sostegno di questa affermazione. Gli impiegati, i responsabili delle risorse umane e i reclutatori parlano di un esodo continuo. “Li spremono e li buttano via, di conseguenza c’è sempre un numero sproporzionato di persone che lasciano Amazon e vengono da noi”, ha scritto di recente in un post su Facebook Numrod Hoofen, che è stato a lungo un dipendente di Amazon e che ora lavora per Facebook.
Il fatto che molti se ne vadano non è un fallimento del sistema, dicono i dipendenti attuali e passati, ma piuttosto la sua logica conclusione: si assumono persone nuove che si consumano per far girare la macchina di Amazon e solo i migliori sopravvivono. “È darwinismo calcolato”, ha scritto, in risposta al commento di Hoofien, Robin Andrulevich, un ex responsabile delle risorse umane di Amazon che ha contribuito a stilare i princìpi. “Non sarebbe mai diventata quello che è se non facesse così”, ha detto in un’intervista. “Amazon fa bene a mettere alla prova tante persone per poi scegliere”, ha detto Vijay Ravindran, che ha lavorato nell’azienda per sette anni, gli ultimi due come supervisore del sistema di pagamenti. “Tengono i migliori ofrendogli una combinazione di opportunità e compensi incredibili. È come la corsa all’oro”.

Flusso in uscita

Gli impiegati che lasciano Amazon sono molto ricercati per via della loro etica del lavoro, dicono i reclutatori di altre imprese. Negli ultimi anni aziende come Facebook hanno aperto grandi uffici a Seattle per sfruttare il fusso in uscita da Amazon. Ma i reclutatori dicono anche che le altre aziende spesso sono caute nell’assumere gli ex dipendenti di Amazon, perché sono stati addestrati a essere combattivi. Li chiamano amhole (un gioco di parole basato su Amazon e asshole, rompiscatole), perché sono aggressivi e stacanovisti. Il loro numero, comunque, sta rapidamente aumentando. Amazon sta completando un grattacielo di 37 piani vicino al campus di South Lake Union destinato ai suoi ufci e un altro lì accanto. Vuole costruirne un terzo e ha lo spazio per altri due.
Entro tre anni avrà posto per circa 50mila dipendenti, più del triplo di quelli del 2013. Quei nuovi impiegati si impegneranno a fare di Amazon il primo negozio della storia con un fatturato da mille miliardi di dollari, nella speranza che tutti guarderanno i film d’animazione e giocheranno sui suoi tablet mentre dicono al loro sistema Amazon echo communications che hanno bisogno di un idraulico o di nuove sedie da giardino, e magari mangiano anche un pacchetto di patatine Amazon. Forse succederà davvero. Liz Pearce ha passato due anni ad Amazon a gestire progetti come il registro dei matrimoni. “La pressione conta più di qualsiasi dato”, ha detto. “Ho visto gente praticamente scoppiare”. Ma oltre a vedere il futuro del commercio elettronico prima di chiunque altro, ha aggiunto, Bezos è riuscito a immaginare un nuovo modo di gestire il lavoro: fuido ma duro, con impiegati che restano solo poco tempo e superiori che chiedono il massimo. “Il lavoro di Amazon si basa sui dati”, ha detto Pearce, che ora dirige un’azienda di software a Seattle piena di ex amazoniani. “Cambierà solo se i dati diranno che deve cambiare, quando quel sistema di assunzioni, lavoro e licenziamenti non avrà più senso dal punto di vista economico”. L’azienda comincia già a sentire le conseguenze della sua rapida crescita. Anche ai livelli più bassi assume gente dalla costa orientale, e spesso chiede ai suoi impiegati di fornire ai reclutatori tutti i loro contatti. Solo a Seattle sono disponibili 4.500 posti, compreso uno di analista esperto in “assunzioni di massa”. Di fronte alla necessità di tanti nuovi collaboratori alcune aziende ridimensionerebbero le loro ambizioni o modererebbero la loro politica. Ma non Amazon. In un recente video da mostrare ai nuovi assunti, una giovane donna avverte: “O siete adatti a lavorare qui o no. O vi piace o no. Non c’è via di mezzo.


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