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Altro che privacy, ecco come un compratore di dati scopre la vostra identità

Due ricercatori hanno comprato dei pacchetti di “dati di navigazione in forma anonima” per dimostrare quanto è facile risalire alle informazioni degli utenti

Tre milioni di cittadini tedeschi con la cronologia web spifferatapotenzialmente ai quattro venti: sono solo la punta di un iceberg che la ricerca compiuta dal giornalista Svea Eckert e dal data scientist Andreas Dewes vuole descrivere al resto del mondo nel corso della conferenza Def Con di Las Vegas dedicata al mondo dell’hacking, per dimostrare quanto le nostre identità siano facilmente tracciabili in Rete.
La coppia si è finta un’agenzia di marketing in cerca di grandi pacchetti di dati di navigazione in forma anonima, da fornire in pasto ai propri algoritmi di intelligenza artificiale per educarli a tracciare profili di consumatori quantomeno attendibili. Tanto le è bastato per riuscire a rivolgersi con successo a un data broker, un soggetto specializzato nell’acquisizione e nella rivendita di questi pacchetti di dati, dal quale ha acquisito un database di tre miliardi di url visitati nell’ultimo mese dai già citati tre milioni di utenti.

Le cronologie sono state vendute prive delle informazioni personali dei loro proprietari, ma questo non ha impedito a Eckert e Dewes di dimostrare la loro tesi: una volta in possesso di una mole del genere di dati, per quanto siano stati resi anonimi, diventa facile incrociarli per risalire a chi li ha generati. Mettere insieme tutti gli indirizzi visitati da uno stesso dispositivo dipinge infatti un quadro piuttosto completo non solo sulle abitudini dell’individuo che lo possiede, ma ne rivela potenzialmente anche nome e cognome.
Chiunque visiti la propria pagina su Twitter Analytics ad esempio si ritrova il proprio nome utente direttamente nell’indirizzo internet, e quindi nella cronologia; per svelare l’identità di altri può bastare incrociare la pagina web del cinema di zona visitato più spesso insieme al sito di home banking, al meteo e ai profili Facebook più sbirciati. Sono operazioni che non possono (ancora) essere svolte del tutto in automatico, ma che in alcuni casi possono rivelarsi fruttifere: il duo in questo modo ha raccontato di aver potuto ricostruire le preferenze di un giudice in fatto di video a luci rosse e di essere risalito alle prescrizioni mediche di un parlamentare.

Per rimanere al sicuro da simili raccolte indiscriminate di dati dovrebbe essere sufficiente fare attenzione ai plugin installati sul proprio browser. Il database acquisito da Eckert e Dewes è stato infatti compilato a partire da una serie di strumenti del genere, uno dei quali — ironicamente — si chiama Web of Trust e offre protezione e anonimato nella navigazione Internet. Il plugin in questione è gratuito e, come molti altri della categoria, per mantenersi in attività vende proprio questo genere di informazioni al miglior offerente; i suoi tentativi di rendere anonime le cronologie acquisite però lasciano evidentemente a desiderare.




Il fotogiornalista che ha imbrogliato il mondo: migliaia di scatti dalle zone di guerra, tutti rubati

Bello, surfista, dal grande cuore e scampato alla leucemia. La storia di Eduardo Martins, migliaia di follower e pubblicazioni ovunque. Ma non è mai esistito


COSI’ perfetto da non esistere. Biondo, bellissimo, surfista dotato di immenso coraggio, giovane scampato alla leucemia e oggi uomo dal grande cuore:  Eduardo Martins, 32 anni, fotografo brasiliano di guerra sempre nel vivo dei conflitti più terrificanti, un anno fa intervistato da alcune riviste di fotogiornalismo raccontava che se c’era da smettere di scattare per aiutare qualche militare ferito era il primo a farlo.
Le sue immagini migliori le vendeva per beneficenza, donando tutto ai bambini delle comunità di Gaza. I suoi 127mila follower su Instagram lo rispettavano per le sue imprese, migliaia di ragazze lasciavano commenti di ammirazione e centinaia di cuoricini, importanti testate internazionali come Bbc, The Wall Street Journal, Le Monde, Al Jazeera, Vice, The Telegraph e tanti altri pubblicavano le sue foto vendute ad agenzie prestigiose come Getty o l’italiana NurPhoto, solo per citarne alcune. Peccato che fosse tutto falso: Eduardo Martins, il fotoreporter “delle Nazioni Unite” sempre pronto all’azione, si era inventato tutto. E probabilmente non è mai esistito, almeno per come si è fatto conoscere.
La sua storia, quella di uno dei più grandi imbrogli del fotogiornalismo moderno, comincia due anni fa: allora, il profilo Instagram “edu_martinsp”inizia a diventare popolare grazie a centinaia di foto, fra sessioni di surf e scatti di guerra, postate dal sedicente fotografo. Martins si crea un portfolio, contatta agenzie, comincia a piazzare i suoi scatti. Fra queste c’è anche l’Italiana NurPhoto, che oggi sostiene di essere stata frodata, alla quale il brasiliano inizia a vendere. Diventa celebre in breve tempo tanto che su questo giovane di talento compaiono articoli che ne raccontano la vita: sul portale brasiliano “Waves.Terra” il giornalista Fernando Costa Netto lo intervista (per via telematica) narrando il riscatto di questo surfista, colpito dalla leucemia a 18 anni e che, dopo la morte del padre, capisce che scampato al peggio deve “andare in giro a raccontare come stanno le cose nel mondo”.
Finirà, dice, in Iraq, Siria, fra i Peshmerga, a Gaza e poi in Africa, sempre come fotoreporter “delle Nazioni Unite”, nei campi profughi, ovunque  in prima linea. Diventa così famoso da riuscire a piazzare i suoi reportage anche sulla Bbc Brazil, che pubblica questo luglio, lo stesso mese in cui però l’emittente britannica comincia a destare sospetti.
Contattare telefonicamente Martins è infatti praticamente impossibile. Spesso dice di essere in zone dove non c’è copertura, risponde solo via mail o Whatsapp. Alcuni fotografi, sui social, segnalano incongruenze nei suoi lavori: molti dettagli indicano che le sue immagini sembrano “specchiate”, capovolte rispetto alla realtà. Anche le didascalie indicano luoghi errati. Una giornalista Bbc, Natasha Ribeiro, inizia a indagare: lo cerca attraverso le Nazioni Unite, ma nessuno lo conosce. Prova con colleghi che hanno fatto la guerra in Iraq o lavorano sulla Striscia, ma nessuno ha mai incontrato Martins.
Su profili Facebook altri fotoreporter fanno notare incongruenze con i posti in cui il brasiliano dice di aver scattato. Il connazionale Ignacio Aronovich, dopo aver letto interviste che parlano delle imprese del reporter surfista, prova a inserire alcune delle sue foto nei sistemi di ricerca. Prima di farlo però le “specchia”, di fatto le ribalta e scopre l’arcano: l’autore degli scatti di guerra è in realtà l’americano Daniel C. Britt. Altre foto, altre menzogne, più si scava più emerge una torbida verità.
Il giornalista che lo intervistò (e lo ammirava) Fernando Costa Netto, allarmato dalle notizie sul conto del giovane, prova a contattare Martins per chiedergli spiegazioni. A quel punto il profilo Instagram del noto fotogiornalista viene cancellato e a Netto arriva un messaggio Whatsapp:  “Sono in Australia, ho deciso di passare un anno in un furgone, eliminerò tutto online. Voglio restare in pace, ci vedremo quando tornerò… “.
La Bbc, che oggi come molti giornali presenta un post di scuse raccontando la vicenda, continua a indagare e scopre che quasi tutte le foto più celebri sono state rubate da altri reporter e modificate. I veri autori, come Britt, si dicono scioccati e pronti ad agire legalmente. L’italiano Manuel Romano, fondatore di NurPhoto, ha specificato di aver “rimosso tutti i contenuti di Martins, avvisato i clienti e avviato la causa”. Le procure di diversi Paesi hanno già aperto una indagine per frode, truffa e violazione di diritti d’autore.
Secondo la Bbc Brazil ‘autore di quest’enorme imbroglio oltre ai reportage avrebbe anche rubato l’identità (e dunque le foto profilo) ad un surfista inglese di 32 anni, tale Max Hepworth-Povey della Cornovaglia che lavora come editor al Wavelength magazine, il quale era all’oscuro della vicenda. Martins aveva preso i suoi scatti da un vecchio profilo Facebook.
Del truffatore non c’è traccia, è sparito chissà dove. La famosa Doc Galeria di São Paulo a breve avrebbe dovuto inaugurare una mostra per esporre i suoi lavori nelle zone di guerra: tutto annullato, con non poca vergogna. La Bbc, che nonostante le pubblicazioni ha il merito di aver smascherato Martins, chiosa nella speranza che l’intera vicenda possa servire da lezione: “Questo caso servirà a rafforzare le nostre procedure di verifica”.




Facebook ammette: la Russia ha fatto operazioni di avvelenamento sui nostri social

Fabbriche di troll russi hanno comprato ads, propaganda politica, viralizzati attraverso una rete di falsi account. E dopo l’azienda di Zuckerberg, ora la Reuters scrive che anche twitter dovrebbe fare qualcosa di analogo

uando era notte in Italia, Facebook ha prodotto un aggiornamento cruciale del suo report di aprile sulle operazioni di disinformazione (“Information Operations”) condotte da stati e organizzazioni private, ammettendo – come già fatto davanti all’ufficio del Procuratore speciale che indaga sul Russiagate, Robert Mueller – che sul social network, durante le elezioni americane del 2016, si è effettivamente svolta una “information operation”, una operazione di intossicamento e avvelenamento del dibattito pubblico e delle elezioni, molto probabilmente coordinata dal Cremlino, attraverso una società russa (la “Internet Research Agency”) già famosa in passato, che racchiude dentro di sé l’infame fabbrica di troll di San Pietroburgo, e qualche centinaio di account falsi su Facebook.
In sostanza la società russa ha comprato propaganda politica (ads politici) da inserire nel social network usando come meccanismo virale, in prima battuta, una rete di 470 account e pagine Facebook false, collegate cioè a false identità, in sostanza gestite da mani russe, e clusterizzate ingegneristicamente (cioè costruite dentro una architettura a tavolino). Gli ads individuati ammontano a un importo complessivo di 150mila euro – è impressionante come con relativamente pochi soldi si possano fare operazioni di deception non piccole – anche se Facebook non esclude ce ne possano esser altri (non tutte le informazioni fornite al procuratore Mueller sono state ovviamente rese pubbliche).
La novità ultimissima di queste ore è che, secondo Mark Warner, twitter dovrebbe fornire a breve un analogo esame: attività russa potrebbe essere avvenuta in maniera intensa anche sulla piattaforma dei 140 caratteri. La cosa è rivelata dalla Reuters, che cita una dichiarazione del senatore democratico più alto in grado nella commissione del senato sull’intelligence Usa, Warner. Cyber propaganda russa si è mossa alacremente a utilizzare falsi account, account anonimizzati, ossia false personas, dentro una rete di attività che tecnicamente loro definiscono “inautentica” (che non significa, tocca ripeterlo, per forza automatizzata, anzi). Account che spingono, amplificano, viralizzano, alcuni contenuti, o eventualmente alcuni tipi di pubblicità, anche elettorale. Di solito i contenuti sono rivolti a spargere caos, paura anti-immigrazione, xenofobia, accuse (non importa se fondate) di corruzione alle classi dirigenti.
Alex Stamos, il capo della sicurezza di Facebook, ha anche comunicato che un quarto degli ads erano targettizzati, cioè mirati, geograficamente, in aree molto precise (anche se non ha detto se si riferisse agli stati oscillanti americani). Bisogna poi osservare che né Facebook né twitter hanno fornito spontaneamente le informazioni che vi sto riferendo: vi sono spinte da un organo americano che sta indagando – con poteri speciali – sull’interferenza della Russia nella campagna presidenziale del poi eletto presidente Donald Trump.
È più che plausibile che operazioni analoghe siano avvenute nello spazio web di altre lingue, nel mondo dei paesi occidentali. Di certo la Russia è stata attivissima in Germania e in Francia, ma ha condotto mosse accertate anche nello spazio cyber italiano. Sarebbe interessantissimo che il nostro sistema politico – e eventualmente i nostri organi preposti – avessero l’intenzione (se non la forza), di fare le medesime domande che sono state rivolte a Facebook e twitter negli Stati Uniti. È piuttosto interessante, invece, segnalare che le cose vanno spesso in direzione opposta: qualche tempo fa l’uomo che – per conto di Cambridge Analytica – ha raccolto i dati su 30 milioni di ignari utenti Facebook americani è stato infine assunto proprio da Facebook




CASO RYANAIR: QUANDO LA CRISI ARRIVA DA LONTANO

Ryanair sopprime duemila voli, viaggiatori sul piede di guerra

Dal 16 settembre a fine ottobre, Ryanair lascerà a terra 400mila viaggiatori a causa di ritardi e delle ferie dei dipendenti


Di Giuditta Mosca – Fonte: Wired

primi rumori si erano sollevati quando venerdì scorso Ryanair ha comunicato di avere cancellato alcuni voli previsti per il giorno dopo, 16 settembre, in tutto circa 50 viaggi. Ora la compagnia comunica che, fino a fine ottobre, saranno circa duemila i voli cancellati, per cause da collegare soprattutto ai ritardi, al personale in ferie, al maltempo e agli scioperi che hanno portato il tasso di puntualità dei viaggi Ryanair al di sotto dell’80%, una performance che la compagnia low cost giudica inaccettabile.
Federconsumatori chiede ai viaggiatori (si stima siano 400mila circa, compresi quelli che hanno già il biglietto in tasca) di fare valere i propri diritti. L’azienda nel frattempo ha comunicato, a margine della lista dei voli cancellati, le due modalità per attutire i colpi del danno: rimborso o prenotazione gratuita di posti su altri aerei.
L’elenco delle cancellazioni fino al 28 ottobre è stato pubblicato e possono essere comunicate ulteriori variazioni fino a 6 ore prima della partenza; anche se finestre meno ampie di tempo sembrano plausibili, considerato il caos del momento.
Il ceo Michael O’Leary teme un’ondata di richieste di rimborsi e risarcimenti che potrebbero raggiungere i 20 milioni di euro, oltre al danno di immagine che ne deriva.
Le azioni intanto, quotate sull’Irish Stock Exchange (Dublino) hanno ceduto fino al 5%, per poi riguadagnare terreno e, al momento in cui scriviamo, sono scambiate a 16.75 euro ognuna (-1.85%)
 

“Hanno tirato troppo la corda, chi può scappa da O’Leary”

L’ex pilota di Ryanair: condizioni pessime, in 18 mesi siamo andati via in mille

Di Nicola Lillo – Fonte: La Stampa
«La verità è che il caos in cui si trova ora Ryanair è dovuto all’alto numero di licenziamenti dei piloti. Da inizio anno se ne sono andati in centinaia. Sono più di mille nell’ultimo anno e mezzo. Sono scappati per le pessime condizioni di lavoro». A parlare è un pilota di 30 anni, che sotto anonimato racconta le condizioni di lavoro nella compagnia «low cost» di Michael O’Leary. Il pilota è uno dei tanti che ha scelto di cercare fortuna professionale altrove, da inizio estate ha infatti lasciato Ryanair per un contratto migliore in una compagnia concorrente.
Ci sono altri motivi alla base della cancellazione dei duemila voli?  

«Oltre alla fuga per cercare contratti migliori c’è chi è rimasto e ha fatto un ricatto all’azienda, chiedendo le ferie desiderate e minacciando altrimenti di andarsene».

Dove hanno trovato lavoro i piloti in fuga?  

«Molti sono andati in Norwegian, gli inglesi hanno scelto invece Jet2. I comandanti con più esperienza sono stati presi dalle compagnie aeree cinesi. Alcune sono basate in Europa e fanno contratti prestigiosi, anche da 30 mila euro al mese».

E in Ryanair quanto guadagna un pilota?  

«Ci sono due tipi di contratto. C’è chi è assunto direttamente dall’azienda e guadagna 7 mila euro al mese, ma si tratta di meno di un terzo dei piloti. E c’è chi lavora come autonomo, essendo legato a un’azienda interinale in Irlanda: in questi casi lo stipendio va dagli 8500 ai 10 mila euro, e la retribuzione è sotto forma di rimborso spese. Le cifre riguardano i comandanti, se parliamo invece di un primo ufficiale appena entrato il guadagno è dai 2 ai 4 mila euro».

I contratti hanno delle tutele?  

«Chi lavora da autonomo non ha ferie né la malattia e le tasse vengono pagate in Irlanda, non nel luogo in cui risiede il lavoratore. Questi dipendenti, come accadeva a me, vengono pagati in base a quanto volano e spesso vanno vicino al limite di 900 ore di volo all’anno. A queste cifre vanno però tolte le spese che gravano su ciascun pilota».

Cioè?  

«Vengono scalati 5 euro per ora di volo per pagare i simulatori che servono per l’addestramento. E per andare a fare i corsi in programma due volte all’anno a Londra è necessario pagarsi l’albergo. In più ogni pilota è costretto a pagare il parcheggio dell’auto in aeroporto, la divisa, cibo e bevande a bordo. O ti porti l’acqua e un panino da casa oppure li compri sul volo come fanno i passeggeri. Se poi il catering è finito, allora stai senza. Stesso discorso per gli assistenti di volo, che guadagnano molto meno».

Che aria si respirava in azienda?  

«Tra colleghi l’ambiente è amichevole. Ma l’azienda fa terrorismo psicologico, non si può rivendicare nulla e non è consentito avere rapporti col sindacato. Al primo problema sei fuori. Certo, bisogna ammettere che hanno un grande fiuto per gli affari e competenza nel gestire l’azienda. Ma forse hanno tirato troppo la corda e ora sta venendo fuori tutto».
 

La lezione di Ryanair e Uber: la reputazione è il tallone d’achille delle aziende

Di Pasquale Berela – Fonte: IlSole24Ore
Una azienda per svolgere la sua attività acquisisce tutti i fattori produttivi necessari, in sostanza può comprare tutto, dal lavoro alle materie prime, tranne la reputazione. Quest’ultima infatti non si compra, si costruisce. Purtroppo, rispetto ad altre tipologie di “immobilizzazioni” immateriali, la reputazione – specialmente al tempo dei social network – risulta molto fragile, dunque a rischio di rovinarsi (rischio reputazionale) con conseguenti impatti sulla redditività dell’azienda stessa.
Le recenti vicende che hanno coinvolto Uber e Ryanair pongono alcuni interrogativi. Partiamo con ordine.
La notizia relativa alla revoca delle licenze per Uber in UK, paese notoriamente di matrice fortemente liberista, stupisce alquanto. L’impatto per Uber, che ora aspetta il verdetto dell’appello, rischia di essere molto pesante, visto che a Londra (tra le poche metropoli non statunitensi ad avere accordato una licenza alla società californiana) operano 40mila driver per una platea di 3,5 milioni di clienti.
Uber si è contraddistinta per un nuovo, spregiudicato modello di business che ha messo in discussione lo status quo: lo abbiamo visto in mezza Europa e anche nel nostro Paese, con la rivolta dei taxisti. In particolare si è caratterizzata nel basare la propria attività sull’utilizzo di un esercito di driver così detti “a partita Iva”.
Altro caso: Ryanair, la più famosa compagnia aerea irlandese. In un contesto di forte rigidità della compagnia, dovuta ad una serie di decisioni aziendali, si è aggiunta la vicenda dei voli cancellati derivanti da una “gestione” rischiosa del personale pilota: il piano ferie, secondo l’azienda, la fuga verso altre compagnie per gli stipendi bassi, secondo diverse testimonianze di ex piloti.
La cancellazione dei voli rappresenta meno del 2% del traffico aereo gestito dal vettore, eppure l’effetto in borsa ha visto un picco di discesa vicino al 10%.
Sia Uber che Ryanair si sono presentate come “diverse” e “innovative”. La prima si è posizionata come startup miliardaria della “sharing economy”, la seconda come una compagnia “low cost” molto più efficiente e redditizia dalle altre, diventata in pochi anni il primo vettore europeo.
Colpisce vedere queste due aziende simbolo del “nuovo”, chiave del successo, barcollare come un pugile colpito duramente dal suo avversario.
In realtà si sono scontrate con problematiche che riguardano tutte le aziende sia old economy sia new economy. Questo perché pur essendo “new” sul profilo dell’offerta di prodotto, si son trovate come tutte le altre realtà aziendali a dover rispondere alle stesse regole di mercato.
Evidentemente nessuna azienda può pretendere di concorrere ad armi impari: turni di lavoro e livelli di retribuzione non adeguati per i piloti, come nel caso Ryanair; traslare su un esercito di così detti self-employed questioni di sicurezza del trasporto di persone, come nel caso di Uber.
Nella gestione di un’azienda il rischio reputazionale va sempre tenuto in alta considerazione: abbiamo visto in questi due casi come può incidere a tal punto da mandarle in crisi e pregiudicare il proprio futuro.
Prima di tutto non si può pensare di creare valore semplicemente rischiando e non gestendo in maniera strategica i rischi assunti. Il problema principale per le aziende è non rendersi conto dei potenziali rischi connessi alla propria reputazione.
Cosa possono fare le aziende?
È necessario investire nella diffusione della cultura del rischio. L’approccio deve essere quello di una visione olistica della gestione del rischio, seguendo un impostazione di Enterprise Risk Management (ERM), che comprenda pertanto anche la valutazione del rischio reputazionale al pari del rischio di mercato.
La morale è semplice. Chi pensa di giocare senza badare alle regole del gioco, rischia molto, se non tutto.




La geniale pubblicità Ikea che prende in giro Instagram

Quando si parla di marketing, Ikea è sempre un passo davanti agli altri. Anche questa volta.

Il colosso svedese dell’arredamento ha centrato perfettamente l’obiettivo anche con la sua ultima pubblicità su Youtube, dove prende scherzosamente in giro Instagram e i suoi utenti, più impegnati a fotografare piatti da portata che a trascorrere il proprio tempo in compagnia degli amici o della famiglia.
La nuova pubblicità, Let’s relax, è ambientata nella Francia del Settecento, alla tavola di un nobile che – all’ora di cena – ferma le sue bambine che stanno per addentare una mela. Questa tavolata bisogna davvero immortalarla! Ecco quindi arrivare il pittore che, finito il suo lavoro, fa il giro di tutti i notabili per ricevere consensi. Al suo ritorno si può finalmente iniziare a mangiare.
Vi ricorda nulla?
La scena passa poi ai giorni nostri dove, un altro padre di famiglia sta fotografando i piatti sotto lo sguardo spazientito del resto della famiglia che aspetta di poter mangiare.
Il messaggio dell’azienda svedese è chiaro: durante i momenti che possiamo finalmente passare con i nostri cari (ovviamente in una cucina Ikea!), rilassiamoci, senza passare il tempo ad aggiornare i profili social.
Non c’è dubbio: il reparto marketing sa proprio fare il suo lavoro!