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Friends of Glass

Un’iniziativa creata dalla community europea Friends of Glass che possiamo definire veramente unconventional: bottiglie cantanti per incoraggiare il riciclo del vetro.
La campagna “Endless Chorus” nasce per promuove il riciclo del vetro e far conoscere ai giovani i vantaggi derivanti da questo tipo di imballaggio. Una recente ricerca ha messo infatti in evidenza che i millennials sono meno consapevoli dei vantaggi derivanti dall’uso del vetro rispetto a pubblici più adulti.
Le bottiglie parlanti, create da Illustrious, una società inglese di tecnologia del suono guidata da Martyn Ware, sono al 100% in vetro e dispongono di una base stampata in 3D dotata di tecnologia Bluetooth per catturare il suono nell’ambiente circostante.
Come in tutte le iniziative unconventional l’effetto sorpresa è determinante. Le bottiglie cantanti colgono di sorpresa i clienti nei locali pubblici e chiedono loro di unirsi al revival musicale: sulle note di brani musicali storici, con le voci della band danese The Bottle Boys in collaborazione con uno dei rapper e comici inglesi più famosi Ben Bailey Smith alias Doc Brown.
I musicisti ripropongono una serie di hit musicali degli ultimi 100 anni riportando in vita brani di Louis Armstrong, Fats Domino, Petula Clark e realizzando un mash-up che racconta le diverse vite del vetro e i suoi benefici dal punto di vista della sostenibilità.
Cosa c’è di nuovo
L’idea che quando si deve affrontare un tema non particolarmente divertente la creatività può dare una mano: è il caso di questa iniziativa che parla di sostenibilità in modo nuovo utilizzando un linguaggio divertente per ingaggiare i più giovani.




Nelle aziende italiane dipendenti poco coinvolti: le scelte sbagliate che riducono engagement e motivazione

L’engagement dei collaboratori è un fattore di successo per le aziende: ha conseguenze positive su redditività, soddisfazione dei clienti, innovazione, costruzione dei brand e gestione delle crisi. E tuttavia il livello medio dell’engagement dei collaboratori delle grandi aziende italiane è di 3,5 su una scala da 1 a 5: un dato che indica che c’è ancora molto da fare nel nostro paese, soprattutto perché più coinvolgimento significa più motivazione e, quindi maggiore produttività.
Questo, in sintesi, è ciò che emerge dalla prima indagine scientifica sul tema dell’engagement in azienda mai condotta in Italia: realizzata dall’Università IULM, la ricerca ha coinvolto un campione di 375 imprese rappresentativo delle aziende italiane con più di 500 dipendenti per valutare se e come i dipendenti vengono motivati attraverso strategie e azioni di “coinvolgimento” attivo nella vita dell’azienda.
I risultati peggiori nelle aziende di proprietà italiana
“I risultati”, dice Alessandra Mazzei, responsabile scientifico del Working Group Employee Communication dello IULM, “indicano che nelle grandi aziende italiane il livello di engagement è appena sufficiente e peggiora nelle aziende di proprietà italiana, quelle che adottano strategie di riduzione dei costi, che operano solo a livello nazionale e che non sono quotate”. Come a dire, spiega, che la maggiore competizione induce le aziende a prendersi più cura dei propri collaboratori.
Le cause del “disengagement”
“Il disengagement”, prosegue la Mazzei, “cresce quando le relazioni con i collaboratori sono trascurate, la gestione delle risorse umane non valorizza talenti e aspettative ed esiste in azienda un diffuso senso di ingiustizia organizzativa. Tra le principali cause del disengagement ci sono inoltre l’incoerenza e l’arroganza del management, tema questo che chiama in causa in primo luogo i vertici aziendali”.
Cosa si intende con coinvolgimento
Ma cosa si intende esattamente con “engagement”? La prima criticità emerge già in questa prima definizione: l’indagine è stata condotta sui manager che si occupano specificatamente di favorire il coinvolgimento dei collaboratori, i quali ritengono che la componente più importante dell’engagement sia la connessione psicologica ed emozionale del dipendente con l’azienda e i suoi valori. Invece, dicono i ricercatori, gli studi scientifici hanno evidenziato che l’engagement è rilevante se genera nel dipendente comportamenti proattivi, cioè motivazione ad azioni per contribuire concretamente al successo dell’azienda.
Il ruolo della comunicazione (incluse le convention) 
Secondo gli intervistati, l’engagement si genera principalmente attraverso due strumenti: la comunicazione e la gestione organizzativa delle risorse umane. In termini di comunicazione interna, le pratiche ritenute più importanti sono la comunicazione a cascata (cioè quella top-down, che parte dai vertici e arriva a tutti i collaboratori) e le convention, seguite da strumenti quali newsletter, blog e email. Da sola la comunicazione interna non è però una leva sufficiente per coinvolgere le persone: entra quindi in gioco il ruolo dei capi diretti con temi quali il dialogo manager-collaboratori, i gruppi di progetto, le conversazioni informali per raccogliere il feedback dei collaboratori. In particolare, lo studio ha indagato le pratiche volte a creare un clima di comunicazione aperta che stimoli i collaboratori a suggerire nuove idee, esprimere critiche costruttive e segnalare fatti controversi, e i manager hanno evidenziato la rilevanza della politica della “porta aperta” e delle policy che proteggono i collaboratori da ritorsioni e discriminazioni. Sono considerati invece poco rilevanti, ai fini dell’engagement, i social media interni.
Welfare aziendale e smart working considerati poco efficaci
Per quanto riguarda la gestione delle risorse umane, le pratiche che le aziende considerano più efficaci per generare engagement sono job rotation e mobilità orizzontale (cioè spostare periodicamente i dipendenti in settori diversi a parità di retribuzione), il job posting interno e la formazione per lo sviluppo delle competenze personali. Elementi più innovativi di welfare aziendale, quali convenzioni per servizi alla persona, palestre aziendali, offerte per la famiglia sono invece considerati poco importanti ai fini motivazionali. E ancor meno lo sono, secondo le aziende, lo smart working, le iniziative di corporate social responsibility che coinvolgono i collaboratori e i programmi di diversity management




Buondì Motta, prove tecniche di rilancio grazie agli spot corrosivi

Anche male, purchè se ne parli, diceva un politico della Prima Repubblica. Ma – come dimostra il celeberrimo caso che ha fatto scuola nelle digital pr di Eni vs. Report – oggi la reputazione vale invece, almeno, tanto quanto la notorietà. Sulla notorietà riservata allo spot del Buondì Motta non ci è dubbio, vista l’eco mediatica ricevuta che sembrerebbe confermare che l’advertising è efficace quando è in grado di affrontare la sfida di stupire utilizzando armi non convenzionali (o quasi). Il dibattito resta tuttavia aperto sulla sua effettiva efficacia.
Il caso della mamma colpita dall’asteroide – o meteorite, dubbio che ha alimentato la discussione in rete sullo spot – al termine della pubblicità della merendina, è diventato in poco tempo argomento di discussione e condivisione sui social media, fino a scalare la classifica dei trending topics, ottenere oltre 1,6 milioni di visualizzazioni su Youtube in una settimana, per essere infine analizzato e scandagliato dalla carta stampata, che ha messo in campo fior di critici di comunicazione e costume a interrogarsi sull’opportunità dello spot.
Eh sì perchè – per chi non avesse visto il video – la pubblicità ha fatto notizia proprio per questo: per l’asteroide che colpisce e la mamma (poi anche il papà) che rispondendo alla richiesta della figlia di una colazione «che possa coniugare la mia voglia di leggerezza e golosità», risponde: «Non esiste una colazione così, cara. Possa un asteroide colpirmi se esiste». L’arrivo dell’asteroide – o meteorite – infuocato a incenerire la mamma viene replicato nel sequel dello spot in cui appare il padre, anch’egli colpito e affondato dal corpo infuocato.
Chiaramente in molti hanno calcato l’accento sull’aspetto più divisivo dello spot, ossia sull’“uccisione” della mamma da parte dell’asteroide: entrando così nel loop della pubblicità provocatoria, alimentandone l’effetto e l’efficacia oltre gli spazi adv acquistati presso i broadcaster tv.
Se molti hanno interpellato esperti, massmediologi, docenti universitari e gli stessi copy che hanno lavorato alla campagna pubblicitaria, pochi hanno monitorato la risposta del pubblico alla “provocazione” Motta. Almeno sulle piattaforme social, analizzate invece da Datamediahub che in questi giorni è andata ad analizzarei i commenti pubblicati dagli utenti di Facebook e Twitter. Pier Luca Santoro e Pierluigi Vitale di Datamediahub hanno processato circa 5500 commenti raggruppandoli in in quattro principali topic di discussioni sullo spot.
Il primo, caratterizzato dall’ironia, ha raccolto circa i due terzi dei commenti, il 64,3% per la precisione. «Sicuramente – dicono i ricercatori – in questo topic si dividono le posizioni pro-contro ma, a dire il vero, sono più i complimenti e l’invito [agli altri] ad accettare l’ironia, che altro».
Da rilevare come la seconda tipologia di commenti sia caratterizzata dall’auspicio che l’asteroide colpisca la bambina, in una sorta di sfogo iconoclasta mascherata da nemesi stessa dell’iperbole del messaggio pubblicitario. Un topic, questo, che raccoglie i commenti di chi ritiene fastidiosa l’immagina della bambina che presenta petulante alla madre una richiesta con un linguaggio davvero poco infantile («Vorrei una colazione leggera ma decisamente invitante, che possa coniugare la mia voglia di leggerezza e golosità»). Che non a caso è stata accomunata a uno dei classici social “Le frasi di Osho”, ossia espressioni banali e di uso comune espresse fuori contesto. I tifosi dell’asteroide hanno mobilitato il 19,2% dei commenti, uno su cinque.
Rilevanza inferiore, circa il 10%, l’ottiene il cluster che raccoglie i commenti che sottolineano il lato violento dello spot: «Una buona quota di commentatori – dicono Santoro e Vitale – fa riferimento a diversi prodotti decisamente in voga, dal più recente Game of Thrones ai sempre verdi Tom & Jerry e Willy il Coyote. Si tratta inevitabilmente di un modo per porre in evidenza come la tv abbia dei precedenti, quotati e di successo, di format deliberatamente violenti che non suscitano esattamente lo stesso tipo di reazioni indignate. In particolar modo, nel caso di Tom&Gerry e Wile E. Coyote, parliamo di cartoni animati e quindi, a differenza di Game of Thrones, rivolti a un pubblico non adulto». Non supera il 7% il numero dei commenti che sottolineano l’immagine da famiglia da Mulino Bianco dello spot.
In effetti il meccanismo della campagna del Buondì Motta è molto semplice e tradizionale, analogo a quello dell’uomo in ammollo con il suo claim storico: «Non esiste sporco impossibile» e ci inventiamo un modo estremo per proporvelo. Che sia un detersivo o una merendina poco cambia: l’importante è focalizzare l’attenzione del pubblico verso il punto di fuga: ecco il prodotto che esaudisce il più impossibile dei desideri. Un obiettivo assolutamente coerente con l’obiettivo di rilanciare lo storico marchio del Buondì Motta, dopo che negli ultimi decenni la casa dolciaria è passata più volte di mano, prima di essere rilevata da Bauli.
Con un cote in questo caso un po’ inquietante: il desiderio del bambino può essere esaudito dal dio consumo, più e meglio di quanto i genitori – inadeguati, scettici e per questo colpiti d’asteroide – possano fare. D’altronde la forza della procovazione, com’è noto, travalica l’ambito pubblicitario se si pensa all’offerta (supposta) seria di Carpisa che annuncia il sorteggi tra i propri clienti di uno stage di sei mesi per elaborare un piano di comunicazione per l’azienda. Che in questo caso, per ottenere visibilità, ha anche risparmiato sui costi della campagna pubblicitaria.
 




GUCCI sceglie i meme per parlare ai millennials

Due dei giovani creativi che hanno collaborato con Gucci ci raccontano in un’intervista com’è lavorare su un social network

Baselworld. Siamo al Salone Mondiale dell’Orologeria e della Gioielleria, praticamente la mecca per chi ogni anno ha voglia di scoprire le nuove proposte del lusso di settore. L’orologio è uno di quegli accessori che meglio è stato assorbito dagli smartphones, ma non per questo destinato a diventare obsoleto visto che al passaggio analogico > digitale > multifunzionale sta rispondendo piuttosto bene. Senza dubbio, mai come adesso, è da considerare un oggetto più ornamentale che utile. E qui subentra la moda.
Da quando Alessandro Michele è arrivato a Gucci è riuscito a costruire un immaginario personalissimo, fatto di viaggi esotici e antropologici, di mondi magici e immaginari. Uno stile vintage pensato con un’attitudine sempre e comunque contemporanea. La sua forza sta proprio nel saper giocare col tempo: da una parte uno sguardo al passato e l’altro riflesso nello schermo di un telefono a guardare oltre. Banale? Ma non è forse l’unico modo per parlare oggi ai giovani?
Il popolo di Instagram e la moda hanno un’esigenza in comune: vogliono entrambi presentarsi sempre al meglio. I meme sono immagini che riassumono situazioni o sensazioni che stiamo vivendo, nonché una delle tendenze più forti dei social; un’ossessione che ci vede tutti coinvolti nel mandarci quotidianamente DM. Per la presentazione del suo ultimo orologio, Gucci ha scelto proprio questo linguaggio, invitando artisti e meme creator a collaborare insieme. A riunire il progetto è l’hashtag #TFWGucci (“That Feel When” – quella sensazione che si prova quando).
Per un giorno abbiamo avuto modo di conoscere dal vivo queste persone, che quotidianamente si interfacciano con migliaia o milioni di utenti, anche se in maniera del tutto virtuale. Il loro è un lavoro di ricerca e di copying a tutti gli effetti; lavorano sempre, lavorano ovunque, talvolta part-time e su FaceTime, quando sono un duo. Molti di loro ci tengono a tenere privata la loro identità anagrafica, ma con un paio siamo riusciti a fare due chiacchiere.

Ps.
lallo25, l’Instagram di Alessandro Michele, spacca!

Olaf Breuning
Olafbreuning

Chi è un meme creator?
Sinceramente, prima di fare questo meme su Gucci non ne avevo idea. Sì, ne avevo visti diversi sui social, ma non sapevo che fossero un fenomeno vero e proprio. Sapevo però che il concetto di “meme” è stato creato da Richard Dawkins, ma credo che neanche lui pensasse che sarebbe diventato così conosciuto su internet.
Prova a descrivere il tuo lavoro con un cliché…
Sono un artista contemporaneo, con tutti i cliché che comporta, tipo dormire troppo e non farsi la barba.
Quanto tempo passi su Instagram ogni giorno? Lavori da solo o c’è qualcuno che ti aiuta?
Pubblico una o due foto a settimana, quando vedo una faccia. Non voglio forzare i miei ritmi, deve essere naturale. Ma, come ogni giovane adulto dipendente dall’iphone che si rispetti, controllo ogni giorno quello che pubblicano gli altri. Non seguo troppe persone, quindi comunque non mi porta via troppo tempo.
I tuoi follower sono più di 63k: quali sono i messaggi privati più strani che hai ricevuto?
Adoro quando la gente mi scrive ‘non vedo la faccia!’ e io penso: ‘ma fai sul serio?’ I miei volti sono estremamente semplici, ma sì, esiste chi neanche li vede nelle foto!
Prima di Gucci hai già lavorato a collaborazioni con altri brand?
Sì, negli ultimi dieci anni ho collaborato con diversi marchi di moda, sia grandi che piccoli. In quanto artista, trovo sempre rigenerante interfacciarmi con persone che non fanno parte del mondo dell’arte.

Instagram ha un suo linguaggio, proprio come ogni nuovo mezzo di comunicazione: quali sono le caratteristiche irrinunciabili per dar vita a progetti creativi di valore su Instagram?
Credo che le caratteristiche siano le stesse per ogni lavoro creativo, indipendentemente dal mezzo: un linguaggio forte, unito a una direzione personale onesta e riconoscibile.
Si dice che Instagram sia un nuovo format editoriale. Sei d’accordo?
Onestamente, non mi interessa. Io sono un artista e Instagram è semplicemente un modo per divertirmi un po’. Ma anche se fosse un nuovo format editoriale, probabilmente sarebbe un fenomeno temporaneo. Le cose vanno e vengono. Credo che per far conoscere le proprie idee, oggi sia necessaria una buona dose di velocità e flessibilità!
C’è un’opzione che vorresti aggiungere a Instagram?
Sì! Il pollice in giù. La cultura della felicità a tutti i costi di Instagram mi infastidisce un po’. Sarebbe un modo democratico per poter dire chiaramente: “non mi piace!”
Hai mai pensato di cancellare il tuo account? Lo faresti davvero?
No, Instagram mi piace. Sono interessato alle arti visive! Però, presto cancellerò il mio profilo su Facebook. Se lo farò davvero? Chiedimelo tra qualche settimana.

champagneemojis – Less / champagneemojis – Benjamin Langford

ChampagneEmojis
Chi è un meme creator? E cosa fa? Prova a descrivere il tuo lavoro con un cliché…
C’è una grande differenza tra essere un meme creator e gestire un account di meme, ma molte persone non lo sanno. La maggior parte delle pagine di meme più conosciute, quelle a cui si collega automaticamente l’idea stessa di meme, non creano i loro contenuti, sono tutti repost. I miei post sono originali all’80%, e quando faccio un repost solitamente è un meme fatto da un mio amico che mi è particolarmente piaciuto. Ho una decina di chat di gruppo con altri meme creators, che usiamo per collaborare, scambiarci idee e tenerci aggiornati su quanto sta accadendo nel mondo.
Quanto tempo passi su Instagram ogni giorno? Lavori da solo o c’è qualcuno che ti aiuta?
Contando il tempo che passo facendo ricerca, controllando le descrizioni, aggiornandomi sulle ultime novità e parlando con altri creatori di meme, il lavoro di meme creator mi occupa per circa 4-6 ore al giorno. Recentemente ho aperto una nuova pagina con un amico, ma è ancora molto piccola. Ma la pagina principale, ChampagneEmojis, la gestisco da solo.
I tuoi follower sono più di 210k: quali sono i messaggi privati più strani che hai ricevuto?
ChampagneEmojis è il mio primo account, ed è anche quello principale, ma in tutto ne ho 8 (non includendo il mio profilo personale, che non uso mai). L’account su cui ho ricevuto i messaggi privati più strani, i migliori, ma anche i peggiori, è DrunkPeopleDoingThings perché è una raccolta dei contenuti che mi mandano i follower, quindi ricevo più di 50 video al giorno.
Prima di Gucci hai già lavorato a collaborazioni con altri brand?
La collaborazione con Gucci è assolutamente quella più importante, finora. Ho lavorato con altre aziende che mi hanno chiesto di creare contenuti per loro, a volte cose interessanti e altre volte noiose. Con Gucci lavoriamo a un obiettivo è completamente diverso.
Instagram ha un suo linguaggio, proprio come ogni nuovo mezzo di comunicazione: quali sono le caratteristiche irrinunciabili per dar vita a progetti creativi di valore su Instagram?
Il linguaggio di Instagram, e quello dei meme in generale, è piuttosto strano. Molti meme che faccio o che mi piacciono sono auto-referenziali e costruiti sulla base di meme creati in precedenza. E mentre noi ci spingiamo sempre più avanti creando nuovi meme, i nostri riferimenti si fanno sempre più complessi e difficili da capire per chi non fa parte di questo mondo. Vista da questa prospettiva, quella dei meme è una subcultura isolata, in cui i creatori e i loro follower hanno questi scherzi incomprensibili per chiunque altro.
Si dice che Instagram sia un nuovo format editoriale. Sei d’accordo?
Sì, sono d’accordo. Lavoro a stretto contatto con altri 50 meme creator e siamo tutti fan dei contenuti che i nostri colleghi pubblicano. Ognuno comunque ha uno stile e un senso dell’umorismo personale. Il mio stile è un mix di scarsa autostima e attività degenerate.
C’è un’opzione che vorresti aggiungere a Instagram?
Instagram permette di avere solo cinque account collegati contemporaneamente. Spero che aumenteranno il numero almeno a dieci, così potrò sprecare ancora più tempo sui social e meno a fare log-in e log-out.
Hai mai pensato di cancellare il tuo account principale? Lo faresti davvero?
Ogni tanto non mi vengono più idee nuove, quindi devo staccare per un paio di giorni e ricaricare le batterie, ma non ho mai davvero pensato di cancellare il mio account.




"Instagram è una mafia. Non c'è niente di autentico". Una blogger di viaggio svela i trucchi degli influencer

“Ecco come facciamo ad avere così tanti follower”


“I nostri profili Instagram non sono la vita vera. La vita vera la fermiamo per fare questi scatti, per ricevere like e commenti, perché è così che oggi diamo valore a noi stessi”. È tutto racchiuso in questa frase il senso delle “rivelazioni” che Sara Melotti, fotografa di viaggio e influencer su Instagram, ha fatto al DailyMail Australia.


In una lunga intervista ha svelato quali strategie vengono utilizzate dagli utenti per avere milioni di followers sul social network, lamentando come Instagram, da luogo incontaminato e vero in cui postare i momenti più salienti della vita di ciascuno, sia diventato una miniera d’oro per le aziende che intendano arrivare con più facilità ai consumatori e un vero e proprio lavoro per chi riesce a utilizzare questo spazio.
“Io stessa riesco a viaggiare nei posti più belli del mondo, grazie ai finanziamenti che ricevo da hotel e tour operator”, racconta la ragazza.

Ciò che un tempo era contenuto e originalità, ora è ridotto a insensato algoritmo. Chi ha tempo e soldi per fregarlo, ha vinto la partita. So di essere un’ipocrita che ha giocato al gioco per gli ultimi sei mesi, e mi fa sentire una persona pessima. Credo sia giunto il momento di smetterla con le stronzate e dirvi cosa sta succedendo. Noi influencer siamo cartelloni ambulanti di aziende e brand perché attraverso noi raggiungono i consumatori

Inizialmente Instagram utilizzava la la logica dei contenuti in ordine cronologico. Chi prima pubblicava, prima veniva visualizzato. Poi invece ha scelto di mostrare i post secondo la probabilità di interesse verso il contenuto e il rapporto con la persona che posta. “La gente non vedeva più i nostri post, i numeri calavano velocemente e alcuni di noi, nel panico, hanno iniziato a pensare a soluzioni “creative” per ingannare questo algoritmo infernale. Come? Innanzitutto comprando ‘like’ e commenti per avere più follower. Si falsifica la fama on line pagando 5 dollari per 100 nuovi seguaci o centinaia di dollari per acquistarli in quantità dai robot che li offrono”.

Ma non è l’unica strategia rivelata da Sara Melotti. Un’altra, banalmente, è quella di seguire o commentare profili di persone che una volta fatti entrare nei nostri follower abbandoneremo. Oppure quella di rivolgersi ai “collective accounts”: pagare per vedere il proprio lavoro su profili di successo, ripostati e ricondivisi da altra gente di successo.

Una volta, per postare una mia foto su uno di questi account, mi sono stati chiesti oltre 500 euro. Altra tattica sono i ‘comment pod’, 10/15 blogger di un gruppo privato: ogni volta che qualcuno di loro posta qualcosa on line, manda anche via messaggio il contenuto agli altri, che così commentano subito e mettono Mi Piace. Il nostro segreto è ottenere un alto engagement (like e commenti) entro i primi 30 e 45 minuti dal caricamento (ad esempio dell’immagine), così finirai nella pagina ‘explorer’ e riceverai migliaia di like. Per non far scoprire i ‘comment pod’, gli influencer si sono trasferiti su Whatsapp e Facebook. Lì si accordano per commentare le reciproche immagini ad una determinata ora e apparire così tra i più popolari. Non si tratta di veri follower ma i brand non lo sanno, guardano i numeri e sponsorizzano.

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