Csr 2.0: 'Legendary Seven' di Heineken, agricoltori pionieri per comunicare la sostenibilita'

Heineken ha deciso di impegnarsi per assicurare che il 50% di orzo e luppolo utilizzati nella produzione di birra entro il 2020 proverranno esclusivamente da filiere sostenibili. E ha deciso di comunicarlo con Blippar, un’app, divulgando la storia degli agricoltori che forniscono gli ingredienti principali.
LA STORIA – Il filo conduttore della campagna di comunicazione è la storia degli agricoltori che coltivano gli ingredienti principali della birra. Non è certo un tema nuovo o imprevedibile, ma il canale scelto è un’app che si chiama Blippar. Un’animazione di 60 secondi presenta i “Legendary 7”, 7 agricoltori di Regno Unito, Paesi Bassi, Francia Germania e Grecia che producono appunto orzo e luppolo di alta qualità.
Altri contenuti entrano nel dettaglio delle loro storie, ad esempio spiegano come Jacky Brosse si prende cura degli alveari nel suo grande campo di orzo in Francia. I personaggi sono ritratti in uno stile noto agli occhi dell’utente, il classico stile “Wild West” con i famigerati poster Wanted. E queste sembianze note probabilmente hanno contribuito ad imprimere la campagna nella loro mente, come dimostrano i selfie postati sui social network dai follower.

CSR 2.0 – Al di là dell’app particolare, emerge la volontà di svecchiare la Csr: basta con i report, che nessuno spesso legge, è tempo di una Csr 2.0. “Spesso la sostenibilità è vista come qualcosa di complesso ed inaccessibile per i consumatori. Ma spesso è al centro di ciò che siamo abituati a fare e a vedere, e noi volevamo offrire un modo per incoraggiare i consumatori e gli stakeholder ad interagire con il brand e con il nostro programma ‘Brew a Better World’”, ha spiegato Mark van Iterson, capo del reparto design per Heineken.

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Van Iterson descrive il ruolo dei Legendary 7 come quello di personaggi che sfidano lo status quo della sostenibilità aiutando i consumatori a calarsi in questa sfera riflettendo sui prodotti che consumano, sugli ingredienti da cui sono composti.


Social innovation, l’Ue annuncia i nuovi indicatori dello sviluppo urbano sostenibile

In un’Europa che soffre ancora la crisi economica, per misurare il benessere dei cittadini non basta più il PIL: dalla DG Regional and urban policy della Commissione europea via libera al nuovo indice della qualità della vita in città basato su inclusione sociale, progetti smart community e tutela ambientale.
Non è solo il prodotto interno lordo (PIL) a misurare la ricchezza e il benessere di uno Stato, una regione e una città. Sono anni che si avanza questa tesi e finalmente anche a livello istituzionale qualcosa sembra cambiare.
Il responsabile della Direzione generale per le Politiche regionali e urbane della Commissione europea, Walter Deffaa, riporta il quotidiano The Guardian, ha annunciato di essere d’accordo con l’utilizzo del Social progress index (SPI) al fianco del tradizionale PIL.
Un impegno verbale, per il momento, che potrebbe presto tradursi in un concreto processo di integrazione di questo indice del benessere, basato sull’innovazione sociale e la qualità della vita dei cittadini, con altri strumenti tecnicamente più finanziari ed economici.
Le politiche regionali dell’Unione europea possono contare su un fondo progetti pari a più di 63 miliardi di euro. Il Progress social index (SPI) potrebbe aiutare i decisori nella scelta della migliore ripartizione delle risorse finanziarie tra le regioni più virtuose d’Europa.
L’SPI è costituito da 52 indicatori, che vanno dalla sanità all’edilizia popolare, dall’inclusione sociale al social housing, dalle smart community alla tutela degli spazi verdi. “Al di là del PIL– ha spiegato al quotidiano britannico un portavoce della Commissione Ue – è necessario adottare nuovi indici per valutare il livello di qualità della vita dei cittadini in una città e in una metropoli. Il progresso sociale, la social innovation, possono aiutare in questo”.
Come ha ricordato Michael Porter, docente di Economia ad Harvard, sostenitore della teoria del ‘Valore condiviso’ per riconciliare business e progresso sociale (passaggio dalla Corporate Social Responsibility alla Corporate Social Innovation), “Non ha più senso utilizzare il PIL per misurare il benessere della popolazione quando la gran parte di essa subisce senza sosta i colpi della crisi da anni”.
Progetti a forte impatto sociale, politiche ambientali lungimiranti, lotta all’inquinamento, liberazione di crescenti spazi urbani dal traffico automobilistico, inclusione sociale, accesso alle risorse (idriche, energetiche, economiche, culturali, sociali, ambientali, pubbliche) e loro equa ridistribuzione, diritti individuali e democratici, opportunità di migliorare la propria condizione di vita, promozione di nuovi mezzi di trasporto ecosostenibili e puliti, ricorso alle fonti energetiche rinnovabili, sostegno alle comunità intelligenti e alle soluzioni smart ciy, sono solo alcuni dei fattori chiave per sviluppare un indice di SPI a livello di città e regioni d’Europa.
Dall’SPI nasce una classifica mondiale, che attualmente è guidata da Norvegia, Svizzera, Islanda, Nuova Zelanda, Canada, Finlandia, Danimarca, Olanda, Australia, Regno Unito. L’Italia occupa la posizione numero 31.
Un modello unico non esiste, spiegano da Bruxelles, ma dallo scambio di buone pratiche, esperienze e soluzioni efficaci si potrà presto arrivare ad uno standard applicabile in ogni Paese Ue.


Sette amministratori delegati su dieci credono nell’importanza della sostenibilità

Secondo un’indagine della Ethical Corporation la sostenibilità ambientale è ormai ritenuta un aspetto decisivo nella pianificazione delle strategie aziendali.
La maggior parte degli amministratori delegati ritiene che responsabilità sociale e sostenibilità ambientale siano “aspetti fondamentali della pianificazione strategica”. Quasi il 70 per cento ha dichiarato di prendere molto seriamente questi aspetti.
È quanto emerge da una ricerca realizzata per la Ethical Corporation, società indipendente con sede a Londra che si occupa di analisi e di assistenza alle aziende per quanto riguarda la responsabilità sociale di impresa. L’obiettivo del sondaggio era quello di valutare l’attuale stato della csr e della sostenibilità in tutto il mondo.
Sono state intervistate circa 1.500 persone, imprenditori e membri di consigli di amministrazione, alle quali è stato chiesto il ruolo della sostenibilità nelle rispettive società e come questa si evolverà nei prossimi cinque anni.
Questo studio fornisce una nitida fotografia dell’attuale stato della sostenibilità aziendale – ha dichiarato Dave Stangis, vice presidente della responsabilità sociale della Campbell Soup Company – rappresenta inoltre un valido metro di giudizio per valutare i progressi compiuti dalla propria azienda nel corso degli anni”.
L’89 per cento degli intervistati ha dichiarato che la sostenibilità aziendale sta assumendo un ruolo sempre più importante nella loro strategia di business. La percentuale qui risulta superiore a quella degli intervistati che hanno dichiarato di prendere sul serio la sostenibilità, questo significa che altri fattori, come la domanda dei consumatori, i problemi della catena di fornitura o le normative vigenti, concorrono ad aumentare l’importanza e l’urgenza di questo tema.
Per capire effettivamente quanto le società puntino sulla sostenibilità, afferma il rapporto, è necessario capire quanto spendono per essa. Oltre due terzi degli intervistati hanno dichiarato che è possibile collegare l’aumento del fatturato o l’ampliamento del volume di affari con le iniziative legate alla sostenibilità, questo significa che aumentare gli investimenti destinati alle iniziative per ridurre il proprio impatto ambientale può garantire evidenti benefici economici.


Dieselgate: abbiate pietà di una povera tedesca

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Il Dieselgate  che ha travolto Volkswagen non è solo americano, ma mondiale. Una delle aziende leader dell’automotive e della ricerca per l’efficienza ha smaccatamente mentito. E ora la fiducia è al collasso.
“Pietà quanta se ne vuole, ma non lodate le cattive azioni: date loro il nome del male”. Scriveva così il grande Fédor Dostoevskij. Vero: tra russi e tedeschi a volte nella storia non è corso buon sangue, ma il celebre romanziere e pensatore russo, quando scrisse questa frase, non poteva certamente pensare alla Volkswagen, nata oltre 50 anni dopo la sua morte.

Dieselgate: cronaca di una crisi annunciata

Riepiloghiamo in pochissime righe lo tsunami che ha investito ieri la multinazionale automobilistica di Wolfsburg, scandalo da alcune ore “hot topic” ovunque sul web, meritevole della prima pagina di pressoché tutti i quotidiani del mondo.
Secondo l’agenzia Bloomberg, la prima a lanciare la notizia, l’Epa – l’ente americano per i controlli ambientali – avrebbe riscontrato “significative anomalie” nei dispositivi per i gas di scarico delle auto diesel commercializzate da Volkswagen negli Stati Uniti. La società tedesca avrebbe deliberatamente progettato le vetture in modo tale da “aggirare” le normative antinquinamento, per poi venderle più facilmente sul mercato nordamericano. Una procedura che, oltre a frodare i consumatori, potrebbe nuocere alla salute dei cittadini, aspetto al quale negli Stati Uniti tengono moltissimo. Volkswagen sarebbe dunque al centro di un’indagine penale sia per truffa ai danni dei consumatori che per violazione delle severe norme antismog.
Più nel dettaglio – siete seduti comodi? – la ditta tedesca avrebbe deliberatamente montato sulle auto uno “speciale software” installato appositamente nella centralina elettronica e in grado di “riconoscere” quando la vettura è sottoposta ai test ambientali e ai collaudi, e di attivare, solo in quel caso, i dispositivi più efficienti contro le emissioni nocive in atmosfera, “disattivandoli” poi subito dopo, per migliorare le performance dell’autovettura.
Questo ingegnoso quanto diabolico sistema farebbe sì che il motore vada poi a produrre durante il normale utilizzo fino a 40 volte la quantità di ossido di azoto inquinante registrata prudenzialmente nella fase di “test”, quando il software si inserisce.
Una storia talmente irrealistica nei suoi contorni, da essere degna della pubblicazione su un sito “antibufale” di fact-cheking: impossibile pensare a una tale deliberata stupidità da parte di un marchio leader mondiale dell’automotive.
Se non fosse – purtroppo – vera, come parrebbe confermato dallo stesso numero uno operativo dell’azienda, Martin Winterkorn, che ha parlato attraverso un comunicato ufficiale ammettendo di “guardare con grande attenzione alle accuse”. Si apre ufficialmente il “Dieselgate”: Volkswagen ha sospeso le vendite di nuovo e usato in tutti gli Stati Uniti, e nominato una commissione d’indagine, mettendosi a completa disposizione di Washington per chiarire il più rapidamente possibile l’accaduto. Seguono nel comunicato – invero assai difficile da reperire sui siti web ufficiali dell’azienda – le “scuse verso tutti i clienti e i consumatori” per quella che sta rapidamente prendendo i contorni della più sconcertante truffa su larga scala che si sia mai vista in un intero secolo di storia del mercato automobilistico.

Le ricadute economiche del Dieselgate

Ora il gruppo rischia una multa fino alla stratosferica cifra di 18 miliardi di dollari, tanto che le reazioni in borsa sono state immediate, con un calo del 20 per cento del valore del titolo solo nelle ultime 24 ore.
Immediate anche le richieste di dimissioni dell’amministratore delegato, perché Winterkorn, oltre ad essere il numero uno del board, ha anche la responsabilità diretta sulla ricerca, sviluppo e progettazione dell’intero gruppo tedesco. Le richieste non lasciano spazi di manovra: se sapeva, deve dimettersi; se non sapeva, vista la sua posizione, deve dimettersi lo stesso, poiché se è possibile prendere decisioni su dossier così “delicati” e rischiosi senza che lui ne sia al corrente, significa che l’azienda è totalmente fuori controllo. E il nome di un preciso responsabile – un gruppo di persone, evidentemente, non certo un singolo – dovrà emergere: progetti di questo genere non s’improvvisano “in solitaria”, e una risposta in questo senso Winterkorn la deve non solo all’Epa, ma a tutti i clienti Volkswagen, alla Germania nel suo complesso, istituzioni e politica inclusi, e – viste le dimensioni che ha assunto lo scandalo – al mondo intero.
Dieselgte è una crisi aziendale di dimensioni stupefacenti, che chiama in campo parole come “autenticità”, “fiducia da parte dei clienti finali”, “evidente pregiudizio alla business continuity”. Fiducia – non solo in un’azienda, ma in un sistema paese, quello tedesco, che ha da sempre fatto della rigidità dei processi di controllo la propria “cifra” – già recentemente messa a dura prova con il disastro aereo della Germanwings, con il pilota tedesco suicida chiuso da solo dentro la cabina di pilotaggio, manovra resa possibile grazie all’assoluta inadeguatezza delle procedure di sicurezza aeree in vigore in Germania.
Sui social network l’ironia sul dieselgate impazza, con frasi del tipo “Attendiamo con fiducia che da Wolfsburg comunichino ufficialmente che l’iniziativa – e in definitiva la colpa – è di qualche dirigente di origine italiana; che il board Volkswagen era del tutto all’oscuro di questa vergognosa manovra; e che la casa automobilistica ha una lunga tradizione di rispetto della salute, dell’ambiente, dei consumatori, di Biancaneve, dei sette nani e di numerosi personaggi di Tolkien”.
Al netto del “fuoco sulla croce rossa”, una cosa è certa: le modalità di gestione di questa crisi di reputazione, nelle prossime ore e nei prossimi giorni, determineranno la qualità della sopravvivenza di una delle più solide case automobilistiche del mondo, con buona pace della “solidità e affidabilità tedesca” tanto sbandierate in ogni possibile occasione da Frau Merkel. E in queste ore, gli analisti più critici hanno anche sollevato un altro dubbio. Se Volkswagen ha imbrogliato in America, non potrebbe averlo fatto anche altrove?
To be continued…
 
AGGIORNAMENTO AL 24/09/2015:
Le reazioni dei principali quotidiani tedeschi al Dieselgte (rassegna tratta da Internazionale.it):

“È difficile capire perché la Volkswagen, nonostante i chiari vantaggi dell’operazione, abbia corso l’immenso rischio di essere scoperta”, scrive Holger Appel in un editoriale in prima pagina della Frankfurter Allgemeine Zeitung. “Un altro enigma è capire perché a lungo l’azienda non abbia reagito. Già dal maggio del 2014 le autorità di controllo e la Volkswagen discutono della discrepanza tra i risultati dei test e le prestazioni dei motori nell’uso quotidiano”.

Questo scandalo solleva interrogativi le cui risposte devono far tremare i piani alti di Wolfsburg”, la sede della casa automobilistica, sostiene Grischa Brower-Rabinowitch di Handelsblatt, secondo la quale “ora il capo della Volkswagen ha due possibilità per gestire la crisi: deve chiarire o dimettersi”.

“Le auto della Volkswagen non sono mai state a buon mercato sotto la guida di un manager fanatico della qualità come Martin Winterkorn, ma in nessun altro posto un consumatore spendeva meglio i suoi soldi per una macchina”, recita l’editoriale – non firmato — del quotidiano conservatore “Die Welt”: “La Volkswagen era sinonimo di solidità. Era il fiore all’occhiello dell’ingegneria tedesca. Dallo scorso fine settimana questa immagine è rovinata”.

Il capo della casa automobilistica è sotto accusa perché non poteva non sapere della truffa, sostiene l’editorialista Ulrich Schäfer sulla Süddeutsche Zeitung: “Martin Winterkorn sa bene che il capo della Volkswagen non si interessa solo delle grandi linee e della strategia complessiva, ma dell’ultima vite e di ogni minimo dettaglio del motore”.

“I danni sono immensi”,secondo Stefan Sauer del Frankfurter Rundschau. “Soprattutto quelli provocati alla salute attraverso le polveri sottili e i gas velenosi. Nelle città tedesche i valori di soglia di questi elementi sono regolarmente superati e in tutto questo i motori diesel hanno la loro parte. Secondo il Max-Planck-Institut, ogni anno in Germania le polveri sottili provocano la morte di 35mila persone. Un’impresa che per vendere di più manipola i valori di queste sostanze si comporta in modo criminale”.

“Scandalo è una parola troppo debole per descrivere quello che è successo alla Volkswagen e quello che significa per l’automobile tedesca, la sua immagine nel mondo, le sue prospettive di successo e, più in generale, per la fama dell’ingegneria tedesca”, scrive Christoph von Marschall per Der Tagesspiegel, secondo il quale “questa truffa danneggia il marchio Germania”.

Edit del 03/09/2019 h. 18.00:
A tre anni dallo scoppio dello scandalo “Dieselgate”, Volkswagen ha sicuramente reagito, e bene, con una efficace strategia di recovery sul lungo periodo, ben descritta in questo articolo de IlSole24Ore


Vw ammette l'inganno e sospende la vendita dei diesel negli Usa

Martin Winterkorn ammette che Volkswagen ha frodato sui test antinquinamento negli Usa: in un comunicato diffuso domenica, l’amministratore delegato del gruppo Volkswagen afferma che “le autorità hanno accertato delle manipolazioni da parte di Vw dei test sulle auto con motori diesel”. Un portavoce dell’azienda ha confermato a “Die Welt” che Vw ha ammesso le manipolazioni. “Il board della Volkswagen – prosegue Winterkorn nella nota – prende molto sul serio le violazioni accertate. Io sono personalmente profondamente dispiaciuto che abbiamo deluso la fiducia dei nostri clienti e del pubblico”. Il manager assicura che Vw “collabora con le autorità per chiarire la cosa completamente e il più presto possibile”. Vw ha anche affidato a una società esterna l’incarico di condurre un’inchiesta sul caso, e ha sospeso con effetto immediato la vendita dei modelli equipaggiati con il motore diesel 2 litri “incriminato”, che negli Usa sono Golf, Jetta, Passat, Maggiolino e Audi A3.
Visti i precedenti della concorrenza, è possibile che lo stesso manager (o qualcuno dei suoi sottoposti) sia costretto a chiedere scusa in pubblico di fronte al Congresso, come era accaduto a Mary Barra di Gm e Akio Toyoda della Toyota. La prima per il caso dei blocchetti di accensione difettosi, per il quale Gm è stata colpita di recente dal dipartimento della Giustizia con una multa da 900 milioni di dollari; Toyoda cinque anni fa, per lo scandalo dei veicoli che acceleravano improvvisamente senza che il conducente potesse frenarli.
Il caso Vw è scoppiato quando l’Epa, l’ente americano per la protezione dell’ambiente, ha scoperto che le vetture Volkswagen e Audi con motore diesel 2 litri (lo stesso che equipaggia moltissime auto del gruppo Vw vendute in Europa) emettono molti più ossidi di azoto in condizioni normali che non durante i test specifici. Dopo lunghe ricerche ed esperimenti, ha scoperto che responsabile è un software – installato appositamente nella centralina motore – che riconosce le condizioni di test e attiva solo in quel caso i dispositivi più efficienti contro le emissioni; questi ultimi sono invece disattivati durante la guida normale, e il motore produce quindi da 10 a 40 volte la quantità di ossidi di azoto dichiarata in base ai test. Volkswagen ha ammesso che i veicoli contenevano effettivamente il software incriminato.
Perché lo avrebbe fatto? Secondo gli esperti, i dspositivi che limitano le emissioni di azoto fanno consumare di più il motore, e quindi emettere più CO2; potrebbero inoltre limitarne le prestazioni, in particolare la coppia motrice che è uno dei punti di forza dei motori diesel rispetto a quelli a benzina. A questo punto lo scarso successo del motore diesel negli Usa, motore di cui le case tedesche e soprattutto Volkswagen si sono fatte paladine, è destinato a subire un duro colpo. Gli americani, come del resto i giapponesi, sono convinti da sempre che il diesel sia un motore intrinsecamente sporco e inadatto alle autovetture; il caso Vw non farà che rinconfermare questa loro opinione.
In base alla normativa dell’Epa, Vw rischia una multa complessiva colossale: fino a 18 miliardi di dollari; secondo un report diffuso ieri dalla Alliance Bernstein, la sanzione difficilmente arriverà al massimo previsto, anche perché potrebbe essere commisurata alle dimensioni della sola Vw negli Stati Uniti e non del gruppo nel suo insieme. Da un lato, il caso Volkswagen è grave poiché è accertata (e ammessa dall’azienda) la volontà di frodare i test; dall’altro, non vi sono prove di decessi dovuti all’eventuale inquinamento da ossidi azoto maggiore di quanto dichiarato. La sola multa potrebbe però facilmente superare gli 1,2 miliardi di dollari cha la Toyota pagò nel 2010; senza contare il costo dei richiami, i danni di immagine e le eventuali conseguenze penali. La stima del mercato sulle conseguenze finanziarie dello scandalo su Vw si potrà vedere oggi alla riapertura del titolo in Borsa.


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