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Nuovo Regolamento sui Rating ESG: il ruolo dell’Unione Europea nella lotta al greenwashing

Nuovo Regolamento sui Rating ESG: il ruolo dell’Unione Europea nella lotta al greenwashing

Lo scenario finanziario ed industriale europeo sta subendo rapidi cambiamenti, in particolare in relazione alla sostenibilità, all’inclusività e alla trasparenza della governance delle aziende: i rating ESG sono ormai indispensabili per partecipare a bandi, appalti od anche solo beauty contest, ma il mercato appare come una giungla, e nella maggior parte dei casi le cosiddette “certificazioni ESG” altro non sono che banali validazioni di auto-dichiarazioni delle aziende stesse, spesso risultanti dalla compilazione di checklist online sulle quali non viene effettuato alcun controllo di autenticità, come illustrato in una recente ricerca presentata proprio al Parlamento Europeo. Per questo motivo, l’UE ha messo a punto una nuova proposta di regolamento sulla trasparenza e sull’attività dei fornitori di rating ESG, cercando di individuare come potrebbero influenzare la stabilità finanziaria e l’unione dei mercati dei capitali in Europa.

Contesto della proposta

La proposta, licenziata dalla Commissione e prossima ad essere discussa in Parlamento, è intitolata “Regolamento sulla trasparenza e sull’attività dei fornitori di rating ESG”, e mira a disciplinare e potenziare il funzionamento dei fornitori di rating in relazione ai criteri ambientali, sociali e di governance.

Il focus dello strumento legislativo è concentrato sul garantire – attraverso dichiarazioni ESG credibili, autentiche e rilasciate da enti e agenzie autorizzate – stabilità dei servizi finanziari e dell’unione dei mercati dei capitali. La sua introduzione rappresenta una nuova iniziativa nel panorama regolamentare europeo e ha un obiettivo ampio e ambizioso: facilitare una transizione verso un sistema economico e finanziario che sia davvero sostenibile e inclusivo, in linea con il Green Deal europeo e gli obiettivi di sviluppo sostenibile delle Nazioni Unite.

L’importanza di questa iniziativa risiede nella sua capacità di rafforzare la competenza degli investitori riguardo alla sostenibilità degli investimenti, agevolando nel contempo le imprese nel declinare correttamente le loro performance ESG.

Il testo completo del Regolamento

clicca per scaricare il file .pdf, completo di premesse, articolato e allegati

Problematiche da risolvere e obiettivi da raggiungere

Il regolamento mira a intervenire su due problematiche principali:

a) chiarezza degli ESG Ratings. È essenziale che gli stakeholder comprendano pienamente le caratteristiche dei rating ESG, cosa essi rappresentano, quali obiettivi perseguono, quali sono le metodologie adottate e le fonti di dati o stime su cui essi si basano;

b) attività e integrità dei fornitori di rating ESG: vi è la necessità di una maggiore chiarezza sulle operazioni dei fornitori di rating ESG, ed è fondamentale garantire che siano messe in atto misure per prevenire e mitigare i rischi di conflitti di interesse all’interno di queste organizzazioni.

I principali obiettivi da raggiungere parrebbero essere i seguenti:

  • definizione della quantità/qualità di rating ESG disponibili al pubblico;
  • presenza di rischi finanziari e/o obiettivi di impatto nei rating ESG;
  • livello di informazione fornito online dai fornitori di rating ESG, incluso l’eventuale rilascio di documenti o opuscoli;
  • variazione dei punteggi ESG tra diverse agenzie di rating, e relativa omogeneità;
  • crescita della correlazione tra rating ESG con finalità simili;
  • aumento dell’uso dei rating ESG tra utenti ed emittenti;
  • monitoraggio del volume e quota di mercato degli investimenti ESG basati sui rating ESG;
  • incidenza delle controversie legate ai rating ESG.

Risultati attesi

La proposta di regolamento potrebbe portare a una serie di impatti significativi, tra i quali:

a) benefici per gli utenti e le imprese, in quanto gli utenti dei rating ESG e le aziende valutate trarranno vantaggio da una maggiore trasparenza nelle caratteristiche e nelle operazioni dei fornitori di rating;

b) contribuzione agli obiettivi strategici dell’UE, la proposta rafforza infatti gli obiettivi del Green Deal europeo e della strategia dell’UE per la finanza sostenibile;

c) implicazioni economiche, perchè i fornitori di rating ESG saranno sottoposti a nuovi obblighi di informativa e a requisiti operativi, con i relativi costi, e questo potrebbe comportare un cambiamento nella struttura dei costi per questi fornitori;

d) impatto sulle Autorità Pubbliche, come ad esempio l’ESMA, European Securities and Markets Authority, che avrà un ruolo di vigilanza rafforzato sui fornitori di rating ESG.

Il valore aggiunto di un intervento a livello europeo

Non esistendo un quadro normativo specifico a livello europeo per i rating ESG, gli Stati membri, attualmente, operano indipendentemente l’uno dall’altro, generando eccessiva eterogeneità, possibili conflitti e una protezione ineguale degli investitori nei diversi Stati membri. Tuttavia, per garantire la chiarezza e l’affidabilità dei rating ESG e supportare la transizione verso un sistema sostenibile in linea con gli obiettivi del Green Deal e delle Nazioni Unite, pare ormai non più rinviabile e quanto mai essenziale un intervento coordinato a livello europeo.

Il valore di un simile intervento risiede nell’offrire coerenza per un quadro normativo omogeneo che faciliterebbe la comparabilità tra i rating, evitando l’emergere di norme diverse a livello nazionale, e garantendo attraverso un approccio uniforme su tutto il territorio europeo la riduzione delle incertezze per gli operatori del mercato. L’UE, inoltre, potrebbe interagire con partner internazionali avendo un approccio consolidato in materia di investimenti sostenibili, colmando evidenti lacune e garantendo auspicabilmente un futuro più sostenibile e inclusivo per l’intera Unione Europea.

Criticita e proposte di emendamenti sul Regolamento dei fornitori di Rating ESG

Vi sono tuttavia nella proposta di Regolamento, perlomeno per come si presenta la bozza attualmente, alcune lacune e aree di potenziale ambiguità, con particolare attenzione ai meccanismi di trasparenza, ai possibili conflitti d’interesse e alla capacità di vigilanza dell’ESMA. In risposta a ciascun articolo analizzato, sono proposte raccomandazioni e emendamenti, allo scopo di migliorare la chiarezza e l’efficacia del regolamento, garantendo al contempo la trasparenza e l’equità nell’assegnazione dei rating ESG.

Il fornitore di rating ESG autorizzato rispetta in ogni momento le condizioni di ottenimento dell’autorizzazione iniziale.

Mentre nel documento si prevedono ispezioni da parte dell’ESMA solo in caso di violazioni, non sembra esserci alcuna menzione di verifiche a campione in itinere. La supervisione e il monitoraggio delle attività di tali fornitori di rating ESG non dovrebbero limitarsi solo a situazioni di violazione manifesta. Sarebbe opportuno, quindi, integrare il testo con una disposizione che preveda esplicitamente la possibilità per l’ESMA di effettuare verifiche di conformità in itinere. Questo non solo garantirebbe una maggiore trasparenza e accountability da parte dei fornitori di rating ESG, ma rafforzerebbe anche la fiducia degli stakeholder nel sistema di sorveglianza.

L’ESMA revoca o sospende l’autorizzazione di un fornitore di rating ESG in uno qualsiasi dei casi seguenti: il fornitore di rating ESG non soddisfa più le condizioni in base alle quali è stato autorizzato.

Alla luce di quanto esposto nell’articolo, emerge una questione fondamentale: chi avrà il compito di verificare l’eventuale cessazione delle condizioni in base alle quali è stata rilasciata l’autorizzazione ad operare sul mercato? La revoca o la sospensione dell’autorizzazione rappresenta una misura drastica e, pertanto, dovrebbe essere chiaramente definito chi, come e quando ha la possibilità di effettuare tali verifiche per assicurare che le decisioni siano prese in maniera trasparente e imparziale. Sarebbe utile integrare il testo specificando l’entità/organo responsabile della verifica delle condizioni di autorizzazione. Questa specifica potrebbe aiutare a garantire che le procedure di controllo siano chiare e trasparenti, prevenendo potenziali conflitti di interesse o decisioni arbitrarie.

Il fornitore di rating ESG situato nell’Unione fornisce all’ESMA, su richiesta di quest’ultima, tutte le informazioni necessarie per consentire all’ESMA di vigilare su base continuativa sul rispetto del presente regolamento da parte del fornitore di rating ESG di un paese terzo.

Come espresso nell’articolo, vi è una presunzione di buona fede nei confronti del fornitore di rating ESG di un paese terzo. Tuttavia, senza ispezioni in loco, verifiche e altri meccanismi di controllo (specialmente considerando che si tratta di provider situati in paesi extra-UE), non vi è alcuna certezza che i requisiti previsti dal regolamento siano mantenuti nel tempo. La mera richiesta di informazioni all’ESMA potrebbe non essere sufficiente a garantire il rispetto delle normative. Una possibile soluzione potrebbe essere l’ampliamento delle misure di controllo previste per i fornitori di rating ESG situati in paesi terzi, includendo esplicitamente la possibilità di effettuare ispezioni in loco e altre verifiche. Questo rafforzerebbe la fiducia nel sistema e garantirebbe che tali fornitori rispettino continuamente le norme stabilite dall’Unione Europea.

Si stabilisce che il Registro dei fornitori di rating ESG renderà noto l’elenco dei providers.

Anche se il Registro rende pubblico l’elenco dei providers di rating ESG, non risulta, in tutto l’articolato, un meccanismo di pubblicazione e trasparente pubblicità dei rating rilasciati alle aziende dalle agenzie iscritte al Registro. Questa carenza di trasparenza, o meglio, l’assenza di un “database” dove sia possibile verificare facilmente quale rating è stato attribuito a quale azienda, rende particolarmente complessa l’analisi e la comparazione, ostacolo che tocca gli interessi non solo dei ricercatori ma anche dei cittadini, che potrebbero essere interessati ad accedere a tale informazione. Integrare il testo prevedendo la creazione di un database accessibile, potrebbe essere utile per consultare e confrontare i rating assegnati alle aziende dai providers iscritti al Registro: un miglioramento sotto il profilo della trasparenza che potrebbe facilitare la ricerca e l’analisi da parte di chiunque e contribuirebbe a rafforzare la fiducia nel sistema dei rating ESG.

I fornitori di rating ESG adottano, attuano ed applicano misure tese a garantire che i loro rating ESG si basino su un’analisi accurata di tutte le informazioni di cui dispongono che sono rilevanti a tal fine, secondo le proprie metodologie di rating. Essi adottano tutte le misure necessarie per garantire che le informazioni da loro impiegate ai fini dell’assegnazione dei rating ESG siano di qualità sufficiente e provengano da fonti affidabili. I fornitori di rating ESG indicano esplicitamente che i loro rating ESG costituiscono il loro parere.

Anche se il paragrafo sottolinea l’importanza dell’accuratezza e dell’affidabilità delle informazioni utilizzate dai fornitori di rating ESG, non specifica i criteri precisi per assicurare che tali dati siano effettivamente veritieri e corretti. Affidarsi alla sola “presunzione di buona fede” dei fornitori potrebbe non essere sufficiente per garantire l’integrità e la qualità dei rating. Sarebbe opportuno stabilire criteri stringenti e verificabili per la valutazione delle informazioni utilizzate dai fornitori di rating ESG. Questi criteri dovrebbero assicurare che i dati siano non solo accurati e affidabili, ma anche verificati in maniera indipendente, e la loro definizione contribuirebbe a rafforzare la fiducia nel sistema di rating ESG e a garantire la sua integrità.

Le società che effettuano consulenze non devono essere le stesse che rilasciano i rating ESG.

Pur condividendo la filosofia alla base di questa disposizione, che intende prevenire conflitti di interesse, pare che la norma possa essere facilmente aggirata. Grandi società di consulenza potrebbero, ad esempio, creare entità apparentemente separate ma sotto il loro controllo (come succursali, affiliate o altri rami aziendali) per eludere questa regola. Si potrebbe pensare di rafforzare il testo imponendo restrizioni più stringenti. Ad esempio, potrebbe essere stabilito che le società di consulenza non possano controllare, né direttamente né indirettamente, società di rating ESG. Inoltre, potrebbe essere imposto che gli azionisti delle società di consulenza non siano gli stessi delle società di rating. Questo tipo di norme garantirebbe una separazione reale tra consulenza e valutazione, riducendo il rischio di conflitti di interesse.

I fornitori di rating ESG provvedono affinché gli analisti di rating, i dipendenti e tutte le altre persone fisiche i cui servizi sono messi a loro disposizione o sono sotto il loro controllo e che partecipano direttamente alla fornitura dei rating ESG, compresi gli analisti direttamente coinvolti nel processo di rating e le persone coinvolte nell’assegnazione di punteggi, dispongano delle conoscenze e dell’esperienza necessarie per svolgere le funzioni e i compiti loro attribuiti.

L’articolo sottolinea l’importanza che gli analisti e tutti coloro che sono coinvolti nel processo di rating abbiano le conoscenze e l’esperienza necessarie. Tuttavia, mancano dettagli chiave: quali sono esattamente i criteri di valutazione delle “conoscenze e dell’esperienza necessarie”? E, altrettanto importante, chi è responsabile della verifica del rispetto di questi criteri? Si dovrebbero specificare ulteriormente i criteri che delineano le competenze. Potrebbero essere introdotte linee guida dettagliate o riferimenti a standard professionali riconosciuti, stabilendo inoltre una procedura indipendente per la verifica del rispetto di tali criteri, assicurando trasparenza e rigore nel processo.

Le persone di cui al paragrafo 1 (del testo del Regolamento, ndr) che ritengono che un’altra persona di cui al paragrafo 1 abbia tenuto una condotta che reputano illegale ne informano immediatamente la funzione di controllo della conformità. Il fornitore di rating ESG provvede affinché la segnalazione non abbia conseguenze negative per chi la effettua.

L’articolo suggerisce l’esistenza di un organismo di vigilanza interno alle singole agenzie rilascianti i rating, ma non fornisce dettagli su come funzionerà, a chi riferirà e come garantirà l’effettiva indipendenza e imparzialità nelle indagini. L’efficacia di un organismo interno potrebbe essere compromessa da potenziali conflitti di interesse o pressioni interne. L’introduzione un organismo di controllo esterno, indipendente dai fornitori di rating ESG, potrebbe essere una opzione da prendere in considerazione. Questo organismo dovrebbe avere il potere di effettuare controlli a campione e di ricevere esposti, segnalazioni e altre comunicazioni da parte delle persone coinvolte nel processo di rating. La presenza di un ente esterno garantirebbe una maggiore trasparenza e imparzialità nel processo di vigilanza, rafforzando la fiducia nel sistema.

Le persone di cui al paragrafo 1 (del testo del Regolamento, ndr) non assumono alcuna posizione dirigenziale di rilievo presso un soggetto valutato al cui rating hanno partecipato per sei mesi dopo la fornitura del rating

Sebbene l’articolo intenda prevenire possibili conflitti di interesse, il periodo di sei mesi potrebbe non essere sufficiente per garantire l’indipendenza e l’obiettività del rating. Per una maggiore sicurezza, si potrebbe estendere il periodo di attesa da sei mesi ad un anno prima che una persona possa assumere un ruolo dirigenziale in un’entità che ha valutato. Questo periodo più lungo contribuirebbe a rafforzare ulteriormente l’integrità del processo di rating e a prevenire potenziali conflitti di interesse.

I fornitori di rating ESG adottano tutte le misure necessarie per garantire che i rating ESG forniti non siano influenzati da alcun conflitto di interessi, esistente o potenziale, o relazione d’affari del fornitore di rating ESG stesso o dei suoi azionisti, dirigenti, analisti di rating, dipendenti o di qualsiasi altra persona fisica i cui servizi sono messi a disposizione o sono sotto il controllo del fornitore di rating ESG, o di qualsiasi persona direttamente o indirettamente collegata ad esso da un legame di controllo.

L’articolo sottolinea l’importanza di evitare conflitti di interesse nel processo di rating, tuttavia: chi avrà la responsabilità di verificare che queste misure siano effettivamente rispettate, e quale sarà la metodologia adottata per tale verifica? Pare necessaria, quindi, una clausola che stabilisca l’istituzione di un organismo di controllo esterno, indipendente, con il mandato di verificare periodicamente l’effettiva assenza di conflitti di interesse nei fornitori di rating ESG. Questa entità dovrebbe avere accesso a tutte le informazioni rilevanti e dovrebbe poter pubblicare le proprie conclusioni in modo periodico e trasparente.

I fornitori di rating ESG riesaminano la loro attività con cadenza almeno annuale al fine di individuare potenziali conflitti di interessi.

L’articolo stabilisce che i fornitori di rating ESG dovrebbero riesaminare periodicamente la loro attività, ma non fornisce dettagli su come vengono comunicati e gestiti i risultati di tale riesame. Si potrebbe pensare di integrare l’articolo specificando che i risultati del riesame annuale dovranno essere riassunti in una relazione dettagliata da dover presentare ad un organismo di controllo esterno e indipendente, che avrà il compito di verificarla e validarla. Inoltre, una versione sintetica della relazione dovrebbe essere resa pubblica per garantire la massima trasparenza di processo.

I fornitori di rating ESG adottano misure adeguate al fine di garantire che le commissioni addebitate ai clienti siano eque, ragionevoli, trasparenti, non discriminatorie e basate sui costi.

Questa disposizione evidenzia l’importanza di praticare commissioni eque, ma la formulazione “basate sui costi” può prestarsi a diverse interpretazioni. Da un lato, si potrebbe intendere che le commissioni non dovrebbero essere inferiori ai costi sostenuti per evitare pratiche di dumping. Dall’altro, se la norma vuole stabilire un tetto massimo alle commissioni in relazione ai costi, ciò potrebbe avere un impatto sul funzionamento libero e concorrenziale del mercato. Sarebbe opportuno chiarire il concetto di “basate sui costi”, dettagliando se si fa riferimento a un limite minimo, un limite massimo, o entrambi. Inoltre, si dovrebbe valutare l’opportunità di includere un meccanismo di revisione periodica delle commissioni, o un criterio che permetta una flessibilità in relazione all’evoluzione del mercato e dei costi sostenuti dai fornitori.

Per adempiere alle funzioni attribuitele ai sensi del presente regolamento, l’ESMA ha facoltà di svolgere tutte le indagini necessarie.

Si riconoscono ampie prerogative all’ESMA per condurre indagini in relazione ai fornitori di rating ESG. Tuttavia, non si fa esplicito riferimento alla possibilità per l’ESMA di effettuare verifiche direttamente presso le aziende che sono oggetto dei rating. Si potrebbe estendere le facoltà d’indagine dell’ESMA per includere questa possibilità. Potrebbe aumentare la trasparenza e l’accuratezza del processo di rating, assicurando che le valutazioni siano basate su informazioni complete e verificate.

Per adempiere alle funzioni attribuitele ai sensi del presente regolamento, l’ESMA ha facoltà di svolgere tutte le necessarie ispezioni presso i locali professionali delle persone giuridiche.

Come nell’articolo precedente, all’ESMA viene affidato il potere di svolgere ispezioni presso i locali professionali delle persone giuridiche, ma non viene menzionata la capacità di effettuare ispezioni presso le aziende che sono state valutate attraverso i rating ESG. Sarebbe utile ampliare le competenze ispettive dell’ESMA per includere la facoltà di svolgere verifiche anche presso le aziende oggetto di rating ESG. Questa espansione garantirebbe un maggiore controllo sulla qualità e sull’accuratezza dei rating, assicurando una maggiore trasparenza e responsabilità nell’intero processo.

Qualora constati che un fornitore di rating ESG o, se del caso, il suo rappresentante legale ha violato, intenzionalmente o per negligenza, il presente regolamento, l’ESMA adotta una decisione che irroga una sanzione pecuniaria. L’importo massimo della sanzione pecuniaria è pari al 10 % del fatturato netto annuo totale del fornitore IT 48 IT di rating ESG, calcolato sulla base dell’ultimo bilancio disponibile approvato dall’organo di amministrazione del fornitore di rating ESG.

Il testo stabilisce che la sanzione pecuniaria possa arrivare fino al 10% del fatturato netto annuo totale del fornitore di rating ESG, ma non è chiaro se questo si riferisca esclusivamente al fatturato derivante dall’attività di rating ESG o se includa anche altre fonti di reddito dell’ente. Per chiarezza, e nell’interesse delle stesse agenzie rilascianti i rating, sarebbe opportuno specificare in modo esplicito se la percentuale del 10% si applica anche al fatturato non derivante dall’attività di rating ESG. In caso contrario, potrebbe essere utile fornire una distinzione chiara tra i vari tipi di fatturato al fine di evitare ambiguità interpretative.

L’ESMA impone ai fornitori di rating ESG il versamento di contributi in conformità dell’atto delegato adottato a norma del paragrafo 2. Detti contributi coprono totalmente i costi sostenuti dall’ESMA per la vigilanza sui fornitori di rating ESG e per il rimborso dei costi eventualmente sostenuti dalle autorità competenti nello svolgere attività a norma del presente regolamento, in particolare a seguito di una delega di compiti conformemente all’articolo 41. 2. L’ammontare di un contributo individuale è proporzionato al fatturato netto annuo del fornitore di rating ESG interessato.

Questo modello di finanziamento, dove l’ente di controllo è finanziato dai soggetti che esso controlla, ha un parallelo con la pratica della FDA (Food and Drug Administration USA). Anche se può assicurare che l’ESMA abbia risorse sufficienti per svolgere le sue attività, potrebbe anche dare adito a potenziali conflitti d’interesse. Al fine di mitigare i potenziali conflitti d’interesse, sarebbe opportuno integrare ed esplicitare nel regolamento criteri etici rigorosi che garantiscano l’autonomia, l’equidistanza e la trasparenza dell’ESMA. Una proposta potrebbe essere la creazione di un meccanismo di “filtro” ed anonimizzazione nella gestione dei flussi di cassa, in modo tale che i vertici dell’organismo di controllo non abbiano diretta conoscenza delle specifiche somme versate dai singoli fornitori di rating.


Due eventi nel mese di novembre

Si discuterà di questi ed altri argomenti relativi al tema dei rating ESG in due eventi nel mese corrente, uno organizzato a Roma, presso la Sala Nassyria del Senato della Repubblica, il giorno 15/11/23 alle h 10:00, e il secondo organizzato presso l’Università IULM di Milano, il giorno 30/11/23 alle h 16:00.

Per entrambi gli eventi, la partecipazione è gratuita, l’accredito preventivo è obbligatorio, scrivendo a ggrandoni@rmi.srl




Trasparenza e crescita sostenibile: nuove direttive e iniziative contro il greenwashing nel mondo aziendale

Trasparenza e crescita sostenibile: nuove direttive e iniziative contro il greenwashing nel mondo aziendale

I nuovi Principi di Corporate Governance dell’OCSE: un passo avanti verso la sostenibilità

L’OCSE, Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico, ha recentemente presentato una rinnovata versione dei suoi Principi di Corporate Governance, marcando una tappa fondamentale nella continua evoluzione della governance aziendale a livello mondiale. Questi principi sono intesi come una guida universale per orientare i sistemi giuridici, regolatori e istituzionali, fornendo una roadmap chiara per le migliori prassi di questa materia.

Il riconoscimento e l’importanza di questi nuovi principi sono stati ulteriormente sottolineati dalla loro approvazione al vertice dei leader del G20 a Nuova Delhi. Questa revisione, nata da un’iniziativa congiunta di G20 e OCSE, si propone di guidare le aziende nell’adattarsi alle mutate dinamiche dei mercati dei capitali, assicurando al contempo un clima di fiducia e stabilità.

Tra le caratteristiche salienti di questa revisione, troviamo un ampliamento delle linee guida relative ai diritti degli azionisti, un rinnovato focus sul ruolo degli investitori istituzionali e un’attenzione particolare alla trasparenza e all’informazione aziendale. Inoltre, i principi ora mettono in luce le responsabilità dei consigli di amministrazione, con un occhio di riguardo alla sostenibilità, alla resilienza e ai rischi connessi al cambiamento climatico.

Tuttavia, quello che rende davvero speciale questa versione è la serie di nuove aggiunte e raccomandazioni. Le aziende sono ora incoraggiate a una maggiore divulgazione sulle questioni di sostenibilità e a promuovere un dialogo costruttivo con gli azionisti e altri stakeholder. Si evidenzia l’importanza dell’adozione delle tecnologie digitali e della gestione proattiva dei rischi digitali, e si sottolinea il ruolo sempre più centrale degli investitori istituzionali nel panorama della governance aziendale.

Il Segretario generale dell’OCSE, Mathias Cormann, ha enfatizzato l’importanza di questi principi, considerandoli come un forte segnale di un impegno internazionale volto a rafforzare le linee guida sulla sostenibilità e la resilienza delle imprese. In concomitanza, l’OCSE ha lanciato l’edizione 2023 del Corporate Governance Factbook, uno strumento prezioso che monitora come i Paesi stanno mettendo in pratica queste raccomandazioni.

L’OCSE ha tracciato la strada per una governance aziendale più responsabile, sostenibile e preparata a fronteggiare le sfide del futuro. È un passo avanti decisivo per garantire che le aziende non solo prosperino economicamente, ma lo facciano in modo etico e sostenibile.

Standard di Reporting di Sostenibilità EFRAG e GRI: raggiunto un nuovo livello di interoperabilità

In una svolta recente nel campo della rendicontazione di sostenibilità, l’EFRAG (European Financial Reporting Advisory Group) e il GRI (Global Reporting Initiative) hanno annunciato un notevole grado di interoperabilità tra gli European Sustainability Reporting Standards (ESRS) e gli Standard GRI. Questa dichiarazione congiunta sottolinea una maggiore coerenza e allineamento tra questi due importanti framework di reporting.

Questo significativo passo avanti segue i requisiti della CSRD (Corporate Sustainability Reporting Directive) che esige un approccio di “doppia materialità” e richiede una considerazione accurata degli standard di rendicontazione esistenti. Pertanto, sia ESRS che GRI hanno lavorato per assicurarsi che le loro definizioni, concetti e informazioni sugli impatti fossero il più possibile allineati. In alcune circostanze, a causa delle specificità del mandato CSRD, l’allineamento totale non è stato fattibile, ma un’adeguata armonizzazione è stata comunque ottenuta.

Questa interoperabilità emerge con le aziende che attualmente adottano i principi di reporting GRI, che saranno già ben preparate per rispettare gli standard ESRS. Inoltre, si eviterà il fardello della doppia rendicontazione, semplificando il processo.

Hans Buysse, presidente del consiglio di amministrazione dell’EFRAG, ha elogiato la collaborazione con GRI, sottolineando che ciò porterà a un sistema di reporting più snello e privo di complicazioni non necessarie. Allo stesso modo, Patrick de Cambourg, presidente del comitato per il reporting di sostenibilità dell’EFRAG, ha evidenziato la proficua collaborazione con GRI, che ha avuto inizio nel 2021, e ha espresso ottimismo per le future iniziative in materia di reporting di sostenibilità.

Il CEO di GRI, Eelco van der Enden, ha dichiarato che questo è un passo positivo per le imprese e per i professionisti del reporting, permettendo loro di utilizzare le prassi di reporting esistenti per adattarsi ai nuovi requisiti ESRS. Ha anche annunciato ulteriori collaborazioni con l’EFRAG, concentrandosi sullo sviluppo di una tassonomia digitale e un sistema di multi-tagging.

Carol Adams, presidente del GSSB (Global Sustainability Standards Board), ha riaffermato l’importanza di una mappatura dettagliata tra gli standard e le linee guida tecniche, sottolineando l’impegno nel supportare le aziende che si preparano per i requisiti CSRD.

L’allineamento tra gli standard EFRAG e GRI promette una transizione più agevole e una maggiore chiarezza per le aziende nell’ambito della rendicontazione di sostenibilità, segnando un avanzamento significativo nel settore.

Risk in Focus 2024: L’Europa si confronta con la poli-crisi

Il report “Risk in Focus” di quest’anno rivela una crescente preoccupazione tra i revisori interni: l’incombente “poli-crisi”, una serie simultanea di eventi ad alto impatto che comportano dei rischi interdipendenti. Da otto anni a questa parte, “Risk in Focus” illumina le aree critiche di rischio per quei revisori che preparano valutazioni indipendenti, piani annuali e definizioni dell’ambito di audit. Il messaggio per il 2024 è chiaro: è fondamentale una collaborazione rinnovata tra i consigli di amministrazione e i revisori interni per navigare con successo in queste acque turbolente.

John Bendermacher, presidente dell’ECIIA, ha sottolineato l’importanza di questa collaborazione, affermando che “ora più che mai, i revisori interni hanno il dovere di guidare il consiglio di amministrazione nella trasformazione verso un’azienda sostenibile e resiliente, specialmente in un contesto economico così delicato”.

Tra i risultati salienti del report:

1. Sicurezza informatica: Un impressionante 84% dei partecipanti ha identificato la sicurezza informatica come il rischio predominante, mantenendo questo posto per il sesto anno di fila.

2. Capitale umano e diversità: L’importanza del capitale umano, della diversità e della gestione e fidelizzazione dei talenti rispecchia il nuovo panorama post-pandemia, con il 58% degli intervistati che lo ha posizionato al secondo posto nella classifica dei rischi.

3. Incertezza macroeconomica e geopolitica: Questa è stata segnalata da quasi la metà dei CAE intervistati (43%), mettendo in evidenza anche le preoccupazioni riguardanti le mutevoli leggi e regolamentazioni.

Il “Risk in Focus 2024” di quest’anno vanta una portata senza precedenti. Ha visto la collaborazione tra 16 istituti di revisori interni distribuiti in 17 paesi europei, tra cui Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito, per citarne alcuni. Questa edizione ha coinvolto il numero più alto di paesi europei da quando il report è stato avviato. L’indagine ha raccolto le opinioni di 799 CAE in tutta Europa, ed è stata arricchita da cinque tavole rotonde e 11 interviste approfondite con esperti del settore, offrendo una visione completa e dettagliata dei rischi emergenti e di come questi stiano evolvendo.

In un’epoca di sfide crescenti e mutevoli, è chiaro che la collaborazione e la comprensione dei rischi saranno essenziali per garantire un futuro sostenibile e resiliente alle aziende in tutta Europa.

Il Salone CSR e dell’Innovazione Sociale 2023: riorientare le imprese verso una sostenibilità autentica

La prestigiosa Università Bocconi di Milano è stata la sede dell’undicesima edizione del Salone CSR e dell’Innovazione Sociale, che si è svolta dal 4 al 6 ottobre 2023. Questo evento ha rappresentato un’importante occasione di riflessione sul futuro della sostenibilità e sul ruolo delle imprese in questo ambito.

Evoluzione vs Rivoluzione: riconsiderare la sostenibilità

Il 4 ottobre, due eminenti manager hanno offerto prospettive contrastanti sulla sostenibilità, sollevando la domanda: abbiamo bisogno di più sostenibilità o di una sostenibilità completamente riformulata? Il dibattito ha messo in luce la necessità di ridefinire il ruolo dell’impresa nel cammino verso uno sviluppo sostenibile.

Il Futuro è Decarbonizzato

La mattina del 5 ottobre, l’attenzione si è spostata verso le strategie di decarbonizzazione. Il focus non è stato solo sulle aziende dei settori energetici, ma su tutte le imprese che stanno mettendo in atto misure per ridurre drasticamente le emissioni di gas serra. L’obiettivo finale è quello di combattere efficacemente il cambiamento climatico, riducendo sensibilmente le emissioni entro il 2030 e aspirando alla neutralità climatica entro il 2050, in linea con le direttive dell’Unione Europea.

L’importanza della “G”: rivitalizzare la Governance

Il pomeriggio dello stesso giorno, il dibattito si è concentrato sull’importanza spesso trascurata della lettera “G” nelle pratiche ESG (Environmental, Social, and Governance). Sebbene l’enfasi sia solitamente posta sugli aspetti ambientali e sociali della sostenibilità, la governance gioca un ruolo cruciale nella consolidazione delle attività e dei processi aziendali sostenibili. È dalla “G” che emerge la necessità di rendere la sostenibilità una parte fondamentale delle prassi aziendali. La discussione ha anche evidenziato la nuova proposta di direttiva sull’obbligo di diligenza delle imprese in materia di sostenibilità, che mira a instaurare una gestione responsabile lungo l’intera catena del valore.

Il Salone CSR e dell’Innovazione Sociale 2023 ha fornito spunti di riflessione cruciali per tutti coloro che sono impegnati nel campo della sostenibilità, sottolineando l’urgenza e la necessità di adottare un approccio più olistico e centrato sulla governance.

Osservatorio sulla Governance della Sostenibilità 2023: un’analisi profonda su scala globale

L’Osservatorio “Governance della sostenibilità”, giunto alla sua quinta edizione, continua a sorprenderci con analisi sempre più dettagliate e ambiziose. Fondato nel 2013 dall’alleanza tra Sustainability Makers e ALTIS Graduate School of Sustainable Management presso l’Università Cattolica del Sacro Cuore, quest’anno ha ampliato il suo campo d’azione, andando oltre i confini europei.

Da un osservatorio locale a uno globale

La quinta edizione ha fatto un passo audace, portando l’analisi su un campione di oltre 1.400 aziende quotate globalmente. Lo studio si è avvalso di un ricco database internazionale e ha scrutato una grande varietà di documenti aziendali. Dalla relazione sulla corporate governance alla relazione sulla remunerazione, passando per il bilancio di sostenibilità e i profili dei membri dei Consigli di Amministrazione, ogni angolo del mondo aziendale è stato esplorato per comprendere a fondo l’integrazione della sostenibilità nelle strategie di business.

Un decennio di trasformazioni

I risultati sono stati illuminanti. Rispetto al 2013, quando solo una grande azienda quotate su quattro aveva un comitato di sostenibilità nel suo CdA, oggi tale cifra è radicalmente cambiata, almeno per alcune nazioni. In Italia e Francia, ad esempio, i comitati dedicati alla sostenibilità sono ora presenti in un impressionante 92,5% delle imprese. Questa prevalenza sottolinea come la sostenibilità sia diventata la norma in questi Paesi, un risultato che evidenzia l’efficacia dei codici di autodisciplina nel plasmare una governance che tenga conto delle esigenze ambientali e sociali.

Tuttavia, non tutte le nazioni hanno fatto progressi simili. Gli Stati Uniti, in particolare, sembrano rimanere indietro: solo l’11% delle aziende quotate al Nasdaq ha comitati di sostenibilità.

La quinta edizione dell’Osservatorio “Governance della sostenibilità” ci fornisce una chiara fotografia di come le aziende stiano evolvendo nella loro adozione di pratiche sostenibili. Ci sono Paesi che dimostrano un forte impegno verso un futuro più verde, ma c’è ancora molto lavoro da fare a livello globale. Questo studio evidenzia l’importanza di persistere nella promozione di una cultura aziendale sostenibile in ogni angolo del mondo.

Bilanci di sostenibilità ESG nell’UE: l’evoluzione degli standard di rendicontazione

La recente adozione dell’atto delegato sugli ESRS (European Sustainability Reporting Standards) da parte della Commissione Europea segna un passo significativo verso la standardizzazione dei bilanci di sostenibilità nell’Unione Europea. Questa mossa è rivolta a un’efficace armonizzazione e autenticità dei bilanci ESG.

Fino ad oggi, la rendicontazione non finanziaria obbligatoria ha coinvolto un limitato numero di organizzazioni e, anche a causa dell’assenza di uno standard unico, molte di quelle che hanno aderito volontariamente a questa pratica hanno prodotto bilanci spesso non affidabili. L’introduzione della CSRD, la Direttiva europea sulla rendicontazione di sostenibilità, si propone di affrontare questa sfida. Nello specifico, obbligherà un vasto insieme di organizzazioni a rendicontare informazioni pertinenti ai rischi e opportunità sociali e ambientali, nonché all’impatto delle loro attività sull’ambiente e sulle persone.

Le lacune informative potrebbero precludere agli investitori una visione chiara dei rischi di sostenibilità, con possibili gravi ripercussioni economiche e sociali. Con l’adozione di standard comuni, la Commissione intende: standardizzare la rendicontazione di sostenibilità in tutta l’UE, elevare le informazioni sulla sostenibilità al livello delle informazioni finanziarie, assicurare informazioni di sostenibilità comparabili e affidabili da parte delle aziende europee.

L’EFRAG (Gruppo Consultivo Europeo sull’Informativa Finanziaria) ha svolto un ruolo cruciale nella formulazione degli standard. Ha fornito progetti basati su approfondite consultazioni pubbliche, con un forte impegno verso l’equità e la trasparenza.

L’atto delegato apporta diverse modifiche significative, tra cui:

  • Flessibilità temporale: viene concesso alle aziende più tempo per prepararsi attraverso disposizioni transitorie.
  • Autonomia decisionale: le aziende avranno maggiore discrezione nel determinare le informazioni rilevanti per le loro specifiche circostanze.
  • Opzionalità di alcuni requisiti: alcuni obblighi di rendicontazione, precedentemente obbligatori, sono ora facoltativi.

La nuova direttiva mira a ridurre gli oneri per le aziende che già si impegnano nella rendicontazione di sostenibilità, promuovendo al contempo la trasparenza e l’efficienza. Le aziende che seguono già gli standard GRI troveranno la transizione agli standard ESRS relativamente agevole, ma una valutazione dettagliata sarà essenziale per ogni singola entità.

L’adozione degli standard ESRS rappresenta un importante avanzamento verso una rendicontazione di sostenibilità più uniforme e trasparente nell’UE, contribuendo al progresso della responsabilità aziendale e alla realizzazione degli obiettivi di sostenibilità a livello globale.

L’alba di una nuova era di trasparenza e autenticità?

In un’epoca in cui la sostenibilità è diventata un cardine delle strategie aziendali, il fenomeno del greenwashing ha sollevato preoccupazioni crescenti tra gli utenti, gli investitori e tutte le parti interessate.

Le recenti rivelazioni dell’Osservatorio “Governance della sostenibilità” e l’attenzione crescente portata alle pratiche di corporate governance nel contesto della sostenibilità indicano una tendenza chiara: le aziende sono sempre più tenute a rendere conto delle loro azioni. Questa crescente responsabilizzazione non è solo il risultato di iniziative istituzionali, ma anche della crescente consapevolezza e richiesta di responsabilità da parte del pubblico.

Nelle molte discussioni e iniziative intraprese in ambito europeo e internazionale, come quelle emerse dal Salone CSR e dell’Innovazione Sociale, è evidente che il tema della sostenibilità è ormai centrale. Il dibattito non riguarda più solo l’importanza di essere sostenibili, ma anche come garantire che le aziende non utilizzino tattiche di marketing ingannevoli per apparire “verdi” senza un reale impegno costante.

La reputazione è un bene prezioso per ogni azienda. In un mondo sempre più connesso e trasparente, il greenwashing non solo danneggia l’immagine, ma può anche avere ripercussioni legali e finanziarie. Le nuove direttive e normative in arrivo svolgeranno un ruolo cruciale nel garantire che le aziende siano autentiche nelle loro rivendicazioni di sostenibilità.

Grazie a queste nuove direttive e all’attenzione sempre maggiore sulle pratiche aziendali sostenibili, potrebbe essere arrivato il momento di una svolta decisiva per il settore, che potrebbe vedere le aziende diventare più responsabili, trasparenti e più rispettose dell’ambiente e delle società in cui operano.

La strada verso un futuro più verde e autentico è finalmente tracciata?




Una convenzione internazionale per bonificare la rete

Una convenzione internazionale per bonificare la rete

Richard Avedon, uno dei grandi della fotografia del ‘900, diceva che ogni istantanea è solo un’opinione, sottraendo allo scatto fotografico l’aura della prova incontestabile. Oggi possiamo dire che ogni riproduzione, video o fotografica, è solo una tecnica, a volte persino vera.

Siamo ormai nell’epoca della manipolabilità di ogni rappresentazione, direbbe Walter Benjamin. Un tempo in cui le istituzioni, ma forse sarebbe più preciso dire lo spazio pubblico, deve intervenire imponendo un codice e una modalità di comportamento che riduca la discrezionalità dei proprietari e aumenti le garanzie per gli utenti.

Una grande agenzia fotografica, che serve decine di migliaia di clienti, individuali o professionali, che possono attingere a un archivio con circa 740 milioni di istantanee, ha annunciato che ha avviato una linea di produzione di immagini con l’intelligenza artificiale. Una scelta che, proprio per la reputazione e il peso sul mercato dell’azienda, inevitabilmente renderà sempre più inestricabile reale e artificiale.

Si creeranno fenomeni di vero meticciato di immagini che con l’accelerare dei flussi di produzione e di domanda dei clienti, le due tipologie di documenti – quelli reali, prodotti professionalmente sul campo da un professionista, e quelli artificiali, che emergono dopo un dialogo con i sistemi di intelligenza artificiale – si mischieranno, ibridando irrimediabilmente la realtà.

Al World summit sull’intelligenza artificiale di Amsterdam, Lùì Amyth, responsabile della sezione di intelligenza artificiale generativa dell’agenzia Shutterstock, una delle più accreditate sul mercato globale, ha spiegato come il fenomeno stia oggi crescendo.

Shutterstock ha spiegato come si è trovato, quasi inconsapevolmente, sperimentando le diverse estensioni dei dispositivi intelligenti, a produrre immagini  virtuali, che prima erano solo complementari di quelle reali, e che poi hanno cominciato a generarsi in maniera del tutto autonoma, sulla base di pochi input testuali.

Ora il primo problema che si è posto a un’agenzia commerciale riguarda proprio la gestione di questi file: quale tipo di copyright può disciplinare l’uso di questi documenti? E, secondo tema non certo minimmale, chi sono i titolari di questi artefatti? L’azienda che promuove la produzione? Il singolo intraprendente operatore? O ancora: qual è l’atto che determina il titolo di proprietà? L’iscrizione al dispositivo, o l’ideazione dei prompt? O ancora la finalizzazione dell’elaborato in un ciclo di produzione?

In questo ragionamento ci sono i primi elementi che intaccano il concetto di proprietà esclusiva, aprendolo a nuove figure e funzioni, come sono appunto gli architetti dei prompt, ossia le costruzione di domande articolate all’intelligenza artificiale per ricavare il risultato più efficace.

Sono tutti temi che, evolvendo insieme alla dinamica tecnologica, sono destinati a mutare radicalmente proprio i concetti di creatività, proprietà, e originalità. Ma la matrice di questi problemi è ancora un nodo più rilevante su cui è indispensabile che le istituzioni prendano posizione.

Un’agenzia come quella che abbiamo citato, ma anche una redazione, o una biblioteca, o un museo, si troveranno, spinti dalle sollecitazioni del mercato, o dalle necessità competitive, a elaborare sempre nuove suggestioni visive, di cui le immagini sono vettore. Via via che queste suggestioni si combineranno con fotografie reali o saranno inserite in flussi tradizionali, modificheranno la percezione sociale della documentazione fotografica, e, di conseguenza, l’idea di attendibilità del documento.

Siamo ormai sul crinale in cui le reti parallele di reale e virtuale si intrecciano.

È successo con la scrittura, dove la descrizione è diventata immediatamente immaginazione, è accaduto con tutte le forme di arte che dal realismo sono passate all’astrattismo, o alla riproduzione fantastica.

Persino i media freddi, come diceva MC Luhan, cioè quei sistemi di comunicazione che rendevano modificabili i contenuti mediante un’interazione con un utente, sia esso interlocutore di una telefonata, o ascoltatore di una radio, hanno trovato il modo di alterare la realtà con un uso fantasioso del mezzo, come per esempio la leggendaria cronaca dei marziani che atterravano negli Usa di Orson Welles nel 1938 rimane un capostipite.

E poi l’intero mondo della produzione di immagini, dalla fotografia appunto, al cinema e alla TV, sono diventati laboratori di effetti speciali, in cui il confine fra realtà e manipolazione tecnologica è diventato assolutamente indistinguibile.

Ma tutto questo fino a ora rimaneva delimitato da precisi perimetri di credibilità, con poche eccezioni, ogni alterazione della documentazione del reale era comunque riconoscibile o, in ogni caso, talmente distante da un uso diretto da parte del pubblico che ne isolavano l’eventuale effetto di mistificazione.

Rimanevano solo i contenuti, i concetti, a essere manipolati e condivisi direttamente con gli utenti, trasformando i reso conti giornalistici o la narrazione letteraria, da cronaca o letteratura in propaganda.

Ora invece ogni argine viene travolto, e persino l’ambito più attendibile e riconosciuto, come sono le immagini, le prove regine in un contesto giudiziario, o in un’inchiesta giornalistica, sono oggi semplicemente una proposta.

Ognuno di noi da tempo incontra contenuti realizzati da agenti artificiali, che ci assediano e allagano, diventando inevitabilmente più performanti nel processo di costituzione delle nostre opinioni. Ora questi contenuti, che al momento erano solo testi, pensiamo a Cambridge Analytica, saranno corredati da immagini, foto o video, del tutto artefatte, costruite a tavolino, dove un massacro diventa una scampagnata e viceversa, dove un personaggio potrà dichiarare cose che sono esattamente agli antipodi di quello che sostiene veramente. Tutto questo in un ambiente segnato dal real time, dove i tempi di verifica sono coincidenti con quelli di lettura o ascolto.

In questo scenario diventa indispensabile, urgente, tanto più in un tale clima bellico, che le istituzioni impongano un codice di garanzia, che renda tutti i file prodotti da un sistema non umano immediatamente riconoscibile. Non solo un bollino rosso, ma la tipologia delle immagini e la struttura del file deve essere immediatamente distinguibile da quanto prodotto da un umano.

È una battaglie dei giornalisti, dei giuristi, dei pubblici amministratori, dei medici e degli scienziati. Un patto professionale e culturale che denunci ogni inquinamento visivo e bonifichi una straordinaria opportunità di diffusione dei saperi quale è la rete.




Spiegare il male a una macchina

Spiegare il male a una macchina

Volevo scrivere un post sulla neo-censura che sorge dai goffi tentativi di rilevazione automatica dell’odio nel linguaggio online e nei dataset della IA. Ma mi sono reso conto che c’è un passaggio fondamentale da fare a monte.

Il discorso che ingiuria, calunnia, umilia, è detestabile in quanto fa male. Allora risaliamo alla domanda alla quale ogni “etica” computazionale deve rispondere: si può spiegare a una macchina che cosa vuol dire “fare del male”?

Credo che questa domanda contenga il nòcciolo problematico del rapporto tra umani e macchine. Altro che intelligenza e test di Turing.

Subito viene alla mente la celebre prima “legge della robotica” di Isaac Asimov: «Un robot non farà del male a un essere umano né permetterà che, per la propria inerzia, un essere umano si faccia del male». Il fascino senza tempo di questo comandamento che l’uomo-dio impone alla sua creatura dimostra la maestria dell’Autore. Tuttavia, appena usciamo dall’incantamento della fantascienza e pensiamo sul serio a come metterlo in pratica, la sbornia passa. È dura essere dèi.

Qualunque sia la sua natura, un agente non può obbedire a un comando se non sa o può interpretarlo. Nella fattispecie, una macchina non potrà rispettare quella legge se non capisce che vuol dire “fare del male”. Come spiegarglielo?

Fare del male. Ma a chi, come? “Fare del male” è una possibilità inesauribile, sfaccettata e personale quanto la vita. Ha senso dire “fare del male” così in astratto? Il male è sempre concreto e particolare. La solenne universalità della legge di Asimov non ha riferimento. Ciò che sembrava bello e solido a parole si sbriciola fra le dita.

Eppure noi sappiamo che significa “fare del male”. Il male è il nostro pane quotidiano sin dal primo giorno di vita: la fame, la sete, il distacco. Il nostro corpo soffre se si sbilancia anche solo di poco rispetto alle sue, diciamo così, condizioni normali di esercizio. E i possibili sballi di un organismo tanto complesso non si contano.

Come vive il male in prima persona, così il corpo sa riconoscerne i segni quando affiorano sui corpi degli altri. Basta una smorfia, una lacrima, un lamento, e il loro male-essere si fa strada dentro di noi. Qualcosa dentro si agita, si allarma, si muove in soccorso, o scappa, o talvolta incattivisce.

Questa letterale com-prensione del male altrui è istintiva e automatica. Avviene con intensità che vanno da zero a insopportabile, e variano con gli individui e le circostanze. È una naturale capacità di rispecchiamento del cervello, non solo umano: in noi si attivano schemi motori e stimoli viscerali corrispondenti a quelli attivati nell’altro, mentre lo osserviamo, lo ascoltiamo, o lo immaginiamo soltanto a leggerne le storie ben narrate.

Per spiegare a parole il male che soffriamo c’è da attraversare due oceani in verticale: uno per portare alla coscienza sentimenti reconditi, distinguendone provenienze e sapori come sommelier; un altro per scegliere e combinare le parole adatte a raccontarli. Imprese estreme se non impossibili per la maggioranza di noi.

Eppure al nostro specchio interiore questi sforzi sovrumani non servono. Un cervello normale fa tutto quel lavoro di simulazione senza coinvolgere la coscienza e tanto meno le parole. È così, nell’esperienza da corpo a corpo sedimentata in vissuto, che sappiamo se abbiamo fatto o potremmo “fare del male” a qualcuno.

Ora, facciamo entrare le macchine in questo gioco che va avanti da chissà quante centinaia di migliaia di anni. Niente corpo vivente, niente specchi modellati dall’evoluzione per sintonizzarsi con gli umani. Come imporre a queste macchine la legge di Asimov? Non ci resta che tentare di descrivere esplicitamente, a parole, cosa significa “farci del male”.

Non basterà qualche esempio generico. Bisognerà informarle in dettaglio su ciascuno di noi. E in queste informative soggettive bisognerà annoverare tutte le nostre fragilità fisiche, tutte le nostre paure più profonde, tutti i nostri disturbi e imbarazzi, tutti quei minimi oltraggi che feriscono, tutti i traumi e le frustrazioni, le contrarietà, le delusioni e i sacrilegi. Una confessione totale. Il sogno dell’inquisitore.

Questi inventari del male, frutto di una consapevolezza assoluta e di una verbalizzazione che fa arrossire Dostoevskij, ovviamente non sono che un’altra invenzione letteraria, come le leggi della robotica. Ricordano le “Vendicazioni” di Borges, quelle disperse nella sconfinata Biblioteca di Babele. Sono resoconti ideali, ma nascerebbero già vecchi, presto superati dalle nuove vicende che ci attendono e ci cambieranno ancora.

Il cuore del problema comunque è un altro. Se esistessero questi ritratti testuali, solo altri umani, non tutti, e non certo delle macchine, potrebbero com-prenderne il senso per immedesimazione e approssimazione. Perché senza il terreno comune di un corpo simile, e meglio ancora se c’è memoria condivisa degli eventi che lo hanno plasmato, emozioni e sentimenti sono solo parole fra altre parole. Correlazioni statistiche, operazioni algebriche, e nulla più.

Attraverso questo modello esteriore e matematico del linguaggio c’è ben poca speranza che una macchina informatica possa com-prendere i sentimenti, cioè accoglierli e integrarli dentro i suoi modelli di azione, così da poter obbedire al primo comandamento di Asimov.

Comandamento che di fatto, prima che per i robot, vale per gli umani. È notevole che gli umani non lo rispettino proprio quando manca loro la facoltà dello specchio emotivo, come manca alle macchine. Ma nemmeno agli umani sani si può insegnare il rispetto degli altri con la mera imposizione di parole politicamente corrette. Figuriamoci a una macchina.

Rimane la solita possibile soluzione, quella che ci attende sempre nel rapporto con le macchine: adeguarsi a loro per futili motivi e per volontà di incoscienti, accettare versioni distorte della realtà, e sopportare tutto il male non calcolabile che ce ne verrà.




Molestie ed abusi nel mondo della pubblicità e della comunicazione: è crisi di reputazione?

Molestie ed abusi nel mondo della pubblicità e della comunicazione: è crisi di reputazione?

Nel complesso universo della moderna comunicazione pare emergere una contraddizione: da un lato, la diffusione di narrazioni positive e inclusive, dall’altro un’innegabile dominanza maschile, connotata da rivalità accese e tossiche e tracce di mentalità sessista, spesso – peraltro – negata o minimizzata da chi ne è protagonista. Se in passato l’attenzione si è focalizzata sulla rappresentazione femminile nelle campagne pubblicitarie, oggi – ci raccontano le cronache – molti addetti del settore si trovano immersi in un ambiente dove commenti inappropriati e stress lavorativo sono considerati il costo da sostenere per lavorare nelle rinomate agenzie del settore.

Il fenomeno è salito alla ribalta grazie ad una scoperta shock riguardante l’agenzia We Are Social: una chat sessista, frequentata da numerosi dipendenti maschi, che è diventata il fulcro delle preoccupazioni riguardo a comportamenti inappropriati e molesti: oltre ottanta partecipanti impegnati quotidianamente ad esprimere commenti volgari, pesantemente sessisti e degradanti sulle loro colleghe.

Massimo Guastini, figura di spicco del mondo della pubblicità in Italia, ha contribuito a sollevare il velo: uno dei founder dell’agenzia, Gabriele Cucinella, intervenendo con un suo commento in un thread sulla pagina Facebook di Guastini, ha ammesso l’esistenza della chat, vicenda poi ripresa da Guastini stesso nell’intervista pubblicata online il 9 giugno 2023 e riportata integralmente in questo articolo: Guastini ha illustrato nei dettagli l’esistenza della chat sessista, nella quale le donne venivano oggettivate e declassate solo sulla base del loro aspetto fisico. “Diversi uomini catalogavano e davano i voti chi al culo, chi alle tette, chi alle gambe di queste giovani stagiste che potevano essere le loro figlie”, ha riportato Guastini, ricordando che in quel gruppo Skype, attivo rigorosamente durante l’orario d’ufficio, si trattasse un solo argomento: “Quanto sono scopabili, fighe, ribaltabili o cesse le colleghe”.

We Are Social è, nel suo settore, un colosso con sedi anche all’estero, ed ovviamente a Milano: queste rivelazioni hanno portato a ulteriori scoperte e testimonianze, molte delle quali raccontate da persone che hanno condiviso storie di discriminazione, molestie e comportamento sessista all’interno delle agenzie di pubblicità e comunicazione.

Uno degli aspetti più inquietanti emersi dalle voci delle persone coinvolte è il dettaglio con cui venivano commentate le figure femminili, sia sotto il profilo fisico che professionale. Commenti sprezzanti, volgari e talvolta violenti erano all’ordine del giorno: “È talmente cessa e grassa che le infilerei un sacchetto in testa e me la sc*****i comunque, di prepotenza”, “Glielo infilerei così tanto nel culo da farle uscire le palle dalla gola”, solo per citare – ruvidamente – degli esempi reali confermati da screenshot di quella chat. Ma ancora più sconcertante era come questi comportamenti apparissero estremamente radicati nella cultura aziendale, accompagnati da un’omertà generale, dilagante e prolungata negli anni.

Zahra Abdullahi, ex dipendente di We Are Social, ha condiviso la propria esperienza, illustrando come ha scoperto la chat, e quali furono le sue reazioni. Un dettaglio particolarmente allarmante è che le donne intervistate durante i processi di assunzione diventavano poi oggetto di discussioni in quella chat, spesso da parte delle stesse persone che avevano condotto l’intervista HR. La cultura sessista non si fermava poi ai messaggi: fu scoperto un documento Excel in cui venivano “confrontate” decine di colleghe basandosi solo su criteri fisici degradanti.

Dopo la scoperta della chat, l’agenzia ha trasferito tutte le comunicazioni aziendali su un’altra piattaforma e ha condannato ufficialmente l’intera vicenda, ma molti sostengono che non siano state prese misure concrete contro gli autori delle molestie.

Stesso scenario, stessa agenzia (We Are Social), per quanto riguarda 17 puntate di discutibili Podcast, pubblicati online in 2 anni, dopo la chiusura della famigerata chat e malgrado le asserite “azioni di rieducazione” del team: gli autori dei Podcast “Posso Dire” sono 6 uomini dell’agenzia, i cui nomi sono reperibili online in diversi thread che hanno infiammato i Social nonchè sul profilo Instagram dei podcast stessi, registrazioni prodotte all’interno di WAS, con toni sempre sessisti, volgari e a tratti decisamente pesanti, e accompagnate da uno sconcertante plauso generale da parte di molti colleghi della stessa azienda. Ma i clienti dell’agenzia non hanno commenti da fare?

La reazione di We Are Social e di UNA: ricerca della verità o soltanto fumo negli occhi?

Quando le notizie sulla questione hanno cominciato a dilagare sul web, We Are Social ha deciso di reagire annunciando la sua autosospensione da UNA (Aziende della Comunicazione Unite). Ottavio Nava, co-fondatore della sede italiana dell’agenzia, ha espresso il suo profondo rammarico per la situazione e ha ritenuto necessaria anche un’autosospensione dal proprio personale ruolo di consigliere in seno ad UNA, per garantire piena indipendenza di giudizio e una chiara e completa risoluzione della vicenda. Ha sottolineato l’impegno dell’agenzia contro ogni forma di discriminazione e ha promesso un’indagine indipendente affidata a un ente terzo per esaminare la situazione.

UNA, l’associazione che rappresenta le principali aziende del settore della comunicazione, ha espresso il proprio sostegno alla decisione di We Are Social. Il presidente Davide Arduini ha rilevato l’importanza di tale scelta, non solo per proteggere la reputazione del settore, ma anche per assicurare che ogni membro dell’industria operi con i massimi standard etici.

Arduini ha poi reso noto che, nonostante molte agenzie si dissocino da comportamenti simili, le recenti rivelazioni indicano che questi problemi potrebbero essere più diffusi di quanto si potesse in prima battuta immaginare. Sempre durante il mese di giugno, l’agenzia ha confermato di aver avviato l’indagine per avere maggiore chiarezza su ciò che è accaduto, e che essa verrà gestita da un’entità esterna, garantendo così una certa distanza e oggettività rispetto ai fatti.

Tuttavia, nonostante l’annuncio, molte domande restano attualmente senza risposta. Non è chiaro a chi sia stata affidata l’indagine, chi stia effettivamente conducendo le interviste e le ricerche, se le procedure siano già state avviate, quale sia il razionale del lavoro, e, soprattutto, che tipo di informazioni e risultati stiano venendo alla luce.

Una strategia che potrebbe dimostrarsi non tanto un autentico tentativo di fare chiarezza, quanto piuttosto una strategia per dilazionare i tempi e sperare che l’attenzione pubblica si sposti, nel frattempo, altrove: con il trascorrere del tempo, l’intera vicenda potrebbe gradualmente sfumare e cadere nel dimenticatoio, evitando così possibili ripercussioni negative per le persone coinvolte.

A conferma di un atteggiamento quantomeno di scarsa attenzione, se non addirittura di negazione o ridimensionamento del problema, paiono evidenziarsi alcune dinamiche emerse durante il vertice UNA tenutosi a luglio. Secondo fonti interne all’evento, l’argomento relativo alle molestie sessuali è stato trattato soltanto negli ultimi dieci minuti dell’agenda del vertice. Ancora più inquietante è l’interpretazione di alcuni quadri dirigenziali, che avanzano la tesi secondo cui il problema delle molestie sarebbe “circoscritto esclusivamente a una generazione di dirigenti oltre i 60 anni d’età”, e che pertanto, con il loro imminente pensionamento, il problema si risolverebbe di conseguenza in automatico.

Una prospettiva che, oltre a risultare fortemente riduttiva rispetto alla gravità dei fatti, ignora completamente le evidenze emerse da numerose testimonianze e riscontri. Infatti, le evidenze raccolte indicano che il fenomeno delle molestie sessuali non si limiterebbe a una specifica fascia d’età o a determinati livelli gerarchici: sono state registrate testimonianze provenienti da vari livelli dell’organigramma aziendale, incluse quelle di stagisti in fase iniziale della loro carriera, rivelazioni che contrasterebbero nettamente con la narrativa minimizzatrice proposta da alcuni vertici del settore e sollevano ulteriori interrogativi sulla genuina volontà di affrontare e risolvere il problema, una volta per tutte.

Non solo We Are Social: l’ondata di testimonianze scuote l’intero mondo della pubblicità. I casi di M&C Saatchi, Across e Havas

Lo scandalo che ha coinvolto “la chat degli 80” pare non essere un caso isolato. Si stima che circa 200 agenzie abbiano subito denunce simili, con una netta predominanza di segnalazioni da parte delle donne, e la gravità di queste accuse suggerisce che queste pratiche sono profondamente radicate nella cultura di questo ambiente. La maggior parte delle segnalazioni proviene da Milano, seguita da Torino e Roma.

Un aspetto inquietante è quello relativo al tentativo di normalizzare tali comportamenti. Molti dipendenti vedevano infatti le molestie come un “prezzo da pagare” per lavorare in prestigiose agenzie come – ad esempio – M&C Saatchi o We are social. Gasbarro, fondatore e ceo della M&C Saatchi Milano, ad esempio, era noto per le sue “gasbarrate”, termine gergale che denotava per diffusa convenzione qualcosa di decisamente inappropriato connotato da atteggiamenti spregiudicati, come lanciare oggetti verso le colleghe o fare commenti pesantemente sessisti.

La cultura aziendale nelle agenzie di pubblicità sembra essere stata contraddistinta da un’alternanza di feste opulente spesso caratterizzate da un comportamento scorretto: eventi che rappresentavano occasioni per consolidare rapporti e stringere accordi con i clienti si sono spesso trasformati in terreno fertile per comportamenti del tutto inappropriati. Le grandi feste della Saatchi erano note, riportano testimoni diretti, per le cornici lussuose costruite per garantire a manager e rappresentanti delle aziende clienti momenti di divertimento extra-curriculare che trascendevano decisamente i confini dell’etica.

Da un lato l’industria della pubblicità ha fatto della promozione di messaggi positivi e inclusivi – nelle varie campagne per i propri clienti – ma d’altra parte pare al proprio interno permeata da una cultura aziendale fortemente maschilista e competitiva, considerata – questo è forse ciò che è più grave – la norma. Un altro esempio è quello di Havas Milano: anche in questa agenzia milanese si è fatta strada una cultura analoga, con una chat di soli uomini in cui venivano valutate le colleghe, ossessivamente, in base alla loro attrattività fisica. Non solo era abituale partecipare a cene riservate soltanto a membri maschili eterosessuali appartenenti al quadro dirigenziale, organizzate dall’attuale CEO e da Manfredi Calabrò, che all’epoca ricopriva il ruolo di account director e oggi rappresenta Una, Aziende delle Comunicazione Unite, con 216 agenzie affiliate, al Consiglio generale di Confindustria Intellect; ma durante questi incontri le colleghe diventavano spesso oggetto – nuovamente – di giudizi e commenti inappropriati, venivano assegnate delle categorie alle donne come “la più porca” o “la più scopabile”, e per raccogliere i punti per partecipare al concorso era necessario rispondere a profili tipo “la migliore per fare la pecorina sulle stampanti”.

Atteggiamenti sconcertanti confinati non solo a Milano; anche in Across, agenzia con sede a Torino, pare venissero vissute, secondo le testimonianze, dinamiche analoghe. Nell’agenzia torinese è stata creata una chat, ancora attiva, che si trova su Whatsapp dal nome inequivocabile: “Scopareeee”. Il tono non cambia: è un forum per discutere delle colleghe, condividere immagini di donne quasi nude e scattare foto segrete delle più affascinanti tra le dipendenti.

Nonostante l’apparenza glamour, moderna e inclusiva, l’industria pare dover ancora affrontare e superare vecchi schemi di comportamento, che definire tossici pare riduttivo.

Disuguaglianze, ritmi stressanti, precariato e mobbing: i diritti dei lavoratori continuamente calpestati?

Intere notti in agenzia, e non solo occasionalmente, ma per settimane di fila e tirocinanti retributi con una somma pari a 300 euro a cui viene rinnovato il contratto alla stessa cifra anche per 15 mesi, senza mai essere assunti: una creativa, in un’intervista con il settimanale L’Espresso, ha condiviso un episodio sconcertante in cui, dopo aver detto alla sua responsabile che non poteva lavorare un’altra nottata perché non aveva con se neppure intimo di ricambio, si è vista consegnare dalla stessa un paio di slip nuovi, simbolicamente comunicando l’unica opzione disponibile, restare e lavorare.

Per molti giovani aspiranti pubblicitari, l’ingresso in queste agenzie comincia proprio con le prestigiose scuole milanesi, dove i futuri dirigenti e CEO delineano un quadro chiaro delle sfide che i nuovi arrivati dovranno affrontare: costi di formazione elevati, promesse di recuperare l’investimento una volta entrati nell’agenzia, ma la realtà può rivelarsi poi molto diversa. Non è raro per gli stagisti rimanere bloccati in cicli continui di tirocini mal pagati, a volte per anni, a causa di tecniche come il cambio di agenzia all’interno di grandi gruppi.

Nel 2020, due giovani donne, Claudia Pace ed Erica Mattaliano, hanno avviato un progetto, denominato “Be Okay Creativity”, che ha rivelato ulteriori dettagli sullo stato dell’industria. Attraverso un questionario online, hanno raccolto mille testimonianze: le risposte sono state allarmanti. Infatti, le condizioni lavorative sembrano essere tutt’altro che ideali: l’87% dei lavoratori di Milano che soffrono di stress e burnout, solo il 12% degli straordinari è pagato, al Sud lo stipendio medio è 13 mila euro più basso, le donne, a parità di ruolo, guadagnano il 12% in meno. Ancora più preoccupanti sono le storie di comportamenti inappropriati e molestie: aggressività, frasi sessiste e minacce sono purtroppo standard assai comuni.

Mentre l’industria pubblicitaria produce contenuti brillanti e accattivanti per le masse, coloro che lavorano dietro le quinte potrebbero pagare un prezzo molto più alto di quanto la maggior parte dei cittadini possa immaginare. Per questi motivi, nel novembre del 2022, un gruppo di giovani audaci, sotto il nome “GentilissimaRivolta”, ha deciso di denunciare le loro condizioni di lavoro attraverso un profilo anonimo su Instagram.

La rapidità con cui il profilo ha raggiunto 10.000 follower indica che il loro messaggio ha risonato profondamente: raccontano storie di abusi, di lavorare oltre il dovuto, e della frustrazione di vedere un festival intitolato “La Rivoluzione della Gentilezza” in un mondo noto per la sua . Il loro messaggio è chiaro: amano ciò che fanno, ma odiano le condizioni in cui sono costretti a lavorare. Molti di loro sono giovani professionisti sottopagati, intrappolati in stage infiniti e oberati di lavoro a ritmi impensati.

Tuttavia, il loro appello pare non essere stato accolto con comprensione o volontà di cambiamento dai manager della pubblicità e della comunicazione. Al contrario, è stato registrato con insofferenza, atteggiamento respingente, chiusura e minimizzazione, ne più ne meno come per le reazioni del movimento “#metoo della pubblicità”. Il silenzio che ne è seguito, presumibilmente a causa di minacce di azioni legali da parte delle grandi agenzie, è sconcertante: il grido genuino di aiuto da parte di una generazione che ha sofferto per anni pare essere caduto nel vuoto.

La preoccupazione è ancora maggiore se si considera che il mondo dell’industria pubblicitaria pare vivere queste dinamiche da almeno 15 anni, come raccontato dettagliatamente su LinkedIn da Massimo Guastini.

Da non dimenticare come l’esposizione costante a situazioni di stress elevato e a comportamenti vessatori nel contesto lavorativo può generare gravi ripercussioni sul benessere psicologico degli individui. Queste condizioni ambientali possono contribuire allo sviluppo di atteggiamenti morbosi, manifestazioni comportamentali che si discostano dalla norma e che possono avere effetti negativi sul benessere della persona e sulle sue interazioni sociali (uno degli esempi più evidenti di questa correlazione è l’emergere di atteggiamenti morbosi legati alla sfera sessuale). La necessità di agire per interrompere questo circolo vizioso di mascolinità tossica, sessismo e calpestamento continuo dei diritti degli individui dovrebbe essere acclarato e chiaro a chiunque. Ma pare non essere così.

Nasce il #MeToo della Comunicazione.

Il movimento #MeToo, nato come una rivoluzione globale contro le molestie sessuali nel mondo dello spettacolo, ha ora trovato risonanza nel cuore del settore pubblicitario italiano. Ciò che è iniziato come una singola testimonianza su Instagram si è rapidamente trasformato in una cascata di voci che mettono in luce un problema sistematico e profondamente radicato.

Tania Loschi, professionista della pubblicità, ha aperto la strada a questo tumultuoso movimento digitale attraverso il suo account Instagram, “Taniume”. Dopo aver condiviso la sua esperienza personale di molestie subite all’interno di un’agenzia pubblicitaria, ha creato una piattaforma per altre donne nel settore della comunicazione per condividere le loro storie. Il refrain comune tra queste voci è sconcertante e potente: “E’ successo anche a me”.

Gli aneddoti raccolti sono francamente sconvolgenti. Una donna racconta di come, dopo aver annunciato la sua gravidanza al capo, ricevette una risposta volgare che la degradava pesantemente; un’altra ha condiviso la minaccia ricevuta durante una trasferta di lavoro con un cliente importante, dove il suo capo l’ha invitata ad avere rapporti sessuali con il cliente stesso; commenti inappropriati, insinuazioni e minacce verbali sono emersi da molte testimonianze, suggerendo che tali comportamenti non siano episodi isolati, ma parte di una vera e propria cultura lavorativa: “è così e basta, se si vuole far carriera in questo mondo”, ha riferito un manager del settore.

La stessa Loschi ha condiviso dettagli sconcertanti della sua esperienza, descrivendo commenti degradanti che ha ricevuto dal suo capo mentre era in ufficio fino a tardi, impegnata in ore straordinarie non retribuite. Il riscontro ottenuto dalle testimonianze ha spinto Loschi a creare un modulo online per continuare a raccogliere storie e denunce. Attraverso questo spazio, garantisce l’anonimato e invita altre persone a venire avanti. Il suo messaggio è potente e universale: non è solo una battaglia personale, ma una causa che appartiene a tutti coloro che hanno sperimentato o sono stati testimoni di questi abusi.

L’urgenza è palpabile: come sottolineato da Loschi, “Cosa stiamo aspettando?” Il tempo dell’indifferenza e della complicità silenziosa è definitivamente finito, è ora di agire e di chiedere un cambiamento sistematico e strutturale nel settore della comunicazione e della pubblicità.

Cosa c’è in gioco? La reputazione di un intero comparto

Questi scandali pare abbiano minato in maggiore o minor misura la reputazione non solo di specifiche agenzie ma del settore della comunicazione e della pubblicità. Come ben sappiamo, la reputazione rappresenta il più importante capitale intangibile di ogni organizzazione complessa e di ogni individuo. Nel settore della comunicazione, in particolare, essa non solo influisce sulle percezioni dei clienti e dei partner, ma è anche direttamente legata all’efficacia del messaggio e al credito professionale dell’agenzia stessa.

Nell’era liquida del digitale, la velocità con cui viaggiano le informazioni amplifica l’importanza della gestione di una buona reputazione: una singola controversia può rapidamente propagarsi, influenzando l’opinione pubblica in modo profondo e duraturo. Le aziende non possono più permettersi di ignorare o minimizzare le problematiche interne, poiché queste possono tradursi rapidamente in crisi di reputazione che possono compromettere l’integrità e la qualità dei rapporti con i loro stakeholder.

Un errore di calcolo, la sottostima della crisi, o anche solo una reazione sbagliata, possono non solo amplificare il problema ma anche erodere la fiducia del pubblico in modo permanente. In questo contesto può essere utile analizzare, ad esempio, l’atteggiamento adottato dall’agenzia M&C Saatchi di Milano, che ha scelto di rispondere all’inchiesta pubblicata da L’Espresso affermando che si tratta solo di “totali falsità” e comunicando di “aver dato incarico ai propri avvocati di querelare l’autore dell’articolo e chiunque altro ne divulgherà il contenuto diffamatorio”: una reazione a tratti sguaiata nel tone-of-voice darisultare controproducente. L’obiettivo dell’agenzia milanese parrebbe essere quello di voler testimoniare trasparenza e innocenza, ma – paradossalmente – questo approccio aggressivo potrebbe essere percepito dall’opinione pubblica come un tentativo di intimidire o “silenziare” la stampa e i critici. Alcuni articoli di stampa compiacente sono peraltro venuti sollecitamente in soccorso delle agenzie, con un tentativo di contro-narrazione tanto stucchevole quanto chiaro: “si minimizza l’accaduto e lo si relativizza, si intervistano vecchi guru che non hanno ben chiara la distinzione tra galanteria, ambiente disinibito e viscide molestie sessuali sul luogo di lavoro”, ha dichiarato Massimo Guastini sulle sue pagine Social.

Le questioni relative alla discriminazione e alla parità di genere sono da tempo al centro dell’attenzione, ma diverse altre agenzie coinvolte nello scandalo degli abusi sessuali o dello sfruttamento dei lavoratori del comparto hanno in più occasioni scelto di rispondere allo scenario di crisi con atteggiamenti che hanno dimostrato mancanza di empatia e comprensione, apparendo distanti dai valori contemporanei e dalla posizione che un’azienda dovrebbe assumere per contribuire al cambiamento in meglio della società. Nessuna, per fare un esempio, ha deciso di presentare scuse sincere e incondizionate, passaggio centrale per ogni gestione di crisi reputazionale degna di questo nome.

Questa crisi avrebbe dovuto rappresentare un campanello d’allarme per le organizzazioni, spingendole a prendere decisioni immediate e consapevolmente orientate al bene comune. Invece di adottare una postura difensiva, come dimostrato dalle minacce legali infondate o ancora dall’atteggiamento minimizzatore del vertice UNA, avrebbero dovuto percepire la situazione come un’opportunità preziosa per operare un cambiamento significativo. In effetti, ogni crisi di reputazione, per quanto grave possa apparire, può essere vista come un’opportunità, utile per riallineare i valori alle pratiche aziendali: quando una crisi scuote il fondamento di un’azienda o di un comparto, offre la possibilità di rivedere e riformulare le politiche interne, stimolando un’analisi critica dei comportamenti passati e presenti e condizionando in meglio quelli futuri.

Un approccio proattivo avrebbe ad esempio potuto includere l’implementazione di programmi e piattaforme per monitorare e prevenire gli abusi sessuali. Ma non solo. Sarebbe stato altrettanto importante favorire la creazione di un ambiente in cui i dipendenti si sentissero sicuri nel segnalare qualsiasi forma di molestia o abuso, senza temere ritorsioni. La formazione e l’educazione continuative avrebbero potuto svolgere un ruolo fondamentale, garantendo che ogni individuo all’interno dell’organizzazione fosse consapevole delle conseguenze delle proprie azioni e avesse gli strumenti per riconoscere e bloccare sul nascere comportamenti inappropriati. E ancora, la disponibilità a sottoporsi in qualunque momento a audit da parte di organismi terzi ed esterni all’agenzia, senza alcuna mediazione da parte dei vertici aziendali, avrebbe potuto fare la differenza.

Piuttosto che vedere gli scandali come una minaccia alla loro immagine, le agenzie del settore avrebbero dovuto considerarli come una call-to-action, riconoscendo l’importanza di creare un ambiente di lavoro sicuro, rispettoso e inclusivo; solo così, avrebbero potuto dimostrare un vero impegno nel risolvere il problema alla radice, ristabilendo un rapporto di fiducia con tutti i propri stakeholder, interni ed esterni.

La risposta a queste sfide non può e non deve limitarsi a soluzioni superficiali o a iniziative simboliche: creare eventi di inclusione, giornate dedicate alla parità di genere o campagne di sensibilizzazione che non siano supportate da un impegno concreto all’interno dell’azienda, possono apparire come mere operazioni di facciata. L’opinione pubblica, sempre più informata e critica, sa riconoscere quando le organizzazioni agiscono genuinamente, o quando, al contrario, si limitano al greenwashing.

Pare essere arrivato per questa industry il momento di un deciso cambio di passo, acquisendo la capacità di anticipare e affrontare le questioni etiche prima che diventino delle criticità alle quali potrebbe essere impossibile porre rimedio, ponendosi anche una domanda cruciale: quando il velo sarà definitivamente squarciato, che posizione prenderanno le aziende clienti finali di queste agenzie…? Lasceranno correre, assumendosi loro per proprietà traslativa il rischio reputazionale della black PR generata da questi comportamenti tossici, o – più probabilmente – disdiranno i mandati e getteranno il settore o parte di esso in crisi? 

Trasparenza, assunzione di responsabilità, adozione di misure concrete per promuovere una cultura aziendale davvero inclusiva e rispettosa, abbandono di comportamenti omertosi o minimizzanti nell’attesa che passi la tempesta, impegno genuino e centrato su valori che (a parole) tutti dicono di condividere: queste sono le sfide che queste organizzazioni hanno dinnanzi. Adesso, non domani.