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Economia circolare: se i mobili di una banca “fanno ricco” il terzo settore

Bnl, banca del gruppo Bnp Paribas, ha dismesso oltre dieci mila pezzi che, attraverso Legambiente, sono stati destinati a onlus, scuole e associazioni in difficoltà

Il sogno di una casa da realizzare attraverso un mutuo, la nuova macchina o cameretta per i figli da acquistare con un prestito oppure quel gruzzoletto da far crescere “per quando si andrà in pensione”. Le scrivanie, le sedie, i salottini di una banca potrebbero raccontare la storia e i desideri di alcune generazioni di uomini e di donne. O quelli delle migliaia di dipendenti che in quelle stanze hanno trascorso gran parte delle loro giornate lavorative. Dopo anni, però, le esigenze lavorative cambiano: agli uffici personali si sostituiscono gli open space, ai tavoli di lavoro si preferiscono le soluzioni “multifunzione”. Così quei mobili non servono più e vengono destinati alla discarica. Bnl, brand del gruppo Bnp Paribas, ha scelto diversamente.

 Nuova vita

Ha voluto dare “nuova vita” a quasi 10 mila pezzi d’arredamento provenienti dalle otto sedi della Banca Nazionale del Lavoro (Bnl) di Roma. Per dare un’idea del volume occupato si può pensare a quattro campi da calcio affiancati. Un’enorme mole di oggetti che avrebbero dovuto essere gettati dopo l’accorpamento dei dipartimenti nell’edificio che ospita la nuova direzione generale di viale Altiero Spinelli nella Capitale e invece saranno utilizzati da circa un centinaio tra scuole, onlus, imprese sociali ed enti no profit. «Sarebbe stato più facile dismettere tutti gli arredi che, oggi, stoccati occupano 20 mila metri quadri nei magazzini – racconta Claudia Schininà, Corporate Social Responsability Officer -e invece l’azienda ha preferito attivarsi per dare vita ad un’economia circolare: i mobili di pregio, sono stati reinseriti nella nuova sede, gli altri di design, moderni o vintage sono stati donati».

Una nuova sede

La nuova sede, chiamata Orizzonte Europa, inaugurata pochi mesi fa, si sviluppa su 12 piani per un totale di 75 mila mq. E’ concepita secondo logiche di smart working, con spazi moderni, aperti e ampie zone condivise come la palestra, il ristorante, l’auditorium, l’asilo. Prevale l’idea dell’”ufficio diffuso” dove si lavora in maniera dinamica e interattiva. L’arredo precedente non era utilizzabile nella nuova sede. Da qui l’idea della cessione gratuita.« Abbiamo chiesto ai nostri 15mila dipendenti di segnalarci i destinatari meritevoli – prosegue Schininà -. Da questo matching è nata l’iniziativa che è ancora in corsa e che si concluderà sotto Natale». « Abbiamo poi cercato un partner che ci aiutasse a selezionare le realtà più affidabili a cui regalare i nostri beni, e ci garantisse una certificazione da “mettere a bilancio sociale”».

Il partner

La scelta è caduta su Legambiente, una delle associazioni più capillarmente distribuite sul territorio italiano. L’accordo siglato prevede che Bnl gruppo Bnp Paribas ceda gratuitamente a Legambiente i propri beni aziendali per un riutilizzo sociale. E che Legambiente scremi tra le 300 realtà individuate dai dipendenti della Banca tra associazioni, scuole, enti no profit. «È stata una sfida – spiega Enrico Fontana responsabile nazionale Economia Civile di Legambiente – la mole di oggetti da gestire era enorme. Si doveva procedere con equità e andare a certificare i destinatari. Ma il dono è stato per alcuni una boccata d’ossigeno. Basti pensare alle scuole – come l’istituto comprensivo Pirandello di Roma – che da anni non riescono a rinnovare i propri locali».

Le scuole

Gli istituti scolastici effettivamente raggiunti saranno circa una sessantina, e quasi altrettante le associazioni non profit. «La storia che più mi ha colpito? -prosegue Fontana – quella dell’associazione di promozione sociale che lavora con i ragazzi disabili, La Grande Quercia di Anzio che doveva arredare la nuova sede a Lavinio (Rm). Obiettivo centrato li abbiamo aiutati con suppellettili a riuso ecosolidale». Una buona pratica che nell’intenzione delle due realtà, Bnl del gruppo Bnp Paribas e Legambiente, sarà ripetuta. «Se solo il governo inserisse in manovra anche una diminuzione dell’iva dal 22% al 4% per i mobili a riuso sociale – conclude Fontana – ci avvicineremmo un passo verso gli obiettivi di sviluppo sostenibili dell’Agenda Onu 2030».




Pandora è riuscita a mettere in un unico manifesto i più gretti stereotipi femminili. La rete sentenzia: #EpicFail

Polemiche sui social networks per un cartellone pubblicitario di Pandora apparso alla fermata della metropolitana Duomo a Milano. Questa la scritta che sta facendo infuriare moltissimi utenti, soprattutto donne ma non solo. “Un ferro da stiro, un pigiama, un grembiule, un bracciale Pandora. Secondo te cosa la farebbe felice?”
Il manifesto – che riesce a mettere in fila alcuni dei più gretti stereotipi sul genere femminile – non è passato inosservato a Lefanfarlo, organizzazione no-profit che si occupa di “burlesque, vita e donne” e su Facebook si presenta così: “Abbiamo un cervello e un reggicalze. E non abbiamo paura di usarli. Entrambi”.

“Non potevamo crederci, ma purtroppo è tutto vero”, scrivono Lefanfarlo su Fb. “La nostra Laki Hancock ha scattato questa foto a Milano, MM1 Duomo uscita via Torino.
Cara PANDORA, Lefanfarlo per Natale vorrebbero soprattutto rispetto, piuttosto che un bel bracciale.

 E voi amiche cosa vi aspettate di trovare sotto l’albero? Un ferro da stiro oppure un grembiule?”. Con tanto di hashtag: #pandora #tristezza #pandoraepicfail #epicfail
Sono in molti a condividere la foto su Twitter puntando il dito contro un “Copywriter da arresto”.




La rete di disinformazione, NYT, BuzzFeed, Renzi, la propaganda e il caos informativo

Nell’ultima settimana, due articoli pubblicati su due testate americane, BuzzFeed News e New York Times, hanno riproposto al centro dell’attenzione mediatica e politica il tema della propaganda e della disinformazione online nel nostro paese.
In Italia, questi due articoli si sono inseriti in un rinnovato dibattito sul rischio che le fake news possano inquinare e condizionare la campagna elettorale del prossimo anno. A riaccendere l’interesse su questo tema è stato, in particolare, il segretario del Partito Democratico, Matteo Renzi, che durante l’ultima Leopolda, ha citato i due articoli per invitare a battersi contro le fake news, dicendo di “aver sgamato Cinque Stelle e Lega Nord” e annunciando che “ogni 15 giorni il Pd presenterà un rapporto ufficiale sulle schifezze in rete”.
Abbiamo provato a seguire le fila delle questioni aperte e a ricostruire il contesto e il dibattito a seguito di questi due articoli.

L’inchiesta di BuzzFeed e la sospensione delle pagine Facebook di iNews24 e DirettaNews

I primi a portare l’attenzione dell’opinione pubblica italiana sui pericoli della massiccia disinformazione online da parte di alcuni siti web sono stati Alberto Nardelli e Craig Silverman su BuzzFeed News con un articolo, pubblicato il 21 novembre, dal titolo “One Of The Biggest Alternative Media Networks In Italy Is Spreading Anti-Immigrant News And Misinformation On Facebook”. Già, nel novembre 2016, prima del referendum costituzionale del 4 dicembre, i due giornalisti avevano pubblicato un pezzo che ricostruiva la rete di siti “alcuni ufficiali, altri all’apparenza indipendenti, che diffondono notizie false in Rete, teorie cospirative e propaganda pro-Cremlino”, gestita dai fondatori del Movimento 5 Stelle. Una struttura propagandistica, si legge nel post, di cui il partito si sarebbe servito “per tentare di sconfiggere le riforme costituzionali sostenute dal governo che saranno votate in un referendum il 4 dicembre”.
Con la consulenza di Andrea Stroppa (sul sito presentato come ricercatore indipendente sulla cybersicurezza, in passato consulente sul tema dell’ex presidente del Consiglio, Matteo Renzi), BuzzFeed ha ricostruito i legami tra siti e pagine Facebook che possono apparire indipendenti tra di loro arrivando a individuare l’esistenza di una rete, riconducibile all’imprenditore romano, Gianluca Colono, e alla sua azienda Web365, che, secondo i documenti consultati da BuzzFeed, gestisce almeno 175 domini web, siti di informazione come iNews24 e testate giornalistiche come DirettaNews, alcune pagine Facebook con un grande numero di iscritti e condivisioni, capaci di avere più interazioni di quotidiani nazionali di grande diffusione. Attraverso la rete creata, questi siti e pagine pubblicano e diffondono articoli con contenuti di stampo nazionalista e contro i migranti e, più in generale, contribuiscono a fare disinformazione.
Come ha spiegato Alberto Nardelli, in un’intervista a Repubblica, lui e Silverman hanno incrociato diversi dati (di chi era la proprietà dei siti, quali erano gli identificativi di Google, le pagine Facebook e la popolarità dei contenuti diffusi) per poter arrivare a capire se c’era una rete e, una volta appurata l’esistenza, qual era il suo cuore e come gli articoli pubblicati venivano distribuiti al suo interno. I contenuti diffusi dai siti e dalle pagine gravitanti intorno alla rete di Web365 spaziano dal click-baiting spinto a titoli fuorvianti su notizie del giorno, da storie allarmistiche su eventi tragici a pezzi fortemente divisivi sull’immigrazione che riecheggiano retoriche nazionaliste e islamofobe.
Nell’articolo non si fa riferimento esplicito alle fake news, ma si accusa questa rete di diffondere articoli che disinformano e potenzialmente capaci di condizionare l’informazione. Notizie vere rilanciate però con titoli sensazionalistici in grado di mobilitare. Un fenomeno, questo, che, secondo quanto riferito da funzionari italiani (“officials” nel testo,  ma non si capisce bene chi siano questi funzionari) a Silverman e Nardelli, a livello più generale potrebbe avere un impatto sulle elezioni del prossimo anno. Senza però fornire ulteriori elementi per comprendere come sia possibile definire e inquadrare questo impatto.
Tuttavia, come mostra Luca Sofri, i siti iNews24 e DirettaNews si sono resi protagonisti della diffusione anche di notizie false, come nel caso di un articolo pubblicato da iNews24, secondo il quale Parigi avrebbe più moschee che chiese. Una notizia falsa nata dalla dichiarazione in tv dello scrittore francese Alain Finkielkraut, secondo il quale nel 93mo dipartimento francese ci sarebbero più moschee che chiese. Il post di iNews24 “ha trasformato il 93mo dipartimento in ‘Parigi’ e fatto diventare 93 non il suo nome ma il numero delle chiese (Finkielkraut aveva detto 117), a fronte di millantate 145 moschee”. In realtà, scrive Sofri, le moschee nel 93mo dipartimento “sono indicate da diverse fonti tra le due e le trentaquattro, e come ha spiegato Le Monde, i ‘luoghi di culto’ musulmani sono difficili da contare perché hanno scale assai diverse e spesso sono delle modeste stanze adibite alla preghiera”.
Sempre a Repubblica, Alberto Nardelli ha precisato che l’inchiesta non ha evidenziato legami tra i siti analizzati e partiti politici. «I contenuti venivano promossi all’interno di gruppi di estrema destra ma non posso dire se ciò avvenisse per una finalità politica o perché si tratta di contenuti che – rifacendosi a una retorica di destra – hanno maggiori possibilità di essere cliccati in quegli ambienti», ha affermato il giornalista di BuzzFeed. Inoltre, il tema al centro dell’inchiesta non è quello delle fake news, ma della disinformazione in generale, «che intreccia fake news, propaganda e profitto: certi contenuti tirano più di altri e contribuiscono ad alimentare il business di alcune società». In ballo c’è una questione di trasparenza, ha sottolineato Nardelli. Quindi, a quanto ci è parso di capire, si tratterebbe di contenuti destinati a un preciso ambiente “culturale-ideologico” tesi a rafforzare proprio quelle medesime posizioni.
Dopo l’articolo di BuzzFeed, Facebook ha oscurato le pagine di iNEws24 e DirettaNews, quest’ultima una testata regolarmente registrata al registro per la stampa tenuto dal tribunale di Velletri. Un pericoloso precedente, come sottolineato da Carlo Blengino in più tweet e da Bruno Saetta:

In conclusione ciò che possiamo ricavare è che una testata editoriale regolarmente registrata al tribunale è stata oscurata (come un sequestro preventivo), e azzerata in base a una policy di un privato, Facebook, e probabilmente su input di un altro privato (BuzzFeed). In sostanza l’impressione è che sia possibile utilizzare la “paura” delle fake news perché un concorrente possa far chiudere un suo diretto competitore online, come se niente fosse.

Successivamente, Facebook ha spiegato a Valigia Blu di aver sospeso l’account delle due pagine perché non rispettavano diverse policy del social network, senza però specificare quali.

L’articolo del New York Times sui collegamenti tra siti vicini alla Lega Nord, al Movimento 5 Stelle e filorussi

Il 24 novembre il corrispondente a Roma del New York Times, Jason Horowitz, pubblica un articolo dal titolo eloquente: in vista di una campagna elettorale all’insegna delle fake news, l’Italia chiede aiuto a Facebook.
Il pezzo parte raccontando come a pochi mesi da elezioni nazionali cruciali, l’Italia possa essere il prossimo obiettivo di una campagna destabilizzante di propaganda e notizie false, tanto da spingere il segretario del partito al governo, Matteo Renzi, a chiedere aiuto a Facebook e agli altri social media per sorvegliare le proprie piattaforme. Già alla vigilia del Referendum costituzionale del 4 dicembre, Horowitz aveva dedicato un articolo a Renzi su Vogue America, ancora una volta con un titolo piuttosto significativo: “Il primo ministro italiano Matteo Renzi farà ciò che serve per riformare il governo”. L’articolo, scriveva all’epoca Huffington Post Italia, dava “una visione positiva e rassicurante di Renzi”.
Questa volta Horowitz scrive che:

In un’atmosfera globale già densa di sospetti riguardo l’intromissione russa nelle elezioni negli Stati Uniti, in Francia e in Germania, così come nei referendum nel Regno Unito sull’uscita dall’Unione europea e in Spagna a favore del movimento indipendentista catalano, molti analisti considerano l’Italia l’anello debole di un’Europa ancora più vulnerabile.

In Italia, dunque, ci sarebbe una “febbre fake news”, e il partito che avrebbe più a cuore la questione sarebbe il Partito Democratico, spiega il giornalista del New York Times, riportando una dichiarazione di Renzi: “Chiediamo ai social network, e in particolare a Facebook, di aiutarci ad avere una campagna elettorale pulita. La qualità della democrazia in Italia oggi dipende da una risposta a questi problemi”.
A testimonianza di questo crescente interesse verso una questione ormai inderogabile, l’articolo sottolinea il contributo di Andrea Stroppa, “un ricercatore della società Ghost Data che consiglia Renzi sui temi della cybersicurezza”, all’inchiesta di BuzzFeed News sulla rete di siti che fanno disinformazione, gestita da Gianluca Colono, e un altro suo studio, condiviso con proprio con il New York Times, e “preparato per Matteo Renzi, che tenta di dimostrare una connessione tra siti apparentemente indipendenti che promuovono movimenti politici rivali anti-establishment critici di Renzi e del governo di centro-sinistra”.
Il rapporto curato da Stroppa mostra che il sito “Noi con Salvini” del segretario della Lega Nord, Matteo Salvini, condivide lo stesso codice identificativo di Google con due pagine a sostegno del Movimento 5 Stelle (“Info a 5 stelle” e “Video a 5 stelle”). Il codice, usato per tracciare pubblicità e traffico web, è condiviso anche con una serie di altri siti, che diffondono teorie cospirative, attacchi a Matteo Renzi o propaganda esplicita filorussa.


In particolare, l’articolo fa riferimento ai siti IoStoConPutin.info, che definiscono l’intrusione della Russia nelle elezioni presidenziali americane come “fake news” e pubblicano post senza l’indicazione dell’autore, e mondolibero.org, che “spaccia una visione del mondo decisamente anti-americana e anti-liberale”. Secondo i dati contenuti nella ricerca di Stroppa, “i siti presi in esame condividono un unico ID assegnato da Google Analytics per monitorare la loro performance, un numero AdSense attraverso il quale Google gestisce gli annunci pubblicitari inseriti nei singoli siti” e lo stesso template nelle loro pagine dei contatti.
Sentita dal New York Times, Simona Panseri, una portavoce di Google Italia, ha dichiarato che l’ID Google non è un indicatore affidabile per dimostrare che due siti siano collegati, «spesso vediamo siti non collegati tra di loro che utilizzano gli stessi codici identificativi». Tuttavia, prosegue Horowitz, Google non ha voluto identificare gli amministratori dei siti e le email inviate agli indirizzi elencati nella pagine dei contatti dei siti non hanno avuto risposta. Anche Facebook, che si è detta pronta a costruire una squadra anti-fake news, a investire in risorse e tecnologie per affrontare la questione e a rimuovere gli account falsi, ha rifiutato di identificare gli amministratori degli account con i codici Google condivisi.
Piccola parentesi, come Valigia Blu se questa task force venisse davvero organizzata da Facebook chiederemo assoluta trasparenza su criteri e modalità: chi chiede di rimuovere cosa e cosa e perché eventualmente Facebook rimuoverà.
Un portavoce del Movimento Cinque Stelle ha spiegato al New York Times che la pagina in questione non è ufficiale e potrebbe essere stata creata da un attivista indipendente o da un sostenitore, mentre il responsabile di Internet per la Lega Nord, Luca Morisi, ha riconosciuto che il sito “Noi con Salvini” condivideva gli stessi codici di Google con altri siti al di fuori dell’universo politico leghista. Ha spiegato che un ex sostenitore del Movimento Cinque Stelle aveva contribuito a realizzare il sito e ha incollato i codici della sua pagina a sostegno dei Cinque Stelle, così come quelli di IostoconPutin.info e altri siti individuati dal lavoro di Stroppa. Morisi ha aggiunto di non aver nulla a che fare con i siti pro-Putin o pro-Cinque Stelle, spiegando di essere convinto di aver già cambiato i codici in passato, cosa che avrebbe fatto entro lo scorso fine settimana per diradare ogni confusione.
L’articolo si conclude evidenziando, da un lato, il fatto che Lega Nord e Movimento 5 Stelle siano formalmente non alleati “e si considerino addirittura rivali”, e sottolineando, dall’altro, la vicinanza tra i due partiti su molti temi (e in particolare sul favore alle posizioni di Putin, sui temi dell’immigrazione e su retoriche anti-establishment) e citando, a tal proposito, uno studio dell’Atlantic Council, un think tank americano, secondo il quale i due partiti farebbero parte dell’area pro-Russia in funzione anti-Nato.

L’esclusiva del New York Times non era un’esclusiva

Su Twitter, Andrea Stroppa lancia l’articolo di Jason Horowitz sul New York Times dicendo che si basava su una sua ricerca esclusiva per il giornale americano, secondo la quale alcuni siti con relative pagine Facebook che pubblicano articoli a favore del Movimento 5 Stelle sembrano essere amministrate da chi gestisce i siti Internet di Salvini. Come lo stesso Stroppa racconta in un’intervista a Claudio Bozza sul Corriere della Sera, «Matteo Renzi si è chiesto se anche in Italia ci sarebbero problemi simili a quelli emersi in altri paesi durante le elezioni (ad esempio in Francia con l’intrusione digitale di organizzazioni vicine a Putin a sostegno della Le Pen, ndr). Così ho scritto un lungo report e gliel’ho consegnato. Parte di questo documento è arrivato al New York Times, che dopo aver verificato l’attendibilità delle mie informazioni ha pubblicato un articolo per spiegare che allo stesso codice Google adsense e analytics appartenevano il sito ufficiale di Matteo Salvini e alcuni siti pro M5S. Grazie a questi codici si può tracciare il profilo di chi clicca su certi contenuti, ma soprattutto si riescono ad incassare i soldi, derivanti da tutti questi clic, Bizzarro, no?».
Il giorno dopo, il 25 novembre, però, Lorenzo Romani, esperto di Open Source Intelligence e membro dell’assemblea romana del Partito Democratico pubblica un tweet in cui puntualizza che l’articolo del New York Times e la ricerca di Stroppa non dicevano nulla di nuovo rispetto a quanto aveva lui già detto ad agosto in un’intervista ad Affari Italiani.

Vorrei solo puntualizzare che i fatti di cui parla il New York Times in relazione ai siti di Salvini e pro-M5S non sono uno scoop del consulente di Renzi, Andrea Stroppa, in quanto ne avevo già parlato ad agosto su @Affaritaliani @Andst7 @jasondhorowitz https://t.co/lwXg7YjqRe — Lorenzo Romani (@lorenzoromani) November 25, 2017

Romani scrive anche a Jason Horowitz


Sempre su Twitter, Mazzetta contatta il New York Times sottolineando che la ricerca non diceva cose originali come pretendeva di fare.
Il 6 agosto scorso, nei giorni in cui la piattaforma online degli iscritti al Movimento 5 Stelle, Rousseau, aveva subito un attacco informatico, Lorenzo Romani aveva pubblicato un tweet con un’infografica che descriveva come il sito noiconsalvini.org monetizzasse sullo stesso account AdSense di siti (e altri poi chiusi) a favore di Putin, Movimento 5 Stelle, complottisti novax e alieni. Inoltre, lo studioso chiedeva a Repubblica, La Stampa e Corriere se se ne fossero accorti.


In un’intervista ad Affari Italiani, Romani spiegava che, attraverso le tecniche di Open Source Intelligence, individuando legami non ovvi tra aziende, organizzazioni e persone, era arrivato alla conclusione che il sito “Noi con Salvini” utilizzava gli stessi “tracking code” (cioè «dei frammenti di codice che identificano, qualora esista, l’account che visualizza gli accessi al sito e quello che “incassa” i soldi derivanti dalla pubblicità») di altri siti come iostoconputin.info, nonsiamosoli.info, sito che pubblica articoli sulla presenza degli alieni, mondolibero.org, complottisti.com, stopeuro.org, eurocrazia.info. A questi si aggiungevano poi imprese5stelle.org, che faceva capo a un privato, successivamente chiuso insieme al profilo Twitter, il cui codice compare sul sito info5stelle.info. In sintesi, concludeva Romani, alcuni siti riconducibili a Movimento Cinque Stelle e Lega Nord sembravano avere lo stesso “amministratore”, che “incassa” i soldi dalla pubblicità.
Si trattava praticamente degli stessi siti indicati nell’articolo del New York Times a partire dallo studio di Andrea Stroppa, ma la notizia, all’epoca, non ha avuto risonanza. A conclusione dell’intervista,
Romani aveva aggiunto che il fatto che i siti condividessero lo stesso account AdSense non costituisce nulla di illegale, che le risorse “incassate” dalla pubblicità sono modeste e «tutti i “nessi” esposti sono perfettamente legittimi e non sufficienti di per sé a formulare delle accuse». Questo non vietava, però, di farsi delle domande sulle connessioni tra siti apparentemente lontani che invece «sono legati a una stessa entità», come un’agenzia di comunicazione o una persona politicamente schierata. Pur non essendo possibile stabilire una responsabilità politica, che i siti che rimandano a due partiti politici diversi facciano riferimento alla stessa società di comunicazione, spiegava lo studioso, è una aspetto da prendere in considerazione in un momento in cui «le strategie di comunicazione online oggi sono dirimenti nella gestione/manipolazione del consenso».
Nei giorni scorsi, in alcuni un tweet, Romani ha escluso un «coordinamento editoriale tra Lega e Movimento 5 Stelle», ritenendo più plausibile «che ci siano fornitori, digital strategist e professionisti in comune ideologicamente allineati, che sviluppano le infrastrutture di entrambi», e ha precisato che più che a una struttura gerarchica, si dovrebbe pensare a una struttura diffusa e senza una strategia organica.
David Puente è andato oltre, riuscendo a individuare la persona a cui sono riconducibili i siti che condividono gli stessi codici identificativi AdSense e Analytics, a conclusione di una ricerca iniziata a febbraio 2017: si tratta di Marco Mignogna, libero professionista di Afragola, in Campania. Puente aveva cercato di capire a chi fosse intestato il dominio Info5stelle.info. Il sito era collegato a una pagina Facebook con oltre 95mila like, chiamata “Info a 5 Stelle”. Nella sezione informazioni della pagina, c’era un indirizzo email (“staff@infoa5stelle.com“), il cui whois del dominio rinviava a un nome e cognome, Marco Mignogna, appunto. L’email del dominio era la stessa usata per “Info5stelle.org”, ma con un altro nome, la moglie di Marco Mignogna. Inoltre i due siti condividevano codici identificativi AdSense e Analytics. La stessa email è stata utilizzata per creare il dominio “IostoconPutin.org”, che possedeva lo stesso codice AdSense degli altri due siti. Dalla tracciatura fatta da Puente, si passa dai siti pro-Movimento Cinque Stelle a quelli pro-Salvini (“Noi con Salvini” e “Ilsudconsalvini sia .org che .info) fino ad arrivare a siti e pagine “come “Complottisti.com” (ora diventato “Complottisti.info“), il sito su alieni e ufo “Nonsiamosoli.info“, quello con proposte casalinghe per curare l’influenza come “Naturalblog.info“, l’anti Euro “Eurocrazia.com” (che oggi rimanda a “Eurocrazia.info“) e “Stopeuro.org” (che oggi rimanda a “Stopeuro.news“), al sito pro Trump chiamato “Italyfortrump.info” per poi finire ai due domini “Iostoconputin.info” e “Mondolibero.org” riportati dal New York Times”.
Inoltre, sempre utilizzando la stessa email marco.mignogna@live.com, come chiave di ricerca, Puente riesce a scoprire che sul sito Imprese5s.wordpress.com, Mignogna si dichiara attivista del Movimento 5 Stelle. Dai suoi contatti su Facebook, si riesce a capire la sua vicinanza sia a personaggi dell’area leghista che di quella Cinque Stelle.
Il network di Mignogna, scrivono Carlo Brunelli e Tiziano Toniutti su Repubblica, “è un grande calderone di notizie recuperate sul web, che vanno dalla politica alla new age, passando per naturopatia, alieni e cospirazioni. Ogni sito contiene post e video, tutti contraddistinti da titolazioni ottimizzate per finire nelle prime posizioni dei motori di ricerca”. La fonte di ogni articolo è sempre dichiarata e i post puntano a titoli acchiappaclic “o che interpretano una notizia nella chiave che potrebbe piacere a chi va su quel sito specifico”.

Il dibattito in Italia

In Italia, i due articoli di BuzzFeed e New York Times, hanno riacceso i riflettori sui temi della disinformazione online, in un caso, e del rischio che le fake news e la propaganda politica possano inquinare la prossima campagna elettorale, nell’altro caso. In particolare, anche grazie all’eco della diffusione virale di una foto che ritraeva Maria Elena Boschi, Laura Boldrini e altri rappresentanti del centro-sinistra tutti insieme «al funerale di Riina», ma che, scrive Repubblica, era stata scattata ai funerali di Emmanuel Chidi Namdi, ucciso a Fermo in un episodio di razzismo. Un caso, dunque, di contesto ingannevole: un contenuto reale accompagnato però da informazioni contestuali false. La foto è stata diffusa da un profilo Facebook (Mario De Luise) e una pagina (Virus5stelle) che fanno riferimento ai tanti account e pagine non ufficiali a sostegno del Movimento Cinque Stelle.
Negli stessi giorni, Renzi inaugurava la Leopolda con uno status su Facebook in cui sottolineava che “alcune inchieste giornalistiche mostrano che in Italia esiste una vera industria del falso, con profili social altamente specializzati in diffusione di bufale, fake news, propaganda. Dopo una indagine condotta da una testata online sono state oscurate in settimana pagine che avevano un totale di 7 milioni di like. (…) Che significa? Significa che c’è chi inquina in modo scientifico il dibattito politico sul web diffondendo notizie false solo per screditare gli avversari. Noi lo sappiamo bene, perché ne siamo vittima ogni giorno. E ogni giorno che passa si scoprono notizie più inquietanti sulle modalità di diffusione di queste bufale”. Il segretario del Pd chiudeva il post annunciando di battersi “per una campagna elettorale civile basata sui dati di fatto e non sulle fake news, (…) contro l’industria del falso e per la discussione vera sulle soluzioni da offrire ai nostri cittadini” e invitava troll e profili ad astenersi dai commenti, perché “tanto ormai vi sgamiamo subito”.
Ma come fa notare Mario Tedeschini-Lalli su Facebook, “qualunque sia il nostro giudizio sul fenomeno in questione, le cifre citate in questo post dell’ex presidente del Consiglio sono prive di senso, a meno che non si accetti di paragonare mele e – chessò – lampade tascabili”. A completamento della sua critica segnaliamo questo suo commento:
https://www.facebook.com/mario.tedeschini.lalli/posts/10155842757134663?comment_id=10155843544509663
A quanto detto da Renzi, Luigi Di Maio aveva risposto chiedendo all’Osce “di monitorare la prossima campagna elettorale per evitare voto di scambio e la diffusione di fake news su tv, giornali e Internet”.
Gli articoli delle due testate statunitensi si sono inseriti in questo contesto politico e comunicativo in cui c’era da una parte il Partito Democratico che chiedeva trasparenza, di lottare contro la disinformazione e prendere a cuore la questione delle fake news, come aveva scritto il New York Times, e dall’altra il Movimento Cinque Stelle e la Lega Nord, incalzate dalle questioni sollevate dall’articolo del quotidiano americano.
In un articolo pubblicato il 26 novembre, Jacopo Iacoboni presenta l’articolo del New York Times dicendo che l’analisi del “report della società dell’informatico Andrea Stroppa, consulente tra gli altri di Matteo Renzi, che La Stampa ha potuto consultare, aggiunge importanti dettagli sull’esistenza nei social italiani di sovrapposizioni de facto tra aree politiche diverse in Italia, all’insegna di un nemico comune: il governo, le élite liberal, il Pd, Renzi, la Boschi, la Boldrini, ma anche Monti, Napolitano, la Bonino, Gentiloni, gli immigrati, la società multietnica, gli Stati Uniti, l’euro, l’Europa”.
Lo stesso giorno Fabio Salamida su Gli Stati Generali cita gli articoli di BuzzFeed e New York Times per dire che a “beneficiare direttamente e indirettamente dell’industria del fake, come si legge in un articolo di Jason Horowitz sul New York Times, sono i due partiti che più sfruttano la rabbia anti-sistema per attrarre consenso: il Movimento 5 Stelle e la Lega di Matteo Salvini”.
“L’Italia sotto la morsa delle fake news? Lo denuncia il Pd. Lo nega il M5S, che ribalta l’accusa sul leader Pd”, era l’attacco del pezzo di Filippo Monteforte su Repubblica a proposito della ricerca di Stroppa e l’articolo di Horowitz.
I giornali italiani hanno delineato l’intera questione nel quadro di uno scontro tra Pd e Movimento Cinque Stelle, arrivando a evocare una lite tra i due partiti che, nei fatti, almeno fino a quel momento non è sembrata esserci stata: Renzi aveva invitato a lottare “per una campagna elettorale civile basata sui dati di fatto” e Di Maio aveva chiesto all’Osce di vigilare per evitare propaganda e disinformazione su tv, giornali e web.
Una lite sulle fake news, dunque, che è parsa una ricostruzione forzata dei fatti, quasi a voler marcare una distanza tra chi è a favore della battaglia contro la disinformazione e chi è contrario, tra chi è trasparente e chi ha qualcosa da nascondere. Inoltre, come ha notato Il Post, non sembra esserci discontinuità tra i due partiti nemmeno nel ricorso “a pagine Facebook e siti – non ufficialmente riconducibili al partito – che hanno fatto propaganda con toni populistici, soprattutto in occasione del referendum [costituzionale, ndr]”. In un caso, ricorda il sito diretto da Luca Sofri, “si era parlato della pagina Facebook “Matteo Renzi News”, gestita da Alessio De Giorgio, un collaboratore di Renzi, mentre Leonardo Bianchi su Vice aveva scoperto che una serie di pagine che pubblicavano su Facebook contenuti di intrattenimento dozzinali, con migliaia di follower, avevano iniziato improvvisamente a fare propaganda per il Sì”.
Il 27 novembre, il Movimento Cinque Stelle è intervenuto sul blog di Beppe Grillo, definendo una fake news gli articoli di New York Times e Buzzfeed sulle fake news. Entrambe le inchieste sono arrivate alla vigilia della Leopolda di Matteo Renzi, si legge sul blog, ed “entrambi i pezzi, apparentemente indipendenti, nascono però da una ricerca condotta da un tecnico del web non strettamente indipendente, Andrea Stroppa, che di fatto viene citato nei due articoli”. I Cinque Stelle scrivono poi che “Stroppa è un giovane esperto informatico, da tempo arruolato nella Cys4, la società di sicurezza presieduta da Marco Carrai, braccio destro di Matteo Renzi, nonché grande sostenitore delle sue campagna elettorali, al quale l’ex premier voleva persino affidare la guida dei servizi segreti italiani”. Carrai, scriveva Claudio Bozza sul Foglio lo scorso giugno, avrebbe messo insieme un gruppo di ragazzi tra i 20 e i 30 anni, definiti nell’articolo “guastatori”, che per contrastare i grillini sui social network avevano il compito di “creare e muovere su Facebook e Twitter profili fittizi (dietro a cui non c’è una persona vera, ma solo un manovratore virtuale, punto chiave della strategia vincente grillina sui social) che, a colpi di post e tweet, ribattono alle bufale e agli attacchi di sostenitori e truppe virtuali del M5S”.
Matteo Renzi ha replicato con un post sulla sua eNews affermando che “davanti alle prove del New York Times, il blog di Beppe Grillo ha reagito con il consueto stile gridando al complotto, ovviamente complotto ‘degli amici di Renzi’. Stanno messi male, non c’è dubbio”.
Carrai sul Corriere della Sera ha negato ogni coinvolgimento nell’inchiesta del New York Times e ogni rapporto lavorativo attuale con Stroppa. A Repubblica, Alberto Nardelli ha specificato che il ricercatore ha contribuito come fonte e che il lavoro di inchiesta e analisi è stato svolto da Buzzfeed.
Andrea Stroppa, in un post su Facebook, ha affermato di non essere un dipendente di Marco Carrai e di non far parte da molto tempo della società Cys4.  E ha aggiunto che “in questi giorni, in queste ore, numerose testate e commentatori hanno proseguito nel guardare non cosa è emerso, ma chi l’ha fatto emergere. Spero che altrettanti giornalisti faranno le loro inchieste sui numerosi siti e pagine Facebook che oggi, in questo momento, in Italia stanno facendo disinformazione e misinformazione”. Posizioni espresse anche in un’intervista a Jacopo Iacoboni su La Stampa.

Le critiche all’articolo del New York Times

L’articolo del New York Times ha ricevuto diverse critiche. Ferdinando Giugliano, editorialista economico per Bloomberg, ha sottolineato su Twitter come il titolo e l’impostazione del pezzo del New York Times siano fuorvianti: “Perché definire una iniziativa “italiana” quello che è il lancio di campagna elettorale di Matteo Renzi contro Movimento Cinque Stelle e Lega Nord intorno alle fake news?”


Virginia Della Sala e Carlo Di Foggia si concentrano, invece, sulla questione dei codici identificativi condivisi tra i diversi siti analizzati nel pezzo. Il New York Times, scrivono i due giornalisti su Il Fatto Quotidiano, ha pubblicato solo una parte della replica di Google non spiegando il motivo per cui il codice identificativo non è un indicatore attendibile: “Non abbiamo dettagli sugli amministratori del sito e non possiamo speculare sul motivo per cui hanno lo stesso codice dell’annuncio. Qualsiasi editore che utilizza la versione self-service dei nostri prodotti può aggiungere il codice al proprio sito. Spesso vediamo siti non collegati che utilizzano gli stessi ID, quindi non è un indicatore affidabile che due siti siano connessi”.
Il codice di Analitycs, spiegano Della Sala e Di Foggia, è spesso parte dei codici di costruzione dei siti web ed è molto probabile che, nel caso in cui lo sviluppatore sia lo stesso, lo riutilizzi. Cosa diversa per i codici AdSense: averlo significa avere il portafoglio della pubblicità. Il Fatto indica tre possibili motivi che possono spiegare la condivisione di un medesimo codice AdSense:

  1. “Noi con Salvini” ha commissionato a una società specializzata la realizzazione del sito consentendogli di raccogliere la pubblicità come parte del compenso, e la gestione dell’analytics è parte del servizio.
  2. La società ha inserito la pubblicità di AdSense senza avvertire “Noi con Salvini”.
  3. “Noi con Salvini” ha trovato il modo di raccogliere più pubblicità possibile (e quindi ricavi) ampliando la sua platea potenziale con siti che inneggiano ai 5stelle o altri temi non proprio assimilabili a quelli della Lega.

Secondo Tommaso Tani, studioso del settore, la prima ipotesi sembra la più probabile: «Outsourcing ad agenzie di comunicazione o web analysis che monitorano e gesticono statistiche e pubblicità». In ogni caso, spiegano i giornalisti de Il Fatto Quotidiano, è il business più che la propaganda (o una linea politica comune) a spiegare le connessioni.
Fabio Chiusi, infine, riflette in diversi tweet sulla cornice in cui l’articolo di Horowitz inserisce i dati dello studio di Andrea Stroppa, finendo con il sottodimensionare i temi sollevati a una questione di mera contesa elettorale (Pd/Movimento Cinque Stelle) e interessi geopolitici (Usa-Trump/Putin).


Davvero, si chiede Chiusi, una parte del mondo “liberal” statunitense sta chiedendo di rimuovere pagine e contenuti utilizzando come criterio l’anti-americanismo o l’apprezzamento per Trump? Ed è possibile parlare ancora e solo di disinformazione online, tacendo di quella fatta dalle testate giornalistiche, su carta o tv? Se si dovesse applicare la stessa politica, cosa si dovrebbe fare in casi come quello della falsa notizia della “bambina musulmana di 9 anni violentata dall’uomo di 35 anni in cui era stata data in sposa”?

Tirando le fila di quello che è emerso, da una parte, esiste una rete di oltre 150 siti che fa capo a un unico imprenditore che usa contenuti sensazionalistici indirizzati a un ambiente specifico di estrema destra per fini molto probabilmente esclusivamente economici, dall’altro abbiamo un sito ufficiale di Salvini che usa codici identificativi di Google Analytics e Google AdSense che si trovano anche su siti pro-Movimento Cinque Stelle e che Grillo nega che fanno parte della galassia ufficiale del Movimento. Il significato di quei codici, come hanno detto la portavoce di Google Italia e altri esperti, non può portare alla conclusione che esista una struttura ideologico-propagandistica volta a disinformare e, come ha detto Stroppa in un’intervista al Corriere della Sera, non si hanno prove «di interferenze dall’estero».

“Facile dire fake news, basta dire fake news”

Le vicende politico-mediatiche di questi giorni impongono a nostro avviso una riflessione su due piani:
1) È necessario mettere al centro della campagna elettorale il fenomeno delle fake news, come cerca di fare il Partito Democratico senza la minima resistenza critica da parte dei media? No, secondo noi no. Non dovrebbe essere al centro del dibattito. La campagna elettorale dovrebbe avere al centro del dibattito temi pressanti come lavoro, economia, clima, dissesto idrogeologico, diritti, investimenti in ricerca e innovazione. Questo non significa che non bisogna affrontare la questione come collettività, come società. Non ci pare che di questo fenomeno in Italia, come altrove, ci sia una sottovalutazione o che il fenomeno sia ignorato. Anzi. Come Valigia Blu è da più di un anno che affrontiamo queste dinamiche e le sue innumerevoli e complicate implicazioni, sul nostro sito c’è anche una categoria specifica “media literacy” che si occupa proprio di questo tema a 360° gradi.
Ma le cose sono molto più complicate di quelle che possono sembrare a partire dalla stessa definizione di “fake news”. Un anno fa quando è apparso per la prima volta nel dibattito politico-mediatico (subito dopo la vittoria di Trump), il termine stava ad indicare una ben precisa forma di disinformazione: notizie false al 100%, nate con l’obiettivo di ingannare e con l’intento di macinare traffico online e quindi soldi derivanti dalla pubblicità o per colpire l’avversario politico. Da allora quel termine si è svuotato, man mano che veniva usato per indicare contenuti di propaganda politica, o esempi di cattivo giornalismo, o, come fa continuamente Trump, per attaccare i media mainstream (non sempre a torto), perché a loro volta produttori e diffusori di notizie false o distorte. Finendo così anche per essere un’arma nelle mani dei politici per attaccare il giornalismo indipendente. Il termine inoltre, come dicevamo, non rende bene la complessità in cui la nostra vita digitale (informativa) è immersa ogni giorno. Ne parlammo già a suo tempo in questo post dal titolo emblematico: “Facile dire Fake News. Guida alla disinformazione”. Notizie palesemente false, notizie vere ma che contengono pezzi di informazioni false, notizie distorte, retroscena politici, virgolettati spesso smentiti, meme satirici, foto vere ma con attribuzioni false o significati falsati, bufale… L’inquinamento dell’ecosistema informativo ha mille volti che dipendono anche dalle diverse intenzioni con cui quella tipologia di informazione viene immessa nell’ambiente. Il tutto poi avviene in un clima di sostanziale sfiducia verso i media mainstream e le istituzioni in generale.
L’appello di Claire Wardle a capo di First Draft Media, che con Hossein Derakhshan ha firmato un paper per il Consiglio d’Europa, è di smetterla di usare l’espressione “fake news” e cominciare ad usare l’espressione “information disorder”, che potremmo rendere in italiano come “caos informativo”. Un’ottima sintesi del rapporto è stata pubblicata ieri su Scienza In Rete, a firma di Cristina Da Rold.

La proposta è di spostare l’attenzione dal dilagare delle notizie errate al problema della mancanza di fiducia nel giornalismo e della qualità delle fonti. “Ci si fida oggi più dei propri familiari e amici che degli esperti del New York Times” spiegano gli autori. Secondo i dati pubblicati a settembre 2017 al BBC World all’interno di una survey condotta su 18 paesi, il 79% dei rispondenti si sarebbe detto preoccupato di leggere notizie false.

In un clima in cui la credibilità degli organi di informazione sembra minata alle fondamenta diventa necessario anche imparare a distinguere fra diversi tipi di informazione. Per questo gli autori distinguono fra mis-information, dis-informatione mal-information. La “misinformazione” si ha quando un’informazione falsa viene veicolata in rete senza dolo, ma solo – appunto – per leggerezza, per un’errata comprensione dei fatti o delle dinamiche in atto. Poi vi è la “disinformazione”, che invece include dolo da parte di chi la produce e/o di chi la diffonde. Infine, la “malinformazione” si ha quando vengono diffuse delle notizie vere, ma per dolere, per creare dissapori e mettere zizzania. Sono inclusi in questo gruppo tutti gli episodi di hate speech e i leaks. Mark Zuckerberg ha parlato inoltre di Disinformatzya, per indicare un’informazione disegnata apposta per seminare il dubbio e aumentare la sfiducia nelle istituzioni. Sempre Facebook inoltre, ci tiene a distinguere fra “false news” e “false amplifiers”, entro cui si inseriscono gli account fasulli.
La ricerca si conclude con 35 consigli e suggerimenti a istituzioni, media e altri soggetti coinvolti nella questione. Ne scrisse a suo tempo anche Luca Sofri nel post “Le notizie false trattate seriamente” (anche qui titolo emblematico).
Approfittando del dibattito in corso, come Valigia Blu annunciamo che non useremo più la parola “fake news”, ma indicheremo questo problema come “caos dell’informazione / informativo o disordine informativo”.

Mettere in fila i fatti

2) L’altro piano che vorremmo affrontare è quello della sequenza dei fatti. Mettere in fila i fatti emersi, una sequenza che non andrebbe trascurata e che di per sé dice molto del contesto e pone questioni che sono importanti soprattutto per chi fa informazione.
Come ha messo in evidenza anche Andrea Iannuzzi de La Repubblica in un post sulla sua bacheca di Facebook.
https://www.facebook.com/a.iannuzzi68/posts/1505649439517038
C’è un consulente di Renzi, che su richiesta del segretario PD, lavora a dei report sulla disinformazione in Italia, Andrea Stroppa. Stroppa contatterà poi Buzzfeed per segnalare questi risultati, sui cui lavoreranno i giornalisti Alberto Nardelli e Craig Silverman, “denunciando” una rete di siti che fanno capo a un imprenditore, che diffondono come sappiamo contenuti anti-immigranti e notizie sensazionalistiche come abbiamo spiegato nella prima parte di questo post. Poi arriva l’articolo del New York Times. I due articoli sono pubblicati pochi giorni prima della Leopolda che lancerà fra i temi principali la questione (semplificata) delle “fake news”, ripresa e amplificata da tutti i media. La sequenza si conclude con un annuncio mezzo smentito di una legge contro le fake news e con l’intervista a Marco Carrai sul Corriere della Sera, nella quale prospetta addirittura come soluzione una sorta di algoritmo della verità, a cui starebbe lavorando uno scienziato… Idea prontamente bocciata dal Garante per la privacy, Antonello Soro:

“Quello che bisogna evitare”, nel trattamento delle fake news – ha detto a margine di un convegno del Consumers’ Forimum -, è “da una parte attribuire ai gestori delle piattaforme digitali il ruolo di semaforo, lasciando loro una discrezionalità totale nella individuazione di contenuti lesivi. E dall’altra evitare di immaginare di attribuire ad un algoritmo il compito di arbitro della verità. Mi sembra davvero in controtendenza non solo rispetto alla storia del diritto ma anche della cultura democratica e del buon senso”.

Insomma fare giornalismo significa anche mettere in fila i fatti emersi, analizzandoli e contestualizzandoli. Perché pensiamo che un quadro più completo possibile possa permettere alle persone di capire meglio questa storia e porsi interrogativi, visto anche che Renzi alla Leopolda usa l’espressione «li abbiamo sgamati» riferendosi a Lega Nord e M5s che «escono con gli stessi codici nell’advertising sui social» e aggiunge «è una cosa enorme perché vuol dire che movimenti legati a quelle forze politiche, canali unofficial legati a quelle forze politiche, utilizzano le stesse tubature, le stesse infrastrutture della Rete» e che questi temi sono al centro di due articoli usciti a ridosso della Leopolda.
A proposito, notevole il post di Alessio De Giorgi (da maggio 2016 nello staff di Renzi) – lo ricorderete per la famosa gaffe in cui si scoprì essere amministratore occulto della pagina “Matteo Renzi News” nelle stesse ore in cui il Partito democratico smentiva ufficialmente che quella pagina fosse in qualche modo legata la partito – in cui si domanda come mai quell’inchiesta sia uscita su Buzzfeed e non sui giornali italiani.


Che sia complicata la faccenda lo dimostrano proprio i titoli degli ultimi giorni: Repubblica parla di lite PD-M5s sulle fake news, ma non risulta nessuna lite. I giornali, poi, hanno titolato su una legge PD contro fake news, ma non è ancora chiaro l’intento ufficiale del Partito democratico su questo progetto di legge.


E non è finita: a detta degli esperti questa legge, a parte il titolo, non tratta neanche di fake news.


In questo articolo di Andrea Iannuzzi, a cui ha collaborato Bruno Saetta, che smonta appunto questa proposta di legge (dove le fake news ribadiamo sono solo nel titolo), il giornalista fa notare:

Il documento è datato 10 novembre 2017. In quegli stessi giorni la redazione di BuzzFeed News comincia a indagare sul caso Web365 dopo aver ricevuto una segnalazione da Andrea Stroppa, consigliere digitale di Matteo Renzi. Il tema “fake news” non è ancora al centro dell’agenda politica. Il file contiene un disegno di legge firmato da due senatori del Pd: il capogruppo Luigi Zanda e Rosanna Filippin, 55enne avvocato civilista di Bassano del Grappa, membro della Commissione Giustizia e della Commissione Infanzia. Nel titolo il ddl annuncia “Norme generali in materia di social network e per il contrasto della diffusione su internet di contenuti illeciti e delle fake news”.

Bizzarro, no? E comunque Renzi nella sua ultima Newsletter di ieri alle 22,30 annuncia che non sarà presentata nessuna legge. Facile dire fake news…




La cyber-guerra fredda, i russi e la propaganda occidentale

In questi mesi di cyber-guerra fredda, la Russia è tornata di moda in Occidente come nemico pubblico numero uno, il capro espiatorio di tutti i mali. La Brexit? Colpa dei russi. Trump vince le elezioni? Ingerenza russa. La Catalogna vuole l’indipendenza? Dannati russi! Elezioni in Italia? Complotto russo in arrivo.
Come accadeva prima della caduta del muro, anche le analisi più accurate vengono confezionate con la carta della propaganda prima di essere consegnate all’opinione pubblica: bot, hacker, troll, un esercito di cosacchi che minaccia la nostra libertà usando i social network.
Intervistato da Valigia Blu, il giornalista investigativo russo Andrei Soldatov, autore del libro “The Red Web: The Kremlin’s Wars on the Internet” e cofondatore e direttore di Agentura.ru, sito che monitora le attività dei servizi segreti russi, commenta la situazione in questo modo: «Sai, è sempre meglio avere un nemico comune, che sia un paese (la Russia in questi giorni) o una tecnologia (i social media con i loro meccanismi non trasparenti di promozione e distribuzione delle notizie e dei post). Credo che ogni caso dovrebbe essere studiato con molta attenzione e bisognerebbe distinguere tra i tentativi documentati di influenzare i risultati elettorali e l’impatto che questi hanno realmente avuto».
Eppure, un discorso serio e documentato sull’impatto del caos informativo online non sembra interessare ai governi o ai partiti. E nemmeno ai giornali. Sui media si fa largo, piuttosto, la narrazione di un piano orchestrato dallo Stato russo per destabilizzare le democrazie occidentali e una sorta di chiamata alle armi contro Internet e contro il populismo. Soldatov ci mette in guardia: «Abbiamo a che fare con due problemi: il primo è il tentativo del Cremlino di manipolare i social media in Occidente, che è ben documentato; il secondo è l’impatto reale di queste attività, su questo io sono un po’ più scettico. Sono convinto, per esempio, che Donald Trump si trovi nella Casa Bianca per alcune ragioni molto serie che hanno origine negli Stati Uniti, non all’estero. Quello che Mosca ha provato a fare è sfruttare problemi propri della società Occidentale, come la profonda perdita di fiducia nelle istituzioni».
La vittoria della propaganda russa, per certi versi, sta proprio nell’aver fatto credere che con una campagna su Facebook di soli 100mila dollari sia stata in grado di influenzare il risultato delle elezioni americane – dice Patrick Ruffini, co-fondatore di Echelon Insights, al Washington Post – ma non è così. Chi cerca spiegazioni a quello che è successo in America non dovrebbe cedere alla tentazione di attribuire ai russi un potere che non hanno.
«L’immagine della Russia di Putin costruita dell’Occidente e, soprattutto, dai media americani negli ultimi 18 mesi sciocca persino il lettore più anti-Putin qui da noi», scrive Oleg V. Kashin, un giornalista russo critico con il Cremlino, sul sito di notizie Republic. I media hanno creato una rappresentazione distorta della Russia, presentando imprese opportuniste e affaristi privati che non hanno niente a che fare con il Governo come agenti segreti agli ordini di Putin. In molti casi si tratta semplicemente di imprese russe che vendono servizi di propaganda e caos informativo online al miglior offerente, in qualsiasi parte del mondo.
Intervistato dal direttore di Repubblica Mario Calabresi, il Presidente spagnolo Mariano Rajoy ha affermato che il 55% del traffico sui social network sulla questione catalana proveniva dalla Russia, il 30% dal Venezuela e che solo il 3% dei profili che hanno partecipato alla conversazione online su questo argomento corrispondono a persone reali. Un dato allarmante, che comunque non ci dice nulla sull’impatto di queste azioni, e che per fortuna non trova alcun riscontro nella realtà. E alla fine risulta essere propaganda governativa old school a mezzo stampa.
Rajoy non è l’unico ad aver colto la palla al balzo, anche in Italia c’è chi sembra voler impostare tutta la campagna elettorale sulle famigerate “fake news”, sfruttando la cassa di risonanza acritica offerta dai media mainstream, con tanto di “fake-legge” sbandierata sui palchi (e poi parzialmente smentita).
Introdurre nei nostri ordinamenti giuridici uno strumento di controllo e censura allo scopo di stabilire la veridicità delle informazioni (conosciuto anche come: “proteggere i cittadini dalle fake news”) e, allo stesso tempo, tutelare la libertà di espressione e di informazione è un controsenso. Una strada molto rischiosa per una democrazia. «È una forma di pensare molto russa – commenta Soldatov – stiamo iniziando a parlare il linguaggio del Cremlino, che tratta l’informazione come un’arma. Come giornalista, non posso sentirmi a mio agio con questa deriva».
La propaganda estera russa esiste (basta pensare alla pervasività di canali come Russia Today o Sputnik), ma non è una novità, né tantomeno uno spettro che si aggira tra gli account anonimi di Facebook. «Ci sono stati tentativi di influenzare i processi elettorali in Europa già prima del 2016, ma usando metodi diversi, più tradizionali», precisa Soldatov.
Come scrive Fabio Chiusi su L’Espresso: «Non è solo un problema russo, oggi, o cinese, domani; per i 100 mila dollari spesi su Facebook dai troll del Cremlino, ci sono gli 81 milioni investiti da Clinton e Trump». Nello stesso articolo è riportata una dichiarazione di Cristian Vaccari, docente alla Royal Holloway di Londra, che ricorda che buona parte della propaganda non giunge dai social network: «La quantità di messaggi di disinformazione e propaganda che ha raggiunto la popolazione americana nel 2016, ancorché elevata in valore assoluto, è molto bassa se confrontata con la mole enorme di contenuti generati dai mass media e dai candidati stessi».

La propaganda “innocua” che piace a noi

Come ha fatto notare eldiario.es in un reportage pubblicato la scorsa settimana, la maggior parte della propaganda russa avviene alla luce del sole. La gazzetta ufficiale del Governo russo, Rossijskaja Gazeta, sede della pubblicazione di tutte le leggi e decreti emessi dalle istituzioni statali, finanzia da anni un inserto cartaceo e online di propaganda economica, commerciale, politica e culturale, pubblicato in 26 paesi, tradotto in 16 lingue, grazie ad accordi con molti dei quotidiani internazionali che oggi seminano allarmismo rispetto alla famigerata ingerenza russa negli Stati Uniti e in Europa.
In Italia l’inserto di Rossijskaja Gazeta è stato distribuito dal 2010 al 2015 da Repubblica, inizialmente con il nome “Russia Oggi” e successivamente come “Russia Beyond the Headlines” (RBHT).
Il supplemento, che nel resto del mondo è conosciuto come Russia Beyond the Headlines, è stato pubblicato negli ultimi anni da giornali del calibro di: New York Times, Washington Post, Wall Street Journal, La Repubblica, Le Figaro, Süddeutsche Zeitung o El Pais (fino al 2016, come precisa eldiario.es nel suo articolo).
Si tratta a tutti gli effetti di un contenuto sponsorizzato, pubblicato senza alcun controllo da parte della redazione del giornale, che include informazioni economiche, politiche, culturali e sociali sulla Russia e la sua relazione con il resto del mondo. Per la pubblicazione e distribuzione, la testata ospitante riceve una compensazione dallo Stato russo.
Come possiamo leggere in una nota al margine pubblicata nel 2014, La Repubblica declina qualunque responsabilità rispetto ai contenuti:

Russia Beyond the Headlines è finanziato dal quotidiano russo Rossijskaja Gazeta. Questo inserto è stato realizzato senza la partecipazione dei giornalisti e dei redattori de La Repubblica. ‘Russia Beyond the Headlines’ è finanziato dai proventi dell’attività pubblicitaria e dagli sponsor commerciali, così come da mezzi di enti russi.

La grande ironia di tutto questo è che, presi dalla smania di scovare propaganda russa sui social media, molti giornali si sono scordati di essere stati essi stessi organi di propaganda pagati dal Governo russo. Russia Beyond the Headlines, infatti, condivide la stessa fonte di finanziazione di siti come Russia Today o Sputnik: il Cremlino, che finanzia una rete informativa nazionale e internazionale attraverso il suo organo ufficiale Rossíyskaya Gazeta, fondata nel 1990 dal Soviet Supremo, che funziona sia come gazzetta ufficiale dello Stato che come organo di stampa governativo.
Certo, non si tratta di un inserto nato con lo scopo di diffondere notizie false, i suoi contenuti sono più simili a comunicati stampa di tipo politico-economico con un orientamento filo-russo. Niente di scandaloso. Abbiamo chiesto ad Andrei Soldatov se un inserto di questo tipo possa essere considerato propaganda. «È un discorso molto delicato. C’è chi parte dal presupposto che Russia Today stia producendo “fake news” aggressive, mentre il supplemento a cui fai riferimento produce contenuti tradizionali, quindi è visto come innocuo. Ma ragionando in questo modo ci stiamo limitando a giudicare la pubblicazione in base al contenuto che pubblica, ed è un approccio molto discutibile. Se invece parliamo dei finanziatori, ovviamente l’inserto Russia Beyond the Headlines è la stessa propaganda di Russia Today, perché è finanziato dal Governo russo».
La sfida più grande per la nostra società sarà capire come affrontare il disordine informativo senza rinunciare a valori fondamentali come la libertà di espressione e la libera circolazione dell’informazione stessa. Non abbiamo bisogno di un capro espiatorio. Non ci servono crociate populiste contro Internet. Seminare allarmismo ogni volta che viene scoperta una manciata di account falsi o che viene pubblicato un meme diffamatorio può essere funzionale alla propaganda nostrana, ma di certo non aiuta a migliorare l’ecosistema informativo.




TESI DI LAUREA: Effetti della crisi sulla reputazione del brand: il caso Monte Paschi di Siena

Università degli studi di Udine
Corso di Laurea magistrale in Comunicazione integrata per le Imprese e le Organizzazioni. Anno Accademico 2016/17

Effetti della crisi sulla reputazione del brand: il caso Monte Paschi di Siena

Tesi di Yvette Nina e Yowo Enomana – Relatore Prof. Renata Kodilja

A questo link, il testo integrale della Tesi (163 pagine), qui di seguito, il testo dell’Introduzione della tesi:


INTRODUZIONE

Il tema della reputazione aziendale ha suscitato negli ultimi anni un notevole e crescente interesse da parte delle imprese, degli istituti di ricerca, delle società di consulenza e dei mass media, in concomitanza con una generalizzata tendenza alla perdita di fiducia da parte dei cittadini (ancor prima che dei consumatori) e alla corrispondente crisi di credibilità delle imprese e delle istituzioni, resa particolarmente intensa con il sorgere e il perdurare della crisi economica.

La corporate reputation è diventata pertanto oggetto di attente analisi, ma l’ampia diffusione del dibattito che ne è scaturito ha talvolta condotto a perdere di vista il rigoroso fondamento economico sottostante al concetto di reputazione, con il rischio di tradurlo in un luogo comune stereotipato e lontano dal suo reale significato. Una reputazione aziendale credibile e sostenibile – quella che farà guadagnare a un’organizzazione di profitti la fiducia e il sostegno degli stakeholder – è quindi determinata, più dalle attività di creazione della reputazione come attività di relazioni pubbliche e identità visive per presentarsi favorevolmente agli stakeholder. Il punto chiave, tuttavia, è che non è solo l’autenticità e la coerenza nel comportamento e nell’imagine che è importante, ma piuttosto le caratteristiche intrinseche dell’identità dell’organizzazione, basate su valori etici e regole normative (Argandoña, 2008: 438) nelle quali gli stakeholder si possono identificare (Casson & Della Giusta, 2006: 346; Li & Betts, 2004: 7; McEvily et al., 2008: 559).

Per poter interpretare correttamente i risultati delle ricerche e partecipare consapevolmente al dibattito che si è ampiamente esteso, arrivando a coinvolgere tematiche quali l’impatto dei mass media (media reputation) e, più recentemente, dei social media (social media reputation) occorre fare una pausa di riflessione e ritornare ai fondamentali.

Il primo capitolo del nostro elaborato è dedicato alla definizione della marca, proseguendo attraverso il suo ruolo e le sue funzioni. In seguito vengono analizzate le dinamiche che sottostanno alla formazione del valore della marca.

Il capitolo successivo tratta in maniera approfondita il concetto di brand equity. Inizialmente si parte esponendo il punto di vista della letteratura sul valore della marca, attraverso un approfondimento dei temi legati alla qualità percepita, la notorietà del nome, la fedeltà alla marca, le risorse della marca e altri valori associati a essa. Poi viene presentato il valore della marca dal punto di vista del consumatore e il legame di marca attraverso il modello Customer Based Brand Equity elaborato da Keller (1993). Si analizzano successivamente i vari livelli della piramide della fedeltà alla marca di Keller, che sono la prominenza del brand, la performance, i giudizi, le sensazioni sul brand e la risonanza.

Il terzo capitolo si concentra sull’immagine della marca presentando le associazioni di marca e le dimensioni dell’immagine di marca che trattano i concetti di marca come prodotto, marca come organizzazione, marca come persona e marca come simbolo.

Nel quarto capitolo iniziamo a parlare di reputazione. Abbiamo scelto di dividere questo capitolo in due parti.

La prima parte è riservata alla corporate reputation che abbiamo studiato attraverso gli aspetti sociali della reputazione, i fondamenti teorici che ci hanno dato una lettura della reputazione secondo la letteratura, partendo dalla definizione del Reputation Institute. Partendo da qui abbiamo introdotto approcci di varie discipline sociali che però convergono nella loro enfasi sulla reputazione aziendale. Lo studio dei concetti d’identità, immagine e reputazione si svilupperà attraverso le teorie di Fombrun e Van Riel (1997), che hanno infatti riassunto l’immagine e l’identità all’interno della reputazione. In seguito viene analizzato la reputazione nelle organizzazioni, poi le dimensioni della reputazione che sono i prodotti e servizi, l’innovazione, l’ambiente di lavoro, la governance, il paese di origine, la leadership e la performance. La gestione della reputazione appare allora un punto fondamentale e lo dimostriamo esponendo i vantaggi di una buona reputazione, il rischio reputazionale e il concetto di crisi aziendale che verrà approfondito in un secondo momento. Qui introduciamo l’importanza della reputazione per le organizzazioni in generale e per gli istituti bancari in particolare, che sono più esposti al rischio reputazionale.

La seconda parte si concentrerà sulla gestione della crisi. Partendo dalla definizione del concetto di crisi, ci si arriva alla relazione che esiste tra essa, la fiducia e la reputazione. Si conclude con la gestione della crisi e la tutela della reputazione. Il quinto capitolo tratta di reputazione nel settore bancario in generale e in quello italiano in particolare, attraverso un’analisi dei risultati del RepTrak® 2016 per il settore bancario e finanziario. Proseguiremo con i giudizi degli italiani sulle banche e la perdita di fiducia in queste.

L’ultimo capitolo del nostro elaborato si concentrerà sulla crisi della banca Monte dei Paschi di Siena e i suoi effetti sulla sua reputazione. Inizieremo il capitolo con la storia e l’evoluzione della banca, e lo scandalo che ha portato alla crisi la banca più antica del mondo.

Concluderemo il nostro elaborato con la presentazione dei risultati della nostra ricerca empirica sullo stato della banca oggi, dal punto di vista di esperti del mondo della finanza, e di dinamiche di corporate reputation.